ateatro 79.5
28/12/2004 
Il critico e il professore
Alcune considerazioni a margine sulla cultura del teatro e sulla sua storia recente in Italia
di Oliviero Ponte di Pino
 

La cultura e la documentazione del teatro – due aspetti strettamente connessi – hanno diverse articolazioni. Proviamo a tracciare un modello, che parte da un postulato implicito, quello della centralità dello spettacolo.
Esistono anche altri schemi, per esempio quelli che partono dalla storia delle istituzioni teatrali o dei testi drammatici, ma spero che risulterà chiaro perché – in questa analisi tutta sbilanciata sull’attualità – ho privilegiato questo approccio.


Una autopsia del teatro?

In principio ci sarebbero gli spettacoli – i fatti atomici, in questo abbozzo di Tractatus logico-theatralis – che però vivono solo come labili memorie nel singolo spettatore. Per lasciare una traccia, per diventare memoria condivisa, questo ricordo dev’essere tradotto in un altro linguaggio: parole, immagini pittoriche o fotografiche, immagini in movimento, grafici, suoni...
Per documentare e ricostruire uno spettacolo – e dunque la storia del teatro, anche se sappiamo bene che non è solo storia degli spettacoli – disponiamo di una ampia serie di materiali testuali, visuali, audio e audiovisivi.
In primo luogo troviamo la gamma di testi e paratesti prodotti direttamente dagli artisti: a cominciare dal copione, se esiste un testo; poi dichiarazioni di poetica, note e quaderni di regia, bozzetti di scene e costumi, partiture, e ancora programmi di sala, locandine, libri, dischi, fotografie, video, cd-rom, dvd, eccetera; inoltre lettere, autobiografie, diari e memorie di vario genere, e ancora contratti, statuti, materiale amministrativo e contabile... Tutto materiale da maneggiare con grande cura, ben sapendo che tra le intenzioni e il risultato può esserci una discrepanza, e che spesso l’immagine che vogliamo dare di noi stessi non corrisponde esattamente a ciò che siamo: e questo vale a maggior ragione per chi ha fatto della finzione scenica la propria ragione di vita.
In secondo luogo ci sono le testimonianze dirette degli spettatori: insomma, tutto il versante «giornalistico», nella doppia accezione di informazione (le interviste sulla carta stampata, in primo luogo, ma anche i servizi radiotelevisivi) e di critica (con la «forma recensione», innanzitutto). A questa ampia categoria di «testimonianze dirette», con una indubbia forzatura, si potrebbero ascrivere tutte le tracce lasciate da spettatori più o meno eccellenti e preparati, ma anche i quadri, le stampe e le immagini fotografiche che hanno accompagnato, nella storia del teatro, soprattutto gli attori, ma anche, forzando ulteriormente, le pitture vascolari, gli affreschi, i dipinti e le sculture in qualche modo ispirati da una visione diretta di un evento teatrale. Anche in questo caso, il materiale va maneggiato con precauzione: ciascuno di noi vede attraverso mille filtri culturali, storici, ideologici, porta con sé mille pregiudizi, vuole lanciare messaggi...
A metà strada tra la «testimonianza diretta» e la ricostruzione storica, come possibile spazio di mediazione e incontro, troveremmo, procedendo secondo questa direttrice, l’ampio spettro delle riviste, dal quelle più «popolari», ricche soprattutto di interviste e recensioni, a quelle più accademiche, che raccolgono saggi eruditi e ricchi di note sul teatro dei secoli passati (sulle riviste di teatro in Italia, vedi ateatro 46).
Infine, all’altro estremo della nostra linea immaginaria dovremmo mettere le ricerche, gli articoli, i saggi e i volumi degli studiosi, che operano soprattutto in ambito universitario: una sorta di autopsia, una specie di esame anatomo-patologico, dopo che il corpo vivo dello spettacolo (e magari anche quello degli artisti che l’hanno creato) ha cessato di pulsare. Tutti i materiali finora elencati costituiscono gli indizi in base ai quali lo studioso può ricostruire la storia del teatro, in tutte le sue articolazioni, nella maniera più «oggettiva» possibile. Cercando cioè in primo luogo recuperando queste fonti, inserendole nel loro contesto, valutando la loro attendibilità, costruendo una gerarchia tra di esse. In questo posso essere d’aiuto le più varie discipline, dalla letteratura alla fisiologia, dalla storia dell’arte alla psicoanalisi, dalla sociologia all’economia...


