ateatro 56.12
14/08/2003 
A proposito di Hamletmaschine
ovvero Note sul tempo
di Milena Massalongo
 

1. Quelli che seguono non vogliono essere più che appunti in margine ad un testo e alla sua messa in scena, non una recensione, né tantomeno un’interpretazione. È rindondante parlare di teatro, il teatro parla già da sé, e forse una critica teatrale può recensire solo la reazione del pubblico, occuparsi proprio del contatto, avvenuto o meno, del tipo di contatto. Per questo testo poi, vale, ma nel senso più letterale, quello che si dice di ogni testo di livello, che è il miglior commento e la migliore rappresentazione di se stesso. Hamletmaschine si rifà, tra l’ altro, in modo scoperto già nel titolo, all’Amleto di Shakespeare. Ma non è una rielaborazione, nemmeno una riscrittura perché non prende solo spunto dal testo shakespeariano per poi espandersi in una nuova opera. Amleto non è solo lo spunto, è la radice scoperta, portata all’estremo. Se è immaginabile qualcosa come una traduzione per sedimentazione, allora questo è Hamletmaschine, che non traduce solo da una lingua all’altra, da un tempo all’altro in vitro, come fanno le versioni attualizzanti. Il tempo che è intercorso, il tempo come dimensione fisica, al limite dell’umano, vi interviene e la scrittura tenta di tenere il passo, come se una traduzione avesse luogo in accelerazione, esaurendo storia e personaggi prima di averli raccontati, bruciando sul nascere anche la narrazione, non solo il dramma. Di fatto Hamletmaschine nacque in margine a una traduzione di Amleto a cui Müller lavorò per uno spettacolo di Besson-Langhoff e Müller stesso la definisce una volta ‘ein Schrumpfkopf’, una di quelle teste-trofeo che popoli primitivi ricavano dal teschio del nemico ucciso, conciato e rimpicciolito come se avesse subito una concentrazione.
Scrive questo testo di getto nel 1977, ma la stesura è una specie di emersione di una tensione cominciata fin da ragazzo con la prima lettura dell’Amleto, come lui stesso racconta, in lingua originale, quando ancora non conosceva bene l’ inglese e la lettura avveniva più per divinazione che per comprensione logica del testo. Credo che quella prima esperienza della lingua di Amleto, come di un fatto-corpo da percepire piuttosto che come una mezzo di comunicazione, sia stata determinante per Hamletmaschine. Di certo è in una percezione sfocata di motivi e psicologie che ha potuto emergere il senso di quel ‘tempo fuori dai cardini’, il vero antagonista nella tragedia di Amleto, ragione per cui Amleto non riesce ad essere una tragedia. In Hamletmaschine quel tempo è diventato il vero protagonista, e ciò va inteso nel senso più letterale possibile.
Il testo di Hamletmaschine costruisce l’esperienza della durata, attraverso cui perde d’interesse la storia: Amleto che non recita più il suo dramma, Ofelia, che non si uccide più, ha esaurito in tutte le donne/le vittime della storia il suicidio, la disperazione e il tempo dell’attesa. Una prospettiva in cui tutto è stato fatto, la storia è venuta a noia, ma una prospettiva talmente totale da avere anche nichilismo e delusione alle spalle. Non solo dell’avvicendamento dell’azione non resta che un cambio di scene, ma non esistono nemmeno più ruoli distinti, tutt’al più un’io - pronome che pronuncia il discorso, una voce impersonale.
Il testo non è nemmeno assimilabile ad un lungo monologo perché non sembra esserci nulla al di fuori della lingua, come un testo che abbia fagocitato dramma e personaggi e li ripercorre e li liquida con una accelerazione spaventosa, il dubbio amletico, la tragedia, la disperazione di Ofelia, e in un salto temporale anche la rivoluzione comunista, la sua pietrificazione in monumento e il suo soffocamento nella nauseante giostra consumistica. Come se la lingua di Amleto fosse sopravissuta alla sua storia alla sua ripetizione ossessiva nella storia fino a giungere al suo esaurimento per estenuazione. Perché il tempo si è dilatato a dismisura anche oltre la morte dei singoli individui.
Il ‘fuori tempo’ è la dimensione che la costituisce, il tempo in accelerazione e arresto istantaneo insieme, con una prospettiva che riesce ad essere storica, panoramica e interna/assoluta: ‘da entrambe le parti del fronte’. Critica e ‘urgente’ - pratica. Davvero, rendere giustizia a questa contemporaneità impossibile, per il teatro è un’impresa. Ma forse questo è teatro nel senso più stretto, non annacquato in racconto-simbolo-comunicazione.
