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Il teatro e la mia questione ebraica
Sul Living Theatre, Franz Kafka e soprattutto Moni Ovadia
di Oliviero Ponte di Pino

SOMMARIO

 Pasqua con il Living Theatre

 Kafka e il teatro

 Sugli spettacoli di Moni Ovadia

  •  Oylem Goylem
  •  Dibbuk
  •  Ancora su Oylem Goylem
  •  Ballata di fine millennio
  •  Intervista a Moni Ovadia (a proposito di Un'aringa in paradiso)
  •  Il caso Kafka
  •  Oylem Goylem su Raidue (presentazione)
  •  mame mamele mama mame mamma mamà

  • Pasqua con Judith e Julian
    ("il manifesto", 20 aprile 1987)

    Al centro, un lungo tavolo di legno chiaro, basso e circondato da cuscini e tappeti. Tutto intorno, addossata alle pareti di una fragile e accogliente struttura di legno, una grande tavolata. Al primo tavolo si sistemano gli ospiti dei Living Theatre, mentre la seconda accoglie gli "invitati-spettatori". Ingombrano la mensa piatti imbanditi piuttosto parcamente, vino e succo d’uva, la matzah (il pane azzimo, cioè non lievitato), ciotole piene d’acqua. Le note di un flauto, accompagnato da una cantilena, danno inizio alla cerimonia.

    È l’"Haggadah per il Seder di Passover", ovvero la cena pasquale secondo la tradizione ebraica presentata per tre sere al Salone Pier Lombardo di Milano, all’interno del Festival Internazionale di Cultura Ebraica. È una cerimonia che il Living ha sempre continuato a celebrare in forma privata, lungo tutta la sua storia. Una storia ormai lunga, quella del gruppo americano, che parte dall’underground newyorkese degli anni Cinquanta, quando due giovani allievi di Piscator, Julian Beck e sua moglie Judith Malina, si lanciano alla scoperta di Pirandello, Brecht e Artaud. Poi ci saranno l’esplosione di spettacoli-denucia di straordinario e violento iperrealismo, The Brig (sulla demenza del militarismo) e The Connection (sui tossicodipendenti), la reinvenzione del teatro con Mysteries, Antigone e Frankenstein, fino a scardinare la forma stessa dello spettacolo con gli slanci utopici di Paradise Now.

    Il Living ha sempre rifiutato la tentazione dell’isola felice, anche quando sarebbe stato facile e gratificante, sull’onda del successo e della mitizzazione. Al contrario, si è spinto ogni volta verso il nocciolo delle contraddizioni per attraversarle e farsi attraversare da esse, con una coerenza pagata a caro prezzo, dalle barricate del maggio parigino alle galere brasiliane, sempre con la stessa travolgente intensità (proprio su questa "ingenuità" si appuntavano gli sguardi di sufficienza per le teorie economico-social-politiche illustrate negli spettacoli post-Paradise). Ancora oggi il Living continua a vivere e lottare per la propria sopravvivenza, ma trasformato in nucleo internazionale e diffuso, di qua e di là dall’oceano.

    Julian Beck - e nella sua posizione si riflette anche quella del Living - non poteva probabilmente definirsi "religioso". Parlava di sé come di un militante anarchico, in lotta per spezzare catene e barriere, a cominciare da quelle delle ideologie, dai fanatismi delle ortodossie, per una rivoluzione non-violenta (proprio durante gli "anni di piombo", quando il suo "messaggio" sembrava meno accettabile, fuori dal tempo, il Living aveva voluto stabilirsi in Italia…).

    Era tuttavia possibile, con qualche forzatura, leggere nello slancio che animava Beck e il Living qualche venatura profetica, quasi mistica; non a caso, alcuni loro spettacoli sono interpretabili attraverso i testi sacri dell’ebraismo - a cominciare dalla Rivoluzione di Paradise Now,costruita su una struttura ripresa dalla Kabbalah.

    Questo "doppio binario" trova qualche riflesso in altri aspetti. La scelta stessa di dedicarsi al teatro contravveniva, per esempio, a un precetto implicito della religione ebraica, che evita la rappresentazione come forma di idolatria, D’altro canto uno dei fili conduttori dell’attività del Living è stato il continuo tentativo di superare, all’interno della forma dello spettacolo, proprio la rappresentazione: con un’immedesimazione realistica che finiva per ingannare il pubblico ("questa è realtà, non è teatro... restituiteci i soldi del biglietto..."); con un coinvolgimento dello spettatore che tendeva a equipararlo all’attore; o ancora con la convinzione da agit prop che vedeva gli effetti del la rappresentazione diffondersi per contagio nell’intera società.

    Dietro la scelta di celebrare pubblicamente la cena pasquale s’intravedono queste tensioni contrastanti, e un intelligente tentativo di mediarle: se la storia del Living è un continuo tentativo di ritualizzare il teatro, questa è, al contrario ma coerentemente, una spettacolarizzazione del rito. Judith (figlia di un rabbino, oltre a essere da sempre la regista del gruppo di cui è anche la guida carismatica, soprattutto dopo la morte, due anni fa, di Julian) si è preoccupata della legittimità dell’operazione: "quando ce l’hanno proposto, abbiamo meditato a lungo. Ma nel testo del Seder sta scritto: "chi ha fame venga e mangi". Perciò si tratta di una festa aperta a tutto il mondo, ebrei e non-ebrei".

    Non c’è invece nessun bisogno di giustificare l’interesse del Living per questa particolare ricorrenza: con la cena pasquale la liturgia ebraica rinnova ogni anno il ricordo e l’esperienza della liberazione dalla schiavitù dei Faraoni, "perché un tempo eravamo schiavi e poi siamo stati liberati e se ora fossimo schiavi, dovremmo guardare alla nostra libertà". Proprio per guardare alla prospettiva della liberazione, per ricordarsi delle tante schiavitù dei Presente, per rinnovare l’impegno a costruire un futuro di libertà, ecco questa "Haggadah per Seder di Passover", ovvero in angloebraico "Racconto della Sequenza del Passaggio"

    L’episodio biblico dell’Esodo è un luogo canonico della meditazione politica, per secoli metafora obbligata – quasi eccessiva - di ogni liberazione: "La rivoluzione che quivi troverà non già la sua fine, bensì il suo inizio di organizzazione, non sarà una rivoluzione di breve respiro. L’attuale generazione assomiglia agli Ebrei che Mosé condusse attraverso il deserto. Non solo deve conquistare un nuovo mondo: deve perire per far posto agli uomini nati per un nuovo mondo" (Marx, 1948; questa citazione, come altre, è ripresa da Esodo e Rivoluzione di Michael Walzer, Feltrinelli 1986). Il ricordo dell’Esodo non poteva non risucchiare il Living, diventando momento di riflessione collettiva, occasione d’incontro e d’interpretazione. Non per ricordare una liberazione avvenuta - o meglio conquistata - una volta per sempre, ma per ricordare le possibilità, la necessità della liberazione: una liberazione da conquistare ogni giorno.

