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Il programma della Biennale Teatro 2004
36. Festival Internazionale del Teatro. Direttore Massimo Castri. Venezia, 15 settembre > 2 ottobre 2004
di Ufficio Stampa Biennale Teatro
 

Il progetto Biennale Teatro 2004 si sviluppa intorno ad un nucleo centrale: la drammaturgia italiana contemporanea. Questo è il filo conduttore degli spettacoli, ma anche il tema per un’analisi che porti nuova consapevolezza al dibattito sul teatro, offrendo un’occasione per immaginare e progettare la scelta futura a partire dalla nuova drammaturgia e per affrontare in termini concreti il ‘problema’ della scrittura teatrale italiana nel corso del Novecento: un territorio continuamente e pericolosamente sospeso sull’afasia e insignificanza o l’imitazione ripetitiva di modelli stereotipi del novecento europeo. Il testo ed il linguaggio teatrale possono parlare ancora dell’oggi; per questo l’obbiettivo è quello di dare visibilità ai progetti di giovani autori e artisti che nell’ultimo decennio hanno riacceso l’interesse di critica e di pubblico, trovando finalmente spazio nei cartelloni dei nostri teatri.
Il progetto è strutturato in tre sezioni: la prima è dedicata ai ‘padri’ della drammaturgia contemporanea italiana: Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori. Pasolini è autore di una scrittura teatrale forte e coerente, personalissima ma ancora intimamente connessa con la struttura sociale, la sua analisi, la sua critica. Pasolini può essere un riferimento per la sua condizione di anomalia nel vuoto della scrittura teatrale italiana post-pirandelliana, per la sua offerta di un deposito di scrittura teatrale d’oggi, circoscritto ma estremamente denso: un patrimonio quasi unico, un’isola di scrittura che deve essere ancora studiata e decifrata. Giovanni Testori è l’autore delle sperimentazioni linguistiche, stilistiche e tematiche; a lui si deve l’invenzione di una vera lingua poetica che ha dato voce e forza ai drammatici conflitti interiori tra ‘spirito e corpo’, ‘amore e male’, ‘vita e morte’ e affrontato gli eventi politici e sociali con sorprendente lucidità analitica. In questa sezione verranno presentati l’Orestea di Eschilo nella straordinaria traduzione di Pasolini, Bestia da stile, dello stesso autore, e La monaca di Monza di Testori.
La seconda sezione si concentra sull’oggi, coniugando testi italiani recenti con nuovi sistemi e forme teatrali. I modelli di struttura e di linguaggio sono plurimi intendendo dare una visione più ampia della situazione della scrittura italiana contemporanea, e spaziano dalla scrittura ‘dell’oggi’ di Letizia Russo, al lavoro sulla memoria storica di Celestini, alla drammaturgia che nasce direttamente dal lavoro con l’attore di Emma Dante. Completa il progetto una sezione dedicata alla drammaturgia europea contemporanea, allo scopo di attivare una dialettica di confronto con il lavoro di giovani drammaturghi provenienti da civiltà più strutturate, in cui il valore della scrittura teatrale e il suo potere di farsi interprete della società non hanno conosciuto soluzione di continuità.
Giovani autori, scrittura dell’oggi e giovani registi a cui offrire un’occasione di lavoro e di ‘emersione’ in un contesto teatrale italiano spesso sordo alla necessità del ricambio e dell’invenzione di nuove leve artistiche. Gli spettacoli nasceranno alla Biennale nella "cornice" veneziana ma essendo collegati a momenti produttivi esterni avranno poi una vita più lunga nei circuiti e nel tessuto distributivo.
Massimo Castri


15 settembre - Teatro alle Tese – ore 20.00
16 settembre - Teatro alle Tese – ore 21.00
La monaca di Monza
prima assoluta
di Giovanni Testori
regia Elio De Capitani
scene e costumi Carlo Sala
luci Nando Frigerio
con Lucilla Morlacchi, Marco Baliani, Cristina
Crippa, Corinna Agustoni, Anna Coppola, Andrea Facciocchi, Laura Ferrari
produzione Teatridithalia, Teatro Metastasio Stabile della Toscana, La Biennale di Venezia con il contributo della Regione Lombardia, Culture, Identità e Autonomie della Lombardia per le celebrazioni per il decennale della morte di Giovanni Testori

È un progetto che Lucilla Morlacchi accarezzava ormai da tempo quello di interpretare la Monaca di Monza, un testo del 1967 portato per la prima volta in scena da Luchino Visconti con la compagnia Brignone-Fortunato-Fantoni. Ora, grazie agli sforzi congiunti di Teatridithalia e del Teatro Metastasio Stabile della Toscana, con la complicità di Elio De Capitani alla regia e di Marco Baliani che la affianca come interprete, il progetto è finalmente giunto a maturazione.
L’incontro tra De Capitani e la Morlacchi risale al 1990 in occasione dell’allestimento della Sposa di Messina di Schiller per le Orestiadi di Gibellina. A questo è seguita l’esperienza dei Turcs tal Friul, prodotto alla Biennale di Venezia nel 1995 e ripreso con successo a Milano e Roma. Se allora avevano affrontato un inedito di Pasolini, non facile per lingua (interamente scritto in friulano) stile e contenuti, oggi si apprestano a una nuova sfida con questo lavoro di Testori che al suo esordio aveva suscitato molte polemiche. “Non è un caso – ha sottolineato Oliviero Ponte di Pino in un articolo sui più recenti spettacoli testoriani – che oggi si continui a lavorare su Pasolini e Testori che non furono solo e tanto drammaturghi di professione, ma artisti e intellettuali impegnati su vari fronti, compreso quello teatrale. Un’altra convergenza: nel fatidico ’68 Pasolini e Testori sentono la necessità di reagire alla situazione del teatro italiano, con due prese di posizione assai nette: il primo con il Manifesto per un nuovo teatro (su "Nuovi argomenti"), il secondo con Il ventre del teatro (su "Paragone"), in polemica contro il teatro di regia e la sperimentazione, a favore di una riscoperta del valore poetico della parola teatrale e del valore rituale dell’evento teatrale.”

Testori guarda al personaggio manzoniano della Monaca di Monza, indimenticabile figura femminile, e tramite la “sventurata” rielabora un tema che, da Dante al Novecento, ha segnato la storia della nostra letteratura, quello della fanciulla malmonacata: "è un frammento doloroso ed emblematico della storia delle donne l'origine di una galleria di creature fantastiche, sospese tra rinuncia alla vita e disobbedienza alla regola, tra rassegnazione e anelito disperato verso una forma di 'salvezza'. Salvarsi dalla sepoltura in un chiostro, unica dimensione immaginabile per donne senza dote, vedove, deformi o sole, equivale spesso a uno slancio eretico” (Il topos della malmonacata nella letteratura italiana, tesi di Silvia Filippelli). L’autore ripercorre la vita di Marianna de Leyva (questo è il nome storico della famosa monaca di Monza) facendola riemergere dalla tomba. È lei stessa a richiamare sulla scena a uno a uno gli spettri ormai fetidi e consunti di chi le è vissuto accanto: “Ma adesso siamo qui, incorporati tutti in questo branco di polvere, legati e sciolti in questo intrigo di bestemmie sfiatate e di cupidigie spente…” Tutti sono peccatori, corruttori, corrotti o falsi bigotti: i genitori che odiandosi reciprocamente l’hanno messa al mondo non voluta, il padre che l’ha derubata dell’eredità e costretta in convento, il prete laido e sconsacrato che l’ha spinta subdolamente verso Gian Paolo Osio, la madre superiora interessata unicamente al buon nome del convento e l’amante posseduto dalla passione come dalla tentazione del sangue e dell’omicidio. Sono affrontati temi chiave dell’esistenza dell’uomo in ogni epoca, cari all’autore dai primi testi fino agli ultimi della sua produzione: l’urlo di rabbia contro la nascita e la morte, lo scandalo del peccato, la bestemmia vissuta come una sfida e dialogo con il creatore, la potenza della parola in senso esistenziale, teatrale e metateatrale. Lucilla Morlacchi, che conobbe Testori lavorando nell’Arialda diretta da Visconti (1960), e in seguito nei Promessi sposi alla prova diretti da Andrée Ruth Shammah (1984), su Hystrio di alcuni mesi fa lamentava che “la cultura provinciale che domina il nostro paese non approfondisca l’opera testoriana come dovrebbe. Mentre il pubblico ne resta assolutamente affascinato”.
In occasione del decennale della morte di Testori, molte sono state le riprese e i nuovi allestimenti che hanno in parte riequilibrato questa situazione.
Manca ora che ritorni sulle scene questo testo ingiustamente poco rappresentato.

