ateatro 120.9
21/02/2009 
Il tecno-teatro impuro di Andrea Balzola
Una anticipazione e un ricordo
di Nico Garrone
 

In ricordo di Nico Garrone pubblichiamo inoltre uno dei rarissimi testi in cui parla di sé e della propria attività combinata di critico teatrale militante e regista televisivo, si tratta di uno scritto recentissimo in corso di pubblicazione, estratto dal testo di Nico Garrone, Il tecno-teatro impuro di Andrea, in A. Balzola, Una drammaturgia multimediale/i>, con note di N. Garrone, A.M. Monteverdi, O. Ponte di Pino, Editoria & Spettacolo, Roma, 2009.

Più o meno negli stessi anni Ottanta, magari un po’ prima perché sono più vecchio, in cui Andrea a Torino organizzava seminari universitari con i protagonisti della nuova scena italiana che sperimentavano l’uso del video con risultati per quell’epoca sorprendenti, all’avanguardia su qualsiasi ricerca teatrale del genere, non solo in Europa, anch’io stavo disegnando a Roma una mappa di punti di riferimento assai simile alla sua. E tra questi punti c’era Carmelo Bene, di cui non perdevo uno spettacolo dopo aver visto Nostra Signora dei Turchi e Salomé, seduto sui banchi di scuola che per suo indiscutibile volere avevano sostituito la piccola platea del Beat 72; Ugo Gregoretti (modello ideale di giornalismo e documentarismo televisivo per
la Sicilia del Gattopardo e la sua rubrica Controfagotto) che avevo seguito come assistente volontario durante le riprese di Omicron; o Carlo Quartucci con i suoi Beckett a Prima Porta en plein air sulle rive del Tevere, e il suo Camion, un vecchio Lancia esatau dipinto di bianco da Giulio Paolini, palcoscenico–set mobile in tournée tra le casupole pasoliniane e le roulottes dei rom della Borgata Romanina, un Primo Maggio radioso di sole, mangiando fave e pecorino…
In quel periodo mi dividevo fra la televisione e il teatro: di giorno lavoravo come programmista regista nella sede regionale della RAI di Via Teulada diretta allora da Angelo Guglielmi, la sera giravo per le cantine romane d’antan prima come semplice spettatore, poi, dal ’76, dalla nascita di Repubblica, come cronista teatrale di quel giornale. Così allenavo il mio sguardo ad un naturale strabismo per traghettare quanto avveniva sulla scena dalla televisione alla pagina scritta e viceversa. Se il problema posto ed esplorato da Andrea nei suoi incontri pionieristici con gli Autori, e nel suo libro realizzato con Franco Prono sulla base dei materiali raccolti in quei seminari universitari (La nuova scena elettronica. Il video e la ricerca teatrale in Italia, 1994), era la nascita di un nuovo linguaggio multimediale, in maniera analoga da parte mia cercavo di far passare il teatro attraverso la cruna del piccolo schermo, senza arrestarmi alle soglie inevitabilmente riduttive della pura e semplice documentazione o del servizio d’informazione giornalistica in una delle varie rubriche culturali, spesso contenitori del nulla, vuoti a perdere promozionali. Nelle tre puntate dell’Altro Teatro, una storia delle cantine romane durante il decennio che corre lungo gli anni Settanta realizzata quasi a caldo, nell’82, per la sede regionale Rai con Giuseppe Bartolucci e Maria Bosio, la ricerca dei luoghi, alcuni già in via di cancellazione, le testimonianze dei protagonisti, il racconto dello spettacolo o la sua ricostruzione filmata per frammenti significativi, le interviste spesso trasformate in brevi scene televisive, creavano un ponte tra i due linguaggi dando al teatro una nuova vita mediatica. Tra le tante esperienze di quel decennio non c’era ancora la nascita del video teatro, ma nella lanterna magica del Pirandello chi? di Memé Perlini, ipnotica serie di quadri viventi in movimento realizzata con mezzi poverissimi e impregnata delle atmosfere pittoriche del cinema espressionista e surrealista, nelle alchimie visionarie della Scuola Romana del Teatro Immagine, soprattutto di Nanni e dello stesso Perlini con i loro cast di attori presi dalla vita (Rossella Or, Dominot, Bettina Best, Massimo Fedele), nelle indimenticabili performance cineteatrali di Victor Cavallo, nel Cioni Mario del primissimo Benigni, nella turbolenta, esplosiva kermesse di poeti varata da Simone Carella sulla spiaggia di Castelporziano, nei Feux d’Artifices di Balla duplicati (come un multiplo di Warhol) sempre da Carella al Beat 72, nelle vertigini del cuore coreografate sul tetto senza ringhiere di un palazzone di Via Flaminia dalla Gaia Scienza formata dal trio originario Corsetti-Solari-Vanzi (e così via sfogliando l’album dei miei ricordi sentimentali…). In questi eventi si annunciava già l’avvento prossimo venturo degli intrecci multimediali che con spettacoli come Cuori strappati della Gaia Scienza e Tango glaciale del gruppo napoletano Falso Movimento diretto da Mario Martone, ambientato nelle stanze di una Villa dei Misteri postmoderna interamente virtuale, o Crollo nervoso dei Magazzini di Tiezzi-Lombardi, melodramma intergalattico di Argonauti surfers ritmato dallo slogan prendi l’onda e racchiuso nell’empty room, la navicella spaziale di un monitor, avrebbero segnato il momento di passaggio dagli anni ‘80 agli anni ‘90 sotto il segno di un incontro-scontro con i Giganti della Montagna mediatici della Società dello Spettacolo: una rivoluzione morbida, un soffice sasso scagliato dall’Altro Teatro novello Davide contro Golia. Television fucks my show/my show fucks television ripetevano come un inno di battaglia rockeggiante i terroristi in tute rosa confetto del Teatro Studio di Caserta guidati da Toni Servillo in Lotus seven 2006, durante una rassegna-convegno alla Galleria d’Arte Moderna organizzata dall’infaticabile Bartolucci e dedicata agli scenari del nuovo Paesaggio Metropolitano. Come scrive Andrea, il teatro, almeno quello meno ufficiale, non poltronato e ancorato alla ripetizione-conservazione museale dei classici, potenzialmente può e deve essere concepito come un laboratorio antropologico capace di riflettere nella scrittura scenica, dalla drammaturgia multimediale al corpo degli attori, le mutazioni della realtà che ci circonda portate dalle innovazioni tecnologiche.
In questo radicale processo di osmosi fra artificio tecnologico e natura perdono progressivamente valore le differenze tra il vero e il falso, realtà e simulazione del reale. La pelle dell’attore diventa pellicola, il testo palinsesto (o ipertesto, nelle successive elaborazioni drammaturgiche di Andrea), la scena trompe-l’oeil virtuale, il sipario un sipario elettronico. Come il corpo del giardiniere Chance protagonista di Being there, il romanzo di Kosienski tradotto in film da Ashby, anche il corpo dei nuovi performers tende a smaterializzarsi, a sdoppiarsi nella propria immagine mobile fluttuante, capace di entrare e uscire dallo schermo della televisione, permeabile come una membrana organica. Prologo e poi La camera astratta, firmati da Studio Azzurro e da Giorgio Barberio Corsetti separato dal troncone Solari-Vanzi, con la loro doppia scena altalenante fra reale e virtuale diventano nell’’86 il cardine di questa mutazione della scena in scena elettronica.


 
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