    Il rituale che precede la cena vera e propria si snoda per quasi due ore, e illustra minuziosamente le ragioni della celebrazione del Pesach, la Pasqua ebraica, secondo la tradizione rabbinica, ma la interpreta liberamente; e, quando è il caso, la critica e la corregge puntigliosamente. In omaggio alla parità dei sessi, l’Altissimo diventa "Uno Santo-Una Santa". Nella forma aperta di questo rituale trovano un ruolo e una funzione, con tutta la loro efficacia poetica, alcuni brani dei Canti della Rivoluzione di Julian Beck e l’intramontabile Urlo di Allen Ginsberg. E poi niente carne, perché di sangue al mondo ne è stato già sparso fin troppo: "Siamo arrivati ad una migliore comprensione / del nostro rapporto con le altre creature di Dio / e ci sentiamo più vicini a loro / e non uccidiamo per mangiare". E se l’agnello è un simbolo veramente irrinunciabile, Judith ci ha portato una microscopica pecorella giocattolo, che mostra con convinzione e ironia al momento opportuno. E, a differenza del vecchio rituale, sono rigorosamente proibite maledizioni e richieste di vendette. Il tutto debitamente illustrato e intervallato dai gesti previsti: abluzioni, piatti che vengono scoperti e poi nuovamente coperti, bicchieri che vengono alzati, riempiti e così via. L’atmosfera è quotidiana, come dovesse essere una festa in famiglia, attraversata a volte da un brivido quasi solenne.

    Partecipare a un’esperienza di questo genere suscita sempre reazioni contrastanti. C’è, per un non ebreo, la curiosità quasi antropologica di conoscere usi e costumi diversi, confrontando riti che sembrano magari somigliarsi, ma che lasciano intravedere differenze e distinzioni profonde. Ma c’è anche la sensazione di trovarsi come semplici spettatori di fronte a un evento che per altri ha in qualche modo un carattere sacro: il disagio quindi di sentirsi degli intrusi, di rubare qualcosa che non ci appartiene e che per altri ha un diverso valore. E tuttavia in questo caso rito e spettacolo finiscono inevitabilmente per confondersi: forse la differenza tra l’uno e l’altro è avvertita tra gli attori (o meglio, il coro che scandisce la liturgia) e gli spettatori, che rispondono con le loro azioni alle indicazioni e possono intervenire, magari citando a memoria un brano di Se questa è un uomo, in commosso ricordo di Primo Levi. Perché quello che il Living costruisce non è ovviamente interpretabile - almeno non per tutti - come pura e semplice espressione di una religiosità. L’invito alla tolleranza che anima ogni frase, ogni gesto, ha una portata più ampia: è rivolto - e coinvolge - tutti coloro che si siano radunati in questa occasione.

    Affascina e respinge allo stesso modo anche il rapporto con la tradizione: reinventata, è vero, in modi certo nuovi, adattata agli ideali e alle esigenze dei Living. Ma con il rischio sempre presente che la morsa torni a chiudersi, che il fantasma ricompaia con tutte le sue vecchie catene. Ma anche questa è una lezione: impossibile ignorare le proprie radici, un conto sempre aperto, da aggiornare senza sosta. Per riprendere la bella citazione di Benjamin che il Living ha voluto come epigrafe finale del "libretto" della serata: "Articolare storicamente il passato significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nel momento del pericolo".

    Affiora anche un’altra tradizione, quella del Living, con il suo stile entusiasticamente spontaneista, quell’alfabeto teatrale di base riscoperto dal gruppo e primo fondamento di molta pratica teatrale, quel gusto del godimento del corpo... È anche una testimonianza di un modo di essere che misura la distanza con gesti e parole che riportano a un passato non troppo lontano e si proiettano nella realtà attuale: troppo diversa, certo, ma anche troppo uguale, nel riproporsi delle identiche ingiustizie. Anche la tradizione del gruppo teatrale, per strane vie, ha dunque riconosciuto la necessità di sancire la propria esistenza condensandosi nella torma di un rituale: un rituale certamente da reinventare ogni volta, ma che trova il conforto dl gesti scanditi, della parola ritmata, di un sistema di regole precise in cui riconoscersi l’un l’altro.

    Terminata la cena, come conclusione, un abbraccio totale che raccoglie tutti - o quasi - i partecipanti, all’unisono con un grande respiro. Un momento volutamente "magico", cercato e costruito con cura e amore, chiamando in causa sentimenti forse elementari e spesso accantonati, a realizzare per un attimo l’invocazione utopica lanciata nel corso della serata: "Quando diventeremo il collettivo assoluto / saremo come sognatori / di un sogno diventato realtà...". Utopia, forse. Ma in qualche modo implicita nella "inestirpabile sovversione" (Bloch) della storta dell’Esodo. Sovversione ricordata ogni primavera e incessantemente rilanciata: "Non sapete il digiuno che preferisce? desistere dalle inique trame, sciogliere i vincoli del giogo, mandare liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo" (Isaia 58:8).

    Prima ancora, tuttavia, viene la pratica di una vera e propria "ecologia della mente" basata sulla tolleranza e sul rispetto dell’altro: un patrimonio di una cultura come quella ebraica che non conosce né dogmi né eresie. Un patrimonio che il Living ha trasformato nella pratica di una non violenza attiva.
     

    Kafka e il teatro
    ("il manifesto", ???)

    È in pieno svolgimento a Cividale la seconda edizione del "Mittelfest", affidato quest’anno alla direzione di Georg Tabori e interamente dedicato a Kafka. Una scelta obbligata per una manifestazione che ha per fulcro l’Europa centrale, visto il ruolo centrale dello scrittore praghese nella cultura e nell’immaginario del nostro secolo. E insieme una scelta che suscita diverse curiosità in varie direzioni: non tanto per ciò che riguarda le pagine di Kafka direttamente destinate alla rappresentazione (rimangono soltanto alcuni abbozzi di un dramma incompiuto, Il custode della cripta), quanto - più in generale - per il significato che il teatro ha assunto nell’itinerario biografico e nell’opera di Kafka.

    Non è certamente privo di significato il fatto che, come sottolinea Claude David nel suo Kafka, a far scoprire allo scrittore le sue radici ebraiche sia stata una compagnia di teatro yiddish: quella in cui recitavano Jizchak Löwy (grande amico di Kafka, che iniziò addirittura a stendere la sua biografia), e la "signora Tschissik", cui il ventottenne scrittore dedicò nel suo Diario annotazioni insieme penetranti e partecipi: "Dal complesso della sua vera recita la si vede ogni tanto spingere il pugno in avanti, torcere il braccio, che avvolge nelle pieghe di strascichi invisibili, e posare le dita divaricate sul petto perché il grido non è sufficiente. La sua recitazione non è variata: ella guarda atterrita l’antagonista, cerca una via d’uscita sul piccolo palcoscenico, la sua voce dolce ascendendo breve e diritta diventa eroica soltanto con l’aiuto di una forte eco interiore senza amplificazione, la gioia la pervade attraverso il viso che si apre e dall’alta fronte si dilata fino ai capelli, ed ella si accontenta del canto singolo senza far ricorso a mezzi nuovi, e incontrando resistenza ha un modo di rizzarsi che costringe lo spettatore a occuparsi di tutto il corpo di lui; quasi tutto qui".

