ateatro 70.83

L’Orestea di Gibellina (Capitta sulle Orestiadi 2004)
L'edizione 2004
di Gianfranco Capitta
 

L’Orestea di Eschilo è stato il momento costitutivo di tutte le attività delle Orestiadi di Gibellina, la cui Fondazione ne ha preso, non a caso, il nome. E’ stata infatti la trilogia di Eschilo ad avviare, agli inizi degli anni Ottanta, il teatro sui ruderi della città vecchia, quindici anni dopo il terribile terremoto che nel 1968 l’aveva distrutta completamente. Il Cretto, il grande sudario bianco di cemento ideato da Alberto Burri, era allora solo un progetto che si avviava a espandersi, ma con la traduzione contemporanea e in siciliano di Emilio Isgrò, e con la regia di Filippo Crivelli e le spettacolose sculture sceniche di Arnaldo Pomodoro, nacquero Agamennuni, Cuefuri e Villa Eumenidi. L’antica trilogia che per la prima volta in occidente aveva mostrato e ratificato il potere dei cittadini di Atene chiamati a giudicare Oreste, amplificava ora la domanda di Gibellina e dei suoi abitanti di una fondazione nuova e di una nuova convivenza tra cittadini.
Poi a Gibellina (sui ruderi della vecchia e negli spazi di quella nuova ricostruita a venti chilometri in una sorta di concorso ideale e generoso tra i più diversi e prestigiosi artisti e architetti) il teatro si è fatto tradizione, quasi necessità. Negli anni sono passati da lì i più grandi artisti della scena italiana e internazionale. Peter Stein vi ha portato la sua Orestea preparata in russo a Mosca negli anni della Perestrojka gorbacioviana. E quella domanda di teatro continua ancora, riproponendo ancora i nostri quesiti alla trilogia più antica, l’Orestea di Eschilo.

Da anni le Orestiadi di Gibellina volevano riproporre al teatro le domande che dall’antichità classica lo spettatore gli rivolge: domande sul futuro e sul presente, sulla propria comunità e su quanti da fuori vi guardano. E’ nata così questa nuova Orestea, che guarda a Eschilo da questo terzo millennio in cui tutto appare precipitosamente cambiato. Da qui la decisione di chiamare tre registi diversi (per sesso, nazionalità, cultura e formazione), tutti sotto la soglia dei quarant’anni, cui affidare la realizzazione delle tre parti della trilogia. Ad essi la Fondazione Orestiadi ha suggerito solo due chiavi di lettura, strettamente legate tra loro: la prospettiva dell’Africa, che poche miglia dividono dalle coste siciliane con tutte le cronache di dolore di questi anni ma anche di felice integrazione, e il lavoro poetico di Pier Paolo Pasolini, che non solo tradusse Orestea nel 1960 per Vittorio Gassman, ma trovò proprio nell’Africa il luogo di contatto tra il mito e noi, come dimostrano i suoi film, in particolare quel saggio poetico che sono gli Appunti per un’Orestiade africana.
Il primo episodio di questa nuova Orestea è stato realizzato nell’estate 2003 a Gibellina da Rodrigo Garcia. Fedelissimo nello spirito alle chiavi di lettura affidategli, il lavoro dell’artista ispanoargentino su Agamennone ha sconvolto chi l’ha visto, per la violenza e la poesia con cui ha affrontato le tematiche del potere e della sua legittimazione, della spartizione delle risorse, della giustizia e delle responsabilità.

Proprio grazie all’invito della Biennale Teatro diretta da Massimo Castri, quest’anno sono state realizzati, e debutteranno per la prima volta a Venezia, gli altri due episodi della trilogia. Monica Conti si avvale di altri linguaggi (come il canto e la musica) per affrontare il "lato femminile" della tragedia, quelle Coefore che sono il luogo di transito obbligato tra un "passato che non passa" e un futuro che resta oscuro e quasi impossibile da razionalizzare. Caden Manson e il suo Big Art Group statunitense si affacciano invece sulla dimensione futura di Eumenidi, usando il progresso della tecnologia come strumento di interpretazione e progettazione del nuovo. I linguaggi, ma perfino il colore e il suono di ogni episodio, saranno così molto diversi tra loro, ma proprio per questo potranno dare più suggestioni e possibilità di comprensione a quelli che restano i grandi e più rischiosi interrogativi della convivenza umana.
Della trilogia di Eschilo, Coefore è il testo dove apparentemente meno accade, nonostante il sangue del matricidio di Oreste. Per molti, e per molto tempo, è sembrato il meno "avvincente" dei tre episodi. Oggi qualcosa è cambiato dopo l’Orestea di Peter Stein a Berlino nel 1980 (e poi a Mosca). Ma soprattutto è stata la rilettura pasoliniana che ha dato corpo e parola a un personaggio muto in Eschilo, Pilade, a farci capire che è proprio nelle Coefore che si compone l’identikit che individua i ruoli e la natura stessa dell’intera trilogia tragica.
Elettra sopravvive fantasticando un domani che ridia vita a forme, gerarchie e valori del passato; Oreste è tutto proiettato sul futuro da cui è affascinato, quasi non abbia mai avuto né storia né memoria, costretto quasi ad assorbirle da quella noiosa e insistente sorella, già ai limiti dell’ossessione. Pilade tace in Eschilo, ma quando Pasolini gli da voce e titolo, scopriamo l’importanza della sua mediazione, il fatto che racchiuda in sé, quasi traumaticamente, la fertile contraddizione tra passato e futuro, tra tradizione e progetto.
Pasolini ammetteva di rispecchiarsi e riconoscersi nel dilemma di Pilade, e noi possiamo a nostra volta farlo nei dubbi e nella lucidità spesso dolorosa di Pasolini .
Una donna regista, Monica Conti, è stata chiamata a mettere in scena il doloroso equilibrio di Coefore. A sua volta ha chiamato una grande attrice, Anna Maria Guarnieri, a interpretare Elettra ma anche quel suo risvolto atavico e sanguinario, e che pure l’ha generata, Clitennestra. La chiarezza e l’esperienza di entrambe aiuterà a traghettarci da Agamennone a Eumenidi, dall’oscurità del passato alla crudele chiarezza dell’oggi.

E con gli strumenti dell’oggi forse la realtà può essere solo "rappresentata", o meglio documentata, con strumenti ad alta definizione. Dal rimescolamento dei brandelli di verità ad una consapevolezza possibile: con il bagaglio tecnologico cui si è formato e che con sicurezza padroneggia, il trentenne Caden Manson prepara le sue Eumenidi Gentler. Sotto la "lente d’ingrandimento" delle webcam, quasi come un avveniristico entomologo, l’artista (divenuto notissimo anche in Europa per il suo lavoro con il newyorkese Big Art Group, con il quale ha appena preparato un nuovo spettacolo commissionato dal parigino Festival d’Automne), scompone e ricompone il percorso poetico e civile dalle Erinni alle Eumenidi, filtrandolo attraverso la lezione pasoliniana in America. Uno sguardo originale e insospettato che sarà capace forse di dare suggestioni valide e nuove anche per noi, in epoca di forzata globalità e quasi avvenuta omologazione.

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