Ciò che accade nella parola, la storia di Amleto, ciò che resta di Ofelia, la rivolta, tutto è insieme adesso, sulla punta dell’attimo ed è già irripetibilmente stato. Per questo non si riesce a cavare una ‘posizione’ di Müller. Nemmeno una posizione nichilista, per gli stessi motivi. La discronia è il principio compositivo di questo testo, non il funzionamento; il funzionamento invece è ancora lo sforzo di andare a tempo, di ricondurre il tempo nei cardini.
In questa macchina, il principio di funzionamento cozza contro la struttura. Hamletmaschine funziona contro se stessa. È questa la sua potenza al limite, la sua im-potenza, che non ammette però, come un’impotenza qualsiasi, il suo contrario.
.Il tempo è astronomico, compatto e dilatato al tempo stesso, in cui la luce di una stella morta miliardi di anni fa, ci giunge solo ora. Il pensiero è sparato alla velocità della luce, non dà tempo perché immagini, idee possano staccarsi, ma è una dialettica talmente vertiginosa da bruciare sul nascere qualsiasi atteggiamento mentale. Una pulsazione dialettica da forze fisiche, da particelle atomiche, non da pensiero.
‘Io ero Amleto’, l’attacco di Hamletmaschine, non è il segnale di un ricordare umano, ma di una memoria elettromagnetica, da nastro di registrazione: nel senso in cui i fossili sono l’unica testimonianza di una vita scomparsa, così questo testo è l’ unica testimonianza di una prospettiva impossibile sull’ uomo.
Certo, permane l’ambiguità, e ciò perché la lingua è ancora umana, è leggibile. ‘Io’ è il pronome della persona, il verbo passato è subito una rievocazione, anche dei sentimenti connessi: forse la nostalgia, o la rabbia proprio per questa impersonalità (un regno per un dolore vero). Ma quella forza immane che spinge oltre ed è la vera protagonista del testo, quel tempo astronomico resiste alla personalizzazione, è la forza che tenta di espellere anche la possibilità di un lettore/spettatore, di accedere ad una dimensione illeggibile-impronunciabile, da chiunque.

Impossibilità di descrivere tenendo il passo di ciò che accade; impossibilità di unificare scrittura e lettura; espulsione del lettore dal testo. Marionette riempite di parole, di segatura. Carne di cuore. Il bisogno di una lingua che nessuno possa leggere aumenta. Chi è nessuno. Una lingua senza parole. Oppure lo scomparire del mondo in parole. Al posto di questo, la compulsione a vedere che dura tutta la vita, il bombardamento di immagini […] le macerie della letteratura.
[H. Müller, da Traktor]


E’ uno scrivere al limite della paralisi. Arrivare prima dell’intenzione, uccidere l’ intenzione, qualsiasi, anche quella della poesia pura, anche quella che c’è nella scrittura automatico-surrealista, con cui questa non ha niente da spartire. Anzi, è una lotta perché nemmeno un soggetto inconscio possa formarsi, di modo che sia la realtà stessa a prendere brutalmente la parola. Ma quale realtà, dato che qui una realtà come oggetto di un soggetto, secondo la visione tradizionale e l’esperienza comune, è divenuta impossibile.
Brecht nella sua scrittura/rappresentazione epica calcava sull’esibizione dell’intenzione. Non solo il senso inteso doveva essere chiaro, come vuole il teatro di tradizione, ma anche la parzialità di quest’intendere, secondo l’ insegnamento pratico marxista. Nel ‘chi’ che sale all’espressione, alla pari del ‘come’ e del ‘cosa’, l’ espressività raggiunge il culmine. Probabilmente questo è anche il culmine del ‘drammatico’.
I testi di Müller in genere hanno invece la capacità di sottrarsi all’espressione, per quanto questa predispone almeno la finzione di una coscienza psicologica o di una riflessione. Si scrivono in margine, in un certo senso sono pronti un attimo prima di giungere all’espressione. Il senso prende corpo al di qua dell’esprimere, nella parola prima di venir ‘detto’.