Elio De Capitani, regista, attore, autore, ha legato il suo nome a quello del Teatro dell’Elfo entrandone a far parte non ancora ventenne nel 1973. Nei primi dieci anni di storia dell’Elfo è stato protagonista in oltre una dozzina di spettacoli diretti da Gabriele Salvatores, tra i quali Pinocchio Bazaar, Satyricon, Sogno di una notte d’estate.
E’ del 1982 la sua prima regia: l’esperimento radicale di una personalissima versione italiana iperrealistica di Nemico di classe di Nigel Williams che scuote la scena italiana allora assai ostile agli autori contemporanei. Allo spettacolo partecipa un gruppo di giovanissimi attori messi insieme dopo un anno di provini: tra questi Paolo Rossi, Claudio Bisio e Antonio Catania, il nucleo dei futuri “comedians”.
Nell’estate del 1983, l’Elfo nomina De Capitani regista stabile del teatro. Ha inizio il lungo rapporto con Ferdinando Bruni, Ida Marinelli e Cristina Crippa, protagonisti di tutti i successivi lavori di De Capitani all’Elfo, assieme agli altri attori del nucleo storico, Corinna Agustoni e Luca Toracca. La nuova direzione del teatro rivoluziona stile e repertorio, inaugurando una linea di estrema attenzione alla drammaturgia contemporanea. Visi noti, sentimenti confusi, il primo Botho Strauss messo in scena in Italia assieme al primo Fugard italiano, L’isola, valgono a De Capitani e all’Elfo il Premio UBU 1984 per la drammaturgia contemporanea.
Nella stagione ‘92/’93 l’Elfo si associa al Teatro di Porta Romana dando vita ad un organismo unico denominato Teatridithalia. De Capitani, di nuovo alla regia insieme a Ferdinando Bruni, porta in Italia la pièce di un giovane autore canadese, Brad Fraser: Resti umani non identificati e la vera natura dell’amore, che suscita non poco clamore per la scabrosità dei temi trattati e per la crudezza del linguaggio fino a diventare spettacolo cult. A distanza di sette anni De Capitani torna a Shakespeare con Amleto (stagione ’94/’95). Nel marzo 1995 De Capitani mette in scena il suo primo Koltés, Roberto Zucco, e nel giugno dello stesso anno, alla Biennale di Venezia, il suo primo incontro con Pasolini: I Turcs tal Friul, primo testo teatrale dell’autore scritto nel friulano materno di Casarsa, protagonista Lucilla Morlacchi e una compagnia di quaranta attori friulani. Spettacolo vincitore del Biglietto d’Oro per il Teatro 1996.
Nell’aprile ’98 mette in scena La morte e la fanciulla di Ariel Dorfmann.
Nel maggio del ‘99 affronta autori contemporanei italiani con Tango americano di Rocco D’Onghia e La nuova gioventù, firmato a quattro mani con Francesco Frongia, una nuova incursione nel mondo friulano dopo I Turcs tal Friul.
Torna nuovamente a Pasolini scegliendo la sua traduzione dal greco per l’allestimento dell’Orestea di Eschilo, un progetto di respiro triennale che coinvolge gli attori storici della compagnia dell’Elfo e un nutrito gruppo di giovani attrici/cantanti: una vera sfida produttiva e registica. Nella stagione ‘99/2000 firma inoltre, con Ferdinando Bruni, la regia di Edoardo II di Christopher Marlowe, ripreso anche nel gennaio 2001 con un notevole successo di pubblico. Per la Fenice di Venezia firma nel gennaio del 2001 la regia del Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi, ripreso per una tournée in Giappone nel mese di giugno.
Gli ultimi titoli allestiti sono stati: Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo, firmato in coppia con Ferdinando Bruni, che ha debuttato nel dicembre del 2002 e viene quest’anno riproposto in una lunga tournée che si concluderà al Teatro Argentina di Roma; Polaroid molto esplicite dell’inglese Mark Ravenhill, testo inedito in Italia, e il Mercante di Venezia di Shakespeare, realizzato per l’Estate Teatrale Veronese nel luglio 2003.


16 > 20 settembre 2004
Tese delle Vergini, Teatro Piccolo Arsenale,
Teatro alle Tese
Orestea di Gibellina


Da anni le Orestiadi di Gibellina volevano riproporre al teatro le domande che dall’antichità classica lo spettatore gli rivolge: domande sul futuro e sul presente, sulla propria comunità e su quanti da fuori vi guardano. E’ nata così questa nuova Orestea, che guarda a Eschilo da questo terzo millennio in cui tutto appare precipitosamente cambiato. Da qui la decisione di chiamare tre registi diversi (per sesso, nazionalità, cultura e formazione), tutti sotto la soglia dei quarant’anni, cui affidare la realizzazione delle tre parti della trilogia. Ad essi la Fondazione Orestiadi ha suggerito solo due chiavi di lettura, strettamente legate tra loro: la prospettiva dell’Africa, che poche miglia dividono dalle coste siciliane con tutte le cronache di dolore di questi anni ma anche di felice integrazione, e il lavoro poetico di Pier Paolo Pasolini, che non solo tradusse Orestea nel 1960 per Vittorio Gassman, ma trovò proprio nell’Africa il luogo di contatto tra il mito e noi, come dimostrano i suoi film, in particolare quel saggio poetico che sono gli Appunti per un’Orestiade africana.
Il primo episodio di questa nuova Orestea è stato realizzato nell’estate 2003 a Gibellina da Rodrigo García. Fedelissimo nello spirito alle chiavi di lettura affidategli, il lavoro dell’artista ispanoargentino ha sconvolto chi l’ha visto, per la violenza e la poesia con cui ha affrontato le tematiche del potere e della sua legittimazione, della spartizione delle risorse, della giustizia e delle responsabilità.
Proprio grazie all’invito della Biennale Teatro diretta da Massimo Castri, quest’anno sono state realizzate e debutteranno per la prima volta a Venezia, gli altri due episodi della trilogia. Monica Conti si avvale di altri linguaggi (come il canto e la musica) per affrontare il “lato femminile” della tragedia, quelle Coefore che sono il luogo di transito obbligato tra un “passato che non passa” e un futuro che resta oscuro e quasi impossibile da razionalizzare. Caden Manson e il suo Big Art Group statunitense si affacciano invece sulla dimensione futura di Eumenidi, usando il progresso della tecnologia come strumento di interpretazione e progettazione del nuovo. I linguaggi, ma perfino il colore e il suono di ogni episodio, saranno così molto diversi tra loro, ma proprio per questo potranno dare più suggestioni e possibilità di comprensione a quelli che restano i grandi e più rischiosi interrogativi della convivenza umana.

L’Orestea di Eschilo è stato il momento costitutivo di tutte le attività delle Orestiadi di Gibellina, la cui Fondazione ne ha preso, non a caso, il nome. E’ stata infatti la trilogia di Eschilo ad avviare, agli inizi degli anni ottanta, il teatro sui ruderi della città vecchia quindici anni dopo il terribile terremoto che nel 1968 l’aveva distrutta completamente. Il Cretto, il grande sudario bianco di cemento ideato da Alberto Burri, era allora solo un progetto che si avviava a espandersi, ma con la traduzione contemporanea e in siciliano di Emilio Isgrò, e con la regia di Filippo Crivelli e le spettacolose sculture sceniche di Arnaldo Pomodoro, nacquero Agamennuni, Cuefuri e Villa Eumenidi. L’antica trilogia che per la prima volta in occidente aveva mostrato e ratificato il potere dei cittadini di Atene chiamati a giudicare Oreste, amplificava ora la domanda di Gibellina e dei suoi abitanti di una fondazione nuova e di una nuova convivenza tra cittadini.
Poi a Gibellina (sui ruderi della vecchia e negli spazi di quella nuova ricostruita a venti chilometri in una sorta di concorso ideale e generoso tra i più diversi e prestigiosi artisti e architetti) il teatro si è fatto tradizione, quasi necessità. Negli anni sono passati da lì i più grandi artisti della scena italiana e internazionale. Peter Stein vi ha portato la sua Orestea preparata in russo a Mosca negli anni della Perestrojka gorbacioviana. E quella domanda di teatro continua ancora, riproponendo ancora i nostri quesiti alla trilogia più antica, l’Orestea di Eschilo.

16 settembre - Tese delle Vergini - ore 19.30
17 settembre - Tese delle Vergini - ore 21.00
Agamennone,
sono tornato dal supermercato e ho preso a legnate mio figlio
testo e regia Rodrigo García
con Rubén Amettlie, Nico Baixas, Gonzalo Cunill, Anne Maud Meyer, Juan Navarro
musiche dal vivo Standstill
coreografie Elena Córdoba
luci Carlos Marquerie
video Javier Marquerie
animazione computer graphic Ramón Diago
assistente alla regia Mireia Andreu
costumi Galiana
produzione Mercadante Teatro Stabile di Napoli,
Fondazione Orestiadi di Gibellina, La Carniceria Teatro

La tragedia Agamennone è per noi il punto di partenza per parlare di determinati temi di attualità; non intendiamo illustrare l’opera né raccontarne ancora una volta la vicenda.
Con questo Agamennone proseguiamo sulla nostra consueta linea di lavoro: un teatro che metta in guardia dalle conseguenze del consumismo, di un mondo globalizzato in mano a poche multinazionali e soprattutto dal progetto di un nuovo ordinamento mondiale in cui un paese, con la forza delle armi e del denaro, ha più potere del resto del mondo. Il nostro Agamennone parla di guerra e di cibo. Un banchetto di polli allo spiedo che offriremo al pubblico alla fine dello spettacolo, se vorrà dividerlo con noi.
Polli allo spiedo come turisti rosolati sulle spiagge del Terzo Mondo. Polli allo spiedo come alimento che non arriva al Terzo Mondo. Polli allo spiedo nelle loro casse da portare a casa, come cadaveri di soldati rimpatriati.
In questa opera, Hillary può essere Clitennestra. Bill Clinton può essere Agamennone. E Monica Lewinsky una stupenda Cassandra. E Bin Laden potrebbe essere Egisto. E i figli di Saddam potrebbero essere Ifigenia. E Agamennone potrebbe essere Berlusconi. E Canale 5 può essere Cassandra. E Dodi Al Fayed potrebbe essere Egisto. E Lady D potrebbe essere Clitennestra. Il Principe Carlo potrebbe essere Agamennone.
Il fatto è che la tragedia è nel e del mondo industrializzato. La tragedia, ora più che mai, è nel primo mondo. La tragedia siamo noi.
La tragedia si compone di otto atti: e ciascun atto porta il nome di uno dei paesi più ricchi del mondo. Se la tragedia, e solo la tragedia, è nel mondo civilizzato, dove bisogna cercare la speranza? La speranza può trovarsi in qualsiasi angolo della terra, ma non verrà mai scoperta. Perché per scoprire la speranza, ci vogliono soldi e volontà. E coloro che possiedono il denaro preferiscono che la speranza di una giustizia globale rimanga lì dov’è, sepolta in fondo da qualche parte.
Rodrigo García

