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Un Amleto lituano
Un ritratto di Eimuntas Nekrosius
di Oliviero Ponte di Pino
 

Pubblicato originariamente su "Diario".
 
 

Detesta il rituale delle conferenze stampa e delle interviste. Non vuole parlare del suo lavoro, e spiega chiaramente perché. "Nel mondo del teatro c’è l’usanza di incontrarsi per raccontare quello che abbiamo fatto. Secondo me con i musicisti, i pittori o gli scrittori, questo non accade: non se ne stanno lì tutto il tempo a raccontare quello che stanno facendo, e non capisco perché noi teatranti ci dobbiamo impegnare tanto a farlo. Quasi mi vergogno a parlare del mio lavoro, non mi piace farlo. Mi sembra che ci raccontiamo un sacco di storie. Non voglio essere frainteso, ma per me è difficile parlare del mio metodo, del mio stile. Magari racconto che ho fatto una certa cosa in quel modo, e poi sulla scena si vede una cosa completamente diversa. Meglio non dire niente".

Lo stesso discorso vale per la sua biografia: "La mia vita non è molto interessante, anzi è un po’ noiosa".

C’è qualcosa che vorrebbe lasciare ai giovani? La risposta esce faticosamente da un volto che sembra scolpito nella pietra. "Con il teatro non c’è niente che si potrebbe chiudere in una scatola nera da lasciare ai posteri, quello che accade sul palcoscenico non viene fissato da nessuna parte e questo è un peccato. Forse tra un centinaio d’anni sarà possibile fissare i sentimenti… Io non volevo lasciare niente, non ho il sentimento di dover lasciare qualcosa".

Dunque se lei non avesse fatto niente, sarebbe stata la stessa cosa? "Quasi".

E il teatro? "Chi ha bisogno di andarci ci va, chi ha voglia di farlo lo fa, gli altri possono non venirci e non lavorarci. Non dobbiamo pensare che il teatro occupi un posto importante tra le varie arti: ha un ruolo piccolo, ridotto, quasi senza importanza, forse troppo modesto".

Gli attori che lavorano con quest’artista schivo fino quasi all’autismo, modesto fin quasi all’autodiffamazione, lo circondano d’ammirazione e rispetto, e mantengono il suo stesso atteggiamento. Alle domande sul loro rapporto con il regista, svicolano con ironia, "perché voglio continuare a lavorare con lui anche in futuro".

Nonostante questa scarsa propensione alle pubbliche relazioni, lunedì 15 novembre a Palazzo Reale di Milano per ascoltare Eimuntas Nekrosius (o meglio, per sentirlo rispondere con una serie di faticati "Sì… Forse…" alle sollecitazioni dell’interlocutore Paolo Bosisio) si era radunata una piccola folla, che straripava dalla sala dove si teneva la conferenza. Perché il pluripremiato regista lituano, che ha aperto il Festival del Teatro d’Europa con due messinscene di grande impatto come Hamletas e Makbetas, ha entusiasmato la critica, che lo considera un maestro, e il pubblico, che ha preso d’assalto i botteghini. Se fino a oggi diceva poco al grande pubblico, il suo nome è da tempo al centro dell’attenzione degli addetti ai lavori. 47 anni, nato a Raisenal, in Lituania, dirige oggi a Vilnius il Meno Fortas, il teatro che ha fondato lo scorso anno. Si è formato negli anni apparentemente grigi del breznevismo, all’Istituto d’Arte Lunacarskij di Mosca. Quando gli chiedono, con qualche intento provocatorio, se ha mai avuto difficoltà ai tempi del regime sovietico, rompe per un istante la consegna del silenzio. "Nel mio lavoro non ho mai avuto problemi di censura, anche perché quando ho cominciato c’era già un clima meno teso. Questo non solo per quanto riguarda me, ma anche gli altri artisti che lavoravano in quel momento: in pratica abbiamo fatto sempre quello che abbiamo voluto. C’è un po’ di falsità quando si dice che non si poteva lavorare e che la censura creava dei problemi: non è vero, per un artista erano le condizioni ideali. L’importante era non avere la tendenza di strappare le bandiere e non fare manifesti strani. Bastava questo. Adesso su questo tema ci sono molte speculazioni, ma i lavori migliori nella musica, nella letteratura, nella pittura, nel teatro e nel cinema sono stati fatti in quel periodo. Negli ultimi dieci anni non si sono viste opere belle quanto quelle del decennio precedente. Perciò non mi sembra giusto iniziare oggi a fare dei rimproveri al passato. Quello che è stato è stato. E però in quel passato ci sono stati dei momenti bellissimi, anche se oggi ci sembra che tutto quello che c’era sullo sfondo fosse orrendo. C’era il problema di non poter andare all’estero, ma io e i miei colleghi non ci possiamo lamentare: ai tempi del regime sovietico abbiamo viaggiato molto, e senza problemi, dal momento che i nostri spettacoli non avevano mai una matrice politica. Del resto ci sono temi molto più interessanti e simpatici della politica".

