ateatro 65.10
08/03/2004 
Le voci e i personaggi
Suggestioni teoriche dal «caso Paravidino»
di Concetta D’Angeli
 

I testi di Fausto Paravidino, a prescindere dai loro meriti artistici, contengono numerosi motivi di interesse e di riflessione per chi voglia occuparsi di strategie drammaturgiche, oltre che delle attuali tendenze della scrittura teatrale in Italia.
Una caratteristica che colpisce alla prima lettura è che si tratta di testi con una struttura complessa: pur attraverso la molteplicità delle soluzioni trovate, è evidente che in primo piano stanno sia il problema dell’architettura testuale sia il problema della gestione del tempo, e cioè i nodi coi quali la drammaturgia teatrale ha dovuto fare i conti da Aristotele in giù. Paravidino infatti non sceglie la destrutturazione del testo drammatico né la soluzione epico-narrativa del racconto affidato a una sola voce narrante. Con le sue prime opere, Trinciapollo1 e Gabriele, si mette anzi dentro il solco della tradizione classica, a cominciare dalla scelta di riproporre la divisione in atti. E’ una presa di posizione significativa soprattutto per quanto riguarda l’amministrazione del tempo teatrale, che all’inizio egli sceglie di mostrare secondo una scansione lineare e progressiva, anche in questo caso facendo propria l’eredità della tradizione drammaturgica. La vicenda rappresentata si sviluppa dunque lungo un asse unidirezionale, ed è lo stesso dinamismo temporale a imprimerle un movimento capace di trascinarne l’evoluzione, di farla procedere e produrne lo sviluppo.
Con le opere successive la scrittura di Paravidino manifesta, anche sul piano della organizzazione strutturale, quella tendenza alla sperimentazione che Franco Quadri sottolinea come una proprietà caratteristica del giovane autore: è la volontà di «cimentarsi a ogni nuova prova con un diverso genere, non per una scommessa ma per il bisogno di spaziare tra i molti modi di drammaturgia praticabili».2 E infatti con Due fratelli e La malattia della famiglia M l’organizzazione in atti viene abbandonata e la materia drammaturgica strutturata in tableaux; è a questi ultimi che viene anche affidato il compito di scandire la successione temporale della storia. In Due fratelli, in particolare, il tempo viene misurato in modo perfino pignolo, con una sottolineatura grottesca e assurda dell’ora e del minuto esatto in cui ogni singolo quadro si apre.
Risulta insomma evidente la preoccupazione di governare il grosso problema drammaturgico e strutturale che in teatro è costituito dal tempo. E poiché Paravidino àncora fortemente le vicende al tempo che le contiene e imprime loro una progressione che le fa avanzare proprio sfruttando il dinamismo che la linearità temporale produce, ne consegue che il tempo si impone come nucleo e forza di tensione, e come centralità organizzativa dei suoi primi testi.
La clamorosa variazione strutturale introdotta con Natura morta in un fosso sposta l’asse drammatico sulla vicenda in sé: l’assassinio di una ragazza, il «caso» poliziesco da risolvere, la normalità di una famiglia in apparenza serena che si ribalta in tragedia e svela la corruzione che la corrodeva sono gli argomenti di questo dramma, ma la loro collocazione avviene non più mettendo l’accento sulla dinamica temporale della storia quanto piuttosto costruendo un intreccio di voci, una alternanza e una giustapposizione di parole provenienti da parlanti diversi, che consentono alla vicenda di procedere fino allo scioglimento finale. Con lo stesso principio funziona anche Genova 01, dove però la ricostruzione delle giornate del luglio 2001, in cui si svolse il funesto G8 genovese, abbandona il taglio investigativo che, coerentemente con il genere d’appartenenza, il «giallo» cioè, caratterizzava Natura morta, e assume un andamento epico, attraversato da forti esigenze di musicalità. I personaggi ai quali è affidato il racconto di Natura morta mantengono la proprietà di personaggi anche quando, privi di struttura psichica individuale e definita, risultano dotati solo di generiche caratterizzazioni di parlanti. Ma in Genova 01 scompaiono pure gli indistinti parlanti di Natura morta, e le frasi vengono pronunciate senza alcuna apparente mediazione antropomorfica. D’altra parte si introduce di nuovo la scansione temporale, alla quale, oltre che al ritmo e alla musicalità delle parole, viene affidata la progressione della storia. Anche in questo caso la scrittura drammaturgica rispetta il genere nel quale il testo si colloca: perché di fatto Genova 01 potrebbe abbastanza correttamente definirsi un documento storico drammatizzato.
E’ molto importante anche notare che l’attenzione strutturale dimostrata finora da Paravidino vada controcorrente rispetto alla tendenza al monologo, che pare imporsi da più parti nella drammaturgia contemporanea. Propendo a mettere questa proprietà della scrittura di Paravidino in relazione con la sua pratica teatrale e con la sua formazione professionale. Il fatto è che egli scrive per una compagnia, e non per il singolo attore: una posizione abbastanza singolare nella drammaturgia italiana attuale, e piuttosto arcaica in un panorama, quale è quello del nostro teatro contemporaneo, caratterizzato da forte individualismo. Perciò non mi sembra azzardato, per l’interesse che Paravidino porta alla struttura drammaturgica come riflesso e esito dell’attenzione alla vita collettiva delle compagnie teatrali, trovare riferimenti in un modello di produzione teatrale molto antico, anzi fondante della tradizione drammaturgica italiana: quello di Carlo Goldoni che scrive «su misura» per gli attori della compagnia di Medebach. Questo non significa soltanto che Paravidino non è un drammaturgo che scrive da intellettuale («uomo di libro» direbbe Ferdinando Taviani3), al suo tavolo da lavoro e senza contatti ravvicinati con tutti coloro, attori e tecnici del teatro, ai quali è affidato il compito della messinscena. Da come scrive, si vede bene che Paravidino vive quotidianamente all’interno del teatro, ne pratica la routine, ne sperimenta i problemi concreti, le difficoltà tecniche, le esperienze di tutti i giorni. E’ insomma la socialità e la materialità della vita teatrale quella che sottostà alla sua operazione drammaturgica e spesso anche quella che sostanzia il territorio di riferimento di molti dei suoi testi: per i quali sarebbe certo inesatto parlare di autobiografismo ma che indubbiamente si riferiscono a momenti condivisi d’ambito teatrale, dove l’amicizia e la professione d’attore, la realtà delle esperienze esistenziali e l’ambiguo gioco della finzione teatrale si mescolano in pari misura, diventando frammenti di vita vissuta non meno che elementi di finzione, di spettacolo e di recitazione.