Per chi ha già visto After Sun, Ronald pagliaccio del Mc Donald, Credo che non hai capito bene, la visone di Agamennone/Sono tornato dal supermercato e ho preso a legnate mio figlio sembrerà un punto conclusivo dell’indagine che Rodrigo percorre da tempo sulla scena. Ma anche chi non ha visto i precedenti, troverà una visione avanzata e molto concreta di cosa possa oggi essere il teatro, della sua capacità ancora inesausta di parlare del mondo senza sottomissione, dell’uso della ragione che sfida le abbuffate ideologiche e quelle gastrointestinali in cui ci troviamo a dimenarci.
L’Agamennone sembra a prima vista parlare d’altro rispetto al testo classico, anche se in modo così scoppiettante da risultare irresistibile.
L’Agamennone ci permette di scoprire insieme al García regista e creatore di contesti scenici, un complesso e solido scrittore di drammaturgia, e il visionario artista visivo fratello dei più avanzati innovatori.
Gianfranco Capitta


Nato a Buenos Aires nel 1964, Rodrigo García dal 1986 vive e lavora a Madrid, dove nel 1989 ha fondato la compagnia La Carniceria Teatro, che ha realizzato numerosi spettacoli seguendo la linea della sperimentazione e della ricerca di un linguaggio personale. Allontanandosi dal teatro tradizionale,
García è stato influenzato in un primo tempo da Beckett, Pinter, Bernhard e da romanzieri come Cèline e Peter Handke. Oggi, sia nei testi, sia negli spazi da lui creati, è possibile rilevare un’affinità con il lavoro di artisti plastici come Bruce Nauman, Bill Viola o Sol Lewitt. La sua scrittura si ispira al quotidiano, è un prolungamento della realtà reso più intenso dalla dimensione poetica che egli sa conferirle. Autore, scenografo e videasta, come regista ha diretto, tra gli altri, Vino Tinto, da Thomas Bernhard, 30 copas de vino, da Baudelaire, Los tres cerditos, di Bruce Nauman, El pare, da Heiner Müller, Hostal conchita, da Thomas Bernhard. I personaggi di García, lontani da ogni naturalismo o facile caricatura, si compiacciono di un decadentismo del pensiero, s’arrangiano come possono per vivere e sembrano credere che la loro banale esistenza sia tra le più originali.

17 settembre - Teatro Piccolo Arsenale – ore 19.30
18 settembre - Teatro Piccolo Arsenale – ore 20.00
Coefore
prima assoluta
traduzione di Pier Paolo Pasolini
regia Monica Conti
con Annamaria Guarnieri
produzione Teatro Stabile delle Marche, La Biennale di Venezia
in collaborazione con Festival di Gibellina – Sipario d’Estate della Provincia di Pesaro Urbino

Per Monica Conti il lavoro parte da lontano rispetto all’inizio delle prove: parte da un lungo e lento lavoro di avvicinamento al testo per arrivare, solo alla fine di questo percorso, alla sintesi personale. Sintesi personale che “passa”, poi, principalmente attraverso l’attore. Ed è proprio il lavoro con gli attori, densissimo, e la ricerca di un linguaggio poetico comune, che sta alla base delle sue regie e che caratterizzerà la messa in scena di Coefore.

Monica Conti si diploma in regia alla scuola "Paolo Grassi" di Milano e in pianoforte al Conservatorio di Brescia. Dirige il primo spettacolo nel 1989 per il Centro Teatrale Bresciano (Faust. Un travestimento di Edoardo Sanguineti, protagonisti Claudio Bisio e Roberto Trifirò), ma si dedica prevalentemente alla regia dal 1996 con Aprile a Parigi di John Godberg e Edmenegarda di Giovanni Prati. Nel 1997 è al Fabbricone di Prato con Stretta sorveglianza di Jean Genet e al Franco Parenti di Milano con La mite, personale elaborazione drammaturgica dalla novella di Dostoevskij. Successivamente firma la regia di: L'ultimo nastro di Krapp di Beckett, Else e il sottotenente Gustl di Schnitzler, Il killer Disney di Philip Ridley, Voltati parlami di Alberto Moravia Nel 2000, al Fabbricone, mette in scena La donna di pietra, di cui è anche autrice, ispirato alle lettere di Emily Dickinson. Nel 2001 dirige Gianrico Tedeschi nel Minetti di Thomas Bernhard e, nel giugno dello stesso anno, le viene conferito il Premio Hystrio alla regia. Nel 2002 firma la regia del Medico per forza di Molière sempre con Gianrico Tedeschi, produzione degli Artisti Associati di Gorizia. Per quanto riguarda la formazione dell'attore, all'Arena Plautina di Sarsina fonda e dirige per tre anni un laboratorio su Plauto (miglior progetto europeo). Fonda inoltre un laboratorio a Chiaravalle su Maria Montessori e mette in scena Maria Montessori. Atto di nascita, di cui firma anche la drammaturgia e Bambini di notte di Filippo Soldi, prodotto dal Teatro Stabile delle Marche. Tra i lavori del 2004: Dispetto d’amore di Molière per il Teatro Giacosa di Ivrea e Le onde del mare e dell’amore di Franz Grillparzer, prodotto dal Centro Teatrale Bresciano. Entrambi i lavori in prima rappresentazione in Italia.

19/20 settembre - Teatro alle Tese – ore 20.00
Eumenidi
prima assoluta
da Eschilo
regia Caden Manson
produzione CTB Teatro Stabile Brescia, Fondazione Orestiadi di Gibellina, La Biennale di Venezia

Caden Manson è nato a Robstown, Texas, una piccola cittadina alla periferia di Corpus Christi, ma studierà all’università di Austin. Nel 1999 fonda il Big Art Group, con cui allarga i confini della performance attraverso una sperimentazione aggressiva che utilizza nuovi media, sovverte i procedimenti narrativi e la struttura complessiva dello spettacolo. Con la sua compagnia ha creato lavori controversi, provocatori e crudi, come Clearcut, catastrophe! (1999), The Balladeer (2000), Shelf Life (2001); and Flicker (2002).
Flicker è stato presentato con grande successo in Europa lo scorso anno. In Italia è stato ospite al Festival Inteatro di Polverigi e al Teatro India di Roma per Le vie dei Festival 2003. Subito dopo Eumenidi, Big Art Group presenterà a Roma e Parigi la nuova creazione per il Festival d'Automne 2004, The house of No More, che ha debuttato in anteprima a New York lo scorso gennaio.
Recentemente, Caden Manson ha ricevuto un riconoscimento dalla Foundation For Contemporary Performance Art per il suo lavoro con il Big Art Group.

22 settembre - Teatro Piccolo Arsenale – ore 20.00
23 settembre - Teatro Piccolo Arsenale – ore 21.00
Bestia da Stile
prima assoluta
di Pier Paolo Pasolini
regia Antonio Latella
con Marco Cacciola, Marco Foschi, Giuseppe Lanino, Marco Martini, Giuseppe Massa, Giuseppe Papa, Annibale Pavone, Mauro Pescio, Giovanni Prisco, Enrico Roccaforte, Cinzia Spanò, Rosario Tedesco, Stefania Troise
luci Giorgio Cervesi Ripa
suono Franco Visioli
costumi Cristina Da Rold
regista assistente Tommaso Tuzzoli
produzione Nuovo Teatro Nuovo Teatro Stabile di Innovazione, Teatro Stabile dell’Umbria, La Biennale di Venezia

Un testo non testo. Un’opera teatrale che frantuma tutte le regole e le forme di scrittura teatrale. Una sorta di biografia, di testamento, dove lo stesso Pier Paolo Pasolini si schiera in prima linea, raccontando una storia e raccontandosi in questa non storia abitata da un universo di morti, che vide, nella primavera di Praga, la fine del comunismo. Non ci sono personaggi ma solo fantasmi, e la parola prende forma solo attraverso i ricordi e la morte. Tutto precipita nel caos e l’uomo si fa bestia; la parola urlo disperato, non c’è più controllo, e la mente non abita più nel cranio, ma tutto è un magma - di corpo, sangue, sperma, parola, pensieri, feci e amore. Questo non testo teatrale è stato scelto con i miei amici-attori per chiudere questo viaggio ideale su e con Pasolini iniziato da Pilade e passato attraverso Porcile. Un viaggio alla scoperta, o meglio verso un inizio di conoscenza dell’artista e dell’uomo Pasolini; alla scoperta di un universo che aborre ogni forma di consolazione, ogni compromesso.
Un teatro che parte dall’essenza (autore – parola – attore – pubblico) ma che ogni volta cerca una nuova forma. Assemblea culturale aperta a tutti (nel caso di Pilade). Oppure bisturi che incide il corpo malato di ciò che per lui è la morte del teatro, ossia la borghesia infettata dal cancro del potere (nel caso di Porcile). Per arrivare al non rappresentabile poiché è già nella sua non struttura “un’opera d’arte”. L’ultimo respiro prima della condanna a morte. Questa è la sfida che impone e pretende una totale libertà, quella libertà che spaventa e attrae. Antonio Latella