Si nota e si dice volentieri che la sua lingua è violenta. Ma la violenza non è della lingua sul mondo, sulle cose, quanto della lingua contro se stessa, contro la sua stessa mediazione della realtà. Anziché imporsi in modo assoluto, si ha la sensazione che lotti per sottrarsi, ma senza l’ ingenuità di postulare un mondo fuori dalla lingua, dalla visione. È questa la drammaticità tutta interna al testo, che viene prima di implicare altre dimensioni.
In qualche modo ogni testo di Müller, perché è caratteristica della sua scrittura, e Hamletmaschine in forma palese, sono, in diretta, anche la propria critica, il proprio commento, e non come un momento a posteriori inserito nell’opera.
Per questo un commento critico si trova in esubero rispetto a essi e la stessa rappresentazione, in quanto contiene per forza un momento interpretativo, viene spiazzata dalla saturazione di questa lingua, che non ha più rispetto per l’indicibile e non consente spazi vuoti -a meno che non le vengano estorti.-
Se è utile concepire qualcosa del genere, diremo che è una sceneggiatura post-rappresentazione.
Come se Hamletmaschine venisse anche dopo la sua messa in scena.
Sembra che di questo testo si possa parlare soltanto attraverso dei ‘come se’, ipotizzando concretamente la situazione da cui si scrive e si espone in piena potenza, cioè in fondo attraverso un’operazione già teatrale. Se è un’opera ai limiti del rappresentabile, lo è proprio per la teatralità estrema.

2. Hamletmaschine è un testo metallico, dis-umano, nel senso che l’ uomo non è più la sua condizione di possibilità, si scrive oltre. Una rappresentazione che le assomigli il più possibile può essere, a prima vista, l’ unica a non fallire. E quindi una voce scorporata, fuori campo, impersonale, come una registrazione da un tempo futuro, può sembrare la soluzione più pronta (così è stato fatto a Berlino su CD con la collaborazione dello stesso Müller, nel 1990.)
Una messa in scena, infine, che non è una messa in scena, senza corpo, senza gesto, o che consiste nel ritirare il più possibile la ‘scena’ e nel farlo proprio tramite la sola parola, spersonalizzante, totale.
Forse è la versione ideale per rimarcare il più possibile la capacità del testo e quindi di fatto ‘propedeutica’ ad ogni rappresentazione.
Müller suggerisce però una volta, come rapporto ideale tra testo e messa in scena di un'altra sua opera, il Filottete, la resistenza del corpo esposto, fisico, a questa lingua implosa come un buco nero. Sembrerebbe che, proprio perché la lingua è così totale, l’unico modo di renderle davvero giustizia sia di ingaggiare una specie di prova di resistenza con essa, cercando scampo al suo risucchio.
Gàmbula sembra calcare questa via in modo anche più radicale, usando anche la voce come resistenza fisica. La sua versione di Hamletmaschine diventa una partitura musicale, ma in un senso che di solito non viene toccato: il testo recitato, proprio come un ‘pezzo’ musicale, si sgancia da un parlante-persona-maschera, almeno non ne dipende, come un discorso, dalla persona che lo fa. Difatti non diventa un monologo. L’ io è assorbito da un testo in espansione autonoma che le intenzioni non riescono più a governare. È una cantata-naufragio, dice bene lo stesso Gàmbula, ma non un flusso sonoro che ha rinunciato al senso. Lo impedisce il fatto che Gàmbula lavori sulla produzione fonica della singola parola, non solo della frase. Ciò che si sente non è una semplice variazione lirica di toni, e quindi un flusso di emozioni scollato da un referente preciso, come accade in media quando si insiste molto sul significante. Invece è lo sforzo onesto di coagulare il senso in diretta, lì sulla scena, a potenziare il significante, che si dilata e si moltiplica quanto più tenta di guadare l’abisso che si apre ad ogni parola. La musica di questa voce nasce dalla ricerca onesta di senso, e non dalla sua espulsione o dalla sua approvazione fin dall’inizio - perché anche un senso ‘dato’ al principio, non importa se più o meno scontato, ha già trasformato il testo, la recitazione, in un ritornello orecchiabile.- Il senso non manca, soltanto non è mai a tempo. Questa è la sua musica.
Qui succede qualcosa di strano, di deforme, deformante: il testo che ha esaurito la lingua diventa il discorso di chi sta imparando a parlare. Gàmbula è reduce da un lavoro su Calibano, figura shakespeariana di tutti quelli che sono costretti a esprimersi nella lingua straniera del più forte, e nello sforzo, nella forzatura di imparare, contaminano la lingua di una forza critica dimenticata che è degli inizi, quando ancora non ‘si dice così’ e il legame tra un segno e un senso non è naturale/normale.
