ateatro 127.55
14/11/2010 
Un kolossal fatto in casa
I demoni secondo Peter Stein
di Fernando Marchiori
 

Con le ultime repliche a Pordenone e a Torino, è terminata la tournée dei Demòni di Peter Stein. I numeri sono quelli di un kolossal dall’annunciato “destino di monumentalità”: 12 ore di spettacolo, 26 attori in scena, 25 mila chilometri per raggiungere 8 città italiane e 5 internazionali, complessivamente 350 ore di rappresentazione.



Niente male, in effetti, per un lavoro “nato in casa”: la casa di Stein, com’è noto, nella campagna umbra, dove lo spettacolo è stato concepito e dove ha debuttato dopo la cancellazione, per voto unanime del consiglio d’amministrazione dello Stabile di Torino, dal cartellone dell’Astra (che pure ha finito per ospitare la tappa conclusiva della maratona teatrale). Le polemiche sul caso ben rappresentano la situazione teatrale italiana, tra accuse incrociate di inaffidabilità e di sprechi, di incapacità manageriale e di provincialismo.



Per evitare un aumento dei costi, che sarebbero lievitati a un milione di euro, lo Stabile sabaudo tagliò lo spettacolo dal cartellone ma dovette rispettare il contratto e continuare a pagare gli attori finendo per coprire buona parte della spesa (400 mila euro su circa 500) che portò, su proposta dello stesso direttore Mario Martone, alla messinscena nella residenza del regista. Il tutto in tempi di crisi nera per il settore, s’indignò qualcuno; un’occasione persa per forzare i limiti di un sistema stantio, rispondevano altri. Nell’Italia dei premi, le polemiche si sono ricomposte tra un riconoscimento all’allestimento (Premio Ubu come migliore spettacolo del 2009) e uno alla committenza (Martone ha difeso il suo operato ricevendo il Premio Aldo Trionfo per la precedente direzione del Teatro di Roma). Lo spettacolo – che alla fine sembra essere costato 750 mila euro, con l’intervento produttivo dello stesso Stein e del milanese Tieffeteatro – è stato dunque consegnato al pubblico già con l’aura del capolavoro: uno “spettacolo storico”, l’“evento dell’anno” come si legge nel libretto di sala e in ogni articolo giornalistico dedicato all’evento.


Mostrare la noia

In effetti, la presenza di alcuni grandi interpreti del teatro italiano, l’attento adattamento a cura dello stesso Stein, le coerenti scelte registiche fanno dei Demoni un’impresa straordinaria. Quanto al capolavoro, bisognerebbe intendersi. Per ambientare il complesso intreccio del romanzo di Dostoevskij, Stein ha scelto di intervenire con semplici elementi scenografici di carattere sineddotico (un tappeto per una sala, foglie secche sparse a terra per un esterno, un letto per una camera, eccetera), lasciando agli attori il compito di riempire lo spazio scenico semivuoto, “come un foglio di carta bianco su cui la parola degli attori si incide con forza”: difficile dire se le parole degli attori si incidano, certo però riempiono lo spazio, dato che non vi è mai un momento di silenzio, mai un’occasione di andare oltre il testo.



Le scene di Ferdinand Woegerbauer prevedono cambi a vista, veloci, essenziali, tecnici che spostano mobili, oggetti e praticabili. Gli stessi attori fanno ruotare una parete double face che introduce di volta in volta nella camera di Satov, dove la moglie tornerà per partorire il figlio di Stavogrin; nella casa della zoppa Mar’ja Timoféevna e del fratello ubriacone che la batte con la cinghia; nello studio in cui Kirillov si prepara al suicidio in lunghe notti insonni accanto al samovar. Per gran parte dello spettacolo le luci rimangono fisse, bianche. I costumi di Anna Maria Heinreich caratterizzano i personaggi principali con misurato realismo storico. Dal pianoforte a lato della scena giungono le note dal vivo di Arturo Annecchino, discreto contrappunto, talvolta didascalico, a una recitazione che a Stein piace definire cinematografica, internazionale, “alla russa”, contrapponendola a «quella italiana che è “melodica” e non trasmette del tutto il senso delle parole».



Di qui l’effetto monodico di alcune scene, che diventa monotono in altre, e che comunque non conosce slanci lirici né stridori grotteschi. Una medietà forse ispirata allo stile impostosi dallo stesso Dostoevskij, che nel taccuino dei Demoni scriveva: «Indispensabile mostrare che la noia è sempre presente». Noia in senso puramente leopardiano, che però nello spettacolo cova e fatica a venire alla luce.