    Sarà stato forse merito della silenziosa infatuazione del giovane scrittore per l’attrice, o forse è quello che Kafka stesso definisce "il brivido in cima agli zigomi che provo ogniqualvolta ascolto la sua voce". Sta di fatto che il suo sguardo di spettatore appare terribilmente acuto e "moderno". Come accade in altre occasioni, quello che Kafka vede emergere dall’evento teatrale (più che la trama, la qualità della scrittura, gli effetti scenografici eccetera) è innanzitutto un autentico "teatro del corpo". La sua estrema lucidità di spettatore risiede proprio in questa capacità di leggere il corpo dell’attore come una scena: su di esso agiscono forze di cui sono generalmente inconsapevoli tanto l’attore quanto lo spettatore; così, il corpo dell’attore si rivela uno spazio in cui prendono forma gesti che sono insieme sintomi e segni, dove affiora una realtà intima di cui l’attore è insieme vittima e messaggero. Attraverso l’attore, Kafka legge una sorta di danza, una coreografia dell’anima. Allo stesso modo avverte il canto che, oltre delle parole, oltre il loro significato, sottende la recitazione. Aldilà del testo drammaturgico e della sua messinscena, coglie direttamente quello che c’è di poesia nel lavoro dell’attore.

    Per questo motivo, volendo dare vita al mondo di Kafka attraverso il teatro, non è necessario ricostruire le trame o le situazioni "kafkiane", adattare per la messinscena questo racconto o quel romanzo, quanto porsi in sintonia con il livello di comunicazione teatrale al quale lo scrittore era più sensibile, un livello insieme immediato e profondo. In questa direzione si è mosso per esempio Giorgio Barberio Corsetti nella trilogia su Kafka (di cui rimane traccia nel volume L’attore mentale) e che trova a Cividale un’ulteriore tappa in Verso Ramses: dopo aver esplorato, nei lavori precedenti, alcuni racconti, questa volta Barberio Corsetti si misura con il romanzo Amerika. Quello che colpiva nei recenti spettacoli di Barberio Corsetti era appunto l’assenza di situazioni canonicamente "kafkiane", a favore di una drammaturgia del gesto e dello spazio, fatta di energia, leggerezza e ironia: e spesso segnata - nei gesti e nei movimenti degli attori - da un sospetto di imbarazzo, di goffaggine. Tratti che ricorrono in maniera sorprendente in alcune annotazioni del Diario: "La signora Tschissik calpestò una volta l’orlo della propria veste e barcollò un istante in quella sua princesse da sgualdrina come una colonna massiccia; una volta s’impappinò e per calmare la lingua si volse agitatissima verso la parete di fondo, benché ciò non corrispondesse affatto alle parole". Siamo al limite del clownesco: un clownesco tragico, perché involontario, che però riflette anche un limite invalicabile per l’attore, e per il teatro in generale. Lo spiega lo stesso Kafka, poche righe dopo, riferendo di una discussione (con l’amico Brod) sulla supremazia della letteratura sul teatro e commentando una recita che è riuscita a coinvolgere emotivamente il pubblico: "Il dramma nel suo più alto sviluppo finisce in una insopportabile umanizzazione che l’attore ha il compito di abbassare e rendere tollerabile, analizzando, smuovendo, agitando la parte che gli è assegnata. Il dramma dunque si libra nell’aria, ma non come un tetto portato dalla bufera, bensì come un intero edificio i cui muri maestri si lanciano su dalla terra con una potenza oggi ancor molto vicina alla follia. Talvolta mi sembra che il dramma stia lassù sopra il soffitto e gli attori ne abbiano staccato una striscia che per giuoco tengono in mano ai capi o si sono avvolti intorno alla vita, e che solo di quando in quando una striscia difficile da staccare sollevi in alto un attore con grande spavento del pubblico". Kafka ribadisce dunque la supremazia del dramma (la scrittura) sul teatro (l’attore). E nel farlo, mette a fuoco l’ironia su cui si fonda inevitabilmente il lavoro dell’attore - un’ironia tragica che nasce proprio da una inadeguatezza: incapace di sostenere la forza del dramma, la sua carica poetica, l’attore può essere solo trascinato via dall’indicibile annidato nella scrittura. Solo così, solo rendendo trasparente il proprio sgomento e trasmettendolo allo spettatore, tocca il vertice della sua arte.

    L’incontro con la compagnia di attori ebrei giunta da Lvov, la sua comunità affascinante e vagabonda che soggiornò a Praga per qualche mese (dalla fine del settembre 1911 alla metà del successivo gennaio), colpì profondamente Kafka: sembra di avvertirne gli echi in diverse pagine successive, che potrebbero quasi essere interpretate come riflessioni e approfondimenti sull’idea di teatro.

    Nel celeberrimo Nella colonia penale, per esempio, l’attenzione si concentra sul rapporto tra il corpo e la scrittura. Il racconto descrive puntigliosamente una macchina atroce, concepita per straziare il corpo del condannato con il comandamento che ha violato. In questo inquietante patibolo, frutto di un’ignota scienza del corpo, si condensano e si sovrappongono - in una sintesi di insopportabile violenza - il teatro e la scrittura. E’ necessario incidere nella sua carne una consapevolezza del corpo che il condannato nel delitto ha forse dimenticato; nell’azione della macchina - che rende evidente il "lavoro del corpo" che normalmente il teatro sottintende - il gesto finisce per coincidere con il segno. Sulla perversa scena del patibolo, il corpo dell’attore-condannato diventa insieme pagina e palcoscenico. Dopo sei ore, scrive Kafka, il condannato "comincia a decifrare lo scritto; stringe le labbra come se stesse in ascolto. Lo ha visto lei stesso, non è facile decifrare lo scritto con gli occhi; ma il nostro uomo lo decifra con le sue ferite". Da ferite invisibili ma analoghe nasce l’efficacia segreta del gesto dell’attore. Ma, avverte l’apologo di Kafka, il prezzo della consapevolezza assoluta è la morte.

    Ancora: nelle pagine finali dell’incompiuto America, le difficoltà e le miserie della compagnia dell’amata signora Tschissik sembrano trovare un immaginario riscatto. E’ l’invenzione del Teatro Naturale di Oklahoma, "il più grande teatro del mondo", il sontuoso Circo Barnum nel quale finisce per arruolarsi il giovane Karl Rossmann. Grandiosa impresa commerciale, megalomane e trionfalmente pubblicizzata, il Teatro di Oklahoma è una utopia teatrale che sembra in grado di inglobare e trascendere l’intera realtà, per soddisfare ogni desiderio - ma proiettandolo nell’immaginario, nella finzione. Dietro questo "gran teatro del mondo" sembra già di intravvedere la premonizione inquietante di quello che sarà la "Società dello Spettacolo" (curiosamente, l’unica immagine del Teatro Naturale di Oklahoma descritta in America è il palco del presidente degli Stati Uniti). Con ironico sarcasmo, il finale sospeso del romanzo prefigura un mondo ridotto a rappresentazione e simulacro, talmente perfetto da risultare inattaccabile (fino ad assumere l’agghiacciante implacabilità di un incubo totalitario).

