ateatro 89.10
30/09/2005 
Entrare in scena
Dedicato a Julian Beck (1925-1985)
di Fernando Mastropasqua
 

Entrare in scena è l’atto con cui si dà inizio allo spettacolo. Un semplice passare dal non visto al guardato, dalla confortevole tenebra delle quinte alla luce priva di ripari del palcoscenico, un passo, un semplice passo e si scavalca un confine, quella soglia di morte, la cui presenza i Greci avvertivano nel suono della parola skené. Per entrare dove? Nel teatro inutile direbbe Julian Beck:

“E’ questo forse un posto per esseri umani, questa insinuazione di lusso e ori, la pompa di queste scale, l’ingannevole grandiosità di questo candelabro, questo moderno teatro un’opera d’arte? O architettura dei potentati! O puzza di denaro! E’ qui che ha volato l’Uccello dello Spazio? Dove sono i facchini, gli operai tessili, i meccanici? Non ci sono contadini qui, nessuno di coloro che costruirono questo edificio, nessuno che abbia coltivato alimentari, qui non ci sono neri, nessuno che pulisca le fogne, nessuno che cucia nei laboratori. Per chi è questo palazzo? Dov’è il popolo? Che cosa si fa qua dentro che non li riguarda? Il tappeto è fatto per pallidi piedi patrizi, le poltrone procurano una comodità che aliena all’azione, che ostacola la partecipazione, che indulge alla passività del corpo. Muri di separazione! O possa questa nostra sonora arringa far tremare e cadere i muri, crollare prigioni, abbattere le fortezze della falsa industria, e tutte le case di divisione. Unità. La si ha, quando le persone stanno insieme e non si mettono una contro l’altra, esiste quell’armonia che dissipa la disperazione, estende l’essere e rende possibili tutte le speranze più impossibili. Quando mi siedo nella poltrona di velluto, circondato da fibre acetiche, se una persona grida, se un uomo muore è solo un’interruzione. Non sono preparato a reagire alla vita. Osservo soltanto. Circondato da gelidi compagni in un’atmosfera d’inganno, siedo nella fastosità. Son venuto qui per morire congelato? Come posso prorompere in emozioni? Investito di una regalità di rayon. Come posso trascendere in un ambiente di velluto, come posso trovare la chiave nell’oscurità di questa sala? Solo sognando. Ma questo sogno è menzogna, non sento nulla. E’ tutto menzogna, non ho carne, sono essenzialmente asessuato. E tutto avviene a causa della mia presenza qui.” (J.Beck, La vita del teatro, Torino, Einaudi, 1975, pp.13-14).

L’attore entrando in scena entra nell’orrore del mondo, in quegli inferi che sono la vita stessa, e di fronte a sé trova gelidi compagni, ombre esangui, pronte a cibarsi di lui risucchiandogli la linfa vitale con gli occhi, appuntiti vogliosi taglienti come i canini di un vampiro. Il passo che ha scavalcato il confine rivela quanto questo fosse irrilevante, come un abisso dipinto. Dal mondo di morte quotidiano a quel cimitero imbellettato che è il luogo teatrale. Entrare in scena deve dunque voler dire di più, non passare un confine, ma definire un confine, perché solo tracciandolo può esserne disarmata la funzione menzognera: si può oltrepassare e lasciarselo alle spalle. Si apre, per virtù dell’attore, un luogo che è oltre la tetra esistenza di lutti presenti e di inferni promessi, nel quale il pubblico di insaziati dormienti dalla vista assassina possa balzare dalle non più comode poltrone e accogliere il respiro dell’attore:

“Ansimando in cerca d’aria – è così che il pubblico viene a teatro, rigidamente avvolto dal corsetto della convenzione (legge e conformismo). Il pubblico può respirare a malapena. Si sente morire. L’intero atto teatrale è un rituale concepito per rinnovare la nostra vitalità, per liberarci dalla morte, e ciò si compie con un respiro. Questo respiro comincia come un ansito, come quello di un bambino appena nato. Il teatro senza questo ansimare ci soffoca, poco importa che ci possa divertire, lasciamo sempre il nostro spirito ancora più fiaccato dalla delusione. Insisto sul teatro. Insisto su di esso perché lo riconosco come un rituale senza cui la nostra sopravvivenza perde terreno davanti ai confini della morte, sempre invadente, la morte che cala su di noi con il suo silenzio senza respiro. Insisto che si vada a teatro in cerca di rivitalizzazione, le renouveau, sì, come pazienti che vanno all’ospedale. Stiamo morendo e andiamo a teatro in cerca d’aria fresca all’interno di un’atmosfera sempre più contaminata. Lo scopo dell’arte è far ansimare il pubblico.” (J.Beck, Theandric, Roma, Socrates, 1994, p.24)

Considerando i primi spettacoli del Living, come un solo lungo spettacolo, potremmo riconoscere l’entrata per eccellenza nell’incipit dell’Antigone e l’uscita per eccellenza, come viaggio oltre il confine designato e distrutto, l’esodo di Paradise Now: il teatro è nella strada. Come si può stabilire il confine? Nell’Antigone l’attore invece di offrire la gola allo sguardo dello spettatore gli pianta gli occhi in faccia, come Amleto per scrutare il comportamento del re davanti allo spettacolo che rivela il suo delitto [Amleto, III,2, 85], sguardo contro sguardo, nemico contro nemico. Judith Malina ricorda che ogni attore aveva il compito di individuare il nemico in un determinato spettatore e che questo serviva ad incrinare l’unità della massa del pubblico (v. a questo proposito C. Valenti, Dove gli dèi ballano, in F. Mastropasqua, Maschera e rivoluzione, Pisa, BFS, 1999, p.38, nota 24). L’entrata degli attori in scena obbliga ad avere la consapevolezza che tutti si è entrati in un luogo sospeso, dove non hanno più senso le convenzioni abituali, del teatro come della vita. Anche il pubblico si trova al di là del confine che gli attori hanno tracciato proprio là dove non era pensabile, e i corpi – non più le ombre infere della consuetudine – si impossessano dell’antico respiro perduto e diventano presenze, non per dimenticare il mondo, ma per rovesciarlo. Perché si entra nel teatro attraverso il mondo. Virtù anche questa dell’aver determinato il confine e averlo scavalcato. Il passo che ha permesso di superare quella soglia, si è lasciato alle spalle il mondo dell’orrore, ma non lo ha cancellato. Ognuno di noi se lo porta dentro. Risuona l’insegnamento di Amleto: l’orrore che vediamo intorno a noi è dentro di noi: “Che ci sta fare uno come me a strisciare fra cielo e terra?” [III,1,129]. Ed è proprio questa coscienza che permette ai corpi entrati in scena (attori e spettatori) di rovesciare la bruttezza in bellezza, la malvagità in pietas, il dolore in gioia:

“Si entra nel teatro attraverso il mondo, mondo che è sacro, mondo che è imperfetto, si entra nel teatro attraverso la consapevolezza di una bruttezza indistruttibile. La bruttezza della vita. Si abbraccia questa bruttezza e si dimentica ciò che è bello. […] Non vorrei dare pièces di dolore, di problemi, di idee difficili, ma di gioia, piacere, riso, esultanza, non risate crudeli, niente satira, ma gioia. Ma è faticoso provare gioia, e quindi ancora più faticoso conoscere la gioia, quando si è pallidi e il mondo è estraneo e moribondo. Desiderio di un teatro diverso, che valga ciò che siamo realmente, speranza che il teatro cambierà, ma quel che vogliamo davvero è cambiare noi stessi, cambiare tutti insieme, e che cambiando cambi il mondo.” (J.Beck, La vita del teatro, cit., p.11, 15).


 
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