ateatro 23.1
10/11/2001 
Les "mèmes" du Momo
Appunti sulla diffusione delle idee di Artaud sul teatro
di Oliviero Ponte di Pino
 

AVVERTENZA: questo è una prima provvisoria versione di un work in progress, è dunque aperto a segnalazioni, correzioni, integrazioni sia da parte mia sia da parte di tutti voi. Vi sarò dunque grato di qualunque suggerimento o contributo.

"T171" ovvero il numero dell'autunno 2001 di "The Drama Review" ha pubblicato il saggio di Nicola Savarese su Artaud spettatore della serata di danze balinesi all'Esposizione Coloniale del 1931 a Parigi (lo spettacolo è stato tra l'altro ricostruito in una delle recenti edizioni del Festival d'Automne).
A proposito di Artaud e della sua fortuna, questa è la prima stesura di un saggio di storia delle idee (si dice così?) che non finirò mai (perché da solo non ce la farò mai). Sono alcuni appunti, buttati già in gran fretta un paio d'anni fa, solo una traccia di un lavoro che dovrebbe essere molto più serio. Se qualcuno ha qualche tassello da aggiungere a queste noterelle, qualche correzione-precisazione, gliene sarò assai grato (e inserirò).
Se devo pensare al "libro che ha cambiato la mia vita", la risposta più sincera è probabilmente Il teatro e il suo doppio di Antonin Artaud, pubblicato nella Piccola Biblioteca Einaudi nel 1968. Mi interessava già il teatro, frequentavo con un paio di compagni di classe, Carlo e soprattutto Sandro, il Teatro Uomo (allora in corso Manusardi) e il Teatro Officina (allora in viale Monza). Quel libro l’ho letto, probabilmente su consiglio di Renata Molinari, e sottolineato durante qualche mattinata di lezione, al liceo. (Non sottolineo mai i libri: di solito piego l’angolino della pagina dove si trova il passo che mi colpisce.) Siamo dunque nella prima metà degli anni Settanta, il "finito di stampare" di quella edizione porta la data 16 settembre 1972.
La lettura fu un’esperienza sconvolgente, che irreversibile rese il mio contagio teatrale: fu più convincente degli spettacoli che avevo visto fino ad allora, e mi permise di giudicare quelli che vedevo (o dei quali leggevo le descrizioni) in base a un ideale di teatro che mi si presentava con assoluta chiarezza. Del testo di Artaud mi colpirono confusamente alcuni aspetti: in primo luogo l’enfasi sul corpo come campo di forze (e dunque un ancoraggio materialista) mentre però queste forze riflettono forze misteriose e in qualche misura ineffabili ma percepibili (e dunque una linea di fuga trascendente). Sulla coincidenza di questi due aspetti, mi pareva, si fondava quella fede profetica (dato che gli spettacoli di Artaud si erano rivelati assolutamente inadeguati al suo progetto) nell’efficacia della comunicazione teatrale, con l’attore all’incrocio tra la materialità della carne, l’inadeguatezza del linguaggio rispetto al pensiero, la capacità di cogliere i segni del mondo (e magari anche della storia), per farsi artefice, cavia e modello di una sorta di Rivoluzione spirituale – la peste.
Quelle pagine mi infiammarono, determinando molte delle mie scelte successive. Senza quella lettura in quel momento della mia vita sarei diventato una persona molto diversa. Oltre alla mia, credo che quei forsennati manifesti abbiano suscitato molte altre vocazioni teatrali. Inoltre, come stavo scoprendo, quei manifesti avevano cambiato la storia del teatro: le esperienze che più mi affascinavano, quelle che avrei seguito con maggior interesse, senza Artaud sarebbero semplicemente impensabili. E questo lo sanno (e lo sapevano) tutti.