    Nell’ultimo racconto di Kafka, Giuseppina la cantante, dove si raggrumano moltissimi temi della sua opera, sembra tornare ancora una volta, come in filigrana, quel ricordo lontano: in certi gesti della protagonista, nel suo rapporto insieme fondamentale e sfuggente con il suo polo. Il teatro non è più un’utopia totalizzante, ma un sogno individuale, quasi privato - se i suoi effetti non riverberassero misteriosamente sull’intera comunità. Il canto della protagonista è una trasparente metafora dell’attività dello scrittore. Le sue difficoltà e sofferenze, quel soffio che è insieme canto e malattia, offrono una toccante proiezione autobiografica; così come il "popolo dei topi" è una trasposizione del popolo cui Kafka sentiva di appartenere.

    Chi, provenendo dal teatro, s’accosti all’opera dello scrittore praghese, non può eludere le sue sfide, che tracciano insieme nostalgie e speranze, utopie e incubi: quei frammenti di "scienza del corpo" e il loro rapporto con la scrittura, l’inevitabile fallimento dell’attore, il trionfo di una dimensione trionfalmente spettacolare, la necessità di immaginarsi e inventarsi il "fischio", così difficile da cogliere e da definire, in cui consiste l’arte di Giuseppina la cantante.
     

    Gli spettacoli di Moni Ovadia

    Oylem Goylem
    ("il manifesto", 9 novembre 1993)

    Quello degli ebrei dell’Europa orientale ha costituito un universo culturale, religioso, poetico e soprattutto umano di straordinaria ricchezza e profondità. L’insana crudeltà della storia, attraverso l’aberrazione nazista, ha cercato di cancellare questa realtà; e, dal punto di vista puramente fisico, c’è quasi riuscita: della vita degli shtetl (i villaggi ebraici di cui era disseminata una regione immensa) non è rimasto nulla. Eppure, per uno strano paradosso, quasi in forma di un risarcimento troppo difficile da giudicare, quel mondo ignorato per secoli, disprezzato, perseguitato, continua a parlarci. Per sperimentare la forza e le capacità di suggestione della cultura yiddish è sufficiente godersi lo spettacolo che ha per autore e protagonista Morii Ovadia: due ore che offrono un primo approccio ai tesori della civiltà yiddish. Oylem Goylem ha il tono e la struttura semplici e quasi casalinghi di un assolo da cabaret: un’orchestrina di cinque elementi (Maurizio Dehò al violino, Alfredo Lacosegliaz alle percussioni, Gian Piero Marazza alla fisarmonica, Patrick Novara ai fiati, Cosimo Gallotta alla chitarra) e un cantante-narratore, un’alternanza di brani musicali e di aneddoti, storielle, barzellette, pescando nel repertorio di una ricchissima tradizione sia colta sia popolare. Ma appena sotto il divertimento dei testi e la struggente malinconia delle musiche, pulsano i grandi terni della cultura yiddish: il senso dell’esilio e dunque una nostalgia inestinguibile, rapporto con la propria identità religiosa e etnica, una spiritualità sperimentata quotidianamente e spesso con molta ironia.

    Dunque è facile (e legittimo) avvicinarsi al mondo yiddish, ritrovandone la poesia e l’arguzia, proprio attraverso due espressioni così immediatamente comunicative: in un’antologia di storie e storielle, citazioni e canzoni, ecco dunque accostati con assoluta naturalezza, e dunque ricondotti all’origine comune, l’intimità familiare e gli spazi infiniti dell’emigrazione, i miseri ebrei dei ghetti polacchi e quelli emigrati in America, la divagazione e la metafisica, i rabbini che discutono dell’eterno e la gag alla Woody Allen, la meditazione di Kafka sulla lingua yiddish e il ricordo delle vittime di Auschwitz e Buchenwald, Senza vittimismo, senza presunzione, senza falsi imbarazzi; ma anzi mettendosi continuamente in gioco, come nell’immancabile ritratto della mamma ebrea, nelle satire del proverbiale senso senso degli affari ebraico, negli incontri comicamente rivelatori tra il prete cattolico e il rabbino.

    Quella che emerge dai testi ripresi da Morii Ovadia (nato in Bulgaria da una famiglia ebraica con ramificate origine storico-geografiche) è una particolare forma d’intelligenza ancora radicata nell’esperienza e nel patrimonio di racconti, conversazioni, ricordi di un intero popolo: una forma d’intelligenza in cui una lucidità critica spinta fino all’estremo si condensa in una battuta, in cui la riflessione esistenziale o filosofica viene messa a fuoco in un motto di spinto. La musica klezmer (arrangiamenti firmati da Dehò e Marazza), con la sua scanzonata disperazione, intrisa di sentimento fino a sfiorare a tratti la caricatura, sempre sospesa tra l’estasi e l’eccesso grottesco, sembra invece trascinare in un’altra direzione: là dove la danza travolge la riflessione, dove la gaiezza della comunità, l’impazienza del corpo e del canto dissolvono la solitudine. Alla fine ci si scopre come intrappolati dal fascino di questo "mondo perduto": divertiti e commossi, sospesi tra disincanto e stupore, appartenenza e distacco.
     

    Dybbuk
    ("il manifesto", 25 marzo 1995)

    In questa fine secolo - un secolo che si è macchiato dei peggiori massacri della storia, e che si sta chiudendo con altre stragi d’innocenti, da Sarajevo al Ruanda, dall’Algeria alla Russia, da Karachi al Chiapas, e da domani anche altrove - assumono un rilievo ancora più lancinante due antiutopie teatrali: quella delineata da Jean Genet nel saggio La strana parola di..., dove s’immaginava di recitare nei cimiteri; e quella teorizzata e praticata da Tadeusz Kantor nel suo "Teatro della Morte". Da queste visioni, e dalla riflessione sulla possibilità della poesia e sul concetto di Dio dopo Auschwitz (per utilizzare le formule di Adorno e Jonas), si è mosso Moni Ovadia (in collaborazione con Mara Cantoni) per approdare a Dybbuk, straordinario "evento" (più che spettacolo), in scena al Teatro Franco Parenti di Milano.

    Sulla scena, Ovadia è il "Testimone", ma anche il narratore e l’officiante di un lancinante rituale, costruito sull’intreccio di due testi. Uno è per l’appunto Il Dybbuk di An-ski, lo scrittore che diede forma a un’antica leggenda ebraica, secondo la quale chi muore prima del tempo, per morte violenta, resta sulla terra cercando pace nelle anime dei vivi, e dunque tormentandole. Protagonista del dramma di An-ski, che fu portavoce della rinascita della consapevolezza ebraica e della cultura yiddish all’inizio del secolo, è la coppia di sposi (Claudia Della Seta e Olek Mincer) che vediamo in scena, a cantare il loro amore ormai impossibile, doloroso e ossessivo. Lei nel suo abito bianco, sposa in attesa del suo promesso. Lui destinato a confondersi sempre più nella folla dei morti, senza smettere mai di cercarla.