La prima affermazione internazionale arriva con Pirosmani, Pirosmani, uno spettacolo del 1981 dedicato alla biografia del pittore naïf georgiano Pirosmanisvili. Dopo di che Nekrosius ha lavorato sui classici russi (Zio Vania e Tre sorelle di Cechov, Il naso di Gogol’, Mozart e Salieri di Puškin), fino ad approdare nel 1997 al trionfale Hamletas e agli altri Shakespeare: attualmente sta provando l’Otello, di cui ha presentato un frammento all’ultima Biennale veneziana.

Quando gli chiedono perché ha scelto di lavorare proprio su Shakespeare, Nekrosius butta lì due motivazioni in apparenza contraddittorie: "Non lo so, forse perché lo conoscono tutti, e tutti conoscono le sue opere. Esistono persino degli alberghi che si chiamano "Shakespeare"! Ma mi interessa anche il fatto che una sola testa abbia avuto la capacità di mettere così tante cose dentro le sue opere, dal punto di vista psicologico ma anche geografico, della quantità di informazioni. Mi stupisce quante cose abbiano potuto trovare posto in un unico cervello. È sovrumano, supera ogni immaginazione. È il segreto di Shakespeare. Nessuno conosce il suo viso, e non sappiamo neppure se sia stato lui a scrivere tutte le pièce che vanno sotto il suo nome. È come se ci fosse solo una tenda, dalla quale esce una mano che sta scrivendo. Si vede solo quella mano, del resto non sappiamo praticamente nulla".

Le sue messinscene shakesperiane sorprendono per il loro rapporto con il testo, che è insieme assolutamente libero e assolutamente fedele. Libero, perché nei suoi spettacoli si vedono cose che nell’originale certo non ci sono. Nell’Hamletas Polonio viene ucciso con un improbabile gioco d’acqua e di bicchieri (ma quelle coppe finiscono per costituire un palpabile leit motiv dell’intero spettacolo, fino al duello e all’avvelenamento finali, quando la loro funzione diventerà evidente). Nel Makbetas, contrariamente a ogni lettura tradizionale, le tre fattucchiere, intorno alle quali è oltretutto costruito l’intero spettacolo, sono assai giovani e carine (oltre che dispettose): "Le streghe sono la forza motrice del Macbeth di Shakespeare", spiega il regista. "Nessuno le ha viste, nessuno le conosce, sono un prodotto della nostra coscienza, della nostra immaginazione. Nello spettacolo abbiamo delle belle streghe. Del resto, anche la bellezza è una strega". Tuttavia queste invenzioni gestuali e visuali così libere, applicate a testi radicalmente sfrondati e ridotti all’essenziale, riescono a illuminarne il senso, a renderlo immediatamente percepibile. Sono immagini a volte folgoranti, come il grande lampadario ghiacciato che sgocciola al centro di un Amleto boreale, disperato e feroce, che ha per protagonista un attore che nella vita fa la rock star, Andrius Mamontovas (tra l’altro Nekrosius, che non disprezza la cultura pop, dimostra di sapere bene che cos’è stato il nichilismo punk). O come la cascata di pietre che frana sul palcoscenico da una serie di ponteggi sospesi, e che segna il punto di svolta del Makbetas, il momento in cui la catastrofe del suo protagonista (in scena Kostas Smoriginas) diventa irreversibile.