Più di recente, però, mi è venuta la curiosità di ricostruire con maggiori dettagli la storia di questa influenza, di questa peste. Secondo alcuni teorici, il pensiero avrebbe delle unità minime e indivisibili (i "memi"), che si trasmettono da un essere umano all’altro (o agli altri, visto che spesso la comunicazione è collettiva). Il pensiero di Artaud è certamente ricchissimo di "memi" (che non sempre soddisfano, nel loro insieme, il principio di non contraddizione). Ma il suo era anche il pensiero un uomo dichiarato folle, dimenticato in manicomio, affamato, torturato con elettroshock. Aveva solo pochi amici, tanto fedeli quanto ostinati. Nel giro di pochi anni, è diventato un pensiero enormemente attivo nei campi del teatro, della letteratura e delle arti visive. Quella che segue è una frettolosa (e parziale) cronologia, per offrire i primi punti di riferimento a una ricostruzione più completa e filologicamente più attendibile dell’effettivo sviluppo dell’influsso visibile di Artaud (o meglio, del Teatro e il suo doppio) sul teatro.


1937, settembre: Artaud viene internato in un ospedale psichiatrico, con motivazioni che non verranno mai del tutto chiarite. Ritroverà la libertà solo nove anni dopo.
1938, 7 febbraio: Gallimard stampa, con una tiratura di 400 copie, Le Théâtre et son Double; il libro passa praticamente inosservato, con una sola recensione, quella di Yanette Delétang-Tardif, su "Le Jour/L’Echo de Paris", 27 aprile 1938. Artaud è ovviamente conosciuto nell’ambiente teatrale parigino, dove conta numerosi amici.
1943 (Jean Genet): Olivier Larronde, giovane poeta amico di Jean Genet, è un appassionato lettore, tra gli altri, di Artaud – anche se Genet negherà sempre qualsiasi influenza di Artaud sul suo teatro, malgrado numerosi elementi di convergenza (cfr. White 1993, pp. 269-270, 310).
1944, 10 maggio: prima ristampa (1200 copie) di Le Théâtre et son Double.
1945, marzo: Henri Thomas pubblica sul n. 26 della rivista "Action" un testo su Le Théâtre et son Double; un altro testo dello stesso autore su Artaud viene pubblicato sul n. 1 dell’"Heure Nouvelle". Sono i primi testi su Artaud pubblicati dopo il 1938.
1945, settembre: Artaud è finalmente libero, scrive agli amici che lo vengano a prendere.
19 marzo 1946: lascia l’ospedale di Rodez. Il Grand Gala che saluta il suo ritorno a Parigi (16 luglio 1946, Théâtre Sarah Bernhardt, viene registrato dalla radio: intervengono Dullin, Jouvet, Cuny, Barrault, Blin, Vilar…). A Parigi, frequenterà tra gli altri Arthur Adamov, Jean-Louis Barrault, Roger Blin, André Gide, Tristan Tzara, Marthe Robert, Maria Casarès (interprete con Paule Thévenin e Roger Blin del suo Pour en finir avec le jugement de dieu, registrato e censurato dalla radio). Il suo nome riprende a circolare fuori dalla ristretta cerchia degli amici.
1946, luglio-agosto: si definisce il progetto di pubblicazione delle Oeuvres Complètes con l’editore Gaston Gallimard.
1947, 13 gennaio: è il giorno della celebre conferenza al Vieux Colombier, un evento che s’imprime nella memoria dei partecipanti; vedi le testimonianze di Gide (Feuillets d'automne, 1949), Audiberti, Jouhandeau e Jean-Paul Aron (Les Modernes, pp. 23-26)
1948, 4 marzo: Artaud viene trovato morto ai piedi del suo letto. Poco dopo, alcune riviste gli dedicano un numero speciale: "K", n. 1-2, giugno; "84", n. 5-6; "France-Asie", n. 30, settembre.