    Il secondo testo utilizzato da Moni Ovadia per questo Dybbuk è Il canto del popolo ebraico massacrato di Yitzchak Katznelson, poema composto per incarico del collegio ebraico del ghetto di Varsavia, inciso nella memoria, poi trascritto e sepolto nel campo di Vittel (in Francia), e recuperato dopo la fine della guerra (e dopo la morte dell’autore ad Auschwitz). Questo Canto è dunque stato scritto durante Auschwitz, e non dopo. Ed è poesia, certo, spesso altissima. Ma è anche una poesia di atroce durezza, quasi insostenibile, un grido di dolore che potrebbe essere stato strappato a Giobbe, e che ruota intorno a una grande domanda, forse la più grande: come è possibile che gli Dei del cielo abbiano permesso tutto questo? Che Dio può essere quello che ha lasciato sterminare un intero popolo, e i suoi figli innocenti? "Ciascuno dei miei bimbi ammazzati può essere il loro Dio!", grida il poeta.

    Come un Dybbuk, il popolo massacrato invade l’anima del "vivo". Tormenta il Testimone, il Sopravvissuto, non dà pace alla sua solitudine. Come un Dybbuk, lo invade anche la lingua di quel popolo martoriato, lo yiddish. Anch’essa massacrata, cancellata, azzerata, come la sua cultura. E lo invade il canto. Canzoni popolari e inni di lotta e di sconfitta, composti nei ghetti assediati, e ora ricreati sulla scena dai deportati: una di quelle orchestre che accoglievano i treni da cui sbarcavano i prigionieri all’arrivo, e che li accompagnavano allo sterminio.

    Forse è proprio questa l’invenzione più spettacolare di un allestimento semplicissimo, e perciò perfetto nella sua linearità: i dodici musicisti-attori della Theaterorchestra nelle loro divise grigie, lacere e spente. Quasi tutti scalzi, anime morte eppure presenti, in continuo movimento, compongono figurazioni di atroce efficacia e bellezza, animando incessantemente lo spazio della memoria (oltre a Maurizio Dehò, Alfredo Lacosegliaz e Gian Pietro Marazza, che firmano gli arrangiamenti, ci sono Ivan Calaminici, Gianni Cannata, Amerigo Daveri, Cosimo Gallotta, Aleksandar Karlic, Massimo Marcer, Patrick Novara, Luca Trolese e Emilio Vallorani). Sono loro a risalire l’oblio come un contagio, con tempi ballabili e melodie che portano in sé un dolore infinito, un’ironia disperata, fatta di ritmi trascinanti, che spingono verso la danza o verso la processione rituale; e di pathos travolgente, che invitano alla passione d’amore o all’estasi mistica. Fatta di riso e di lacrime insieme.

    A tornare, dunque, evocata da questi suoni dolcissimi e strazianti, è una voce che invade e possiede. Una voce che dal nulla si fa canto e preghiera, maledizione e lamento funebre, rantolo e urlo, sospiro. Poesia e memoria. Bestemmia, a tratti. Perché è come se quel canto fosse stato spezzato, se quella voce si fosse incrinata. Recuperando nel corpo del cantore la sua unità, la sua organicità, continua a portarsi dentro una frattura: il vuoto che separa chi la parlava quotidianamente - il popolo scomparso prima del tempo, per morte violenta, nella Shoah - da chi la sta ricreando, dopo cinquant’anni di silenzio, e ora la respira di nuovo.

    La consapevolezza di questa distanza è una crepa che spinge ogni volta la voce a cambiare, a superarsi, a trovare un’altra più profonda verità in quella lingua morta. Che la spinge a cercare una superiore, irraggiungibile purezza in quei canti perduti e per un attimo ritrovati. In quell’istante sembra possibile assaporare l’innocenza cancellata dal massacro: quando siamo posseduti da quella "voce". In questo consiste l’essenza intimamente musicale degli spettacoli di Moni Ovadia, la sua ricerca vocale e religiosa. Mentre canta, si ascolta continuamente: ascolta quella che è insieme la propria voce e una voce che viene da un altrove irraggiungibile, precario, forse illusorio. In questa discrepanza continuamente annullata, in questa continua interrogazione, sta la tensione che dà vita al suo canto.
     

    Oylem Goylem
    ("Comix", 1995)

    Si parla spesso di "comicità ebraica". Fare esempi è fin troppo facile: da Chaplin ai fratelli Marx, da Lenny Bruce a Woody Allen. Insomma, i grandissimi. Ma che cosa sarà mai, questa "comicità ebraica"? Cos’ha di diverso? Spiega un’esperta come Judith Stora: "È commentando, filosofando, interpretando, che gli ebrei verificano quotidianamente l’ambiguità fondamentale di tutti i fenomeni umani. Così non può non nascere una visione ironica del mondo. Nel momento in cui si scopre che tutto è vero e anche il suo contrario, è molto difficile prendere una qualunque decisione per agire". Forse non è chiarissimo, ma proprio da questo mix di intelligenza e autoironia nasce una comicità irresistibile. Di qualità superiore. Parola di Paolo Rossi: "C’è stato chi ha cercato di definire la quintessenza della comicità ebraica in una gag. E la gag è quella del tizio che scivola sulla classica buccia di banana, cade all’indietro e... batte la faccia. Ecco, credo di essere ancora lontano da una cosa del genere". Se lo dice lui...

    Il cabaret di Moni Ovadia (drammaturgo, musicista, cantante e attore, nato in Bulgaria da una famiglia ebraica con ramificate origini storico-geografiche) è un affascinante e divertente viaggio alla scoperta dell’autentica comicit… ebraica. Certo, c’è molto altro negli spettacoli di Ovadia. Tanto per cominciare, la musica: la struggente melodia, i ritmi trascinanti della sua orchestra klezmer (la musica degli ebrei dell’Europa Orientale). E naturalmente affiora a tratti la terribile memoria dell’Olocausto e dei pogrom.

    Ma nel cabaret di Moni Ovadia c’è soprattutto quella comicità che è nata e si è sviluppata nelle comunità ebraiche (di lingua yiddish) in Polonia, in Russia, nell’impero absburgico. Lo spettacolo diventa allora un grande viaggio storico-geografico-antropologico-teologico. Una collezione di brani musicali, aneddotti, barzellette, che pesca nel repertorio di una ricchissima tradizione, sia colta sia popolare. Una antologia di storie e storielle che accosta con assoluta naturalezza le gag nell’intimità famigliare agli spazi infiniti dell’emigrazione, i miseri ebrei dei ghetti polacchi e quelli emigrati in America alla divagazione metafisica, i rabbini che discutono dell’Eterno alle fulminanti freddure alla Woody Allen e perfino alla meditazione di Kafka sulla lingua yiddish (a proposito, ricorda Max Brod che quando il suo amico Kafka leggeva qualche brano dei suoi angoscianti - per noi - romanzi, loro ridevano tutti come matti...). È una lezione spassosa. che migliora la qualità delle nostre risate.