Letteratura e scena

C’è chi, ovviamente, può operare in diversi ambiti, come critico e insieme come regista o drammaturgo (gli esempi sono numerosi), o come critico e storico, ma i ruoli e le modalità operative sono sempre stati distinti. Anche perché, fino a tempi relativamente recenti (anche se sembrano passati secoli), l’accademia tendeva a non ritenere oggetto di studio e di proprio interesse il teatro «vivo», cioè quello che viene rappresentato sui palcoscenici qui e ora.
Come accadeva per la critica teatrale, c’era una forte ipoteca letteraria: lo spettacolo veniva considerato un sottoprodotto del testo (e analogamente la scenografia un sottoprodotto della pittura). Dunque il teatro veniva letto come un genere letterario – o meglio un sotto-genere della letteratura, rispetto al registro sublime della poesia e a quello medio del romanzo. Per l’università il teatro, nelle rare cattedre, era e rimaneva essenzialmente «storia della letteratura drammatica», tutto il resto era accidente, guitteria, e dunque trascurabile.
Come sempre accade, ci sono state alcune eccezioni, anche nel recente passato, seppure in forma episodica ma ugualmente emblematica. Basti pensare all’apporto di Mario Apollonio alla fondazione del Piccolo Teatro – che però poi, non a caso, è stato abilmente sottovalutato e sostanzialmente rimosso. O alla collaborazione tra Zorzi e De Bosio che ha portato alla riscoperta del Ruzante, uno dei grandi eventi della cultura teatrale (e non solo) degli anni Cinquanta. E forse – anche se siamo già ben dentro gli anni Ottanta – era ancora in anticipo sui tempi, rispetto all’accademia e rispetto al teatro (e risultava eccessivamente problematico e perciò colpevole di lesa maestà) anche il più ambizioso tentativo di ricostruire la storia della regia nell’Italia del dopoguerra, I fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi di Claudio Meldolesi (Sansoni, Firenze, 1984).


Lo spettacolo come testo

La centralità dello spettacolo rispetto al testo si è affermata in Italia a partire dagli anni Sessanta, per il convergere di vari fattori.
Sul versante della scena, è esplosa – finalmente – l’invenzione di un teatro dove la dimensione non verbale aveva consapevolmente e programmaticamente la preminenza. Grotowski e il Living, e poi il teatro immagine statunitense e italiano, hanno privilegiato il teatro come corpo, tempo, spazio e suono rispetto al teatro come parola. Anche se il teatro, lo sappiamo, è da sempre tutte queste cose, quella è stata una autentica rivelazione, che ha avuto immediate ricadute sulla critica: vedi l’autentica rivoluzione capitanata in ambito critico da Franco Quadri e Giuseppe Bartolucci (con la nozione di scrittura scenica), non a caso presenti al Convegno di Ivrea del 1967 insieme ai maggiori esponenti del Nuovo Teatro.
In parallelo, sul versante dell’accademia, l’emergere della semiotica ha spinto a leggere l’intero spettacolo come testo. Su questo è ovviamente centrale e fondante il percorso di un critico teatrale come Roland Barthes (vedi il suo Sul teatro, Meltemi, Roma, 2002), mentre in Italia l’approccio semiotico al teatro si è affermato più tardi (vedi Marco De Marinis, Semiotica del teatro, Bompiani, Milano, 1982, nuova edizione 2003).
Una impostazione rigidamente semiotica porta con sé numerosi nodi teorici difficilmente solubili, e questo approccio non gode più della voga di un tempo neppure in campo strettamente letterario; ma certamente questa metodologia ha portato a una svolta radicale nell’atteggiamento degli studiosi nei confronti del teatro e di tutte le arti dello spettacolo.
In Italia, poi, non va sottovalutata l’importanza dell’incontro tra alcuni studiosi (Fabrizio Cruciani, Ferdinando Taviani, Franco Ruffini, Claudio Meldolesi, Nicola Savarese) e l’Odin Teatret di Eugenio Barba (e soprattutto con l’ISTA e dell’antropologia teatrale), a conferma che in teatro è impossibile distinguere tra avanguardia e tradizione, perché il passato riemerge spesso in forme assolutamente imprevedibili: così il contatto con una giovane compagnia scandinava ha illuminato un gruppo di studiosi che stava cambiando radicalmente la nostra percezione dei comici dell’arte; e parallelamente un regista d’avanguardia ha potuto cogliere e verificare il senso profondo della propria arte in antiche pratiche teatrali studiate da pochi specialisti disseminati in varie università.
Il frutto più convincente di questa ritrovata centralità dello spettacolo – seppure non in chiave esplicitamente semiotica – sono gli studi di Denis Bablet e i volumi della serie "Les Voies de la création théâtrale", la collana del CNRS francese.
Sul versante italiano, a parte qualche tentativo isolato negli anni Ottanta, si può segnalare la serie di Laterza «Teatro e spettacolo», a cura di Franca Angelini, firmati tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta da una sorta di «nazionale dei professori»: come si legge nella quarta di copertina dei nove volumi, «la prima storia generale del teatro inteso non tanto come scrittura drammatica quanto come rappresentazione e spettacolo», peraltro in una chiave riduttivamente manualistica.
Nel corso degli ultimi trent’anni, con il moltiplicarsi delle cattedre universitarie dedicate al teatro, con la progressiva apertura dell’università al mondo esterno (con forme oggi addirittura imbarazzanti di marketing, vedi la lectio magistralis del comico televisivo di successo o del calciatore famoso che finisce regolarmente sui quotidiani e al tg), e con una maggior attenzione agli sbocchi occupazionali dei laureati, gli intrecci tra il teatro «vivo» e quello «studiato» si sono fatti sempre più numerosi e necessari. I corsi e le tesi (di laurea e di dottorato) sul teatro contemporaneo – soprattutto sulla regia e sul teatro di ricerca – si sono moltiplicati, le riviste accademiche ospitano con frequenza crescente studi dedicati ad artisti nel pieno dell’attività, si rincorrono le monografie dedicate a registi e gruppi ancora relativamente "giovani".
Fermo restando, va precisato, che quella italiana (tendenzialmente storicista) resta una realtà molto diversa da quella angloamericana (tendenzialmente pragmatica), dove il teatro è da sempre anche e soprattutto «il teatro che si fa» e i corsi di teatro portano spesso alla messinscena di testi classici e contemporanei, svolgendo anche una funzione di accademia e scuola d’arte drammatica. Tuttavia un maestro come Giuliano Scabia al DAMS va da sempre in questa direzione, così come in altro modo i cicli di lezioni di Eduardo e di Fo alla Sapienza di Roma, registrate in video da Ferruccio Marotti negli anni Ottanta.