Attore e regista napoletano trentacinquenne (ha lavorato con M. Castri, L. Ronconi, V. Gassman, E. De Capitani, A. Syxty), Antonio Latella In questi ultimi anni ha alternato la sua attività di attore a quella di regista per arrivare nell’ultimo periodo ad impegnarsi esclusivamente nella regia. Nel 2001 ha vinto il premio speciale UBU per il progetto “Shakespeare ed oltre”, l’XI edizione del premio intitolato a Luca Coppola e a Giancarlo Prati e il premio Girulà per la drammaturgia. Ha realizzato come regista gli spettacoli Agatha di Marguerite Duras (1998), Otello di William Shakespeare, produzione Elsinor (1999); Macbeth di W. Shakespeare (2000), che ha messo in scena per il teatro Argot di Roma per Fontana Teatro; Romeo e Giulietta di Shakespeare, produzione Out - Off (2000); Amleto di Shakespeare, produzione Elsinor (2001); Stretta sorveglianza, produzione Out - Off di Jean Genet (2001); Pilade di Pier Paolo Pasolini, produzione Out Off (2002); I Negri di Jean Genet (2002), produzione Nuovo Teatro Nuovo (2002); uno studio sul Riccardo III di Shakespeare, produzione Elsinor (2002); Querelle da Jean Genet, produzione Nuovo Teatro Nuovo Teatro Garibaldi (2002); I trionfi di G. Testori, produzione Elsinor (2003); La dodicesima notte di W. Shakespeare, produzione Teatro Stabile dell’Umbria (2003); Porcile di Pier Paolo Pasolini, produzione Nuovo Teatro Nuovo in collaborazione con Festival di Salisburgo/Young Directors Project; La tempesta di Shakespeare, produzione Teatro Stabile dell’Umbria (2003); La bisbetica domata di Shakespeare, produzione Elsinor (2003).

23 settembre - Teatro alle Tese – ore 19.30
24 settembre - Teatro alle Tese – ore 21.00
Purificati
prima assoluta
di Sarah Kane
regia Marco Plini
con Silvia Ajelli, Michelangelo Dalisi, Milutin Dapcevic, Roberto Salemi (cast in via di definizione)
scene e costumi Claudia Calvaresi
suono Franco Visioli
luci Fabio Bozzetta
assistente alla regia Barbara Benedetti
direttore di scena Roberto Melchiorri
produzione Nuovo Teatro Nuovo Stabile di
Innovazione
, La Biennale di Venezia

E’ singolare il fatto che Purificati sia l’unico testo di Sarah Kane ancora non rappresentato in Italia, in quanto appare il momento più alto di una ricerca stilistica e di senso, che partendo dal naturalismo trasfigurato di Blasted (Dannati) arriva, attraverso una serie di esperimenti, al monologo testamento di 4. 48 psicosi.
In questo percorso tanto complesso quanto breve, consumato nell’arco di quattro anni, Sarah Kane mostra un mondo in cui l’alfa e l’omega continuamente si inseguono e si confondono, integrandosi e contraddicendosi; un mondo di vittime-carnefici e di carnefici-vittime, di incapacità di parole, di ricerca e negazione d’amore e di incredibili taumaturgie chimiche.
Difficilmente apprezzata al di fuori della sua generazione, Sarah Kane rappresenta il suo dolore di vivere in un mondo in cui la barbarie ha occupato ogni spazio pubblico e privato, ma al contrario dei suoi predecessori, che hanno rappresentato oggettivamente questo disagio, tenta disperatamente attraverso la sua opera di intuire una via di salvezza.
In questo contesto si inserisce Purificati, il cui titolo allude ad una bruciatura e contemporaneamente alla pulizia etnica, una sorta di summa associativa delle aberrazioni del XX secolo. In questo testo un campus universitario diviene, letteralmente, un campo di concentramento governato da un contradditorio “Mad-doctor”, che punisce sistematicamente ogni cenno d’amore o di tenerezza, attraverso plurime amputazioni che tendono ad impedire ogni tentativo di comunicazione. Nonostante tanta violenza, però, l’immagine finale del dramma ci mostra ancora intatta la possibilità di esprimere tenerezza, di manifestare amore, in questo sanguinante paesaggio di rovine. Tutto ciò viene raccontato attraverso un linguaggio incredibilmemnte moderno che ha le sua radici nello Shakespeare delle tragedie più sanguinarie (Re Lear, Tito Andronico), attraverso temi e suggestioni molto cari a Bond, Osborne, Pinter, e Wesker, lanciando, però, uno sguardo apocalittico ma del tutto nuovo sulla realtà che la circonda e sulla possibilità di salvezza e liberazione che ci restano.
Marco Plini

Marco Plini è nato a Terni nel 1970; comincia la sua attività teatrale nel 1988, durante gli anni dell’Università, curando la regia degli spettacoli di alcuni gruppi umbri fino al 1993, anno in cui inizia a collaborare con Massimo Castri. Nei dieci anni successivi lavora come aiuto regista di Massimo Castri nei maggiori teatri italiani ai seguenti spettacoli: Ifigenia in Tauride di Euripide - Produzione Teatro Stabile dell’Umbria; Ecuba di Euripide - Produzione Teatro di Roma; La trilogia della villeggiatura di C. Goldoni Produzione Teatro Stabile dell’Umbria/Teatro Metastasio di Prato; Oreste di Euripide - Produzione Teatro Metastasio di Prato; Orgia di P.P. Pasolini - Produzione Teatro Metastasio di Prato; Fede speranza e carità di O. Von Horvath - Produzione Teatro Metastasio di Prato; Ifigenia di Euripide - Produzione Teatro Metastasio di Prato; Gli innammorati di C. Goldoni - Produzione Veneto Teatro;

L’Assedio di Corinto di G. Rossini - Produzione Rossini Opera Festival; Madame De Sade di Y. Mishima - Produzione Teatro Stabile di Torino; J. G. Borkman di H. Ibsen - Produzione Teatro Stabile di Torino. Nel 2001 debutta alla regia con lo spettacolo: Risveglio di primavera di F. Wedekind - Produzione Teatro Stabile di Torino. Dal 2000 al 2002 è stato assistente di Direzione al Teatro Stabile di Torino
L’opera di Sarah Kane, nata nell'Essex il 3 febbraio 1971, rappresenta un punto di riferimento per la drammaturgia contemporanea inglese. Come scrive Edward Bond: “Ci sono due tipi di drammaturghi. Il primo tipo rappresenta giochi teatrali con la realtà. Alcuni lo fanno male, alcuni bene e i loro testi sono talvolta interessanti. Il secondo tipo di drammaturghi cambia la realtà. Sarah Kane era una drammaturga del secondo tipo”. Il percorso che conduce Sarah Kane a una tale estremizzazione avviene all’interno di una strada formativa paradossalmente classica. Dopo il diploma Sarah Kane andò all'Università di Bristol per laurearsi in teatro e, nonostante il talento di attrice e regista, nacque in lei l’urgenza della scrittura. La sua prima opera teatrale fu Sick (rappresentata nel 1994 al Festival di Edimburgo), una serie di tre monologhi su stupro, bulimia e sessualità che in nuce conteneva la poetica della violenza che caratterizzò la sua produzione. Da Bristol si trasferì all'Università di Birmingham per seguire una specializzazione in drammaturgia che concluse nel 1993 con un elaborato finale dal titolo Blasted. Venne rappresentato nel 1995 alla Royal Court Upstairs di Londra per la regia di James Macdonald e suscitò subito scandalo e polemiche per la violenza espressa. Nel 1996 Sarah Kane scrive Phaedra's Love, che lei stessa dirige al Gate Theatre di Londra. Si tratta di una riscrittura moderna del mito di Fedra, derivato non tanto dalla tragedia di Euripide quanto da quella, ben più violenta e truce, di Seneca. Sempre per il Gate Theatre firmerà in seguito un'altra regia, quella del Woyzeck di Georg Büchner. Nel 1998 va in scena al Royal Court, diretto ancora da James Macdonald, Cleansed, che discute di identità e sessualità ma in maniera altamente metaforica, proiettando in un campus universitario un vero e proprio campo di concentramento dominato dal dottor Tinker, che sevizia e tortura per suo piacere. Inizia in questo testo quel processo, che si esplicita nel successivo Crave e 4.48 Psychosis, per cui i personaggi diventano ancora di più espressione di un’emozione che la manifestazione esteriore di una psicologia e di una interazione sociale.
In Crave, scritto con lo pseudonimo di Marie Kelvedon e portato in scena da Vicky Featherstone al Traverse Theatre di Edimburgo sempre nel 1998, i quattro personaggi del testo sono identificati esclusivamente da una lettera (A,B, C, M) e la frammentazione narrativa si approfondisce. Dopo Crave, nel gennaio 1999, si fece ricoverare al Maudsley Hospital a Londra, mentre ormai all'esterno si stava celebrando il trionfo critico della sua opera, paragonata perfino a Eliot. Ma la depressione ormai era arrivata a livelli insostenibili, che Sarah riversa in 4.48 Psychosis, un testo in cui un personaggio non identificato, rinchiuso in un ospedale per depressione, confessa tutta la sua sete di vita e amore e contemporaneamente la decisione di suicidarsi. Dopo aver scritto questo testo, muore suicida il 20 febbraio 1999.

