ateatro 71.30
11/07/2004 
3 funerali e 8 sacchetti
Un week end teatrale
di Oliviero Ponte di Pino
 

Mentre ascolto e riascolto l’ultimo disco di PJ Harvey (e intanto ripenso al concerto di Patty Smith al Dall’Ara di Bologna, troppi anni fa, e penso che forse Patty è stata – per dirla con Umberto Eco – una mia possibile Regina Loana) cerco di rimettere ordine nei ricordi e nelle idee di un intenso week end teatrale.

Tanto per cominciare, il Grand Guignol di Massimiliano Civica, che gira moltissimo nei festival di questa estate (da Polverigi a Santarcangelo a Castiglioncello) ed è dunque inevitabile. Il giovane regista è andato a ripescare i vecchi e dimenticati copioni di una compagnia specializzata nel genere (quella dell’attore e capocomico Alfredo Sainati), ne ha scelti tre e li ha messi in scena con un quartetto d’attori (tutti maschi anche per le parti femminili: Andrea Cosentino, Mirko Feliziani, Antonio Tagliarini, Daniele Timpano). L’allestimento è di spoglio rigore: una sedia, e una canzone di Nick Cave a spezzare il trittico.



La recitazione è uno studio sulla maschera neutra: fredda, scandita, straniata, proprio all’opposto di quello che sembrerebbero richiedere i testi, che rievocano tre truci fatti di cronaca, doverosamente sanguinolenti. I sentimenti, così come le emozioni, sono rigorosamente banditi, in un ferreo esercizio di autocontrollo. Da parte dello spettatore, l’esercizio dovrebbe essere simmetrico: a partire dall’asciuttezza dell’interpretazione, dovrebbe lavorare di fantasia per ricostruire contesto ed emozioni. Potrebbe avvertire in trasparenza echi di Brecht (magari nella critica sociale implicita nel primo pezzo, sulle vessazioni di una donna a opera del marito geloso, oltre che nella pratica recitativa che esaspera il distacco tra attore e personaggio) e forse addirittura di Genet (nell’episodio del secondino che tradisce e uccide la carcerata-amante), ma quello che resta è una operazione tutta culturale, un po’ fredda e alla fine accademica. Ma forse si tratta, dopo aver raggelato il desiderio, di raggelare anche la pulsione (o l’angoscia) della morte.

Der Familienrat (ovvero Il consiglio di famiglia) di Nico and the Navigators, giovane compagnia indipendente berlinese diretta da Nicola Hümpel (Lubecca, 1967), è il pezzo forte di questa edizione di Inteatro. Affronta in chiave di disagio adolescenziale l’infernale microcosmo della famiglia (come da titolo): è uno sguardo freddo, che si applica a disarticolare metodicamente le piccole miserie quotidiane.



Qui il desiderio pare circolare con maggiore libertà (anche se con scarsa passionalità), ma è destinato a restare insoddisfatto. Infiamma ma non brucia, in una danza leggera di provocazioni e frustrazioni, attraverso l’allusione a un florilegio di divertiti simboli e metafore sessuali.



Di qui nasce una comicità accennata e stralunata, con corpi ridotti a manichini (e abiti di colori vibranti), che spesso risultano inadeguati nel contatto con l’oggetto (per non parlare dell’Altro, con cui il contatto resta di fatto impossibile, in un intreccio di solitudini che possono solo rispecchiarsi senza incontrasi). Der Familienrat si offre come il sintomo di un disagio, che però alla lunga rischia di apparire ripetitivo, costretto a girare su se stesso, senza sbocco possibile, né catartico né catastrofico. Così la risata non risulta mai liberatoria: resta un sorriso, o si gela subito in un ghigno.