Lo spettacolo e il video

A rendere in qualche misura «più studiabile» il teatro come spettacolo è intervenuta una innovazione tecnologica come il video. Un altro nodo altamente problematico, per mille motivi.
Dal punto di vista dell’università, il video offre numerosi vantaggi. In primo luogo, «depura» l’evento teatrale da buona parte della soggettività dello spettatore (le intermittenze e vaghezze della memoria), riduce i margini di casualità, rende lo spettacolo in qualche modo oggettivo (almeno in apparenza). Permette di studiare lo spettacolo come un testo, fermando lo scorrere delle immagini, rivedendo alcuni brani più e più volte, andando avanti e indietro per confrontare le diverse sequenze eccetera. Consente di lavorare sullo stesso materiale con successive generazioni di studenti, mentre uno spettacolo teatrale si può vedere in un arco molto ristretto di tempo. Ancora, per generazioni di studenti cresciuti più davanti al televisore che sui libri, il video pare uno strumento più immediato e familiare; e con il moltiplicarsi di corsi in vario modo legati alla multimedialità l’uso di materiali di questo genere è ovviamente aumentato moltissimo. E tuttavia...
L’esperienza di chi guarda e studia un video non è assolutamente riconducibile a quella dello spettatore di un evento live, la visione di un filmato non ha assolutamente niente a che vedere con l’effettiva partecipazione a uno spettacolo teatrale, con tutti i suoi aspetti rituali e collettivi – insomma, proprio quello che distingue il teatro dai media riproducibili. I video teatrali sono in genere molto più noiosi degli spettacoli da cui sono tratti, e di questo bisognerebbe tener conto prima di infliggerli a generazioni di allievi. La qualità dei video è molto spesso scadente anche perché gran parte del materiale disponibile è stato realizzato per altri scopi (documentazione interna in vista di eventuali riallestimenti, promozione dello spettacolo presso direttori di teatri e festival, eccetera) e con mezzi limitati. Spesso, se sono stati realizzati da un regista diverso da quello dello spettacolo teatrale, ne tradiscono le intenzioni e la sensibilità... (Ci sono ovviamente eccezioni, vedi il caso delle commedie di Eduardo e di Fo dirette dagli autori con la Rai.)
E’ facile intuire che l’uso indiscriminato del video come strumento di documentazione e studio susciti profonde diffidenze tra teatranti e critici militanti.
(Insomma, gli studenti di corsi di spettacolo dovrebbero frequentare sistematicamente i teatri, per avere una vaga idea di quello che stanno studiando e per iniziare a formarsi un gusto.)