24 settembre - Tese delle Vergini – ore 19.30
25 settembre - Tese delle Vergini – ore 20.00
Binario morto
prima assoluta
di Letizia Russo
regia Barbara Nativi
scene Dimitri Milopulos
produzione Teatro della Limonaia, La Biennale di Venezia

C’è, dietro la periferia indeterminata di Binario morto - nelle amnesie dei personaggi, in quella dell’autrice, che ci nega ogni antefatto – un’ombra, come un’idea di abbandono nazionale, di acquisita indifferenza verso le sorti dell’Umano in genere e del futuro, che gli adolescenti del testo dovrebbero rappresentare. L’arte è insidiata da una realtà invadente, e oggi, marzo 2004, il non-luogo di Letizia non riesce a guadagnarsi lo status di spazio surreale. Corrono pronti alla mente molti scenari in cui sarebbe possibile Binario morto, non c’è che l’imbarazzo della scelta: il nostro presente terribile vive in ogni riga, grazie a quel non detto che nei testi della Russo parla sempre a gran voce.
I giovani di Binario morto vivono ai margini di una città x, su una collina y. Quel loro essere non-si-sa-dove-e-perché-né-quando-né-a-far-cosa è punto di incontro di temi importanti: è adolescenza reale e metaforica assieme. Spaesamento del corpo e dell’anima, che non si riconoscono più in nulla, e precipitano in un’affannata ricerca di identità (o verità) nuove, e nuovi (o vecchi) ruoli. E reclamano a gran voce il gruppo, il branco, unica gioia, unico luogo vero di questo testo che narra, con grande humor e senso del tragico, del rapporto dell’individuo con il mondo; della sua paura di essere autonomo, e quindi solo; e del suo conseguente affidamento all’Altro. Quanto è importante stabilire se è un carnefice travestito o un Dio vero? Una volta che si è rinunciato a noi e si è imboccato il Binario morto del titolo, la vita sembra prendere un andamento circolare, si ripete identica. Così dicono. E ogni promessa di futuro si dissolve nella minacciata - e temuta - ciclicità.
Barbara Nativi

Binario morto è una metafora del potere, dell'ineluttabilità delle forme di potere che si sviluppano e si impongono all'interno di tutte le comunità, a cominciare dalla coppia per finire alle nazioni. A questo, si legano tutti gli strati successivi dell’opera: chi ha davvero il potere? Chi siede su un trono (o su una poltrona parlamentare) o chi concede al re o al politico di sedere lì? C'è poi tanta differenza fra i tipi di potere imposti alle società? E infine, cos'è davvero la religione? Un credo o un voglio credere? Un voglio credere o un devo credere? In un momento storico in cui siamo tornati alle guerre sante, agli estremismi e all'odio ingiustificato, come se non fossero ancora troppo vicine nel tempo e nello spazio carneficine e barbarie della storia, è importante che ci si domandi ancora da dove veniamo e dove andiamo. Non ho la speranza che Binario morto parli così in profondo né ai ragazzi né agli adulti, ma ai ragazzi, e alla loro vitalità, alla loro cattiveria e alle loro capacità eroiche dedico Binario morto.
Letizia Russo

Letizia Russo
è nata a Roma nel 1980. Ha scritto: Niente e nessuno (una cosa finita), rappresentato nel 2000 a Castelnuovo di Farfa, nell'ambito del festival curato dal direttore del Teatro di Roma Mario Martone, Per Antiche Vie. Tomba di cani, Premio Tondelli 2001 (sezione under 30, Premio Riccione per il Teatro) rappresentato per la prima volta nel 2002, con Isa Danieli e la partecipazione in video di Antonio Casagrande, regia di Cristina Pezzoli, produzione dell'Associazione Teatrale Pistoiese / Teatro del Tempo Presente. Lo spettacolo ha ricevuto tre candidature (Isa Danieli migliore protagonista femminile; Cristina Pezzoli migliore regista; Letizia Russo autore di migliore novità italiana) al Premio ETI - Gli Olimpici del Teatro. Isa Danieli ha vinto nella sua categoria. Tomba di cani ha ricevuto il Premio Ubu 2003 nella categoria “migliore novità italiana”.

Asfissia
, commissione "Festival di Candoni - ArtaTerme", con mise-en-espace nel novembre 2002 nell'ambito dello stesso Festival, e lettura nel settembre 2003 al Piccolo Teatro di Milano nell'ambito di "Tramedautore". Binario morto - Dead End, commissione del National Theatre di Londra, festival "Shell Connections", con messa in scena nel luglio 2004 al National Theatre di Londra, tradotto in inglese da Luca Scarlini in collaborazione con Aleks Sierz. Babele, primo testo di una trilogia sul potere. Debutto a Napoli nel gennaio 2004 nell'ambito della rassegna Petrolio curata da Mario Martone, con la regia e l'interpretazione di Paolo Zuccari accanto a Roberta Rovelli.
Ha in preparazione una raccolta di tre romanzi brevi, un testo liberamente ispirato ai temi del Don Giovanni di Mozart, che debutterà alla fine del 2004, e un testo commissionato dalla compagnia Artistas Unidos di Lisbona, per la regia di Jorge Silva Melo.
Ha partecipato, fra il luglio e l'agosto 2002, alla quattrodicesima International Residency del Royal Court di Londra. Per "Teatrogiornale" di Rai Radio3 ha scritto: I conigli sulla luna, Lo spirito nell'acqua, La via del mare, Qoèlet, Kilmainam Gaol, trasmessi da Rai Radio3 tra gennaio e maggio 2002.

Barbara Nativi, attrice, drammaturga e regista, dirige il Teatro della Limonaia e il festival Intercity di Sesto Fiorentino, che giungerà nel 2004 alla 17° edizione. Alterna lavori di creazione ad un forte interesse verso la drammaturgia contemporanea. Ha diretto, in prima nazionale o assoluta, opere di drammaturgia italiana (oltre a testi suoi, quelli di Massimo Bavastro, Silvia Calamai, Mario Luzi, Dacia Maraini, Fausto Paravidino), drammaturgia inglese (Martin Crimp, Sarah Kane, Terry Johnson, Mark Ravenhill, Philip Ridley), drammaturgia spagnola (Sergi Belbel, e ha tradotto Rodrigo Garcia), tedesca (Oliver Bukowski), drammaturgia francese (Bernard-Marie Koltès, Jean-Luc Lagarce), drammaturgia quebecchese (Michel Marc Bouchard, Normand Chaurette, René Daniel Dubois, Michel Tremblay), drammaturgia russa (Nina Sadur), drammaturgia svedese (Magnus Nillson), drammaturgia norvegese (Jon Fosse) e drammaturgia greca (Dimitris Dimitriadis, Sofie Dionisopoulou, Jacovos Kambanelis). Ha tradotto oltre quaranta testi teatrali dall’inglese, francese, spagnolo e, con Dimitri Milopulos, dal greco.

26/27 settembre - Teatro Piccolo Arsenale - ore 20.00

Prima / Dopo
prima assoluta
di Roland Schimmelpfennin
regia di Benedetta Francardo, Massimo Giovara, Paola Rota e Roberto Zibetti
con Benedetta Francardo, Massimo Giovara, Roberto Zibetti, cast da definire
prodotto da ‘Õ Zoo No con la collaborazione di
Teatro Stabile Torino - Teatri Convenzionati e La Biennale di Venezia

La prima fase del lavoro di ‘Õ Zoo No è stata improntata ad una particolare attenzione per la forma del monologo e delle strutture drammaturgiche ricavate da testi letterari: Huxley, Kerouac, Schnitzler, Salinger tra gli autori rappresentati. In questi anni (tra il 1996 e il 2000) ‘Õ Zoo No lavora spesso in stretto contatto con il Laboratorio Teatro Settimo di Settimo Torinese.
Dal 2001 inizia la collaborazione con il Teatro Stabile di Torino e si apre una nuova fase caratterizzata dalla rappresentazione di autori drammatici contemporanei, spesso di area nordeuropea.
Sempre dalla collaborazione con il Teatro Stabile di Torino, nonché con gli enti locali, nasce anche un progetto multimediale, Laundrettesoap, sorta di telenovela teatrale/internet/televisiva ambientata sul territorio cittadino. L’intento di questo progetto è di portare il teatro fuori dai confini del palcoscenico per dialogare con altri mezzi di comunicazione di massa. La prima edizione (ottobre 2003) ha avuto notevole successo di critica e pubblico.
Nel 2004 è stato messo in scena Baby Doll, spettacolo tratto dall’omonima sceneggiatura cinematografica di Tennessee Williams. Con Prima/dopo di Roland Schimmelpfennig, la compagnia ‘Õ Zoo No prosegue dunque il percorso intrapreso sulla drammaturgia contemporanea con spettacoli come East di Steven Berkoff (2002/2003) e Tracce di Anne di Martin Crimp (2003).
Prima/dopo descrive, non sempre in forma dialogata, una serie di situazioni e di personaggi, legati fra loro da relazioni temporali, causali o affettive. Spesso ai dialoghi si affiancano i pensieri dei personaggi, nonché delle didascalie che tendono a essere pensieri. Alcune situazioni molto semplici e quotidiane vengono esaminate da punti di vista differenti, i vari personaggi diventano veicoli di una percezione specifica del reale, che si incrocia e dialoga con le altre. I pensieri, spesso come un sottotesto continuo, a volte si allargano a diventare situazioni dal sapore surreale in cui i singoli vivono e sperimentano i propri sogni e le proprie paure. ‘Õ Zoo No

Roland Schimmelpfennin nasce a Gottingen nel 1967. Dopo aver collaborato al Munchner Kammelspielen nel 1998 trascorre un anno negli Stati Uniti, dedicandosi alla traduzione di testi in lingua inglese. Lo stesso anno vince il Premio Schiller. Successivamente diviene drammaturgo della Schaubühne am Lehniner Platz di Berlino - il teatro diretto da Thomas Ostermeier. Dal 2002 è dramaturg della Deutsches Schauspielehaus di Amburgo. Nel 1997 il suo testo Fisch um fisch vince il premio Alse Lasker-Schuler. Vorher/Nachher, il suo ultimo testo, è stato commissionato dal Festival “Frankfurter Positionen”. Tra i suoi testi ricordiamo: Die ewige Maria (1995), Keine Arbeit für die junge Frau im Frühlings-kleid (1995), Vor Langer Zeit im Mai (1996), Die Zwiefachen (1996), Die Aufzeichnung, pièce radiofonica (1996), Aus den Städten in die Wälder, aus den Wäldern in die Städte (1997), M.E.Z., monologo (1997), Die Taxiterroristin, pièce radiofonica (1999) Die arabische Nacht (2000), Krieg der Wellen, pièce radiofonica (2000), Push up 1-3 (2001), Vorher/Nachher (2001).