Della complessità costruttiva dei testi di Paravidino fa parte anche il fatto che essi sono multivocali. Le voci che vi si intrecciano appartengono, come succede nelle prime opere, a personaggi veri e propri, dotati di una qualche identità psichica e portatori di una storia; ma sono anche soltanto voci, anonime, ognuna delle quali contribuisce, strutturandosi in una relazione polifonica, a narrare una vicenda e a farne procedere gli eventi. Questo secondo caso potrebbe manifestare confusioni con il monologo, soprattutto se si pensa ai monologhi strutturati sull’esempio della affabulazione popolare. Qui la voce del narratore (e nella messinscena il singolo attore) ingloba le voci di diversi personaggi – ed è adesso secondario valutare se si tratti di voci che esprimono personaggi potenziali, e cioè personaggi che potrebbero trovare un vero e proprio sviluppo in una drammaturgia più articolata, oppure di voci che sono riprodotte soltanto all’interno della voce narrante. Ma mi pare che proprio le ragioni e le caratteristiche del narrare, quelle insomma che sostengono l’andamento del monologo, siano escluse dai testi di Paravidino; i quali, anche quando assumono un apparente andamento monologico, mantengono una forte appartenenza teatrale, fatta di diversi ingredienti: dalla tensione temporale alla efficacia ritmica del dialogo, dalla velocità nella successione delle azioni ai tagli nei quali la storia si frammenta. Tutte queste caratteristiche rendono le opere di Paravidino lontanissime dal procedere narrativo o argomentativo del monologo, e dalla centralità descrittiva che del monologo è caratteristica e proprietà principale.

