ateatro 85.6
14/06/2005 
Ancora su Santarcangelo
La critica, la politica, il sistema teatrale
di Oliviero Ponte di Pino
 

La corsa a ostacoli per la scelta del nuovo direttore del Festival di Santarcangelo – sempre più pasticciata e stiracchiata - ha suscitato nel forum “Fare un teatro di guerra? Vecchio teatro nuove istituzioni” una discussione viva, accesa, quasi feroce. I forum di ateatro avevano già ospitato in passato dibattiti e battibecchi, ma mai con questa intensità. Già questo è un elemento su cui riflettere. Perché oggi il Festival di Santarcangelo, che suscita tali e tante passioni, rappresenta evidentemente un nodo nevrotico del nostro teatro. Un secondo aspetto, ovviamente legato al primo, riguarda la piega che ha preso la discussione, i temi che ha affrontato, i bersagli che ha attaccato.

Un primo equivoco che forse è bene provare a dipanare riguarda il potere e il ruolo della critica, che in molti interventi mi pare molto sopravvalutato. Quello del critico teatrale è un mestiere che richiede preparazione, competenza, dedizione, attenzione, sensibilità eccetera eccetera. E’ un mestiere utile a chi lo pratica (scrivere serve a chiarirsi le idee, non solo a guadagnare qualche euro), per chi fa teatro (perché uno sguardo esterno arricchisce qualunque artista, checché ne pensi l’interessato, anche e soprattutto quando non solletica la sua vanità) e per il pubblico (che trova strumenti di informazione, formazione e orientamento). Come tutti i mestieri, quello del critico può essere fatto meno o male, onestamente o trafficando, con integrità o vendendosi al miglior offerente. Più di altri mestieri può essere costruttivo e distruttivo.

Il problema è che questo mestiere in Italia da almeno vent’anni non è più una professione. A differenza di quello che capitava dal dopoguerra agli anni Ottanta, oggi non è più possibile guadagnarsi da vivere facendo il critico teatrale (ovvero occupandosi di teatro per una testata giornalistica, tra quotidiani, riviste, radio e televisione). Come sappiamo tutti, nel sistema dei media il teatro – e soprattutto un certo tipo di teatro, quello che piace a noi - è assolutamente marginale, come sappiamo tutti fin troppo bene. Chi si occupa di teatro è sistematicamente sottopagato e il teatro ha nei media uno spazio sempre minore. Sono pochi – pochissimi - i critici teatrali che hanno come occupazione principale (e principale fonte di reddito) la critica teatrale. Questo semplice fatto la dice lunga sul reale potere dei critici teatrali: è molto vicino allo zero.

Certamente il potere reale, nel teatro italiano, non l’hanno – purtroppo o per fortuna - certamente i critici. Non sono i critici a gestire i budget miliardari dei teatri, e neppure, salvo rare e fugaci eccezioni, quelli dei festival. Di più. In questi anni, nessun direttore di teatro - stabile pubblico, privato o di ricerca che sia -, nessun direttore di festival, è stato designato dalla critica: le nomine arrivano tutte dalla politica (e, aggiungo, evidentemente i politici non amano i critici e non mi pare ascoltino molto i loro consigli). Negli organi decisionali (consigli d’amministrazione e simili) da anni i critici (ovvero quelli che a teatro ci vanno per mestiere e per passione) sono presenze sporadiche e minoritarie: sono molto più numerosi gli organizzatori, gli impresari e perfino i drammaturghi.
Il potere reale è nelle mani dei direttori di teatri e di festival inamovibili, di consigli d’amministrazione di nomina tutta politica (e anche lì, se per caso ci arriva, il critico risponde prima di tutto a chi l’ha nominato). Insomma, a gestire il teatro italiano è un ceto di funzionari e burocrati di nomina politica, spesso democratici e di sinistra, a loro agio nei corridoi di assessorati e ministeri. Il loro naturale obiettivo è la ricerca del consenso e del gusto nazional-popolare (che oggi vuol dire televisivo), la loro ricetta consiste nel minimizzare il rischio politico e culturale, la parola d’ordine è “Niente grane e se possibile qualche passaggio al Tg3 regionale” (perché sono gli unici che forse se ne possono occupare).
Ci sono sempre le eccezioni, e anche i più malvagi amano salvarsi l’anima inserendo un paio di spettacoli “decenti” nei loro cartelloni (magari proprio quelli segnalati dai critici…), perché naturalmente tutti amiamo la qualità e il buon teatro, e sappiamo riconoscerlo, ma purtroppo le esigenze del mercato… Però lo scenario è questo.