Oltre il bene e il male

Attorno alla casa della generalessa Varvara Petrovna vedova Stavrogin (Maddalena Crippa) – dove Stepàn Verchovenskij (Elia Schilton) ex precettore del giovane Stavrogin (Ivan Alovisio) è rimasto “ospite” parassita, succube della donna e vanesio cultore dell’Idea socialista – ruota una serie di altri spazi animati da frammenti di storie e personaggi sempre inquieti, attraversati da differenti aneliti a un’impossibile libertà che si traducono in progetti di sovvertimento dell’ordine sociale e perfino naturale. Ma è l’enigmatica figura di Stavrogin a tirare i fili dei destini che s’incrociano solo per distruggersi. Ricomparso nella cittadina materna dopo avventure e scandali a San Pietroburgo e all’estero, il giovane è il motore immobile di aspirazioni ideali che degenerano in cieco fanatismo, di nefandezze e violenze gratuite, di spinte nichiliste e disperazioni esistenziali che sfociano in omicidi e suicidi. Getta il sasso e poi ritira il braccio per stare a guardare, perché non ha nessuno scopo, è oltre il bene e il male, e scatena negli altri con indifferenza la forza negativa di cui non sa che farsene.



È il più coerente sviluppo del Raskol’nikov di Delitto e castigo, come scrisse Luigi Pareyson. È incapace di vivere, prova piacere a umiliarsi, ma con orgoglio, eppure la sua perversità diabolica esercita un’attrazione che sembra emanare dallo sguardo. E infatti Alovisio plasma un personaggio agile, elegante, sempre a testa alta, con gli occhi scuri e penetranti. Tutti gli ripetono: «Voi avete avuto una parte così importante nella mia vita» e si lasciano plagiare. Porta al suicidio una ragazzina per la vergogna di esserglisi concessa; sposa quasi per ripicca nei confronti del mondo («mi venne l’idea di storpiare la mia vita nel modo più ripugnante possibile») Mar’ja, la sciancata che non ci sta più con la testa; lascia credere a Pëtr Verchovenskij di poter essere il leader di quella rivoluzione che il giovane vagheggia e che intanto porta all’assassinio di Satov, di cui però si assumerà la responsabilità l’ingegnere nichilista Kirillov, da tempo deciso al suicidio per dimostrare l’inesistenza di Dio e “dunque” la propria libertà.


Derive del moderno

Tra gli attori spicca la coppia Crippa-Schilton, dai dialoghi efficaci, pieni di vezzi francesi e sottili ironie, che vedono lei sostenere con piglio rigido i di lui svolazzanti ragionamenti e capricci. Quanto lei è severa e responsabile, tanto lui è puerile e labile. Con i suoi capelli lunghi e la barbetta bianca, le sue cravatte eleganti, le sue citazioni letterarie, Stepàn è l’evanescente profeta locale della Grande Idea, un sognatore con l’aria del sessantottino invecchiato, che spesso parla per non dire niente. «Voi parlavate, noi passeremo all’azione, vecchio», gli urla in faccia il figlio Pëtr, allungando così la visione premonitrice dello scrittore russo fino al nostro recente passato di utopie finite nel sangue, di disperate ribellioni generazionali, di demoni che hanno invasato il corpo sociale. Estrema conseguenza di una modernità materialista e nichilista che Dostoevskij aveva stigmatizzato anticipando di mezzo secolo la deriva stalinista della rivoluzione d’ottobre.



Il nervoso Pëtr Verchovenskij di Alessandro Averone, dalla voce sempre strozzata, lo Stavrogin di Alovisio e il Satov di Rosario Lisma sono personaggi costruiti con una intensità psicologica che qualche volta riesce a incarnarsi in modo non convenzionale. Forse il più riuscito, in questo senso, è il Kirillov di Fausto Russo Alesi, che nel suo febbricitante raccoglimento misura la stanza a passi lenti, quasi involontari, prima del “suicidio logico” cui lo conduce la sua mistica atea. Pia Lanciotti è una Mar’ja Timoféevna espressionista e claudicante, Franco Ravera un caricaturale capitano Lebjadkin. La bravura di Maria Grazia Mandruzzato è sacrificata nel ruolo secondario di Praskov’ia Ivànovna. Oltre che per la scenografia, pars pro toto poteva essere un buon criterio anche per sfoltire il resto degli attori, tanto più che le scene corali sono le meno riuscite (il comizio, l’assemblea, la festa) e di alcune dall’imbarazzante convenzionalità (tutte quelle con il governatore) non si sarebbe sentita la mancanza drammaturgica. In che cosa consista, infine, la dichiara revisione del rapporto con gli spettatori, non è chiaro. O bastano le pause brevi per andare al bagno e quelle più lunghe per pranzo e cena per rendere il pubblico “partecipe e non solo osservatore”? Perché per le rimanenti nove ore si resta seduti al proprio posto: davanti a una parete che nessun cambio di scena infrange. Ma forse ha ragione Peter Stein, forse proprio così «si fanno anche più familiari, più facili da riconoscere dentro di noi, quei demoni con cui Dostoevskij indicava le malattie di una generazione di cui siamo figli». Anche in senso teatrale.

Foto di Luca D'Agostino.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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