1949 (Allen Ginsberg): lo psichiatra Carl Solomon fa leggere a Allen Ginsberg (che diventerà amico e consigliere dei Beck), ricoverato in ospedale psichiatrico, alcuni testi di Artaud e Genet: prima, scriverà Ginsberg, mi consideravo un’anima sensibile, dopo – sotto il loro influsso – la mia visione della poesia si è fatta più dura, più violenza. (Edmund White, Jean Genet, Gallimard, Parigi, 1993, p. 502, ma anche Barry Miles, Ginsberg. A Biography, Harper Collins, 1989).
1949 (Jean Louis Barrault): nel suo Réflections sur le théâtre saluta Artaud come un maestro, dedicandogli un intero appassionato capitolo (Jean Louis Barrault, Riflessioni sul teatro, Sansoni, Firenze, 1954). Tornerà su Artaud anche nel successivo Souvenirs pur demain, 1972, pp. 102-106.
1952 (Andé Breton): in una serie di interviste radiofoniche (a cura di André Parinaud) rievoca i suoi rapporti con Artaud; ma sono numerose le trasmissioni a lui dedicate dalla radio francese negli anni Cinquanta, compresa la trasmissione per il decimo anniversario della sua morte, il 5 marzo 1958, su France 3.
1955: Maurice Nadeau, Histoire du surrealisme.
1956: inizia la pubblicazione delle Oeuvres Complètes presso Gallimard.
1956 (Maurice Blanchot): esce il saggio Artaud, "N.R.F.", novembre 1956 (ora in Le Livre a venir). Blanchot è il primo di un gruppo di autorevoli pensatori francesi che si confronta con la dimensione letteraria e filosofica dell’opera e dell’itinerario esistenziale di Artaud: dopo di lui (vedi infra) verranno tra gli altri Bosquet ("A. Artaud ou la vocation du délire", "Revue de Paris", marzo 1959), Derrida, Deleuze. E Foucault nella Storia della follia (o meglio, nell'appendice alle edizioni più recenti, riproducendo un testo originariamente pubblicato su "La Table ronde", maggio 1964, "La follia, l'assenza di opera"): "Artaud apparterrà alla base del nostro linguaggio" (p. 626).
1958, aprile (Living Theatre): "…a un altro [party] nell’appartamento di Anais Nïn, (…) M.C. Richards parlò a Julian [Beck] dell’importanza del Teatro e il suo doppio di Antonin Artaud, che aveva quasi finito di tradurre" (John Tytell, The Living Theatre. Art exile and outrage, Grove Press, New York, 1995, p. 146).
1958, maggio: numero dei "Cahiers de la Compagnie Renaud-Barrault", n. 22-23, dedicato a Antonin Artaud et le théâtre de notre temps (il materiale verrà ampliato e riproposto nel n. 69, I trim. 1969).
1958, agosto (Living Theatre): "In agosto, M.C. Richards lasciò le bozze della sua traduzione del Teatro e il suo doppio, e un mese dopo Paul Goodman diede a Julian la bozza della sua recensione del libro di Artaud che sarebbe uscita su "Nation". Julian rimase affascinato da Artaud, e riconobbe immediatamente l’utilità del suo approccio radicale al teatro" (Tylett, cit., pp. 148-149). "Le Théâtre et son Double apparve per la prima volta nel 1938. Fu ristampato nel 1948 [1944, n.d.r.]. La prima traduzione inglese, o si può dire americana, di M.C. Richards fu pubblicata nel 1958. Fu allora che lo scoprii. (…) Quando Judith Malina e io incontrammo per la prima volta la sua opera più importante sentimmo che avevamo improvvisamente trovato un compendio articolato di cose che pensavamo da molto tempo senza esserci accorti che costituivano una teoria. Fu un richiamo all’ordine che si manifestò nei proclami del I e II Manifesto del Teatro della Crudeltà" (Julian Beck, Theandric, 1992, pp. 238-239; l’appunto è datato "Stoccolma 9 agosto 1982")
1959: esce la prima importante monografia su Artaud, quella di Georges Charbonnier, Essai sur Antonin Artaud, Seghers, 1959 (per la seconda, Otto Hahn, Portrait d’Antonin Artaud, Le Soleil Noir, bisognerà aspettare il 1968).