Questa Hamletmaschine continua i frutti di quel lavoro sull’ articolazione onesta della parola e l’ effetto è potente: impararare a parlare, cercare non solo la pronuncia ma il primo senso della parola con un testo apocalittico che ha esaurito la lingua, che non ha spazi vuoti ai margini, che non rispetta più l’ indicibile.
Imparare a parlare saltando tutte le tappe intermedie, la religione-magia della lingua, la lingua babelica diventata sistema di segni confidenziali, anche la poesia ultimo rifugio della lingua che fa essere le cose e non ‘significa’, per arrivare direttamente a questa specie di giudizio universale senza dio né uomini. Nella tensione tra quest’ inizio e questa fine senza mediazioni lo spettacolo sfida di continuo il rappresentabile.
Hamletmaschine come la maledizione postuma di Calibano.

Il nostro compito, o il resto sarà solo statistica o faccenda dei computer, è lavorare alla differenza. Amleto, il fallito, non è riuscito a produrla. Prospero è l’ Amleto non morto: di continuo frantuma il suo scettro, questa la sua replica a Calibano, nuovo lettore di Shakespeare, il rimprovero attuale a tutta la cultura fino ad oggi:

TU MI HAI INSEGNATO LA LINGUA E IL PROFITTO CHE IO
NE HO RICAVATO
È CHE ORA SO COME MALEDIRE.
(H. Müller, Shakespeare Eine Differenz, discorso tenuto durante le giornate shakespeariane di Weimar, 1988)


Ne nasce uno scontro contaminante, la lingua dis-umana, l’ attore umanissimo. Nel contesto teatrale italiano, dove l’ umanesimo del rappresentare non è mai stato messo in seria discussione, dove il corpo e il discorso sulla scena sono ancora con prepotenza prima di tutto corpo e discorso di persona, l’impatto è forse ancora più forte. E Gàmbula riesce a salvaguardarlo, senza ridurre l’abnorme di questo testo alla convenzione e senza negare del tutto il corpo-persona nello stile. Un’operazione come quest’ultima tra l’altro, forse risulterebbe di sicuro effetto sulla scena, ma finta, troppo precipitosa nel rendere giustizia al testo, come lo sono gli effetti speciali al cinema per rappresentare ciò che va oltre le possibilità umane.
Nella fatica umana di tenere il passo vertiginoso di Hamletmaschine, forse anche di resistervi, l’incommensurabilità del testo viene sperimentata, anziché essere data per scontata e ‘comunicata’. Probabilmente qui sta anche la vera esclusiva del teatro, misurare tutto, anche l’ impossibile, sul corpo dell’uomo. E probabilmente questo è anche il motivo per cui la scelta antitecnologica della rappresentazione di Gàmbula-Zanolli, l’attore-voce-corpo senz’altro, la pittura-il gesto di fissare in immagini sullo sfondo, per un testo così ‘tecnico’ è indovinata.
Forse in questo caso è più esatto parlare di disegno, perché il disegno, a differenza della pittura, non consente contemplazione. Rimanda ad altro. Si potrebbe dire che ‘cerchi’ il testo e gli tenda imboscate, come dice lo stesso Zanolli. Non nel senso che lo anticipa in un gioco fin troppo facile ma che crea trappole, direzioni di senso in cui catturarlo, che subito però si disfano già nello scontro, mentre il disegno già muta. Il foglio viene strappato per fare spazio ad un nuovo foglio bianco su cui rimangono tracce di figurazione come residui germinali. In questo gesto di strappo si apre uno spazio anche per il testo, che riparte da un altro punto zero.
Si sviluppa una tensione tra testo e immagine come tra apparati di cattura in continua mutazione e per tanto in continuo reciproco fallimento. Una presa definitiva non ha mai luogo. Eppure, ciò che funziona oltre modo in questo spettacolo è proprio la sfasatura cronica: il fatto che nell’immagine ciò che sale dal testo giunga un attimo prima o un attimo dopo e che solo in alcuni momenti, imprevisti ogni volta, avvenga un incontro. In un certo senso l’appuntamento tra immagine e testo continua a fallire. Ma in questo fallimento non programmato vengono elusi proprio l armonia preconfenzionata, l’effetto-balletto’, la sensazione di copione e finzione.