Ho parlato finora, alternativamente, di voci e di personaggi; ma mi pare il caso di fermarsi e tentare di sciogliere l’ambiguità. E’ vero che i «personaggi» di Paravidino hanno uno statuto ambiguo, fondato sul fatto che sono privi di una spiccata identità psichica che non sia quella referenziale, almeno per quanto riguarda i primi testi: penso soprattutto ai personaggi di Gabriele, che portano i nomi degli attori dai quali sono interpretati e che, con tutta verosimiglianza, li hanno ispirati e dei quali probabilmente conservano le caratteristiche interiori. Ma appunto si tratta di riflessi della realtà, dove la referenzialità ha uno spessore riconoscibile e dominante, e non di creature di finzione che possiedono autonomia e forza psichica. Aggiungo che l’ambiguità dello statuto psichico di questi personaggi così connotati permette l’attivazione di un gioco metateatrale, che trova la sua profonda ragion d’essere non tanto nella volontà sperimentale dell’autore e nemmeno, io credo, in un virtuosistico e divertente gioco di dentro/fuori il teatro, ma proprio nelle caratteristiche culturali, sociali e antropologiche della scrittura di Paravidino, in quel suo attingere dalla quotidianità e dalla materialità della vita teatrale, nelle quali sopra identificavo una forte caratterizzazione della sua scrittura.
Da questo punto di partenza, così fortemente autoreferenziale, si arriva agli ultimi testi, per le cui voci sarebbe improprio parlare di personaggi: si tratta, semmai, di grumi di storie, che trovano una identità riconoscibile e forte nelle istanze verbali da cui sono espresse, come succede in Natura morta; oppure si tratta del rifiuto della convenzionalità che prescrive di ricorrere alla mediazione dei personaggi, come succede in Genova 01, dove la storia è espressa da voci che rinunciano a qualsiasi caratterizzazione psichica.
Anche a proposito dei personaggi, dunque, bisogna riconoscere in Paravidino un atteggiamento sperimentale e sempre pronto all’assunzione di modalità rappresentative nuove; il che non esclude fasi in cui aspetti superati dalla sperimentazione precedente vengono riesumati e riproposti, eventualmente con l’aggiunta di variazioni e modifiche. Così avviene con i personaggi, «normali» in termini di teatralità, e cioè autosufficienti e caratterizzati psicologicamente, di Due fratelli e La malattia della famiglia M: due drammi che sono anche studi d’ambiente e riservano una grande attenzione al contesto in cui i personaggi si collocano. Ne consegue che i personaggi siano anche espressioni del loro ambiente, coerenti con l’ambiente che li produce e li alimenta, e dunque acquistino una autonomia di cui i personaggi autoreferenziali non possono essere dotati. E’ in sostanza l’ambiente, cioè il luogo fisico, che fornisce loro la storia di cui sono portatori: la casa asfittica e assimilabile all’universo concentrazionario di Due fratelli, produttrice di una malattia mentale che cova già nella simbiosi proiettiva e nevrotica che unisce i protagonisti maschili; il paesotto nel quale si svolge la vicenda di La malattia della famiglia M, descritto in una didascalia insolitamente lunga e ricca di particolari.

Anche in Italia, come nel Far West, ci sono piccoli centri abitati che si sviluppano interamente ai lati di importanti strade statali. La caratteristica di questi luoghi è il limite dei 50 all’ora su strada dritta, limitazione inspiegabile per il viaggiatore che consideri tali località solo come un intralcio o un ristoro nella sua primaria esigenza di spostarsi da un posto a un altro posto.
Le principali risorse economiche di siffatti paesi sembrerebbero pertanto il bar del camionista e la pompa di benzina, ma a osservare meglio si scopre che tali risorse sono affiancate anche da agricoltura, allevamento e persone.
In uno di questi luoghi è ambientata la nostra vicenda... 4