La crisi della critica

Se l’accademia sta cercando di ampliare il proprio ambito di interessi, la critica teatrale attraversa invece da tempo un periodo di difficoltà e di crisi, che le impone di ridefinire il proprio ruolo (vedi il recente libro di Massimo Marino, Lo sguardo che racconta. Un laboratorio di critica teatrale, Carocci, Roma, 2004, appena recensito su ateatro 78).
Il teatro è sempre meno un rituale sociale (magari un rituale sociale borghese, ma in ogni caso riconoscibile e riconosciuto) e sempre più un sottoprodotto di altri media più «potenti» (dal cinema alla televisione), oppure un evento che coinvolge piccole élite di spettatori, piccoli gruppi che scelgono quell’artista o quel teatro o quello spettacolo. Una informazione sempre più centrata sul personaggio (e in sostanza sullo star system) porta i mass media a dare maggiore spazio alla voce degli artisti. Su giornali e mass media lo spazio per la tradizionale recensione è diminuito in questi decenni a favore di anticipazioni e interviste. L’autorevolezza del recensore è molto diminuita: «la gente vuole sentire gli artisti», si dice, senza la fastidiosa mediazione dell’esperto. Non è un caso che molti degli attuali titolari delle rubriche di critica teatrale sui quotidiani non siano solo (e prima di tutto) critici e studiosi di teatro, ma intellettuali «a tutto tondo» per i quali il teatro rappresenta solo un interesse tra molti, e la critica una attività spesso secondaria rispetto ad altre forme di scrittura: insomma, volutamente sono stati scelti dei «non specialisti», in grado – nelle intenzioni degli editori – di interpretare meglio il gusto del pubblico.
Nelle sue forme canoniche il teatro diventa sempre più prevedibile e riconoscibile (e poco interessante dal punto di vista critico), e invece sempre più affascinante nelle sue esperienze più marginali e problematiche: che sono però quelle più difficili da far digerire a organi rivolti al grande pubblico. Dunque per presentare artisti «d’avanguardia» è spesso necessario ricorrere allo scandalismo e alla personalizzazione esasperata.
In parallelo, l’atteggiamento del critico è molto cambiato. Da osservatore neutrale e imparziale (almeno in teoria, perché anche in passato i critici hanno combattuto battaglie estetiche), è diventato – anche qui a partire dall’invenzione del Nuovo Teatro – «militante», esplicitamente impegnato a favore di una certa idea di teatro, anche attraverso l’ideazione e spesso l’organizzazione di rassegne, festival, premi eccetera. Per seguire certe esperienze del nuovo teatro non è sufficiente recarsi tra i velluti e gli ori dei teatri del centro, ma è necessario mettersi in gioco, «fare esperienze» – visitare carceri, ospedali psichiatrici, centri sociali, fabbriche dismesse, aziende agrituristiche, inseguire piccoli festival in località decentrate... Così il critico è spesso diventato un «compagno di strada» che si sporca le mani ed entra all’interno del processo produttivo dello spettacolo, con una funzione che si avvicina a quella del Dramaturg (vedi su questo la recente polemica sui «critici impuri» ospitata da ateatro 60 & 62; vedi anche gli atti dell’incontro-convegno Walkie Talkie, curato da Teatro Aperto nel 2003, Il Dramaturg, a cura di Teatro Aperto, il principe costante, Milano, 2004, con interventi tra gli altri di Ferdinando Bruni, Jens Hillje, Claudio Meldolesi, Roberto Menin, Renata Molinari, Enzo Moscato, Massimo Navone, Oliviero Ponte di Pino, Antonio Tarantino).
Di fatto gli spazi per esercitare davvero la critica teatrale, nella sua funzione tradizionale di mediazione tra artisti e pubblico, sono sempre meno (e sempre meno pagati). Questo impone – se si pensa che la critica sia una funzione necessaria al processo estetico – di cercare nuovi sbocchi (tra tutti, ovviamente, internet) e nuove modalità d’intervento (e anche nuovi mezzi di sostentamento).