3. C’è comunque, al di là della lingua, un residuo umano nel testo di Müller: è il corpo vivente che resta, il corpo senza idee, i pensieri vecchie ferite cicatrizzate, ormai luoghi ripercorribili solo sovrapensiero, meccanicamente. Il corpo che cammina e respira. In puro movimento. E, fuori, la bellezza del paesaggio che appare quando la rivoluzione è stata tradita ( H. Müller in La missione) Siamo riconsegnati alla natura che non c’è, che, dopo la dialettica storica, è solo estenuazione del pensiero, ‘deserto’ o ‘glaciazione’ anche dove brulica l’acqua più pura e il verde più verde. In realtà anche l’idea di bellezza deve mutare, perché nel nostro tempo per la prima volta la bellezza, grazie alla scissione atomica e ai prodigi tecnici derivati, riesce a darsi senza l’illusione della purezza. Che la purezza sia sempre stata un’illusione lo ricordano prima della storia i miti a doppia faccia. Ma non poteva darsi bellezza senza questa efficace illusione. Oggi (ma da quanto dura quest’oggi?) i paesaggi, i corpi, le poesie, l’arte riescono ad essere bellissimi, pur contaminati da subito a tutti gli altri sensi. Gli agguati e le insidie non covano sotto alla bella superficie. La malattia è sgargiante. Ma, soprattutto, non è più mortale. Il tempo della sopravvivenza facile, che non richiede arte e abilità, solo organismi più adattabili, dura, e questa durata è la nostra occupazione, dà origine a tutte le nostre occupazioni.
Interferire con questa contaminazione del tutto respirabile e commestibile, alla fine, tocca dirlo, persino piacevole, non è solo difficile, è una difficoltà che deve prima trovare il suo senso. E’ l’orribile inghippo di una resistenza oggi, che debba cominciare interrogandosi su di sé, e quindi già con l’autocritica e non come pratica di resistenza proprio al teorizzare puro.
È il peso schiacciante per l’arte dover reperire anche i contenuti che prima si limitava a rappresentare/estraniare. Dover tirare fuori dal gioco di prestigio senza veli, anche la passione per l’ idea, una verità: gioco nel gioco.
Farlo a teatro, in questo teatro italiano inesistente, senza una lingua parlata di tradizione, ma anche senza ricorrere alla lingua convenuta d’accademia, inventandosi una lingua parlata, nel senso di reimparare la parola, è una difficoltà ulteriore e necessaria. Alla mancanza di un tessuto connettivo di base, opporre non lo schiaffo di un’alternativa personalissima, semplice sfoggio d’aristocrazia, ma la radicalità di un’esperienza originaria. Farlo con un testo di lingua e storia straniera, che ha esasperato fino alla verità le tensioni di quella lingua e di quella storia, è una complicazione rischiosa, ma forse davvero onesta.
Perché muoversi tutto in materiale, mezzi, idee, lingua, stranieri diventa un urtare di continuo contro la propria orfanità italiana. Di storia, di lingua, di idea. Di fatto ci troviamo a quello stesso stadio di agonia della storia, che è il piano di partenza senza partenza di Hamletmaschine, senza avere una storia irrecuperabile, di Amleto o di un’ idea, alle spalle, soltanto la spontaneità ora del tutto scomparsa della provincia italiana, quella luce di chi è ciò che non sa, di cui si ricorda e ci ricorda solo Pasolini. Di fatto siamo a quell’estremo su cui si tiene in equilibrio Hamletmaschine, ma senza il suo gusto e il suo disagio dell’estremità.
In Italia un testo del genere non si sarebbe potuto dare come una radicalizzazione, una scrittura in accelerazione, ma solo come la registrazione di un’agonia, una deriva di parole che non ricordano nemmeno più se mai hanno avuto una direzione. Vale a dire come sintomo al massimo, uno sfogo di una linearità senz’arte.
Metterla in scena qui, adesso, non è nemmeno una provocazione, non può avere, per i motivi detti, l’effetto di uno scandalo, che tocca nel proprio. È invece l’esperienza di un’inappartenenza che si vive per tutto lo spettacolo, anche nei suoi momenti più ‘globali’, in cui è la società consumistico-televisiva dell’occidente ad essere messa alla berlina.
Qui c’è davvero un contatto con il pubblico -e non lo si legga come un paradosso prezioso- proprio nella mancanza di un contatto: che le stesse cose che in quel testo, sulla scena, fanno schifo, fuori, nel pubblico, nel quotidiano, siano placidamente accolte. È qui che avviene un urto fisico perché ogni comprensione è altrimenti impossibile.