L’incardinamento con i luoghi è sia un modo per dare concretezza alle vicende e ai personaggi, sia per definire in termini sociologici e storici le storie rappresentate e collocarle in una cornice che non solo le contenga ma anche fornisca loro prospettiva storica e sociale. I luoghi di Paravidino non sono soltanto l’ambientazione delle vicende, ma sono evocativi di interi panorami socio-antropologici e storici: costituiscono perciò, in qualche modo, anche l’antefatto di ognuna delle vicende rappresentate e le collocano in modo così definito da rendere superfluo qualunque chiarimento, di quelli che di norma la scrittura drammatica affida al prologo o ai dialoghi iniziali dei personaggi.
Proprio perché i luoghi sono tanto esplicitamente caratterizzati è possibile per l’autore adottare, anche a teatro, i tableux di ascendenza cinematografica; ma nel trasferimento teatrale, questi ultimi potrebbero risultare inconsistenti e poco chiari, se i luoghi stessi non fossero significativi di per sé. In tal senso i luoghi di Paravidino risultano molto prossimi al concetto di «situazione» proposto da Jean Paul Sartre: anche questi luoghi infatti predispongono a determinate azioni, orientano le attese del pubblico e favoriscono e in alcuni casi determinano sia la definizione della psicologia dei personaggi (quando esiste) sia la successione dei loro atti.
C’è da notare un progressivo ampliarsi dei luoghi che accolgono le azioni: all’inizio l’ambientazione si limita a una sola stanza, che è prevalentemente la cucina, il consueto ambiente di aggregazione delle case povere oppure delle case in cui convivono giovani amici: qui è normale che tutti i personaggi si incontrino con facilità ed è naturale che tutti entrino e escano frequentemente. L’annoso problema dell’unità di spazio, la difficoltà tecnica di cambiare luogo in relazione alla progressione della storia, viene così felicemente risolto, con una naturalezza che contribuisce non poco alla fluidità e al ritmo agile di questi testi d’esordio. Il rischio della ripetitività e del manierismo genera una apertura spaziale verso l’esterno, che si configura nel «paese del Far West», anch’esso dotato di caratteristiche sociologiche e economiche molto definite e tali da costituire una cornice immediatamente esplicativa e sufficientemente ricca e dinamica da funzionare come «situazione».
Più rischioso è individuare l’ambientazione di Natura morta, perché essa in apparenza manca; ma l’intreccio delle voci non tarda molto a disegnare un luogo che ha molti elementi di contatto con il paese della Malattia della famiglia M, per la violenza di cui è carico, la mancanza di valori degli abitanti, la solitudine e l’impossibilità della comunicazione, il benessere economico come occasione non di maggiore civilizzazione ma anzi di imbarbarimento, l’ipocrisia nascosta dai buoni sentimenti o dalla prevaricazione delle ideologie.
E proseguendo nella slargatura ambientale s’arriva a Genova 01: che è, sì, la grande città e inoltre la sede del forum dei potenti della terra, eco dunque della violenza mondiale e delle grandi discriminazioni sociali e economiche, ma ha ormai acquistato anche una valenza simbolica, che Paravidino definisce con molta efficacia: «Genova era una città e nonostante tutto lo è ancora, ma in più è diventata un luogo della mente».5 Proprio perché è diventato luogo della mente, collocabile in uno spazio ideale che non coincide con nessun luogo fisico definito, esso può coincidere anche con il teatro, che tradizionalmente si identifica con il luogo della finzione: l’azione di Genova 01 infatti, come la didascalia reclama asciuttamente, si svolge in teatro, con personaggi incapaci di assumere lo statuto di personaggi teatrali perché sono ancora troppo persone, e perciò sono semplici voci, evocanti luoghi, storie, personaggi possibili, azioni che non avvengono materialmente ma che vengono soltanto raccontate dalle voci che si intrecciano.
Della ambientazione, e dunque della messa in situazione di personaggi e storie, fa parte anche il linguaggio verbale: la centralità della parola caratterizza la drammaturgia di Paravidino, ed è una parola molto agile, assai poco letteraria perché esemplata sul parlato, soprattutto quello dei ragazzi. Ma sarebbe fare un torto all’autore appiattire tutto il suo linguaggio drammatico sul modello della comunicazione giovanile, anche se essa è indubbiamente il suo punto di partenza e anche la riserva alla quale attingere. Da questa origine la lingua che Paravidino usa nella scrittura teatrale ricava la sua terminologia, le strutture sintattiche sempre approssimative e improprie, incapaci di rendere esatto conto dei pensieri e dei sentimenti che vorrebbero esprimere, l’ampio spazio riservato al turpiloquio e soprattutto il ritmo spezzato e rapido del dialogo. Ma da questo punto di partenza, che resta comunque un dato costante e mai accantonato anche nelle fasi successive, il linguaggio teatrale di Paravidino si arricchisce più tardi di altre proprietà. Con La malattia della famiglia M vengono messi in azione personaggi più maturi (il padre Luigi) e più colti (il Dottore), che reclamano di conseguenza un tipo di espressività più lenta e argomentativa, più sofisticata e insieme più esplicita nell’enunciazione, più capace di articolare il pensiero. Quanto a Genova 01, l’assenza di personificazione e la necessità di sostenere il ritmo epico producono un linguaggio fatto di diverse componenti e che, accanto al mantenimento delle consuete modalità espressive quotidiane e «parlate», assume modi della scrittura colta, che si tratti di stilemi giornalistici o dell’oggettività denotativa propria del racconto storico o delle citazioni pasoliniane, fino ad accogliere alcuni squarci esplicitamente lirici.