(Ma forse adesso cambia: l'assunzione di alcuni teatranti a responsabilità assessorili lascia intuire una nuova fase nel rapporto tra scena e politica...)

E’ fin troppo facile trovare una riprova dello scarso potere della critica teatrale. Oggi i critici più giovani (dai “critici impuri” di cui ateatro ha parlato a lungo, e che nel frattempo stanno invecchiando anche loro) non possono permettersi di intraprendere quella professione. E lo sanno benissimo. Fanno tutti altro, devono fare anche altro, per semplici motivi di sopravvivenza, con tutte le conseguenze del caso. Eccoli dunque “poeti di compagnia”, operatori e organizzatori, precari all’università, eccetera, con paghe miserabili. Ecco dunque moltiplicarsi le relazioni pericolose (marchette) di chi arrotonda facendo il consulente a festival e teatri (sempre meno agli enti locali), entrando a far parte di giurie di vario calibro, scrivendo testi per programmi di sala o riviste di compagnia, traducendo copioni (ma capita solo ai critici più “autorevoli”, perché questo è uno dei rari casi in cui possono girare soldi veri).

Una ulteriore riprova? Una trentina d’anni fa in Italia solo i teatri e i festival più grandi (e ricchi) disponevano di un ufficio stampa. Oggi qualunque compagnia media e piccola, qualunque festivalino o rassegnucola, ha manipoli di addetti stampa. A differenza di quella del critico, quella di ufficio stampa oggi è una professione. I ragazzi studiano per diventarlo: sono sempre più numerosi i master in comunicazione & affini che insegnano a fare l’ufficio stampa e il PR, mentre quelli che vorrebbero formare i critici si contano sulle dita di una mano e restano episodici. Nel suo insieme, la cultura italiana (il teatro e i media) ha deciso di investire molto di più in comunicazione che in critica, molto più nell’autopromozione che nella cultura del teatro. Le riviste che si occupano di spettacolo dal vivo hanno vita faticosa e misera, i programmi di sala – arricchiti magari con il contributo del poeta di compagnia, o del critico della grande testata – sono spesso assai più ricchi e sontuosi. La cultura del teatro, oggi, la fanno più le compagnie e i teatri dei critici.

A questo contribuisce una deriva che caratterizza l’universo mediatico in generale: la tendenza alla personalizzazione. Il pubblico, si dice, preferisce ascoltare la viva voce dei suoi beniamini, rispetto alle astruse elucubrazioni dei filologi. Il pubblico pretende un contatto diretto, senza mediazioni intellettualistiche. Infatti negli ultimi anni, non solo in teatro, i giornali – quando proprio sono stati costretti ad assoldare un critico – hanno preferito un intellettuale genericamente competente, non uno specialista: perché questo “critico generico”, colto e intelligente, che rifugge dai tecnicismi, si dice, è estraneo ai maneggi dell’ambiente, ma soprattutto si ritiene che sia meglio in grado di intercettare il gusto medio del pubblico. E il cerchio si chiude.

Anche questo meccanismo comunicativo che privilegia l’intervista, il contatto diretto e il volto dell’artista in primo piano, contribuisce a svuotare la funzione critica di autorevolezza e significato. In compenso gonfia ancora di più l’ego degli artisti di successo, che preferiscono il rapporto diretto con il pubblico, senza mediazioni, e che di fronte a qualunque notazione critica si sentono legittimati alla rimozione, all’insulto o alla querela… Persa la sua aura, svuotato il suo ruolo, svanita la sua autorevolezza (“Che peso ha la mia acuta stroncatura di 15 righe, dopo che il mio giornale ha pubblicato un’intervista a cinque colonne con foto scosciata alla soubrette?”), il critico diventa un bersaglio insieme troppo facile e troppo sbagliato per le ire di giovani teatranti - fermo restando che la critica ha senz’altro le sue colpe, ma che in sostanza assiste impotente allo svuotamento del proprio ruolo.

La seconda curiosità innescata dal dibattito di queste settimane riguarda l’interesse quasi morboso che eccita la telenovela di Santarcangelo: un festival minore (almeno per quanto riguarda il budget), che ha vissuto in gran parte sulla sua storia e sulla tradizione del nuovo (e sul semi-volontariato di chi lo realizza e di chi va lì a portare i suoi spettacoli a rimborso spese – e forse nemmeno quello). Che il festival sia in crisi, lo dimostra il metodo scelto per la designazione del nuovo direttore, in cui ai candidati (invitati) si chiedeva in sostanza di indicare come reperire le risorse necessarie a far sopravvivere e rilanciare la manifestazione, visto che gli enti locali più di quello che danno già – dicono – non possono dare.