    Da questo super-cabaret emerge una particolare forma d’intelligenza comica, radicata nell’esperienza di un popolo, nel suo patrimonio di racconti, conversazioni, ricordi - ma anche nelle sue tragedie storiche. Così la lucidità critica spinta fino all’estremo si condensa in una battuta, la riflessione esistenziale o filosofica viene messa a fuoco in un motto di spirito, il senso della vita si condensa in una risata.
     

    Ballata di fine millennio
    ("il manifesto", 27 febbraio 1996)

    Con Ballata di fine millennio Moni Ovadia ha costruito in collaborazione con Mara Cantoni quello che è finora lo spettacolo più emozionante e bello (e divertente) del Brecht Festival organizzato quest’anno dallo stabile milanese. In apparenza Ballata di fine millennio (sottotitolo: "L’unico comunismo è quello dei fratelli Marx") è uno spettacolo molto semplice: barzellette e canzoni, canzoni e barzellette, come nel cabaret o nell’avanspettacolo, mentre una coppia di mezza età volteggia i suoi tanghi e le sue polche (fino allo struggente ultimo valzer di Leonard Cohen). Ma il tema della serata, fin dal titolo, è assai più ampio: ripensare il secolo, i suoi meccanismi (dalla finanza al giornalismo), le sue tragedie (le guerre mondiali, il nazismo e il nazionalismo, l’Olocausto, i massacri e gli esili, e soprattutto il fallimento del sogno utopico sovietico).

    A distillare ed inseguire il senso dell’esperienza umana tra lo scoppio della Grande Guerra e la caduta del muro di Berlino è un duplice e rivelatore punto di vista. In primo luogo 18 canzoni in varie lingue (spagnolo, yiddish, tedesco, francese...); a cantarle, oltre al protagonista-conduttore della serata, Mara Cantoni, Lee Colbert e Elena Sardi. E naturalmente, accanto alle canzoni, l’irresistibile witz ebraico, in una costellazione di aneddoti esilaranti dalla sua saggezza divertita e paradossale, temprata dai pogrom e dal Talmud. Da un lato dunque la formalizzazione musicale di emozioni e sentimenti collettivi, dall’altro il disincanto e l’autoironia (comprese battute che sulla bocca di un non ebreo suonerebbero decisamente razziste). Illuminandosi a vicenda, a volte sovrapponendosi con effetti stranianti (per esempio il Kanonensong di Brecht-Weill e le barzellette con il soldato ebreo al fronte), aneddoti e canzoni gettano sulla scena il peso di una dignità e di una umanità che si possono conquistare solo nella sofferenza, nella lotta. Ma soprattutto nell’esilio, reale e simbolico.

    A prendere la parola attraverso Moni Ovadia (in un collage che coinvolge tra gli altri Lorca e Enzensberger, Kraus e Magris, Roth e Majakovskij, Döblin e Tucholsky) possono essere Brecht nel suo esilio californiano, i due rabbini proiettati dagli shtetl polacchi, russi o ucraini al Lower East End di New York, Walter Benjamin che si suicida quando sta per essere raggiunto dai nazisti a Port Bou nel 1940, una madre e i suoi sette figli nel campo di sterminio... Mentre il coro di musicisti-attori della straordinaria TheaterOrchestra incarna di volta in volta un gruppo di mendicanti che sembra sedimentato in un Albergo dei poveri, i partecipanti a una manifestazione con tanto di cartelli e striscioni, gli attivisti della Lef (il fronte delle avanguardie artistiche dopo la rivoluzione d’ottobre), un coro di combattenti antifranchisti in Spagna...

    Pur muovendosi sul filo della storia e della memoria, Ballata di fine millennio è tutto meno che uno spettacolo nostalgico. Perché - seguendo come un sottile filo metaforico il percorso di Brecht (che oltre a essere comunista era anche ebreo) - ne esplora anche contraddizioni, errori ed ambiguità. Evocando le grandi linee della sua esperienza umana individuale, mettendola in rapporto con quella di altri intellettuali e non, può ripercorrere le speranze del secolo e al loro tradimento.

    Alla terribile domanda sul grande e tragico, e per molti aspetti criminale, fallimento del secolo - la verificata impossibilità di costruire l’utopia sulla terra, che sia l’Urss o Israele - Ovadia suggerisce diverse risposte. Può trovarla in una canzone come Youkali ("Youkali è il paese dei nostri desideri, è il rispetto per tutte le promesse scambiate, è il paese degli amori belli condivisi"). Può intravederla ironicamente nel "refusnik pendolare" che non si trova bene né sotto Breznev né in Israele: "perché sa, mi piace viaggiare". Può riconoscerne una traccia - appunto - nelle sofferte astuzie di Brecht, nei suoi opportunismi. Può inseguirla nella dignità dei comunisti che negli anni Trenta si ritraggono davanti ai delitti staliniani per scoprirsi "orfani della totalità". Dopo il vanificarsi di utopie e ideologie, è su questo - anche su questa nostalgia di un sogno negato, politico e messianico - che può forse essere faticosamente fondata la ricerca di una nuova scala di valori. Unica alternativa: dimenticare, rinnegare, pentirsi, per abbandonarsi alla legge del più forte e alle sue violenze, sperando di trovarsi dalla parte vincente. Che non sarà però quella dei "giusti".

    Si sa, l’ironia distrugge tutti i regimi e tutte le verità (soprattutto se ufficiale); e Moni Ovadia non risparmia nessuno: nazismo e socialismo reale, capitalismo, religione e ateismo, patria ed esilio... Si sa, una canzone bella e ingenua, traboccante di sentimento può commuovere chiunque. In questo spettacolo - a volte con dolore e fatica, ma anche con molte generose provocazioni e gusto dello spettacolo - Moni Ovadia va cercando quella verità che si trova in equilibrio tra una battuta e una canzone. Che ci riesca, è dimostrato dagli allarmi di inquietante attualità di cui è punteggiata questa Ballata di fine millennio.
     

    Intervista a Moni Ovadia
    a proposito di Un’aringa in paradiso
    ("la talpa libri" del "manifesto", 30 ottobre 1997)

    La comicità è una cosa seria. E l’umorismo yiddish, oltre che irresistibilmente divertente (come confermano il successo di Chaplin e dei fratelli Marx, di Woody Allen e di Moni Ovadia), è una faccenda più che seria. Cioè spassosissima. In apparenza, Elena Löwenthal, serissima studiosa dell’ebraismo (tra l’altro ha curato di recente le bellissime Leggende ebraiche di Louis Ginzberg pubblicate da Adelphi), nonché titolare della rubrica di Judaica sul "Sole-24 Ore", si è limitata a raccogliere senza astrazioni né teorie le più tipiche, spassose e illuminanti storielle ebraiche in un volume di circa 250 pagine, Un’aringa in paradiso. Enciclopedia della risata ebraica).