Paravidino addita soprattutto due padri per la sua scrittura drammaturgica: Harold Pinter e Samuel Beckett. Sono abbastanza trasparenti, e numerosi, i punti d’influenza che essi esercitano sulla sua opera, ma a me interessa additarne in particolare alcuni, che trovo significativi per la mia analisi: in primo luogo la particolare modalità con la quale il comico e il tragico si contaminano nelle opere teatrali. Le situazioni messe in scena da Paravidino riguardano sempre le dimensioni conflittuali dell’esistenza, sia che raccontino le crisi giovanili davanti al sesso, alle prospettive del futuro esistenziale e del lavoro, alla paternità, sia che rappresentino la violenza di piccoli centri urbani arricchiti economicamente ma poveri di spiritualità, sia che descrivano le grandi tensioni storiche e l’affermarsi prevaricatorio e sanguinoso del potere. Spesso questi racconti sono esplicitamente tragici; e tuttavia ospitano sempre una dimensione comica, che per lo più si annida nel linguaggio, a volte nel voluto impaccio dell’espressione che si affanna, senza riuscirci, a rappresentare adeguatamente la situazione oppure in un umorismo più sofisticato, nell’ironia amara, per esempio, con la quale a tratti prende vita il racconto dei fatti di Genova. La centralità della parola e l’uso aspro del linguaggio, che copre e svela insieme la sostanza tragica che ne è l’oggetto, sono tratti stilistici che i due «padri» sopra citati manifestano diffusamente. A essi mi pare che possa esser fatta risalire anche la sperimentazione formale, con l’uso abilmente disordinato della successione temporale e con dislocazioni stranianti che arrivano, come succede in Beckett, alla completa messa in discussione degli stessi concetti di spazio e di tempo; e così pure la creazione di personaggi che non hanno alcuna sostanza psichica ma che, forse proprio per questa loro particolarità, si prestano a diventare modelli universali.
E’ d’altra parte la propensione alla sperimentazione l’aspetto che forse maggiormente lega Paravidino ai suoi modelli, almeno nelle intenzioni da cui quella sperimentazione è mossa, e cioè la volontà di riconsiderare in termini di drammaturgia le categorie che strutturano il testo e l’universo teatrali: le proprietà dei personaggi, lo spazio, la successione temporale delle azioni. In questa riflessione e nelle proposte del giovane drammaturgo, accanto all esempio dei suoi «padri» culturali, c’è anche la forte suggestione del cinema, nel quale pure Paravidino lavora: le tecniche cinematografiche vengono largamente adottate nell’opera di rivisitazione dei nuclei fondanti della struttura teatrale. L’intelligenza di Paravidino consiste non nell’importarle direttamente nella trasposizione teatrale, ma nel trovarne una specie di traduzione, che in molti casi risulta abile e persuasiva: penso all’operazione di destrutturazione della sequenza temporale in Natura morta, e al suo rimontaggio, che mira a creare un nuovo punto di tensione, al di fuori della direzionalità temporale. Penso all’utilizzo della tecnica del flash-back in La malattia della famiglia M, per portare in primo piano e a livello di azione fruibile nel presente ciò che è avvenuto prima o avviene a lato della vicenda principale, ottenendo così il risultato di scompaginare la successione ordinata e lineare del tempo consuetudinario in teatro.
La conseguenza complessiva è di iniettare linfa vitale nella struttura e nel linguaggio teatrali, di ottenerne insomma una specie di svecchiamento: che non è certo operazione risolutiva, ma è in grado di arricchire le risorse tecniche del teatro e di introdurre mobilità nel suo linguaggio.