‘Õ Zoo No
nasce a Torino nel 1996. I soci fondatori sono Benedetta Francardo, Massimo Giovara, Paola Rota e Roberto Zibetti. Lavorano tutti come attori professionisti dal 1990 e hanno in comune una lunga esperienza formativa con il Laboratorio Teatro Settimo diretto da Gabriele Vacis.
Hanno lavorato, inoltre, con diversi registi, tra cui Luca Ronconi, Massimo Castri, Giorgio Strehler, Elio De Capitani, Klaus Michail Gruber e, nel cinema, con Bernardo Bertolucci, Dario Argento, Giacomo Battiato, Guido Chiesa, Lucio Pellegrini, Gian Luca Tavarelli, Matteo Garrone, Marina Spada, Carlo Mazzacurati, Luciano Ligabue e Antonello Grimaldi. Decidono di costituire l’Associazione ‘O Zoo No spinti dalla necessità di produrre autonomamente spettacoli, in particolare lavorando su testi contemporanei.
Producono e realizzano, in collaborazione con il Laboratorio Teatro Settimo prima e con il Teatro Stabile di Torino dal 2000, diversi spettacoli tra cui Il giovane Holden di J.D.Salinger, Han Shan dall’opera di Kerouac, Stream of consciousness di Andrea Roncagliene, East di Steven Berkoff, Tracce di Anne di Martin Crimp, Baby Doll di Tennessee Williams e il progetto Laundrettesoap.

28 /29 settembre - Tese delle Vergini – ore 20.00
La scimia
prima assoluta
liberamente ispirato a “Le due zitelle” di Tommaso Landolfi
regia di Emma Dante
con Gabriele Benedetti, Gaetano Bruno, Savino Civilleri; Manuela Lo Sicco; Valentina Picello
luci Tommaso Rossi
scene e costumi Emma Dante
elaborazione del testo Elena Stancanelli
produzione CRT Centro di Ricerca per il Teatro Milano, Compagnia Sud Costa Occidentale, La Biennale di Venezia
in collaborazione con Teatro Garibaldi, Palermo e Monty - Anversa, Belgio

Dopo il Giudizio Universale, le anime dovranno attraversare il Golfo dell’Inferno. I cattivi precipiteranno in un fiume di fuoco e i buoni raggiungeranno un Paradiso dove scorrono fiumi di latte e miele.
Dove andrà “la scimmia” dopo il Giudizio? L’anima di Tombo, “animale piuttosto piccolo e vivace”, incontrerà la nostra? Dio solo sa se uno scarafaggio o un elefante saranno i benvenuti nel regno dei cieli! Come possiamo saperlo noi, in quanto umani, se non abbiamo familiarità con i loro gesti bestiali e con la loro meravigliosa sicurezza istintiva? Come possiamo noi, nel caso in cui un’aquila andasse all’inferno, provarne pietà!? “La scimia” compare nei nostri sogni e ci entra nell’anima fino a spezzarci il cuore con la sua innocenza. Tombo commette il peccato ma non sa che esiste una via del bene e una via del male, mastica l’ostia consacrata, scompiscia l’altare, dice messa e insozza la sacralità di quel rito con la stupidità del suo corpo, con la sua bassezza, con il suo essere mosso da impulsi e desideri.
Dopo una lunga e affascinante disputa teologica in cui vince il libero arbitrio dell’uomo, due preti e due donne devote preparano la feroce esecuzione dello sciagurato animale.
Le due zitelle, custodi della “scimietta” e della fede indiscussa nell’esistenza di Dio, vivono prigioniere di una vita muffosa e tetra con la sola speranza di una possibile unione con la divinità. Con ossessione morbosa mangiano l’ostia ogni giorno, si lavano con l’acqua benedetta e fanno dir messa ogni volta che albeggia. Gli impulsi e i desideri della “scimia” diventano per loro l’unico richiamo alla vita.
Lilla e Nena capiscono la lingua del loro animale come due bestie davanti a una bestia e nel preciso istante in cui lo colpiscono vedono nei suoi occhi la “sgomenta meraviglia” di un essere umano. “La scimia” è una creatura di Dio in cui il mistero della grazia e della bellezza è pari soltanto all’ossessiva enormità della nostra furia di uccidere.
Emma Dante

Il teatro cerca continuamente parole adeguate. Una lingua che resista allo scontro con i corpi degli attori e degli spettatori, le luci, il buio. Che racconti del mondo che sta intorno, perché la scena ridicolizza le archeologie lessicali, ma abbia in sé quella genialità mitopoietica, che salva la buffa arte della recitazione dalla caduta nel ridicolo, che è in agguato dietro ogni quinta.
Tommaso Landolfi, narratore poeta traduttore, uomo coltissimo che seppe sperperare se stesso e regalare il suo talento a imprese letterarie spesso fallimentari, è un autore molto amato da pochi e troppo ignorato da quasi tutti. Italiano, nella sua vocazione al fantastico, nel suo abbandonarsi come un puer tra le braccia di sogni orrifici e quotidianità minuscolo-borghesi, ma incredibilmente sprovincializzato nella sua libertà di immaginare fantascienze, iper-realtà, paesaggi letterari che ancora oggi stupiscono.
Spesso tanta meraviglia è ingombrante, e Landolfi è stato spesso considerato "troppo". Ma questo "troppo", è giusto giusto quello che serve, per il teatro.
Le due zitelle, forse il suo romanzo più famoso, è la storia di due donne, come migliaia di donne che conosciamo, che si tengono l'un l'altra rinchiuse in una casa, terrorizzate da ogni spiffero di vento che, dopo una certa età, può essere solo annuncio della fine. Nelle loro stanze, le cui porte vengono aperte di rado e richiuse immediatamente, lasciano stagnare un odore muffoso. Fuori, dal giardino, sale invece il profumo degli eucalipti, ma prima ancora il sentore eterno del monastero. Questo è il mondo, su cui regna, come in un reame rovesciato, una scimmia.
Le due zitelle è il racconto di una sessualità punita, battuta, annientata. Di una femminilità scaduta, inavvicinabile. Come quelle mummie egiziane vecchie milioni di anni, che al primo contatto con la luce si dissolvono, scompaiono, raggiungono finalmente la loro morte.
Tutto questo raccontato nella lingua straordinaria di Landolfi, che costruisce, con abilità diabolica, un claustrofobico campo semantico, un’enclave linguistica, per raccontare ciò che accade nella casa, e lo manda a combattere contro i cavilli lessicali di una coppia di preti, unici saltuari ospiti, incaricati di processare e condannare la scimmia per il reato di sacrilegio.
Landolfi, come tutti i grandi scrittori, non ha raccontato storie, ma costruito mitologie. Teatrini della morte, impersonati da attori con fisionomie talmente precise da poter essere traslocati senza andare in pezzi. Come Medea, Angelica e Orlando, il capitano Achab, Pinocchio.
La scimia, testo ispirato al romanzo di Landolfi, ha per protagonisti le due zitelle, i due preti, la serva di casa e, ovviamente, la scimmia. Ma chi è la scimmia? "Quella ‘scimia’ era insomma una ‘scimia’, con tutti gli attributi esteriori e le qualità apparenti della sua razza; era una creatura misteriosa", dice Landolfi. Proprio perché era un animale, esattamente perché siamo uomini e donne. Portiamo tutti il crisma del mistero impresso sulla pelle. Di questa infima vertigine del quotidiano, dell'amore e della morte, racconta La scimia.
Elena Stancanelli

Il lavoro della compagnia Sud Costa Occidentale comincia a Palermo, nell’agosto del 1999, dove faticosamente cerca di mettere radici. La compagnia Sud Costa Occidentale è composta da attori di esperienze diverse, e ogni progetto non è mai fermo, non finisce mai né mai ricomincia. È un teatro che si allarga e si restringe a seconda dei casi, non trattiene prigionieri ed è sempre aperto a quei contagi diretti che danno un senso di libertà intellettuale.
Vogliamo semplicemente sapere, capire dov’è il senso dello spazio, dov'è l'esterno. Ci accade, spesso, di perdere la nozione del tempo, di non sapere nulla del nostro svanire, di non stabilire confronti con nulla. Di non avere pietà di nulla. I componenti della compagnia Sud Costa Occidentale sono: Gaetano Bruno, Sabino Civilleri, Emma Dante e Manuela Lo Sicco.