‘La mia nausea è un privilegio’ dice ad un certo punto Müller-Hamletmaschine. Era, al momento della stesura, una confessione, anche autocritica, di un intellettuale della DDR, di fatto privilegiato. Lo è ancora, se dilatiamo l’ orizzonte, come fa del resto Hamletmaschine alla fine, alle metropoli del mondo.
Ma ciò che è cambiato è che adesso la nausea è privilegio di intere masse: che però non la sentono. È privilegio di tutto il pubblico che viene a vedere questo spettacolo e assiste in gran parte a questa nausea come a qualcosa che non gli appartiene.
Questo è il punto in cui il testo è più anacronistico e più fuori posto, non nel fatto di essere una specie di ‘discorso indiretto libero’ di una storia che, almeno così da vicino, anche intellettualmente, qui da noi non è stata vissuta. Il vero anacronismo è che la capacità di essere nauseati non sia più attuale. E l’ esperienza di questo anacronismo, invece di essere il fallimento, è la forza della rappresentazione.
Lo spettacolo lancia reti alla storia recente italiana, e trova contatti - la rivolta in cui ad un certo punto prende corpo il testo senza smettere di essere una ‘bolla insonorizzata da fumetto’, è come catturata in un senso possibile dalle registrazioni audio dei disordini di strada del G8 nel 2001. Sotto, tutt’attorno, l’inerzia ascolta come davanti al telegiornale.
Hamletmaschine cristallizza il primo momento dell’inappartenenza, il momento dello stupore, dell’eccitazione, della paura, quando è un’esperienza che non ci appartiene ancora. E infatti si scrive per espropriazione progressiva, di storia, di personaggio, di linguaggio teatrale, di idea, di azione, di comunicazione. In un certo senso il segugio che entra nel panzer alla fine, l’animale che si espropria dell’umano e si specializza nella sopravvivenza - voglio essere una macchina, braccia per afferrare…- è la condizione da cui parte fin dall’ inizio il testo che qui infine coincide con se stesso, nell’ultima attesa selvaggia che durerà forse millenni.
Di fronte al testo messo in scena, ci sta il suo doppio, l’inappartenenza addomesticata che dura da qualche decennio veramente come da secoli.
In qualche modo la profezia si trova di fronte alla sua realtà, ed è la profezia ad esserne scioccata: che ciò che è il punto di fuga, il non-plus-ultra, sia divenuto normalità, prossimità, con il ribasso che questo comporta. Che l’attesa selvaggia sia indistinguibile da un non attendersi più niente, che decenni passino in mille anni, che l’impotenza urgente di Elettra, alla fine di Hamletmaschine, nel durare del tempo sia impotenza e basta.
In coda a un’altra riscrittura per sedimentazione che Müller diede di Shakespeare, Anatomy Titus Fall of Rome, si trova la frase lapidaria:

Il teatro è l’ostetrica dell’archeologia. L’attualità dell’arte è di domani.

In quella ‘durata indifferente’ del tempo che viviamo, occorre ripensare anche la costruzione di attualità in cui consiste il teatro, perché forse non è più possibile come un incontro/scontro di dimensioni, come uno schock.
Quando infine Hamletmaschine fu rappresentata per la prima volta nella DDR, come consuetudine per le opere di Müller, con quasi quindici anni di ritardo dalla stesura, Müller ebbe a dire che arrivava troppo tardi per la DDR e troppo presto per l’ occidente, quando la crisi della verità (comunista, ma non solo) poteva essere ancora percepita solo con delusione-disperazione o con speranza nell’avvenire.
Allora Hamletmaschine diventava, malgrado se stessa, l’ultima maledizione che giungeva dall’est comunista. Il tempo apocalittico di cui consiste avrebbe potuto essere invece l’urto ideale per un certo momento dello stato socialista.
Ora che siamo la durata di quel tempo, siamo, per così dire, intoccabili, contemporanei solo a noi stessi: inclusi in Hamletmaschine.
Che non c’è un oltre, nella storia degli uomini come nella scrittura, è chiaro, a meno di non pensarlo come un regresso, forse, come sosteneva un Pasolini senza nostalgie, un regresso da scegliere: Storia, fa che facciamo ancora un altro sbaglio...
Ma come si torna indietro? O come si resiste alla attualità terribile di Hamletmaschine?
Credo che qui stia il punto, e a Gàmbula riesce questo momento pratico che è qualcosa di più di una messa in scena.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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