La potenza dell’elemento visivo è un elemento chiave della pratica teatrale del regista lituano: "Siamo abituati a un’idea letteraria del teatro: dove il teatro è una cosa che si ascolta e non si mostra. Ma la natura del teatro è di essere visto". Coniugata alla capacità di leggere il testo per suscitare associazioni e sensazioni che lo arricchiscano (il freddo, il vento, una trave che ondeggia all’infinito in fondo alla scena), questa immaginazione visiva segna la differenza di Nekrosius nei confronti delle generazioni registiche precedenti, abituate a scavare nel testo – e a esaurirlo – alla ricerca del senso, delle interpretazioni, dei sottotesti. Nel suo caso non si tratta di sovrapporre una lettura iconoclasta e provocatoria ai capolavori del passato, che vengono anzi affrontati con il massimo rispetto; e non si tratta neppure di un’operazione intellettualistcia volta a smontare i meccanismi della rappresentazione e del significato. Al contrario, secondo la grande tradizione delle avanguardie teatrali (e in generale formalistiche) del Novecento, e riprendendo spesso la lezione dei teatri orientali, tutto è mostrato, ostentato, proiettato alla costruzione dell’evento spettacolare. La recitazione è spesso declamazione (e non punta praticamente mai sull’introspezione) o danza, e non mancano scene di voluto effetto,

C’è anche molta ironia, negli Shakespeare di Nekrosius. Nelle tragedie affiorano di frequente vere e proprie gag comiche, quasi clownesche (in pieno accordo con lo spirito shakespeariano, dove comico e tragico si raggrumano); la scelta degli oggetti pare governata da un’ironia spesso più intellettuale e colta. È un’autentica costruzione retorica che non si condensa nell’eloquenza delle metafore poetiche (come accade nelle pagine di Shakespeare) ma nella complessità di immagini ricche di significati e rimandi: per esempio, i torchi metallici da antica tipografia intorno a cui ruota l’Hamletas.

Nella loro ricchezza, queste messinscene conservano tuttavia una toccante semplicità e immediatezza, creando un’atmosfera quasi intima. Perché a governarle è in primo luogo un’esperienza del tempo, resa palpabile dall’uso di materiali elementari, primordiali: il ghiaccio, il fuoco, l’acqua, il legno, il metallo, le pelli e le pellicce (e costantemente sostenuta nel Makbetas dalla colonna sonora vagamente operistica di Faustas Latenas). E poi perché, a ben guardare, quelle scenografie non sono altro che una stanza popolata di vecchi mobili segnati dall’uso: un tavolo, qualche sedia, un armadio con le ante che si aprono, due attrezzi da officina, e poco altro. "La scena", si lascia sfuggire Nekrosius, "è una cornice e tutto quello che si trova lì ha la sua importanza. Niente è fatto a caso. Se portiamo in scena un oggetto, deve portare una certa informazione, avere un certo senso. Dunque tra tutti gli oggetti che usiamo non c’è mai il caos".

In questa cornice rigorosa, tuttavia, ogni cosa diventa possibile: lo spettro del padre di Amleto che fa sentire al figlio un blocco di ghiaccio sotto il suo piede nudo, Macbeth che avanza barcollante, portando nello zaino un alberello rinsecchito con qualche bacca rossa (anticipando tra l’altro l’avanzare della foresta che segnerà la sua fine)… Soprattutto, nel caso dell’Hamletas e del Makbetas, quella cornice magica mette in moto le struggenti parabole di due esseri umani vulnerabili e violenti, a contatto con potenze che la ragione e i sensi umani non possono contenere: il fantasma del padre, ma anche la potenza del passato, nel primo caso; quelle streghe leggere e sexy e l’oscura molla dell’ambizione, nel secondo. Anche in questo caso, Nekrosius non giudica – né la realtà dei fantasmi, né la moralità dei suoi eroi. E in questa capacità di mostrarci l’umano sta anche una delle grandezze di Shakespeare.

Già, ma dopo questo grande classico, quali sono i progetti di Nekrosius? "Ci sono altri autori forse più profondi e più complessi di Shakespeare. Per il momento c’è Shakespeare, poi vedremo. Ma forse mi sono stufato di portare in scena testi teatrali, mi sembra arrivato il momento di lavorare su un testo di prosa, prendere un romanzo e metterlo in scena. Ci sono poche pièce di buona qualità, mentre ci sono numerosi romanzi interessanti". Ce n’è uno che vorrebbe portare sulla scena? "Non penso a nessun titolo in particolare, ma sicuramente sarà uno dei capolavori della narrativa".

copyright Oliviero Ponte di Pino 1999, 2000


 
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