Con tutti i suoi limiti, Santarcangelo ha rappresentato in questi anni un’eccezione, tra le mille rassegne e rassegnine turistico-avanguardiste di cui pullula il bel paese. La kermesse romagnola, vista anche la vicinanza con il ricchissimo “distretto produttivo teatrale” della zona, era rimasta di fatto l’unica vetrina nazionale del nuovo nel nostro paese. Per un giovane gruppo, andare a Santarcangelo significava essere visti da critici e operatori italiani e stranieri, e magari avere qualche possibilità di circuitazione. Rispetto ad altre situazioni estive (la crisi ormai perenne della zigzagante Biennale Teatro, il caos generoso ma dispersivo di Armunia, le scelte mirate di Inteatro, la corona di spettacoli che ha Volterra accompagnano l’evento della Compagnia nella Fortezza nel Supercarcere, o le promesse più o meno mantenute degli spettacoli-evento delle altre rassegne, e poi il pulviscolo di mille iniziative spesso generose ma velleitarie), Santarcangelo ha dunque svolto – con mille miti e imperfezioni, con un volontarismo generoso e magari pasticciato - un ruolo importante.

Ancora più importante, vista la deriva attuale del nostro sistema teatrale. Perché il grande problema è che oggi per gli spettacoli – e soprattutto per gli spettacoli dei gruppi – è diventato difficilissimo girare. Il teatro italiano ha sempre vissuto di tournée: non esistono grandi città capaci di lunghe teniture (al massimo le due-tre settimane di Roma e Milano), ma un tessuto di centri medi e piccoli in cui ammortizzare le spese di produzione degli spettacoli con teniture brevi o brevissime e lunghe tournee. In questi ultimi anni (e il pezzo di Franco D’Ippolito in questo numero di ateatro lo conferma) far girare uno spettacolo è diventato pressoché impossibile. Basti pensare che una piazza come Milano pare off limits per la Socìetas Raffaello Sanzio, che un lavoro importante come L’ospite probabilmente non ci arriverà mai, che il nuovo spettacolo di Pippo Delbono ci approderà a due anni da debutto – e queste sono le punte alte della ricerca internazionale…

Per i giovani gruppi, Santarcangelo era rimasta – ancora sembrava – l’ultima occasione per riscattarsi a questo degrado, uno spiraglio per ottenere un minimo di visibilità e di attenzione. Anche questa, peraltro, era diventata in buona parte un’illusione: Santarcangelo o no, le tournée si sono accorciate. Di più. Vista la situazione dei teatri cittadini, molte compagnie vivono ormai quasi solo di festival e rassegne estive. Le quali, per la loro stessa natura, vogliono costruire eventi e quindi chiedono “prime”, debutti, novità. Il risultato: dopo un buono spettacolo, magari un ottimo spettacolo, una formazione di media notorietà, in evoluzione, che ha bisogno della verifica del pubblico per crescere, è costretta a buttar via le sue produzioni per dar vita a creazioni sempre nuove, in un crescendo costoso e logorante. Ormai è più facile progettare, proporre e creare un evento (almeno sulla carta) che far girare uno spettacolo. Questo atteggiamento sta avendo conseguenze profonde sulla nostra cultura dello spettacolo, rendendola sempre più superficiale e clamorosa.

Per questo la posta in gioco a Santarcangelo è così alta. O almeno lo sembra. Perché per certi aspetti il festival è stata un’isola felice, almeno nelle fantasie di molti teatranti. Per questo, ora che il giocattolo sembra rotto, ora che le pressioni esterne si sono fatte più forti, ora che la discrepanza tra le illusioni e la realtà si è fatta più forte, esplode l’inquietudine. E ci si accorge che il marcio, forse, non è solo in Danimarca. Anche perché nessuno, in questi mesi ha provato a dare un senso costruttivo al dibattito intorno al festival. Forse nell’attesa di un Godot – il nuovo direttore-salvatore – che non potrà arrivare. Alla fine, dopo che i mille piccoli Amleti del nuovo teatro avranno sillabato il loro “essere o non essere”, sulla scena di Santarcangelo non potrà che arrivare l’immancabile Fortebraccio (o meglio, un suo prestanome).


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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