La nuova università e le sue conseguenze sull’editoria teatrale

Con la riforma Berlinguer-Moratti l’università italiana è molto cambiata, e continuerà a cambiare. La necessità di aumentare il numero dei laureati (e la loro percentuale sugli iscritti), la volontà di avvicinare l’università al mondo del lavoro (e quindi alle esigenze vere o presunte della società contemporanea) e la tendenza a considerare lo studente un cliente, sta portando a una profonda trasformazione dei corsi di studio e dell’atteggiamento dei docenti (e degli studenti). All’interno delle università italiane è in corso un acceso dibattito sulla riforma (su questo vedi Gianluigi Beccaria, a cura di, Tre più due uguale zero, Garzanti, Milano, 2004, e Salvatore Settis, Quale eccellenza? Intervista sulla Normale di Pisa, Laterza, Bari-Roma, 2004; più in generale, sulla crisi della pedagogia in Occidente - e su un tema caro a molti teatranti - si legga George Steiner, La lezione dei maestri, Garzanti, Milano, 2004), che investe anche gli studi sul teatro e sulle arti dello spettacolo. Anzi, li investe con una forza davvero dirompente.
La moltiplicazione negli ultimi anni dei DAMS e di corsi legati alla «comunicazione» (e il loro eclatante successo, vista la quantità di iscritti) sembra sospingere irreversibilmente gli studi sul teatro sempre più lontano dalle Facoltà di Lettere. Un fenomeno ugualmente clamoroso è il moltiplicarsi di corsi per operatori dello spettacolo e di economia e management della cultura, oltre che di comunicazione (e questo spesso vuol dire formare PR e uffici stampa). Come in altri ambiti, si assiste a un disseminarsi di nuove discipline e corsi sempre più specifici, a volte sotto insegne bizzosamente inventive, per inseguire una realtà complessa e frammentata (quando non per costruire cattedre ad hoc per i propri protetti). In parallelo, proliferano i master e le alte scuole, che dovrebbero in qualche modo sopperire all’abbassamento del livello formativo della neo-università.
Tutto questo sta portando a una intensa attività editoriale, che si somma e intreccia alla tradizionale pulsione scrittoria universitaria, ovvero la ben nota necessità dei docenti di presentare titoli per concorsi. Da un lato la neo-università – grazie al sistema dei crediti – richiede manuali di base estremamente sintetici e di grande semplicità, all’insegna della divulgazione: è un prodotto editoriale che gli studiosi più seri reputano «sconveniente» e che tuttavia fornisce la base culturale dei «neo-studenti» di questo super-liceo e svolge dunque un ruolo fondamentale. Dall’altro spinge a una proliferazione di monografie specialistiche, naturalmente anch’esse assai sintetiche, per coprire le esigenze di singoli corsi e discipline – con un evidente rischio dell’autoreferenzialità. La politica di case editrici come Bruno Mondadori e soprattutto Carocci va in questa direzione, con una produzione vasta e variegata.


Lo studioso e il recensore

Come abbiamo visto, in qualche modo l’università sta assumendo uno dei compiti tradizionali della critica, una funzione che la critica ha difficoltà sempre maggiori a svolgere, soprattutto per mancanza di spazio: raccontare e documentare quello che sta accadendo. E’ un profondo cambiamento, che coinvolge gli artisti, la critica e gli studiosi.

Ha scritto Marco De Marinis nella sua introduzione al recente Visioni della scena (Laterza, Roma-Bari, 2004):

Non esiste un solo tipo di esperienza e di comprensione del teatro, ma ne esistono almeno tre:
a) l'esperienza-comprensione dell'artista di teatro, e in particolare dell'attore, fondata su di una competenza attiva, più o meno esplicita;
b) l'esperienza-comprensione dello spettatore comune, fondata su di una competenza passiva e perlopiù implicita, intuitiva (cioè non teorica, in termini tecnici);
c) l'esperienza-comprensione del teatrologo, fondata su di una competenza passiva ma fortemente esplicita (teorica).
(...) Tutte e tre queste esperienze-comprensioni rappresentano modi diversi di fare teatro. Ciò significa che si può fare teatro non soltanto producendo degli spettacoli, ma anche guardandoli, ossia: studiandoli, scrivendo su di essi, tramandandone la memoria, facendone storia, indagandone i processi. (p. VIII)


Per certi versi, negli ultimi anni è come se queste diverse esperienze si fossero in qualche modo intrecciate, tanto è vero che si avverte la necessità di distinguerle sul piano teorico. C'è stata una sorta convergenza tra diversi sguardi, così come tra alcuni critici e alcuni studiosi. E c'è stata anche e soprattutto una diversa attenzione allo spettacolo da parte di questi ultimi: emblematico l’impatto che le grandi messinscene goldoniane di questi decenni – da Visconti e Strehler a Ronconi e Castri – hanno avuto sull’interpretazione dell’opera del drammaturgo da parte di alcuni autorevoli studiosi. Vedi le notazioni di Roberto Alonge nel suo recente Goldoni, Garzanti, Milano, 2004:

Molti spettacoli della scena italiana non sarebbero sicuramente mai nati senza il lavoro preventivo e sotterraneo (e naturalmente scarsamente retributo dagli operatori...) dei docenti di Storia del teatro. Per quanto riguarda però Goldoni, necessita riconoscere che questa volta il doppio registro del dare e dell'avere è quasi completamente a favore degli artisti. Qui non sono gli universitari ad aver insegnato quacosa a registi e attori. Sì, certamente è vero che generazioni di registi (da Strehler a Squarzina a De Bosio, da Missiroli a Ronconi, da Cobelli a Castri) hanno attinto al fondamentale saggio di Mario Baratto, "Mondo" e "teatro" nella poetica del Goldoni, ma quel saggio, del 1957, si è alimentato, a sua volta, alle fondamentali intuizioni della Locandiera allestita da Luchino Visconti nel 1952. La regia, quando è grande regia, svolge sempre una funzione critica decisiva. (pp. 10-11)

Queste invasioni di campo implicano anche un mutamento delle forme: non più la recensione, ma il saggio specialistico o la monografia. Indicativo può essere, in questa direzione, il rapporto tra un artista come Carmelo Bene e due studiosi come Maurizio Grande prima e Piergiorgio Giacché poi.
Si pone però un ulteriore problema: perché quello che manca a molti studiosi, rispetto all’assiduità teatrale del critico, è proprio la visione diretta degli spettacoli (è noto che molti professori universitari il teatro lo frequentano pochissimo), con quello che implica anche sul versante della ricezione e della fortuna presso il pubblico, e sulla possibilità di seguire effettivamente una parabola artistica nel suo farsi: anche perché – come sa benissimo chi si occupa del nuovo teatro – la fase aurorale in cui si definisce una poetica è spesso determinante per cogliere il senso profondo di un percorso artistico.


Una nuova editoria teatrale

Ciò nonostante, si moltiplicano le collane universitarie e parauniversitarie dedicate all’analisi degli spettacoli e degli artisti di questi ultimi decenni. La situazione è molto cambiata rispetto alla sconsolata analisi di Gianadrea Piccioli, una ventina d'anni fa, sul Patalogo nove, e si presenta molto più ricca e articolata. Non ci sono più solo i tradizionali editori di nicchia come Gremese e soprattutto la Ubulibri di un critico-editore come Franco Quadri (che da 27 anni pubblica per l’appunto l’indispensabile Patalogo, una delle grandi novità della cultura teatrale italiana di questi anni: vedi su ateatro 20 la tesi di laurea di Leonardo Mello). Negli anni Settanta, quando ha incominciato a formarsi anche in Italia una autentica cultura dello spettacolo, Ubulibri e Gremese si sono rivolte soprattutto a un pubblico di appassionati e addetti ai lavori; più di recente sulla stessa scia hanno iniziato a muoversi Titivillus ed Editoria & Spettacolo. O ancora Dino Audino Editore, attento in particolare alle tematiche attoriali (vedi i testi di Michail Cechov, Decroux, Strasberg e Laban, oltre al recente Training! di Claudia Brunetto e Nicola Savarese). Queste case editrici si sono poste e si pongono su un piano molto diverso da editori tipicamente universitari come Bulzoni (con il suo ricchissimo catalogo di saggi sul teatro), Utet o Il Mulino, dalla collana di Storia dello Spettacolo della casa editrice Le Lettere, o a editori minori che hanno nel loro catalogo saggi sul teatro di impronta tipicamente accademica (le napoletane Edizioni Scientifiche Italiane, la lucchese Maria Pacini Fazi Editore, la Biblioteca Franco Serantini a Pisa, la gloriosa Olschki a Firenze, Vita & Pensiero, legata all'Università Cattolica di Milano e molte altre ancora...).
Oggi pare invece sempre più difficile tracciare una linea di discriminazione netta tra questi due filoni, perché molti editori, episodicamente o sistematicamente, sembrano voler puntare sia al pubblico degli appassionati di teatro e dei fan di un determinato artista, sia a un pubblico universitario. Alcuni editori lo fanno con maggiore sistematicità. Per la calabrese Rubbettino Valentina Valentini cura una collana che ha pubblicato monografie su Squat Theatre, Peter Sellars, Teatro della Valdoca e Franco Scaldati. L'Editrice Zona pubblica una collana diretta da Franco Vazzoler e Paolo Gentiluomo dedicata soprattutto a gruppi ed artisti italiani: i primi della lista sono Teatro del Lemming, Andrea Adriatico, Alfonso Santagata e Enzo Cosimi, ma ci sono anche Le Baccanti riscritte da Wole Soyinka (ateatro ne ha parlato a lungo...). Le pisane Edizioni ETS con la collana "Narrare la scena" diretta da Anna Barsotti si dedica invece ai singoli spettacoli (ma a volte ancora con una forte ipoteca letteraria), cominciando da allestimenti storici come La locandiera di Visconti o La tempesta di Strehler, e più di recente l'Amleto di Carmelo Bene.
Uno dei nodi della recente riforma riguarda proprio il rapporto tra una cosiddetta cultura generale e gli specialismi che si vanno delineando, tra una università che si configura come una sorta di superliceo destinato a sfornare frotte di laureati (e che si appoggia a una manualistica immediatamente divulgativa) e la necessità di formare contemporaneamente studiosi e specialisti di alto livello. In questo il ruolo dell'editoria universitaria è ovviamente centrale, anche se non può ovviamente supplire alle manchevolezze e alle storture del sistema universitario.