L’ospite dei Motus è con ogni probabilità uno degli spettacoli più interessanti e importanti dell’estate (e non solo): in questo ambizioso lavoro il gruppo riminese – in un serrato confronto-contrasto con Teorema, il romanzo-film sull’implosione della borghesia di Pier Paolo Pasolini – ha coraggiosamente rimesso in discussione la propria filosofia della rappresentazione (e allo spettacolo dedichiamo non a caso in questo ateatro un piccolo speciale). Nei loro precedenti lavori, fino alla complessità tecnologica ma soprattutto narrativa e prospettica di Twin Rooms, Daniela Nicolò e Enrico Casagrande avevano risolto il problema della rappresentabilità della realtà post-moderna usando la chiave dell’intertestualità, facendo interagire e stratificando testi e media diversi e costruendo il senso negli scarti e nelle frizioni reciproci.
Anche nel caso dell’Ospite (che è stato allestito e ha debuttato a Rennes, per poi approdare per poche repliche estive al Teatro della Regina di Cattolica per Santarcangelo dei Teatri), il metodo è rimasto, almeno all’inizio, lo stesso. Così ecco da un lato intrecciarsi per frammenti diversi testi pasoliniani: oltre a Teorema, naturalmente, Petrolio e la sceneggiatura del film mai girato su san Paolo, per portare soprattutto l’apertura verso il deserto, la deriva l’altrove della solitudine. E sulla scena, un intreccio di parole scritte, di immagini filmate e di corpi. Le proiezioni all’inizio si limitano, con immagini e didascalie testuali, al velario che chiude il boccascena, oltre il quale si iniziano a intravedere i corpi degli attori. Poi la prospettiva si apre.


Foto di Laura Arlotti.

Sui tre schermi che chiudono da altrettanti lati la scatola magica del palcoscenico si crea l’illusione di uno spazio tridimensionale, dove campeggiano soprattutto la facciata e la lussuosa villa dove si svolge il plot, mentre gli attori – in un gioco virtuosisticamente illusionistico – si muovono di fronte a questo fondale, interagendo tra loro e con i loro doppi cinematografici. Pasolinianamente (e teatralmente) è il corpo – con la sua fisicità e la sua sessualità, con la «vera presenza» dell’attore – a interferire con l’ordine cinematografico e far saltare il perfetto meccanismo del discorso e della rappresentazione. Così come in Teorema anche sulla scena di questo spettacolo l’Ospite, con la sua sessualità perturbante, scatena il desiderio nell’interno familiare in cui si incastona provvisoriamente.
Per rappresentare l’universo borghese (e dunque moderno) dove si svolge la vicenda, questa macchine multimediale e intertestuale pare funzionare alla perfezione, riconducendo i vari protagonisti alla loro identità, attraverso brevi schede descrittive e le diverse modalità del loro incontro con l’Ospite e con il desiderio. Pare addirittura accettare la sovversione di questo intruso, e le sue scosse carnali.
A rompere questo ordine pare piuttosto l’irrompere della storia in una vicenda che pare tutta privata. Teorema, libro e film, sono datati non a caso 1968. E il fatidico ’68, ma anche le stragi, da piazza Fontana in poi, dimostrano che è impossibile ricondurre la rappresentazione all’interno di queste coordinate: lo spazio illusionistico esplode, si disarticola, si svuota. Restano i corpi che lo attraversano, in una fuga senza direzione. Restano gli oltraggi: l’asta della bandiera italiana spezzata, l’attore che defeca in proscenio, una violenza mortifera che esplode da ogni dove... (E’ una scena che mi ha ricordato gli spettacoli "esplosi" del Teatro di Marigliano di Leo e Perla, che quella crisi vissero e interpretarono poeticamente. E alla fine i funerali, il pugno di terra che ricopre il cadavere: è la morte di un mondo, di un ordine, di una possibilità di rappresentare il reale, quella di cui si fa carico l’ospite. Fino a un azzeramento totale, che può solo segnare un nuovo inizio.


Foto di Laura Arlotti.

(va aggiunto che un altro funerale, e alcuni degli stessi segni, tornano anche in un altro spettacolo pasoliniano di Santarcangelo, P.P.P. Patetica Performance Popolare dei senesi La Lut di Andrea Carnevale, Filippo De Dominicis, Ivo Grande e Marta Mantovani, che si misurano in chiave sgangherata e ingenua su alcune figure pasoliniane.)
Un altro funerale dà inizio alla nuova esperienza del Teatro delle Ariette, ennesima variazione su temi pasoliniani. Per L’estate. Fine le Ariette hanno compiuto un gesto esemplare (che fa il paio con un altro gesto esemplare di questa edizione di Santarcangelo dei Teatri, la fusione di una campana stile Andrei Rublëv da parte dei Masque in Davai). Per mesi hanno coltivato un campo, poco fuori dal paese, costruendo una sorta di teatro di verzura che ricorda quelli delle ville rinascimentali: ma nell’occasione le quinte non sono siepi ben potate, ma un labirinto di mais e le aiole degli ortaggi – zucchine, cipolle, carote, porri, pomodori – che verranno cucinati e offerti alla fine di questo spettacoli-incontro, secondo il format spettacolar-gastronomico messo a punto in questi anni dal gruppo bolognese. Ed è bellissima e toccante l’idea di costruire questo «teatro naturale», effimero e vivo come uno spettacolo, spazio di accoglienza e nutrimento, che allo stesso tempo riverbera il tema del lavoro che ospita.



