ateatro 116.30
16/03/2008 
L'apocalisse comica di Andrea Cosentino: L'asino albino e Angelica
Un libro a cura di Carla Romana Antolini con i due testi teatrali, un’intervista all’attore-autore e alcuni contributi critic
di Andrea Balzola
 

Per i tipi della casa editrice romana Editoria&Spettacolo, che continua il suo prezioso lavoro di mappatura del nuovo teatro di ricerca e nell’ambito dell’interessante collana “Spaesamenti” diretta da Paolo Ruffini, è appena uscito il primo libro che documenta l’originale attività teatrale dell’attore-autore abruzzese (ma romano d’adozione) Andrea Cosentino.
Un volume decisamente consigliabile, a cura di Carla Romana Antolini, studiosa di teatro contemporaneo e organizzatrice culturale, che contiene oltre alla puntuale introduzione della curatrice, una bella intervista a Cosentino, i due suoi testi teatrali più recenti L’asino albino e Angelica, e penetranti interventi critici di Simone Soriani, Nico Garrone (su L’asino albino), Attilio Scarpellini (su Angelica/i>) e Paolo Ruffini, una biografia e una bibliografia (che esclude però, scelta discutibile, le recensioni degli spettacoli). Una verifica importante per le virtù drammaturgiche di Cosentino che sulla pagina perdono il supporto della sua performance attoriale, separazione traumatica per chi conosce la sua personalità e la sua bravura in scena, riesce anche difficile vedendolo a teatro immaginare i suoi testi incarnati da un altro (come a me riesce tuttora molto difficile rivedere il Mistero Buffo fatto da Fo sotto altre sembianze); eppure l’ardita prova della messa in pagina regge, funziona, offre chiavi ulteriori di lettura e di riflessione, consente approfondimenti che l’istante fuggevole della scena trascura. A dimostrazione che c’è ancora bisogno di scrivere la drammaturgia (sempre sperimentandola in scena), utile non solo per consegnare alla memoria o a un pubblico più vasto l’effimero evento teatrale, ma perché la parola che si sedimenta nell’esperienza teatrale è un distillato di molteplici saperi (concettuale, narrativo, registico, attoriale) che si possono fondere, in un vero autore, in nuove mappe della sensibilità contemporanea, non solo da divorarsi in un sol boccone a teatro ma da leggere e rileggere, con il tempo e nei luoghi che ognuno può scegliere.
Purtroppo pare che la drammaturgia in Italia venda ancora meno della poesia, ma io credo che sia il risultato di una politica editoriale pluridecennale sbagliata e poco lungimirante, che d’altronde va a nozze con il disinvestimento mediatico sul teatro. Cosentino, che è anche uno studioso del teatro e autore del saggio La scena dell’osceno (1998) e dunque un attore-autore colto, ha sempre privilegiato, fin dalla scelta dell’argomento di tesi, un teatro popolare, nella doppia accezione di un teatro capace di parlare al popolo e del popolo. Dice esplicitamente di voler fare “teatro politico”, ma occorre intenderlo nel suo significato etimologico “teatro per la polis”, anche se Cosentino non nasconde la radicalità delle sue convinzioni, non assume toni ideologici e nemmeno si allinea con la tendenza oggi dominante nel teatro “politico” nostrano della “narrazione civile” (Paolini, Baliani, Curino, Celestini, Enia, etc). E’ invece uno spietato esercizio critico nei confronti dei comportamenti stereotipati dalla “cultura” mediatica, dell’anestesia collettiva e dell’ordinaria perversione e alienazione insita nei modelli sociali contemporanei, messo in scena mediante un registro comico-paradossale che personalizza il registro drammaturgico in una miscela inedita per il teatro italiano, dove si riconoscono elaborazioni concettuali di “maestri del pensiero” (da Artaud a Debord e Pasolini), l’assimilazione “fisica” di alcuni “maestri dell’arte“(dichiarati, come Keaton, Fo e Lecoq), un’ispirazione fortemente calata nella tradizione popolare della caricatura comica (con l’uso della cadenza e della parlata dialettale) e una ricerca di stilizzazione gestuale che trova riferimenti o corrispondenza anche in altre, più lontane, culture (ad es. il “metateatro” giapponese del bunrako).
Cosentino ibrida il registro drammatico con quello comico, anche cabarettistico e clownesco, e reinventa, a partire da Angelica e il recente Antò le Momò, il linguaggio del teatro di figura, le marionette diventano delle Barbie e dei Big Jim e il teatrino d’oggi è lo schermo televisivo, qui Cosentino riproduce parodicamente l’intero palinsesto, con i suoi stereotipi di genere (il tg, la telenovela, il documentario), ma non è solo un gioco facile e divertente, poiché entra nel linguaggio cinetelevisivo, ne fa emergere gli stereotipi non solo dei contenuti, ma anche della forma, nel montaggio, portandoli alle estreme e surreali conseguenze, rivelando così come la mummificazione, il conformismo e l’anestesia delle nostre menti derivi prima di tutto da un linguaggio che ci è stato espropriato, che non ci appartiene più, che è diventato una formula seriale. Bisognerebbe dunque azzerarlo. Anche in teatro.
Infatti, le messinscene di Cosentino in realtà “tolgono di scena” perché sono assolutamente spoglie, costruite attorno ad alcuni oggetti simbolici presi dal quotidiano, trucchi o maschere rudimentali, o personaggi viceversa molto espressivi (come il Papa Woytila in Angelica, o Artaud in Antò le Momò) creati da lui stesso e poi abilmente animati sulla scena. Un teatro che potrebbe essere fatto in casa (e di fatti lui lo prepara in casa) oppure per strada, o in qualsiasi luogo non necessariamente teatrale. Un teatro riportato alla sua povertà e a una marginalità fiera in quanto indipendente, che non fa spettacolo, che gioca e si prende gioco, che riproduce parodicamente icone mediatiche e genera visioni, alcune di autentica trasfigurazione simbolica come il finale dell’asino albino in controluce e della morte della protagonista della telenovela che si spezza in parallelo alla perdita della parola del papa malato. Soprattutto, l’idea cardine dell’arte di Cosentino, è lo spiazzamento: dello spettatore, dei generi, dei linguaggi, dei confini tra realtà e finzione, persino di se stesso. Cosentino è infatti convinto, e io concordo con lui, dell’importanza centrale di un paradosso: la finzione deve essere sincera, l’attore “non deve fingere di non fingere”, allora la pratica della menzogna dichiarata può sorprenderci – come già dicevano Picasso e Orson Welles – con qualche verità. Qualcosa che sfugge alla pratica, apparentemente cinica, della doppia negazione, cioè di una finzione che si svela non cessando mai di esserlo, spostandosi dunque di grado, di posizione, di profondità. Questa, che da Cosentino stesso e da alcuni suoi estimatori, è stata indicata come una poetica “dell’inappartenenza”, leggibile sia come “nulla mi appartiene” sia come “non appartengo a nulla”, segna non solo la consapevolezza di un’impermanenza costitutiva e la vocazione ribelle a ogni marchio o categoria sigillabile, ma soprattutto la scelta, assolutamente contemporanea, di un destino nomade, di un attraversamento costante delle soglie tra finzione e realtà, tra generi, linguaggi, dramma e parodia, vita e morte.


 
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