    In apparenza, perché dietro quelle barzellette da lei organizzate per temi classici come la famiglia, la società (dalla bottega al ristorante), la sinagoga, la mamma (argomento imprescindibile, approfondito in tutti i risvolti psicologico-filosofici da Rachel Monika Erweg in La yidishe mame, Ecig), i soldi e il naso (ovvero gli stereotipi sugli ebrei), i rapporti con il cristianesimo, dietro quelle storielle raccordate con mano leggera e con l’indispensabile corredo di informazioni, si muove un universo di pensiero che accomuna Freud e Kraus, Kafka e Singer. Sembrano solo barzellette, e in realtà sono visioni del mondo. Affilate, tragicamente vere e dunque ridicole, spesso sovversive. Paiono battute di spirito, ma nascondono il segreto della condizione umana. E’ una comicità che scatena la risata, e insieme illumina, sorprende, spiazza. Queste folgorazioni non nascono dal nulla: hanno un immenso retroterra di esperienze vissute, di gesti, di rapporti umani, di riflessioni e interminabili discussioni. Si sono affinate via via che qualcuno la raccontava a qualcuno che la raccontava a qualcuno che a sua volta...

    Queste storielle fanno parte di un patrimonio vastissimo, lo stesso cui hanno attinto - tra gli altri - Ferruccio Folkel (per i due volumi di Storielle ebraiche pubblicate da Rizzoli), i francesi Ouaknin e Rotnmer per la loro monumentale Bible de l’humour juif in due volumi (Ramsay), e Moni Ovadia per i suoi travolgenti spettacoli (il suo cabaret yiddish è stato trascritto in Perché no? L’ebreo corrosivo).

    In questi mesi Ovadia, oltre che portare in questi mesi in tournée lo spettacolo che ha realizzato con Roberto Andò (Il caso Kafka, dedicato all’amicizia dello scrittore con l’attore Jizsach Löwy), sta tenendo un corso all’università di Padova che ha per tema proprio la comicità ebraica.

    Secondo te, Moni, si possono rintracciare dei temi di fondo dei caratteri specifici e della comicità ebraica?

    Certamente sì. Mi riferisco al corpus del witz ebraico est-europeo, alla yiddishkeit, e poi alle sue propaggini nord e sudamericane, perché non bisogna dimenticare che c’è stata la grande emigrazione ebraica in Argentina, quella degli "yiddishe gauchos"... Del resto la comicità ebraica è un po’ come lo yiddish: mutua il genius loci. Un caso a sé è la comicità isreaeliana, che riflette una condizione ebraica inedita. Grandi studiosi dell’umorismo ebraico sostengono che Israele sia un paese witzlos, cioè senza umorismo.

    Anche se in Israele c’è per esempio un filone di comicità fatto dagli immigrati dall’Urss per gli immigrati dall’Urss.

    Infatti non sono assolutamente d’accordo quella tesi. Anzi, credo che sarebbe molto interessante studiare l’evoluzione del witz israeliano sulla base della varie immigrazioni, dai primi coloni nei kibbutz a quelli arrivati dai paesi arabi, dai falascià etiopi agli immigrati dalla Russia. E tuttavia, al di là di queste differenziazioni, tutto l’umorismo ebraico discende direttamente dal rapporto degli ebrei con il divino, da questa sfida ai limiti dell’impossibile con il divino. Teniamo conto che nella Torah (i primi cinque libri della Bibbia) se ne dicono di tutti i colori sugli ebrei. La Torah, il libro santo, non elogia affatto gli ebrei, ma è duramente realistico: continua a dar loro dei fedifraghi, li accusa di essere un popolo di mormoratori, di riottosi, di ostinati, un popolo che spesso trasgredisce il patto con il divino.

    Non a caso uno dei grandi temi della comicità ebraica è il rapporto con la legge, oggetto di infinite infrazioni che l’aneddoto spesso giustifica nelle maniere più paradossali e divertenti.

    Ma sempre con un atteggiamento autoironico. C’è un episodio della Bibbia che citano tutti i grandi studiosi della comicità ebraica, da Ouaknin a Rosten: l’annunciazione a Sara che è incinta di Abramo, e quella ad Abramo che è incinta di Sara, già sterile e per giunta con le regole finite. E cosa succede? A questo annuncio, Abramo ride, e Sara ride due volte. E’ una scena chiave della narrazione biblica, deliziosa e straordinaria. Ma quando poi l’Eterno vede la faccia di Sara incinta, se la ride lui, secondo me, perché anche l’Altissimo ha un enorme senso dell’umorismo. Infatti decide che il figlio di questi due ridanciani si chiamerà Isacco, che viene dal verbo "zahaq", che vuol dire "ridere". Sarà proprio "Colui Che Ride", cioè Isacco, a dare la discendenza al popolo d’Israele. Dunque nella tradizione ebraica il riso sta molto in alto. Io cito spesso un commentario midrashico sulla Genesi, in cui i maestri si domandano che cosa facesse Dio prima di creare questo mondo. Domanda legittima. "Creava mondi e gli distruggeva" è la risposta che viene data, "perché un mondo era troppo rigido, l’altro era troppo elastico, eccetera". Alla fine di questa costruzione dell’universo per tentativi, non so se al ventisettesimo o al ventottesimo tentativo, l’Eterno, detergendosi il suo divino sudore, pare che abbia sospirato: "Purché questo tenga". Dunque mi sembra che anche nei testi sacri della tradizione ebraica, e non solo nelle storielle, l’aspetto umoristico sia molto in alto, e che sia autoironico. Un altro Midrash, quello che amo di più, si intitola proprio "Dio ride". E Dio ride ancora una volta di se stesso, perché ha fatto uno scivolone: è intervenuto in un affare di uomini e non doveva farlo.

    Dunque il punto di partenza è l’autoironia nella relazione con il divino...

    Dopo la fuga dall’Egitto, Mosé sta pensando dove portare questo popolo di riottosi e mormoratori. A bruciapelo l’Eterno, sia benedetto il suo nome, gli chiede: "Dove vuoi andare con il tuo popolo, Mosè?". E Mosè inizia a balbettare: "Ca... Ca... Ca...". L’Eterno, che anticipa sempre i desideri, gli dice: "Vuoi andare in quello schifoso deserto di Canaan? Insomma, contenti tu e i tuoi, andateci pure". Ma Mosè voleva dire: "Ca... Ca... California". Qualche secolo più tardi un certo numero di ebrei ha cercato di riparare a questo equivoco. Ci sono moltissime storielle sul conflitto degli ebrei con il padreterno.

    Un conflitto che però affonda le sue radici in una caratteristica della religione ebraica: il rapporto diretto, a tu per tu, con il divino.

    Un rapporto assolutamente alla pari, dentro un patto tra due contendenti. E dentro quel patto ci sta anche che quando un ebreo è un uomo pio, e sente di avere subito dei torti, glieli dice, e gliene dice quattro. Ma è anche sorprendente come l’ebreo, quando è in una dimensione di grande santità, riesca a trasformare i vizi in virtù. Si è sentito un rabbino, durante la preghiera nella sinagoga, mentre questi ebrei facevano un fracasso incredibile, rivolgersi così all’Eterno: "Guarda che popolo straordinario che hai! Vengono qui per parlare dei loro affari e trovano anche il tempo di pregare". C’è un ribaltamento della situazione che nasce proprio da questo rapporto personale e che può sfociare anche nella provocazione e nel bisticcio. Nel cattolicesimo la cosa che più ci si avvicina, ma rimanendo in una modalità diversa, è Don Camillo che nasconde il bastone che vuol dare sulla zucca a Peppone, e quando Gesù lo sorprende si scusa: "Oh Signore, ma è solo una bottarellina...". Ma Don Camillo non ha ancora fatto il salto. Invece i rabbini processavano Dio: "Verdetto: colpevole, perché ha fatto l’uomo troppo incline al male...".

