ateatro 80.21
17/01/2005 
Dal "Decalogo del buon narratore"
da "Hystrio" 1.2005 Dossier "Teatro di narrazione"
di Oliviero Ponte di Pino
 

In principio era Carmelo Bene, o forse Mistero buffo di Dario Fo. E poi magari «il Lenny Bruce dei Navigli» Paolo Rossi e il Cioni Mario di Roberto Benigni. Insomma, una visione dell’attore molto lontana da quella di semplice esecutore di un progetto altrui. Quella del narratore è un’idea di teatro che si oppone alla Supermarionetta tecnicamente perfetta ma svuotata di soggettività e preferisce lo «sporco» dell’improvvisazione, l’incontro scontro con lo spettatore e quello che ha di più volatile, la sua attenzione.




Marco Paolini e la sua lavagna, protagonisti del Racconto del Vajont, scritto con Gabriele Vacis.

Per certi aspetti il narratore guarda alla tradizione del grande attore all’italiana, com’era prima della rivoluzione della regia e dell’apparente controrivoluzione destrutturante delle avanguardie. Anche se la ritrovata consapevolezza della centralità del ruolo dell’attore in scena rifiuta fin dall’inizio di utilizzare come proprio strumento il personaggio (e dunque la psicologia, i tormenti dell’anima e lo sfogo lirico), per muoversi alla ricerca di un contatto diretto con il pubblico e – attraverso di esso – della propria identità di autore e attore.
Ma naturalmente per fare un buono spettacolo di narrazione il pedigree storico del narratore, le note di Walter Benjamin su Leskov e le riflessioni di Ong non bastano, ci vogliono altri ingredienti. Tanto per cominciare, naturalmente, ci vuole una storia interessante, importante e appassionante per chi la narra e per chi la ascolta – e in questo non siamo distanti dal recupero della narratività in letteratura. Poi, naturalmente, serve la tecnica: chi abbia visto un paio di spettacoli dei narratori che vanno per la maggiore impara in fretta alcuni dei loro segreti: i trucchi che permettono di agganciare e riattivare l’attenzione dello spettatore, i punti d’appoggio e i trampolini offerti dall’oralità, quella musicalità costruita per ripetizioni e riprese di temi e moduli narrativi. Del resto in una decina d’anni la cassetta degli attrezzi si è molto arricchita, anche se gli strumenti di base li aveva già distillati Marco Baliani con il suo esemplare Kohlhaas, vero e proprio manifesto del genere.



Una sedia, una lampadina, una pedana, un attore: Marco Baliani racconta Kohlhaas.

Ma tutto questo – la bella storia, la maestria tecnica, il rifiuto del personaggio – non basta ancora. Perché il narratore deve soprattutto avere il diritto – il coraggio – di raccontarci quella storia. Deve conquistare la propria legittimità, sia all’interno del singolo spettacolo sia nell’arco di una carriera che gli conferisce credibilità e autorevolezza, spettacolo dopo spettacolo. Insomma, non basta che il racconto sia «giusto»: bisogna che lo diventi perché ce lo sta trasmettendo proprio quella persona. E devono essere chiari – percepibili, anche se non necessariamente espliciti – i motivi per cui è necessario, in questo momento, per lui, raccontarci questa vicenda.



La copertina del Quaderno del Vajont di Marco Paolini e Oliviero Ponte di Pino.

Chi narra dunque non può dunque essere uno strumento neutro, per quanto virtuoso, storicamente o giornalisticamente agguerrito e documentato. Perché non contano solo i fatti, per quanto significativi, ma anche il motivo per cui sono fondamentali, per il narratore e per noi.



Laura Curino e Lucilla Giagnoni protagoniste di Olivetti.

Al tempo stesso però ci deve essere una distanza, uno scarto critico, perché il narratore non può essere un propagandista, il cantore di un qualche eden o idillio o trionfo.



Marco Paolini racconta Ustica in I-tigi.

In un modo o nell’altro il narratore dice «io», perché si mette in gioco in prima persona, non indossa la maschera. Ma al tempo stesso quello che racconta non è autobiografia, o meglio non deve e non può mai essere solo autobiografia. E’ solo in questo scarto tra l’io che narra e il suo racconto che possono prendere forza le prospettive epiche e mitopoietiche della narrazione.



Laura Curino nell'autobiografico (un po' troppo autobiografico...) L'età dell'oro.

Il narratore deve dunque avere una identità e un punto di vista. Per questo sono spesso così importanti le origini geografiche e ancora di più le radici linguistiche, dal veneto Paolini al romano Celestini al siculo Enia, che danno un triplice sostegno, identitario, linguistico e sociale.



La gestualità del narratore: Ascanio Celestini.

Perché quello dei narratori è spesso uno sguardo che arriva da un passato forse mitico, fiabesco, e anche dal basso, dai margini della società, dagli strati più poveri e indifesi. Questi spettacoli hanno quasi inevitabilmente risvolti politici, o se si preferisce «civili».
Per tutto questo diffido di molti spettacoli cosiddetti di narrazione. Per esempio, diffido di quelli che raccontano una storia interessante, magari interessantissima, ma che potrebbe raccontarmi chiunque altro – qualunque altro attore. Diffido di quelli dove il narratore si identifica totalmente con l’oggetto della narrazione. Di quelli che si identificano troppo con il luogo o con la situazione in cui trovano le radici, a volte in un soprassalto localista o ideologico. Diffido di quelli dove il narratore è troppo personaggio, dunque troppo attore, e preferisce mettersi una maschera che mettersi in gioco. Di quelli in cui ci sono troppe macchiette, anche se sono così spassose.




Enzo Bearzot e Paolo Rossi nella locandina di Italia Brasile 3 a 2.

Invece continuano a incuriosirmi quelli in cui l’attore-autore cerca e inventa un nuovo equilibrio tra queste diverse tensioni. Perché solo così è possibile trovare e magari inventare nuove sfumature dell’io e del noi.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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