1959, marzo (Alain Bosquet): Artaud ou la Vocation du délire, "Revue de Paris", pp. 96-104.
1959, dicembre: numero speciale della rivista "La Tour de Feu", n. 63-64: Antonin Artaud ou la santé del poètes. La rivista tornerà su Artaud nel 1961, n. 69, aprile; e nel 1971, n. 112, dicembre, con una ripresa dei nn. 63-64 e 69, arricchita da un’intervista di Jean-Louis Barrault.
1963 (Eugenio Barba e Jerzy Grotowski): "Non parlammo mai di Artaud. Io non lo conoscevo e forse neppure Grotowski. Ne sentii parlare per la prima volta da Raymonde Temkine che venne ad Opole nella Pasqua del 1963. La cosa è ancora più divertente dato che nel 1958-59 io avevo studiato letteratura francese all’Università di Oslo, specializzandomi in letteratura del Ventesimo secolo. Ma Artaud non era preso in considerazione come poeta e come scrittore e il suo mito scoppiò solo quando Gallimard tra il 1961 e il 1964 pubblicò i primi tre tomi delle sue Opere Complete con i suoi manifesti e testi sul teatro" (Eugenio Barba, La terra di cenere e diamanti. Il mio apprendistato in Polonia, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 65); già nello stesso anno, tuttavia, dopo il congresso dell’ITI (Varsavia, 8-15 giugno 1963) verrà stesa una mozione in difesa di Grotowski e del suo teatro, definito "concretizzazione diretta delle idee di Craig, Mejerchol’d e Artaud (…) abbiamo visto queste teorie divenire realtà, quello che sembrava impossibile è avvenuto" (Barba, cit., p. 87). Grotowski era stato in Francia nel 1957, passando anche per Avignone, e vi era tornato due anni dopo, quando aveva incontrato tra l’altro Marcel Marceau (Kumiega 1985); forse aveva sentito parlare di Artaud in quelle occasioni, o perlomeno aveva potuto cogliere l’eco delle sue visioni.
1963: negli Stati Uniti "Tulane Drama Review", t. 22, inverno 1964.
1963 (Odette Aslan): L'Art du Théâtre (pp. 581-589).
1964, 12 gennaio (Peter Brook): debutta lo spettacolo-manifesto del Teatro della Crudeltà, che si apre con Le Jet de Sang di Artaud. "Charles Marowitz e io, col Royal Shakespeare Theatre, istituimmo un gruppo chiamato il Teatro della Crudeltà, (…) per cercare di imparare per noi stessi che cosa potesse essere un Teatro sacro. Il titolo ovviamente era un omaggio ad Artaud, ma non significa che noi stessimo cercando di ricostruire il teatro di Artaud" (Peter Brook, Il teatro e il suo spazio, Feltrinelli, Il teatro e il suo spazio, Feltrinelòli, Milano, 1968, p. 61). "Artaud messo in pratica è Artaud tradito" (ivi, p. 66). "Nel 1964 [probabilmente 1963, n.d.r.], quando costituimmo il nostro gruppo di ricerca teatrale al lambda di Londra, parecchio tempo prima della visita di Grotowski, il lavoro di gruppo ancora non era di moda. Ricordo bene che a un certo punto del nostro lavoro sui suoni, sulla voce, sui gesti e i movimenti, un amico mi disse: "Sono stato in Polonia di recente e ho incontrato una persona che sta facendo un lavoro sperimentale che t’interesserebbe molto". Certo che m’interessava: dovevo riuscire a sapere che cosa stava facendo Grotowski. Grotowski, a sua volta, mi raccontò che mentre lavorava su alcuni temi che lo interessavano, qualcuno gli disse: "Tutto il lavoro che fai si basa su Artaud!". A quell’epoca Grotowski non aveva la minima idea di chi fosse Artaud. E io neanche. Infatti, appena terminata la regia di uno spettacolo a New York [dalle teatrografie di Brook, risulta una regia a New York nel 1959, The Fighting