Perché L’estate. Fine è – si diceva – anche un funerale, con tanto di camera ardente, condoglianze sull’aia e corteo verso, appunto, questo insieme naturale e teatrale. E’ un funerale che celebra la morte della natura, che dopo aver dato i suoi frutti si avvia all’autunno. Ed è anche, al tempo stesso, un memoriale dedicato alla morte della madre di Paola, in quell’intreccio tra l’intimità dell’autobiografia e la dimensione pubblica dello spettacolo che è il contrappunto e l’indispensabile complemento dell’intreccio tra cibo e teatro intorno a cui è fondato il lavoro delle Ariette (senza dimenticare l’importanza della dimensione autobiografica nel modo di essere poeta di Pasolini). Sono segni minimi quelli cui si affida la comunicazione: qualche frammento pasoliniano, un imbonitore che arringa il pubblico come a una sagra paesana, un pacchetto di radiografie mostrate come una volta le fotografie degli animali della fattoria, e alla fine Orietta Berti che intona l’immancabile Romagna mia...
Ma si è persa, in questo «funerale naturale», dove lo spettacolo è ridotto al minimo, come imploso, la dimensione della speranza, e addirittura quella della potenza biologica della natura, con il suo ciclo di morte e rinascita. Una fine, appunto, un punto di non ritorno. Da cui ricominciare ancora una volta da zero.

Quello che emerge da questi spettacoli è un mondo immerso nella sua immanenza, tra storia e natura. Un mondo dove la morte è un dato di fatto, frutto inevitabile di un determinismo che non prevede gradi di libertà, ma solo cupa necessità, e dunque dove la dimensione tragica non può trovare spazio. A una dimensione trascendente e alla tragedia, fin dal titolo, si rifanno invece i Sacchi di Sabbia con Tràgos. Mentre sullo schermo del televisore volteggiano Ginger Rogers e Fred Astaire, educatamente seduti sul divano due sosia vestiti con la loro stessa eleganza (Giovanni Guerrieri e Giulia Gallo) li osservano mangiando distrattamente e rumorosamente le patatine che estraggono e masticano dai rispettivi sacchetti.



Finché non entra in scena accanto a loro un’altra strana coppia, ugualmente muta ma legata in un costante dialogo di azioni e reazioni: un ragazzo (Enzo Illiano) seguito da un santo in tunica e regolamentare aureola, con tanto di piedistallo con cassetta per le offerte (Gabriele Carli). La prima coppia si misura beffardamente con l’estetica, contrapponendo la leggerezza della danza sul piccolo schermo all’immobile ottusità dei due spettatori-attori che li osservano. La seconda mette in scena un teatrino grottesco di miracoli evocati e rifiutati, richiesti e negati, di dispetti e ripicche.

(Ed è curioso che un altro spettacolo che parla di santi e miracoli, Endless medication del giovanissimo duo femminile belga Buelens Paulina, scelga anch’esso la strada di una comicità di taglio dissacrante e più decisamente clownesco: come se oggi l’unica misura per la trascendenza fosse l’ironia, uno sguardo obliquo, l’unico strumento per maneggiare in qualche modo il desiderio e la speranza oltre la desolazione disperata del reale.)

Ancora sacchetti – in un curioso inseguirsi di metafore – nell’assolo del giovane portoghese Tiago Guedes. In una performance di surreale rigore, gioca a costruire e distruggere la propria identità con sei sacchetti di carta, dai quali estrae pochi oggetti o che usa per disegnare semplici geroglifici. Leggerezza e ironia, in apparenza, ma solo per nascondere meglio un dolore e una disperazione che corrono sottopelle e diventano cattiveria godibile e intelligente.


 
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