La regia critica di Luca Ronconi e Massimo Castri

L'università si è confrontata in vari modi con "il teatro che si fa", con risultati curiosamente diseguali. Vale forse la pena di esaminare alcuni casi esemplari (ad altri si accennerà nelle schede bibliografiche di questo numero speciale di ateatro).
Come tutte le etichette, anche quella di regia critica – affibbiata ai due più importanti registi di questi decenni – può apparire discutibile. Eppure voleva sottolineare la capacità di questi registi nell’utilizzare, di fronte ai copioni da mettere in scena, i moderni strumenti di analisi dei testi, quelli che suggerivano una lettura «sospettosa»: marxismo, psicoanalisi, strutturalismo, linguistica... Con maggiore consapevolezza rispetto alla generazione precedente, quella dei «padri fondatori» Strehler e Visconti, che al loro confronto paiono operare una lettura «ingenua», Ronconi e Castri hanno assimilato come fondamento del loro metodo registico proprio i metodi della critica letteraria all’epoca più à la page – rubando in qualche modo il mestiere ai critici, almeno in parte...
Se Luca Ronconi evita da sempre con cura ogni intellettualizzazione del proprio lavoro, Massimo Castri invece, fin dall’inizio della sua carriera, ha condotto una acuta e costante riflessione auto-critica: il gesto fondate, in questo senso, sono i volumi sugli allestimenti di Pirandello e Ibsen curati da Ettore Capriolo per Ubulibri. Quei volumi (che seguono nella bibliografia castriana – o castrista? – la sua tesi di laurea, Per un teatro politico pubblicata da Einaudi nel 1973) sono i primi di una serie di testi dedicati all’analisi delle sue messinscene: perché da un certo punto di vista, le messinscene di Castri sono un oggetto di studio ideale, un artista che si pone allo stesso livello culturale dei suoi esegeti, in una sfida affascinante, approdata di recente, dopo una lunga serie di studi, ai due volumi dedicati al regista toscano da Roberto Alonge (Il teatro di Massimo Castri, 2 voll., Bulzoni, Roma, 2003).
Curiosamente non è accaduta la stessa cosa con Luca Ronconi, un po’ per una straripante produttività, che rende difficile catalogare la sua opera, così ampia e faticosa da studiare nella sua completezza; un po’ per il suo già citato atteggiamento pragmatico e il rifiuto di concettualizzare, che finisce per rendere impervie e discutibili periodizzazioni e aree di interesse; un po’ perché forse manca ancora la distanza critica sufficiente a confrontarsi con la sua opera, anche perché Ronconi è da sempre regista controverso. Così i saggi che si occupano della sua opera tendono a concentrarsi su aspetti o momenti particolari. Tuttavia, per Ronconi, nessuno è finora riuscito a ricostruire in maniera credibile e autorevole un percorso artistico di assoluto valore e determinante per comprendere la storia del teatro del dopoguerra.