Cock,, n.d.r.], mentre giravo Il signore delle mosche [uscito nel 1963, n.d.r.], una signora mi chiese di scrivere un breve articolo su Artaud per un piccolo giornale d’avanguardia [la TDR?] e m’invitò anche a tenere una conferenza e a rispondere ad alcune domande sull’influenza che Artaud aveva avuto su di me e sul mio lavoro in teatro. Ma, appunto, non avevo la più pallida idea di chi potesse essere Artaud, perché ero lontanissimo, come al solito, da qualsiasi riferimento teorico sul teatro. Il fatto che questa signora mi avesse scritto, non soltanto con passione ma anche con la ferma convinzione che io dovessi conoscere Artaud, mi fece riflettere. Un giorno andai in una libreria, vidi un libro di Antonin Artaud e lo comprai: fu così che cominciai a conoscerlo. Senza che io me ne fossi reso conto, per anni il terreno era stato preparato; ecco perché ero pronto a esserne toccato così in profondità" (Peter Brook, Il punto in movimento 1946-1987, Ubulibri, Milano, 1988, pp. 42-43). Nella sua autobiografia I fili del tempo (Feltrinelli, Milano, 2001): "Lo chiamammo "Teatro della Crudeltà". In omaggio ad Antonin Artaud. Sebbene non avessi mai nutrito particolare interesse per la teoria teatrale e sebbene riscontrasi che nelle concezioni artistiche di Artaud le indicazioni necessarie al lavoro pratico fossero pochissime, io e Marowitz ammiravamo l'intensità bruciante delle sue posizioni rispetto al teatro paludato del suo tempo".
1964: Le Théâtre et son Double, in edizione tascabile Gallimard.
1964, aprile: Tre testi sul teatro, "Il Verri", n. 14.
1964, autunno (Alberto Arbasino): ""Teatro della Crudeltà" è una definizione che si presta agli equivoci più iniqui, o a gaffes ridicole. Parecchi, intanto, lo confondono con una rappresentazione scenica di episodi di crudeltà fisica violenta e feroce, tipo Grand Guignol. Poi, il suo teorico più grande, il surrealista erratico Antonin Artaud, è specialmente conosciuto come Eretico Folle, proprio clinicamente folle, morto in manicomio, venti anni fa dopo aver "pagato di persona" più di chiunque altro, lasciandosi dietro un caos di foglietti a pezzi e d’intenzioni mai realizzate" (Alberto Arbasino, Grazie per le magnifiche rose, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 311). In questo contesto, Arbasino cita Genet messo in scena da Blin, Carmelo Bene, Peter Brook e le sue regie dei Paravents e del Marat-Sade.
1965, gennaio: intervista di Jean-Pierre Faye a Roger Blin: "Artaud vu par Blin", "Les Lettres Françaises", 21 gennaio 1965.
1965, giugno: 8 lettere in "Sipario", n. 230.
1965 (Jacques Derrida): esce il saggio La parole soufflée ("Tel Quel", n. 20), ripreso in L’Ecriture et la Différence (Seuil, 1967).
1965 (Jean Duvignaud): Sociologie di théâtre.
1966, 12 marzo (Nicola Chiaromonte): conferenza al circolo di cultura Francesco De Sanctis di Napoli su Artaud e la sua doppia idea del teatro (poi in "Tempo Presente", marzo-aprile 1966, e in Scritti sul teatro, Einaudi, Torino 1976, pp. 53-67). Controllare anche La situazione drammatica (1959) e Credere e non credere (1951).
1966, marzo (Jacques Derrida): conferenza a Parma Le théâtre de la cruauté et la clôture de la représentation (poi in "Critique", n. 230, luglio 1966 e con qualche variante in L’Ecriture et la Différence, Seuil, 1967, e come prefazione all’edizione tascabile italiana del Teatro e il suo doppio, 1968). Gli atti del convegno di Parma in "Teatro Festival", n. 2-3.