Dalla mia analisi è rimasto completamente fuori un testo, fra quelli compresi nel volume di Ubulibri, Noccioline. Si tratta di un’opera molto singolare, difficilmente assimilabile agli altri: a me sembra quasi un testo didattico, in senso brechtiano. Anch’esso legato alla forte emozione umana e politica prodotta dai fatti di Genova del G8, racconta come progressivamente si impone una struttura di potere assoluto, come le timidezze o le prepotenze caratteriali dei singoli si possano tradurre in meccanismi collettivi, trasformando i timidi in oppressi o in servi passivi, e i prepotenti in gestori tirannici del potere. Ma devo precisare, sebbene io abbia accennato al carattere dei personaggi, che questi ultimi sono qui, come in altre opere di Paravidino, del tutto privi di proprietà psichiche: sono piuttosto istanze politico-sociologiche personificate nell’azione teatrale. Le interrelazioni, come pure l’esile vicenda drammatica che dalle loro interrelazioni si sviluppa hanno il sapore di un apologo, con un forte taglio politico: il riferimento all’ultimo Pinter è evidente ma, al di là delle intenzionalità dell’autore, non mi pare fuori luogo nemmeno il richiamo a Brecht, modello attualmente fuorimoda, ma che sarebbe il caso di ripensare e ri-valorizzare, per ragioni sia strettamente teatrali, dal momento che non di tutte le copiose proposte di Brecht il teatro del Novecento si è saputo giovare, sia più latamente politiche.
Se non è infondato il legame, almeno di genere, che io rintraccio fra un grande maestro, messo adesso un po’ in soffitta, e un giovane drammaturgo attualmente molto apprezzato, questo mi appare un titolo di merito da attribuire a Fausto Paravidino. Ed è un merito rafforzato dall’occasione che ha prodotto l’apologo teatrale: l’indignazione politica e la commozione etica che si sono accompagnati ai fatti di Genova. Alcuni prodotti culturali che ne sono stati ispirati, e tra questi certamente i due testi di Paravidino che chiudono il volume di Ubulibri, hanno avuto la capacità sia di recuperare, legandola ai fatti politici, vitalità creativa e intellettuale, sia di corredare tale creatività con una propositività sperimentale che sviluppa in direzioni stimolanti le proposte innovative dei maestri del teatro novecentesco.


NOTE

1 Trinciapollo è la prima opera teatrale di Paravidino, che però non compare nel volume Fausto Paravidino, Teatro, Milano, Ubulibri, 2002, dal quale è stata estromessa, come dichiara l’autore, per ragioni occasionali. Il testo è stato pubblicato in «Sipario»

2 Franco Quadri, Il caso Paravidino ovvero quando il teatro italiano scopre un vero autore a 20 anni, in Fausto Paravidino, op. cit., p. 10.

3 Mi riferisco al volume di Ferdinando Taviani, Uomini di scena, uomini di libro, Bologna, Il Mulino, 1995.

4 Fausto Paravidino, op. cit., p. 101. Questa didascalia appare con evidenza il nucleo del soggetto cinematografico del quale Paravidino parla nell’intervista.

5 Fausto Paravidino, op. cit., p. 222.


 
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