Lo strano caso del teatro di narrazione

Quello del teatro di narrazione è un caso singolare. Perché i primi e più acuti teorici del teatro di narrazione sono stati proprio gli inventori e i capostipiti del genere, e proprio mentre lo stavano mettendo a punto, in un work in progress insieme laboratoriale e teorico. Basta leggersi (o rileggersi) le riflessioni di Marco Baliani (Pensieri di un raccontatore di storie, Quaderni dell'animale parlante, 2, Comune di Genova, Assessorato istituzioni scolastiche, Genova, 1991) e Marco Paolini (Il quaderno del Vajont, con Oliviero Ponte di Pino, Einaudi, Torino, 1999). Poi sono arrivati il grande successo di pubblico, gli exploit televisivi e l’affermazione persino eccessiva di un genere (come aveva previsto Goffredo Fofi, con la sua abituale punta di snobismo).
Nelle sue punte più alte il teatro di narrazione è stato documentato in video con una inedita attenzione e puntualità (e, va aggiunto, con positivi esiti di audience e commerciali), e con una grande consapevolezza delle forze e delle debolezze del linguaggio televisivo da parte dei suoi artefici. Grazie a questa ricchezza documentaria e al suo successo mass-mediatico, i narratori sono stati in questi anni oggetto privilegiato di decine di tesi e tesine.
Un decennio più tardi, la narrazione è (finalmente?) diventata un oggetto di studio accademico, meritevole di tesi e pubblicazioni: vedi l’interessante numero monografico di «Prove di drammaturgia» Per una nuova performance epica, 1/2004 (ma è anche in preparazione un numero speciale di «Hystrio» sullo stesso tema, in una interessante convergenza). Pian piano anche in questo settore la bibliografia si sta ampliando: dal pionieristico F. Fiaschini-A. Ghiglione, Marco Baliani. Racconti a teatro, Loggia de' Lanzi, Firenze, 1988 al recente G. Guccini e M. Marelli, Stabat Mater. Viaggio alle fonti del "teatro di narrazione", Le Ariette, Castello di Serravalle, 2004).
Con grande consapevolezza, i maestri del teatro di narrazione, che sono figure anomale di autore-attore, intellettuali colti e politicamente avvertiti, hanno compiuto una operazione culturale di notevole spessore e ricca di sollecitazioni teoriche, rubando per certi aspetti il mestiere a critici e studiosi: non è un caso che alcune delle riflessioni più interessanti siano venute di recente soprattutto dal fronte della tassonomia delle varie forme di narrazione – e che le provocazioni forti arrivino da un artista che, come Luca Ronconi, reagisce con orrore – e saggezza – alla pretesa di identità assoluta tra colui che parla, il personaggio che interpreta e ciò che dice.


I filologi del futuro

Volendo condensare in una formula quello che è successo negli ultimi decenni nell’ambito della cultura del teatro, si potrebbe dire che lo spettacolo «vivo» ha risucchiato l’attenzione di critici e studiosi.
La distanza dell’osservatore professionista, quella che Roberto De Monticelli definiva «la solitudine del critico», tende spesso ad annullarsi, per trasformarsi in adesione partecipe a un progetto artistico: è una richiesta che arriva spesso dagli stessi artisti, che sentono il bisogno di una sponda critica attenta e propositiva.
Analogamente, la distanza dello storico, quello scarto che permette di osservare agli eventi con la necessaria oggettività, tende anch’essa a ridursi fino ad annullarsi. Il teatro, del resto, per molti studenti non è solo e tanto un oggetto di studio, ma un settore lavorativo in cui entrare, forse per trasformarlo. La prospettiva dunque cambia radicalmente, gli strumenti necessari per analizzare e ricostruire non coincidono per forza con quelli utili per operare nella pratica.
Esemplare, nel settore della scrittura teatrale, quello più legato alla versione "tradizionalistica" della storia dello spettacolo, l'attività di Siro Ferrone all'Università di Firenze e con la rivista "Drammaturgia".
Questa centralità dello spettacolo «vivo» ha, come abbiamo visto, varie cause: in parte è determinato da una diversa sensibilità di critici e studiosi, in parte da spinte esterne, dall’evoluzione del sistema dei mass media alle esigenze dell’università. E sicuramente sta portando a un grande rimescolamento di carte, che produrrà certamente a qualche contraccolpo, a qualche «richiamo all’ordine», sia sul versante della critica sia sul versante dell’università. Ma il loro effetto è tutto da verificare.
L’unica certezza è che gli storici del teatro, grazie a questa enorme produzione critico-saggistica (cui anche ateatr contribuisce), avranno molto materiale su cui lavorare. I filologi del futuro non potranno che ringraziarci.
Per quanto riguarda il nostro complicati presente, la speranza è che questa molteplicità di approcci, metodi, discipline possano affinare l’arte dello spettatore, del cronista e dello storico. Senza mai dimenticare che il critico non può appoggiare il giudizio solo al proprio gusto, e che lo studioso non può limitarsi a confermare valori già consolidati nascondendosi dietro l’apparente neutralità del metodo scientifico.

Altre informazioni utili

I libri di ateatro (segnalazioni, recensioni, anticipazioni & altro).

Le collane di drammaturgia contemporanea di Tiziano Fratus (da www.dramma.it).


 
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