1966 (Jean-Paul Sartre): conferenza "Mithe et réalité du théâtre", da cui verrà poi tratto un capitolo di Un théâtre de situations (Gallimard, 1973). L'anno successivo, Sartre torna su Artaud in un articolo, "La route de l'hystérie", per "Le Point" (mensile studentesco di Bruxelles).
1966: Al paese dei Tarahumara e altri scritti, Adelphi, Milano.
1967: Artaud vu par Blin, intervista a cura di Jean-Pierre Faye, "Les Lettres Françaises", gennaio 1967 (poi ripresa in Jean-Pierre Faye, Le Récit hunique, Seuil, 1967).
1967: Bernard Dort, Théâtre public, dedica molto spazio a Artaud.
1968 (Peter Brook): "Oggi si mette in discussione Genet, si rivaluta Shakespeare, si cita Artaud, si parla molto di riti e rituale" (Peter Brook, 1968, p. 33).
1968 (Gilles Deleuze): Différence et Répétition, pp. 150 e 191.
1969 (Gilles Deleuze): il saggio Du schizophrène et de la petite fille, in Logique du sens, pp. 101-114.
1970: Antonin Artaud et le théâtre di Alain Virmaux, Seghers, 1970. Ma a questo punto iniziano a uscire anche le prime monografie parascolastiche: Daniel Joski, Artaud, Editions Universitaires, cui seguirà Gérard Durozoi, Artaud, l'aliènation et la folie, Larousse, 1972.
1971: esce la prima biografia di Artaud, quella – con qualche errore – di Jean-Louis Brau (La Table ronde).
1972, febbraio: sul "Magazine littéraire", n. 61, Artaud sans légende.
1972, 29 giugno-9 luglio: al Centre Culturel International de Cerisy-La-Salle si tiene un convegno diretto da Philippe Sollers dal titolo Vers une Révolution Culturelle: Artaud, Bataille; su Artaud intervengono Xavière Gauthier, Pierre Guyotat, Jacques Henric, Julia Kristeva, Georges Kutukdjan, Marcelin Pleynet, Guy Scarpetta, Philippe Sollers.
1976, dicembre: "Obliques", speciale Artaud, n. 10-11.
1979, maggio: Speciale Artaud a cura di Cesare Nissirio sulla rivista "Il Dramma", con scritti di Jacqueline Risset, Grazia Marchianò, Carlo Pasi, Elémire Zolla.
1984, aprile: dossier Artaud sul "Magazine Littéraire", n. 206.

NOTA
Per compilare questa cronologia mi sono stati particolarmente utili: - Jacques Maeder, Antonin Artaud, Plon, Parigi, 1978. - Paule Thévenin, Antonin Artaud, ce Désespéré qui vous parle, Seuil, Paris, 1993. - Alain e Odette Virmaux, Antonin Artaud, La Manufacture, Besançon 1991.

Dopo aver steso questa cronologia, posso provare a immaginare la sfilata di diversi gruppi di figure che in maniere diversissime hanno incontrato Artaud. In primo luogo ci sono alcuni degli intellettuali francesi, in genere letterati, che avevano conosciuto Artaud prima della follia (aveva praticamente esordito sull’autorevole "N.R.F.", che nel 1924 aveva pubblicato la sua corrispondenza con Jacques Rivière) e ora che è tornato da Rodez dopo nove anni d’internamento lo osservano con un misto di compassione e imbarazzo. Alcuni lo ignorano, ma altri hanno partecipato alla sottoscrizione in suo favore, lo frequentano e lo sostengono. Sono certo più interessati allo scrittore e al "caso clinico" che all’ex-attore e al teorico del teatro. Qualcuno di loro capisce, o intuisce, che la voragine che lo scrittore francese ha conosciuto, e le fratture dell’io che ha esplorato, sono il rischio di ogni esperienza umana estrema (e qualcuno di loro avrà certo pensato a Hölderlin e Nietzsche, Nerval e Rimbaud). Un secondo gruppo è costituito dagli amici di Artaud, quelli che hanno condiviso la sua passione teatrale: tra di essi spiccano Blin, Barrault, Adamov. Nessuno di loro prova a dare forma alle visioni teatrali di Artaud; le ritengono in sostanza "impossibili", anche se certamente hanno avuto un forte impatto sulla loro attività.
