ateatro 107.23
23/03/2007 
Archivio 1985: Genet a Tangeri nel mattatoio di Rimini
Morte del teatro. Il cavallo ucciso rompe la fiction scenica (da "il manifesto", 23 luglio 1985)
di Oliviero Ponte di Pino
 

Questo articolo stato scritto per “il manifesto”, a caldo, poco dopo la rappresentazione di Genet a Tangeri nel mattatoio di Rimini il 19 luglio 1985. Uscì il 23 luglio, mentre saliva la tempesta mediatica; è stato pubblicato accanto a due altri testi di Gianfranco Capitta e Gianni Manzella, che aprirono “un dibattito serio, subito sommerso dal clamore, ma suscitando una polemica all’interno della redazione del giornale” (Ferdinando Taviani).
All’epoca scoppiò un grande scandalo, ottimanente ricostruito i tutti gli snodi teorici e mediatici da Ferdinando Taviani in un saggio esemplare, Macello ovvero La mossa del cavallo, in il Patalogo nove, Ubulibri, Milano, 1986, pp. 217-223.


Passo ormai da diversi anni buona parte delle mie serate a teatro. Per una serie di motivi molti dei quali certamente a me ignoti – trovo particolarmente congeniale il ruolo di spettatore. L’altra sera, per la prima volta, ho rifiutato questo ruolo con una violenza insieme di viscere e di testa. Di tutto il pubblico - un centinaio di persone, in buona parte addetti ai lavori, reclutati con discrezione – sono stato uno dei pochissimi a uscire.
Per quanto mi riguarda, la forza della mia reazione è un grande merito dello spettacolo, il frutto di un’operazione intelligente, di grande coraggio e generosità da parte dei Magazzini Criminali, una specie di “dono” di se stessi in una situazione volutamente difficile e estrema.
L’evento in sé è molto semplice da descrivere. In un mattatoio i Magazzini Criminali rappresentavano Genet a Tangeri. Sullo sfondo, contemporaneamente, un cavallo veniva prima ucciso e poi squartato. Nel momento in cui ho capito che il cavallo stava per essere ucciso, mi sono rifiutato di seguire lo spettacolo (che nei dieci minuti iniziali, gli unici che ho visto, mi era sembrato di una stupenda intensità: sconvolgente sia nell’ambientazione, evento irripetibile e quindi per me spettatore particolarmente coinvolgente).
Per sgombrare il campo dagli equivoci, mi sembra necessario precisare alcuni motivi che non ho tenuto in considerazione quando ho scelto di rinunciare allo spettacolo. Non è stato per moralismo o “protezionismo”: so benissimo che ogni giorno vengono macellati migliaia di animali, e che quel cavallo sarebbe morto in ogni caso, nella stessa maniera, qualche ora prima.
Non è stato eppure il raccapriccio per la visione del sangue e della morte a allontanarmi. Me e sono andato prima. Non ho bisogno di misurare in una specie di rito iniziatico la morte altrui, quella di una vittima innocente. (Ma devo chiedermi: una mia emozione, anche estetica, vale la vita di un cavallo? Che prezzo può avere? E che tipo di emozione è? Quale sarà in questo caso la “qualità” dell’emozione che mi travolge? Se alla prima domanda ho risposto “No”, alle altre ho paura di rispondere, per me e per gli altri.)
La ragione più profonda per cui mi sono rifiutato di rivedere Genet a Tangeri nel mattatoio è un’altra: quello dell’altra sera non era uno spettacolo. Dietro ogni spettacolo ci sono dei tabù non scritti. Uno di essi riguarda l’irreversibilità: qualunque cosa accada in scena, deve essere possibile ripristinare le condizioni iniziali del sistema e ripetere l’evento (almeno in linea teorica). E’ un tabù che riguarda in definitiva la morte e la nascita, atti irreversibili per eccellenza.
La scena è l’unico luogo in cui è possibile impunemente morire: e in questo sta il suo fascino. Ma è anche l’unico luogo in cu è impossibile morire realmente/i>. E’ per questo, aldilà di ogni moralismo, che il concepimento e la morte sono osceni: come eventi “reali” e non “mimati”, devono restare aldifuori della scena.
Far convivere due ordini di realtà (ovvero finzione e realtà) è un’operazione che in scena si fa da sempre: è il trito e fecondo tema del teatro nel teatro. Ma sovrapporli e confonderli mi sembra estremamente pericoloso. Così non si resuscita certo il tragico, piuttosto il rito che attraverso una serie di azioni a un determinato livello di realtà spera di influenzare una realtà superiore o trascendente.
Detto questo, avrei potuto ugualmente assistere allo spettacolo, riservandomi poi in sede “critica” le mie valutazioni. Ho però deciso, in ogni caso, di rifiutarmi. Perché non credo che l’innocenza morale dello spettatore – di colui che assiste passivamente a un’azione ideata o condotta da altro, in teatro e fuori -, la pigrizia e il cinismo della sua non-scelta a qualunque costo, sia e debba essere comunque garantita. Se fossi rimasto, mi sarei considerato complice di un atto di violenza gratuita.
Avrei potuto considerare la serata come qualcosa di diverso da uno spettacolo, un più semplice atto di comunicazione, una dichiarazione d’amicizia e d’affetto. In parte lo era. Non sempre però l’amore (e penso al pubblico) è pura condiscendenza. A volte è necessario rifiutarsi, per il bene di chi si ama. Quindi a maggior ragione avrei rinunciato a misurarmi su quel terreno. Perché non credo che basti aumentare l’intensità di uno stimolo esterno per cambiarne la qualità. Il Grand Guignol insegna: può continuare a funzionare a dosi sempre più massicce, ma poi cade nel ridicolo nell’autodistruzione.
In teatro aleggia sempre la morte. Per questo lo amo. Ma lo amo ancora di più perché non è la morte, perché mi dice qualcosa sulla morte e, forse, contro la morte. Così ha fatto, e spero ritornerà a fare, il teatro dei Magazzini Criminali: per questo l’ho amato e continuerò in ogni caso a amarlo.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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