Il mio percorso artistico parte da un inventario esistente, fatto dai corpi degli attori. Il loro rapporto d’identità è determinante per rappresentare e pensare, essi sono tutto, sono i riempimenti spaziali e temporali della scena. Devono potersi trasformare negli alberi di un intero bosco e riuscire a far scorrere su un pavimento tutta l’acqua del mare.
Il punto di partenza di questa ricerca è assai complicato e faticoso, perché nasce, essenzialmente, dal peccato e dal peggio di sé che l’attore deve offrire come atto d’amore. Ciò che ha da dire lo deve dire interamente, non può accennarlo, deve poter entrare in opposizione con tutto il suo essere, e superare quel senso del ridicolo che ostacola l’incontro creativo. Se un attore nel compiere un piccolo gesto comprende fino in fondo la sua esperienza personale, allora può comprendere l’esperienza del mondo.
Qualsiasi spettacolo senza questa utilità è dannoso. Ma la ricerca del metodo, della poetica e dei risultati non può essere rapida, richiede tempi di elaborazione lunghi e profondi, richiede cura, rigore, sacrificio. Il riscontro delle difficoltà in sala prove, che alimenta continuamente un senso di smarrimento e d’impotenza, è l’unica strada possibile per raggiungere quella forza creativa che supera la facile visività delle immagini e va dritta al cuore dei destinatari. Attori e spettatori dovrebbero potersi incontrare in una zona d’ombra, dove è sospeso ogni giudizio sul bene e sul male, dove chi riflette dalla profondità dell’animo accetta fino in fondo l’esistenza del dubbio. Tutto è in divenire, tutto è ancora da compiere, non ci sono accordi privati, non ci può essere a priori nessuna certezza. Soltanto laddove il teatro accade, scavando coraggiosamente nei contenuti emozionali della rappresentazione, allora gli imprevisti e i limiti di questa esperienza diventano necessari per superare la nostra solitudine.
Insieme ai miei giovani compagni della compagnia Sud Costa Occidentale, nonostante la mancanza di spazi e l’assenza di avvedute conduzioni amministrative, cerchiamo di rendere proficuo il nostro disagio e lavoriamo senza interruzione, anche sei mesi l’anno, su un unico progetto, con la convinzione che ciò che fa spettacolo e dà nell’occhio non è la cosa principale.
L’essenziale per noi è scoprire le nervature, aspettare in silenzio un certo tipo di ascolto, senza giudizio. Perché il giudizio è una forma retorica. Vogliamo, semplicemente, parlare di quello che siamo, di un qualcosa che è in noi, della forma dell’essere che ci frantuma e ci riempie di tutte le sue contraddizioni, dei contrari che ci portiamo dentro ogni giorno: senso e follia, forza e debolezza.
Se dovessi esprimere un pensiero per definire la mia idea di teatro, direi: da una situazione nasce un sentimento e quindi un’azione di volontà, esattamente come la vita, né più né meno. Direi, inoltre, che se fosse vero il contrario, avrebbe lo stesso valore, perché il teatro è più avanti di qualsiasi definizione e certezza. Emma Dante

Elena Stancanelli è nata a Firenze nel 1965, si diploma all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico" e consegue la laurea in Storia dello Spettacolo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Firenze. Lavora in teatro, come attrice, per alcuni anni.
Nel 1998 pubblica, presso la casa editrice Einaudi il suo primo romanzo, Benzina, che vince il premio "G. Berto" opera prima. Benzina è stato tradotto in francese, spagnolo e tedesco ed è in corso di pubblicazione negli Stati Uniti. Del romanzo è stato tratto un film con la regia di Monica Stambrini. Suoi racconti sono apparsi su diverse riviste, Max, Amica, Gulliver, Tutte Storie, Cosmopolitan, Marie Claire, e su alcuni quotidiani tra i quali la Repubblica, Il secolo XIX e il Corriere della Sera.
Il suo secondo romanzo, Le attrici, è uscito nell’aprile del 2001 sempre per la casa editrice Einaudi.

1 ottobre – Teatro Piccolo Arsenale – ore 19.00
2 ottobre – Teatro Piccolo Arsenale – ore 20.30
Scanna (Premio Tondelli 2003) prima assoluta
testo e regia di Davide Enia
produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana, La Biennale di Venezia
in collaborazione con Teatro Garibaldi, Palermo

Restando nella sua Palermo e facendone felicemente risuonare la lingua, nel suo primo testo a molte voci che ha l’ambizione della tragedia, l’autore ambienta in un rifugio antiaereo - nel quadro storico immaginario ma riconoscibile di una lotta di resistenza - il trapasso generazionale di una famiglia patriarcale, durante la vana attesa del padre, che sta rischiando la vita in un attentato antifascista. Il respiro del tempo in quel luogo claustrofobico segna un trapasso di potere, coronando l’educazione d’una nidiata di ragazzi all’uso delle armi e alla guerra civile in un contesto addirittura biblico, davanti a un nonno un po’ andato che ha il candore dei profeti e si esprime solo citando parole del Vecchio Testamento: le ore sono infatti scandite dall’attraversamento di una serie di metaforici giochi teatrali, che precedono l’avvento dei gesti risolutivi designati dai nomi dei sacramenti. Ma tra l’emergere di un passato di violenze familiari e l’iniziazione di questi picciriddi in crescita, nell’attesa della sirena liberatoria che non suonerà, si compie la catastrofe scannatoria evocata dal titolo: se il padre-padrone non tornerà, c’è già un ragazzo che ne assume l’eredità con un fratricidio.
Grazie a una storia ricchissima di particolari, che scava nel costume per afferrarne il profondo senso civico, il cantastorie si rivela romanziere.
Davide Enia

Nato a Palermo nel 1974, Davide Enia si forma nei laboratori e nei seminari di Danio Manfredini, di Rena Mirecka, Tapa Sudana e Laura Curino, della compagnia di teatrodanza Corte Sconta. Nel 1998 scrive Studio per 2 petali di rosa, che dirige ed interpreta. Lo Studio è un dittico composto da Orfeo ed Euridice e Cola Pesce. Nel tempo i due lavori si sono approfonditi ed affinati, giungendo ad essere spettacoli distinti ed autonomi. In Orfeo ed Euridice si narra dell’omonimo mito, scomponendolo, scardinandolo, intessendo la storia con il filo dei misteri orfici. Cola Pesce. Oratorio in 5 quadri nasce dalla libera e completa riscrittura di una leggenda popolare sicula. I due lavori, uniti o distinti, vengono rappresentati, tra gli altri, al Festival Internazionale di Palermo sul Novecento 1998, a Milano per Teatri 90 nel febbraio 1999, a Passaggi a Pontedera 1999. Nel 1999 interpreta a Palermo Il calciatore. Studio sulla giovinezza in endecasillabi, un’operina di 25 minuti per parole, canto e danza con 3 attori in scena, firmandone testo, canti e regia. Nel 2000 ha condotto un laboratorio teatrale con i ragazzi a rischio della Scuola Interculturale della Cascina Popolare “La Ghiaia” (Berzano S.Pietro, To), creando con loro La cantata del tempo nel labirinto. Nel 2001 è autore, regista ed uno degli interpreti di Malangelità, che narra di tre angeli che scortano una bambola ballerina in un mondo sconvolto dalla guerra. Finalista a Premio Scenario 2000/2001, coprodotto con il Festival Veneto Bassano Opera Estate di Bassano del Grappa, dove debutta nell’agosto 2001, viene rappresentato, tra gli altri, al festival Contaminazioni di Cagliari, a Padova, a Venezia. Italia-Brasile 3 a 2, racconto di splendori e miserie del gioco del calcio, ha debuttato nel maggio 2002 allo stadio S.Siro-Giuseppe Meazza di Milano, nella rassegna “Teatri dello sport”. Lo spettacolo è attualmente in tournée in tutta l’Italia. L’ultimo lavoro, prodotto da Accademia Perduta-Romagna Teatri, è Maggio ‘43, testo sui bombardamenti di Palermo e sulla guerra di quegli anni, narrato il tutto con gli occhi di un dodicenne. Ha debuttato in estate nei festival estivi (Santarcangelo dei teatri, Polverigi, Dro desera) uno studio di questo lavoro dal titolo Schegge. Collabora con la compagnia Sud Costa occidentale (Pa), con la quale ha lavorato da gennaio a giugno 2000 con i ragazzi a rischio del quartiere ZEN di Palermo, drammatizzando l’Odissea di Omero, andata in scena a fine maggio 2000.

Per Sud Costa Occidentale ha scritto Il filo di Penelope, testo che ha vinto il primo premio al concorso Terre d’Arance di Lentini (SR), per la sezione nazionale di drammaturgia teatrale ed il piccolo studio Una stanza con nessuno dentro, che ha debuttato a Palermo nel gennaio 2002. In televisione ha raccontato storie da lui scritte per la trasmissione di RAI3 La storia siamo noi prodotta da Rai Educational. Nel 2003 ottiene con Scanna il Premio Pier Vittorio Tondelli per il testo di un giovane autore sotto i 30 anni, nell’ambito del premio “Riccione per il Teatro”. Sempre nel 2003 Schegge è premiato come miglior spettacolo alla terza edizione del Festival Internazionale di Teatro “Teatrul Unui Actor” a Chisinau, nella Repubblica Moldova. Nel dicembre 2003 riceve il Premio Speciale UBU per la nascita di un nuovo cantastorie, dimostrata dalla sua attenta ricerca sulla memoria, sulla lingua, sulla tradizione del cunto di Palermo.