Per questi due gruppi di persone, l’incontro con Artaud è un incontro personale, privato, un’esperienza magari sconvolgente, vissuta con grande intensità e profondità, e che tuttavia non riesce a trovare una diretta espressione artistica (Gide nei Falsari fa di Alfred Jarry un indimenticabile personaggio romanzesco; Artaud invece trova posto solo nei suoi Diari).
Dopo la morte di Artaud, in questa immaginaria sfilata s’incontrano coloro che hanno raccolto la sfida sul piano filosofico-letterario, e che nel giro di una decina d’anni fanno di Artaud un punto chiave nell’esperienza del pensiero del Novecento, con una serie di saggi di grande respiro. Sono Blanchot, Bosquet, Derrida, Deleuze, Foucault, Sollers (non so quanti di loro abbiano conosciuto Artaud di persona). Il nucleo della loro riflessione riguarda il problema della scrittura, e l’esperienza di una soggettività "esplosa".
Per quanto riguarda il teatro, i primi autentici artaudiani – tra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi anni Settanta - sono i Beck, Brook, Barba e Grotowski. Insomma, i creatori del nuovo teatro. Nessuno di loro ha letto preventivamente Il teatro e il suo doppio per poi decidere di applicare le sue teorie. Anzi, molti di loro erano artaudiani senza saperlo: spesso (Brook, Grotowski) sono stati riconosciuti come tali da studiosi di teatro, che avevano letto quei testi e che per la prima volta vedevano un teatro alla loro altezza. (È un po’ quello che è accaduto quando Aragon ha visto gli spettacoli di Robert Wilson, decenni dopo i manifesti surrealisti). Per tutti questi registi, leggere Artaud ha significato scoprire qualcuno che aveva saputo dare una forma e un’unità a quello che avevano solo presentito e stavano faticosamente cercando di praticare. È stata un’illuminazione. Artaud aveva visto, con trent’anni di anticipo, quello che sarebbe stato il loro teatro. Le sue idee erano in qualche modo necessarie, l’evoluzione dell’arte doveva – prima o poi – incontrarlo. Non appena si opera questo riconoscimento (non appena s’incontrano la teoria di Artaud, la prassi del Living, Grotowski e Brook, la teoria dei loro spettatori), Artaud diventa un passaggio obbligato per chiunque sia intenzionato a fare qualcosa di serio in teatro. Negli ambienti degli addetti ai lavori il nome di Artaud e i suoi testi hanno una diffusione capillare. Diventano la lettura obbligata e il manifesto della generazione post-brechtiana. Dopo gli anni Settanta (e fino a oggi), il teatro è sostanzialmente artaudiano (se poi si tratti di un Artaud profondo o superficiale, è una questione che esula da questo rapido excursus). Com’è ovvio, il silenzio iniziale si trasforma in un chiasso assordante (anche se molto lentamente), e a tratti quasi in moda. Sulla scena la crudeltà diventa un must. Le Théâtre et son Double esce in edizione tascabile prima in Francia e poi in Italia. Gli articoli e i saggi si moltiplicano, arrivano le biografie e le monografie, le storie del teatro gli trovano una collocazione. A occuparsi di Artaud non sono più solo raffinate riviste d’avanguardia ma periodici di ampia diffusione. Anche gli studenti avranno diritto al loro Artaud, condensato in appositi volumetti fin dagli inizi degli anni Settanta. Tra i vari aspetti della creatività di Artaud, quello che ha più faticato per imporsi è quello grafico: è solo a partire dagli anni Ottanta che i suoi torturati autoritratti vengono riscoperti in tutto il loro valore.


 
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