1 ottobre - Teatro alle Tese – ore 20.30
2 ottobre - Teatro alle Tese – ore 19.00
Io ti guardo negli occhi
(vincitore del 47°Premio Riccione per il Teatro 2003) prima assoluta
di Andrea Malpeli
regia Chérif
produzione Compagnia La Famiglia delle Ortiche, La
Biennale di Venezia, Premio Riccione Teatro

Un’opera che sa raccontarci il mondo degli altri con straordinaria forza poetica e profonda partecipazione umana.
Da alcune telefonate fatte a un padre emigrato che cuce camicie in Italia da una figlia dodicenne che dal Marocco sa ‘guardare negli occhi’, prende spunto il testo di Andrea Malpeli che, con sensibilità creativa e cinematografica capacità di visualizzazione e di taglio, sposta subito l’obiettivo oltremare. Ed ecco catturarci in primo piano la vivacità sorprendente e genuina di questa giovanissima Nadir, e il suo vivere quotidiano contrapporsi a quello delle due sorelle, alla severità autoritaria della madre, succube di tabù moralistici; ecco i suoi incontri con una serie di figure singolari a volte bellissime e precisamente definite con pochi tratti, in un intreccio di vicende semplici ma sempre imprevedibili, che si arricchisce di continue invenzioni e di racconti fioriti dentro altri racconti, con uno stile orientale che aderisce al contesto narrato al quale sa dare una realtà toccante. Per una volta le vicende dell’emigrazione sono viste dalla parte di chi resta, forte della vitalità del loro mondo, senza compiacimenti e situazioni di maniera, in un racconto giovane e diretto come i suoi personaggi, che si moltiplica coi tempi della vita, mantenendo intatto il mistero dei sentimenti e il piacere dell’invenzione (dalla motivazione della 47° Premio Riccione per il Teatro, 27 settembre 2003).

Chérif (Gammoud 1958) - Regista tunisino, dopo gli studi in Svizzera è assistente alla regia di Roland Jay, allora direttore del Conservatoire di Losanna, per l’allestimento de La Dodicesima notte di Shakespeare. Poi è in Italia, dove studia all’Accademia d’arte drammatica “Silvio D’Amico”; il suo esordio nella regia avviene con un montaggio di poesie di Pasolini, Passione (1982). Nel 1983 è aiuto regista di Aldo Trionfo per Le baccanti di Euripide al Teatro Olimpico di Vicenza. L’anno seguente, nel corso del 32. Festival del Teatro della Biennale di Venezia, presso i cantieri navali della Giudecca, dirige lo spettacolo – laboratorio Qai Ouest, primo testo di B. M. Koltès messo in scena in Italia. Nella stagione 1987-88 riscuote un grande successo e l’attenzione della critica per i suoi spettacoli Medea di Euripide, Pièce Noir di Enzo Moscato e Piccola Alice di Edward Albee con Anna Bonaiuto e Antonio Piovanelli. E’ attraverso il repertorio contemporaneo che Cherif costruirà il suo originale percorso registico. Seguono: I paraventi di Jean Genet (1990), Improvvisamente l’estate scorsa di Tennessee Williams (1991), entrambi con Alida Valli; Nella solitudine dei campi di cotone di B.M. Koltès, con Pino Micol e le scene di Arnaldo Pomodoro. Insieme ad Alida Valli e Arnaldo Pomodoro, Cherif fonda la compagnia La Famiglia delle Ortiche. Con la nuova compagnia mette in scena: Più grandiose dimore di Eugene O’Neill, L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi di Copi (1993). Segue la messinscena di una serie di testi, tutti di Antonio Tarantino: Stabat mater con Piera Degli Esposti, Passione Secondo Giovanni (1994), Vespro della Beata Vergine (1995) e Lustrini (1997). Nel 200 realizza Opera Buffa di Michele Celeste (Premio Riccione 2000) e, per il Teatro di Roma, Il Corano con Marisa Fabbri.

1 ottobre - Tese delle Vergini – ore 22.00
2 ottobre - Tese delle Vergini – ore 17.00
Il giro del cieco
Roma, 4 giugno 1944
di Ascanio Celestini
produzione Fabbrica, La Biennale di Venezia

Questa è una storia che raccontava mio padre e che io ho ascoltato dentro casa per trent’anni. Alcuni avvenimenti sono molto conosciuti come il bombardamento di San Lorenzo che fece rivoltare anche la terra del camposanto o il rastrellamento del Quadraro con più di mille persone portate via dalle case della borgata. Alcuni fatti sono veramente accaduti a lui come quando ha rischiato di farsi ammazzare dal cecchino a via Appia mentre raccoglieva una cipolla. Alcuni sono altrettanto veri, ma li ho ascoltati da altre persone come la storia del soldato seppellito vivo all’Appio Claudio. Certe cose credo di averle inventate io, ma forse ho soltanto dimenticato chi me le ha raccontate e adesso mi sono convinto che si tratta di invenzioni.Tutte queste storie di guerra a Roma ho cercato di raccontarle attraverso l’ultimo giorno dell’occupazione nazista. È il 4 giugno del 1944 quando la città vive gli ultimi scontri a fuoco della seconda guerra mondiale e nelle strade vede passare lunghe file di soldati. Sono i tedeschi che se ne vanno e gli americani che sono appena arrivati. A quel tempo mio padre aveva otto anni e tornava a piedi insieme a mio nonno verso la sua borgata, il Quadraro. Partirono da Porta Pia, passarono per San Giovanni e scesero per la via Tuscolana passando sotto un mitragliamento aereo e uno scontro a fuoco tra partigiani e fascisti. Ma se le truppe si muovevano da sud verso nord, mio nonno e mio padre andavano nella direzione opposta: camminavano contromano rispetto alla storia.
Ascanio Celestini

Ascanio Celestini
è nato a Roma nel 1972. Nel 1998 porta in scena con il Teatro del Montevaso Baccalà, il racconto dell’acqua e Vita Morte e Miracoli, primo e secondo movimento di Milleuno, progetto per una trilogia sulla narrazione di tradizione orale. Nel 1999 partecipa allo spettacolo Indizi del Tempo, prodotto dalla Corte Ospitale di Reggio Emilia per la quale tiene un laboratorio e scrive, dirige e interpreta lo spettacolo per ragazzi Trecento passi.
Porta in scena la terza parte della trilogia Milleuno: La fine del mondo, dove l’oralità non ha più alcun legame con la tradizione. Non c’è né fiaba o leggenda, né rito, ma tutto è assorbito esclusivamente dalla storia di vita. Il testo è tra i vincitori del premio “Sette spettacoli per un nuovo teatro italiano per il 2000” e viene coprodotto dal ‘Teatro di Roma’. Ha debuttato alla fine di giugno in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma.
Del 2001 è Radio Clandestina, un racconto costruito a partire dal libro l’Ordine è già stato eseguito di Alessandro Portelli (premio Viareggio ’99), che raccoglie la memoria orale legata all’eccidio delle fosse Ardeatine del 24 marzo 1944. È stato presentato nei locali dell’ex-carcere nazista di Via Tasso (ora Museo della Liberazione) in forma di studio per i Luoghi della Memoria manifestazione organizzata dal Comune di Roma e dal Teatro di Roma. Lo spettacolo è stato trasmesso in diretta su Radio Tre il 23 marzo 2001 in occasione del 57° anniversario dell’azione partigiana di via Rasella.
Per la radio Ascanio Celestini è autore del radiodocumentario Guerra e pace (Radio Tre dal 26 al 30 marzo 2001); di milleuno. racconti minonti buffonti, un ciclo di 25 puntate sul racconto orale (dal 27 agosto) a cui se ne aggiungono altre 6 nei giorni di Natale 2001; ha inoltre curato la lettura della vita di Fabrizio De André andata in onda dal 17 al 21 dicembre 2001. Fabbrica, del 2002, è uno spettacolo sulla storia del lavoro in Italia, che ha visto un primo studio alla Biennale di Torino il 1° maggio 2002 e il suo debutto definitivo a settembre al Benevento Città Festival. Nel progetto sono coinvolti alcuni tra i più importanti centri di ricerca teatrali in Italia (laboratori e incontri si sono tenuti alla Piaggio di Pontedera, alle cave di Santarcangelo, nelle miniere del Monte Amiata).
L’Associazione Nazionale Critici di Teatro gli assegna il premio omonimo nel 2002. Successivamente la Donzelli pubblica il libro, con cd allegato, Cecafumo, racconti a voce alta, tratto dall’omonimo spettacolo teatrale che si compone di racconti e fiabe della tradizione popolare. Partecipa inoltre come narratore ad alcune puntate della trasmissione televisiva La Storia siamo noi (Rai Educational). Ottiene poi il Premio UBU “per la capacità di cantare attraverso la cronaca la storia di oggi come mito e viceversa”.
Le nozze di Antigone, da un testo di Ascanio Celestini, con Veronica Cruciani e la partecipazione al progetto di Arturo Cirillo debutta nel luglio 2003 a San Raffaele Cimena nell’ambito del Festival delle Colline Torinesi. Il testo ha ricevuto una segnalazione al premio Riccione per il Teatro 2001/02 e il premio Oddone Cappellino 2002/03. Nello stesso anno viene pubblicato il libro Fabbrica – sempre per le edizioni Donzelli – contenente il testo dello spettacolo e un cd audio con 5 racconti sul lavoro.


 
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