    Le storielle che ha raccolto Elena Löwenthal, come quelle che compaiono in altre compilazioni analoghe, non hanno un autore, ma fanno parte di un patrimonio collettivo. Anche perché vivono soprattutto in una dimensione orale: per vivere e crescere devono essere raccontate.

    La storiella ebraica trova la sua apoteosi nello shtetl, il villaggio dell’Est europeo, che era un luogo unico, dove esisteva una condizione umana, esistenziale ed ebraica che non si è più ripetuta, perché è stata spazzata via dall’Olocausto. In una grande densità di popolazione, in condizioni spaventose, di fame, di grande costrizione, di pericolo e di costante persecuzione, oltre che di fervore e di rito, si accalcavano ebrei che vivevano una relazione di popolo con la loro Torah. Anche il teatro ebraico nasce lì: è la sinagoga il vero grande teatro ebraico, perché è il luogo dove s’incontrano i tipi più inverosimili, dove c’è gesto, dove c’è rito. Ed è lì che nasce la storiella, come forma di autocomprensione e di risposta a una situazione quasi insostenibile. La storiella è una struttura salvifica, e per essere salvifica dev’essere aperta, facilmente riapribile.

    Anche Un’aringa in paradiso, opportunamente, dà in alcuni casi due o tre versioni - o varianti - della stessa storiella...

    La scrittura arriva tardi, quando c’è una decadenza. L’ebraismo ha sempre una grande componente orale. Secondo l’ebraismo ci sono due Torah: quella scritta e quella che è sulle labbra. Solo il lunghissimo esilio babilonese ha indotto i maestri a scrivere il Talmud, la tradizione orale tramandata di generazione in generazione. La Torah viene insegnata oralmente, ognuno dà il suo commentario sulla bocca, con la parola parlata, e anzi spesso salmodiata e cantata, come forse faceva il rapsodo Omero. Di qui l’importanza della trasmissione orale, soprattutto nel shabbat, il giorno della santità, il momento ideale per raccontare, trasmettere, studiare... Di shabbat del resto è proibito scrivere. La dimensione orale è imprescindibile nell’ebraismo, ed è la forma di trasmissione ancora oggi più ricca, la più consona alla nostra condizione, perché è la più profondamente umana. Non a caso la psicoanalisi freudiana usa la parola fluttuante, il pensiero fluttuante. L’immagine dello psicanalista che scrive è una cosa molto americana.

    A proposito di Freud, che ha studiato il motto di spirito in un celeberrimo saggio (forse quello, insieme allo scritto su Mosè, in cui la sua identità ebraica emerge con la maggior evidenza): non è che continuando ad analizzare e vivisezionale le storielle, a teorizzare astrattamente sui meccanismi del riso, si rischia di perdere il piacere di riderne?

    Posso rispondere con un motto di Karl Kraus. Che cos’è la psicoanalisi? La malattia di cui pretende di essere il rimedio. E con due storielle. Che cos’è uno psicoanalista? Un dottore ebreo che ha paura del sangue. E ancora: Che cos’è la psicoanalisi? E’ una pseudoscienza inventata da un dottore ebreo per fare assomigliare i tedeschi agli italiani. Ci sono poche speranze che il signor Freud e quelli come lui ci tolgano il gusto di ridere. Ma è interessante analizzare le storielle, che rimangono dirompenti al di là di ogni tentativo di spiegazione (ed esistono centinaia di libri sulla comicità ebraica, scritti da quelli che le storielle le sanno raccontare, e da quelli che non sanno farlo).

    Ma allora qual è il rischio che corre il witz ebraico?

    Il rischio di autoestinzione dell’umorismo ebraico dipende invece da un altro fattore. Da quanto gli ebrei resteranno ebrei, da quanto cederanno alla tentazione di omologarsi. Non c’è riuscito Nabuccodonosor, non ci sono riusciti gli ellenisti di Antioco Epifane, non ci sono riuscite le durissime persecuzioni cristiane durate secoli, non c’è riuscito lo zar con i pogrom, non c’è riuscito neanche Hitler. Ma gli ebrei sono gli unici che possono distruggere se stessi. Non fisicamente, è chiaro. Ma rinunciando alla loro identità. Invece, se lo spirito anti-idolatrico, lo spirito profondo ebraico rimane vivo malgrado le mutazioni di condizione esistenziale, allora anche il witz è indistruttibile, perché secondo me è collegato all’ethos e al pensiero ebraico. Il pericolo che viene da se stessi è il fondo il più insidioso, il più difficile da vedere.

    Anche in Un’aringa in paradiso si possono leggere diverse storielle su questo argomento...

    Da un certo punto di vista, le storielle ebraiche sono delle storielle antisemite raccontare da un ebreo. L’ortodosso Yankele ha acceso una sigaretta nel giorno del santo shabbat. L’amico Moishele lo vede e gli dice: "Yankele, ma cosa fai? Blasfemo, vergognati! Cosa ti succede, amico mio? Hai perso il senno? Accendere il fuoco di shabbat è il peccato più tremendo che tu potessi compiere. Ma cosa ti è successo? Hai dimenticato che il sabato è il santo giorno dello shabbat?". Aspirando una voluttuosa boccata Yankele gli risponde: "Senti, Moishele, levati dai piedi. Non ho dimenticato che è il santo giorno di shabbat. Ho dimenticato che sono ebreo". In questo caso l’autoironia è salvifica.

    Hai parlato di storielle antisemite raccontate dagli ebrei. Ma ci sono anche altre storielle antisemite...

    C’è una profonda differenza tra le storielle ebraiche e le barzellette antisemite, che spesso sono sinistre, ma a volte possono anche essere divertenti. Ne racconto una che ha fatto ridere anche molti ebrei e che riguarda due stereotipi dell’ebreo, il naso grosso e l’avarizia. Perché gli ebrei hanno il naso grosso? Perché l’aria è gratis. Ma c’è anche una risposta che secondo me è del tipo ebraico. Gli ebrei hanno il naso grosso perché Mosè ce li ha menati nel deserto per quarant’anni. Una risposta tende a scardinare il pregiudizio e a ridere di se stessi, a rovesciare la pulsione di morte insita nell’aggressione e nello stereotipo in una pulsione vitale, che dà anche all’aggressore una chance di capire quanto è cretino. L’altra invece confina l’ebreo nello stereotipo.
     

    Il caso Kafka
    ("il manifesto", 23 gennaio 1997)

    È difficile sottovalutare l’importanza dell’incontro e dell’amicizia tra Franz Kafka e Jizchak Löwy, al Caffè Savoy, nella Praga del 1911. In più di un senso, l’attore polacco rivelò Kafka a se stesso. Al giovane ebreo assimilato fece scoprire la tradizione, l’ebraismo dell’Europa dell’Est, le sue radici profonde. Figlio ribelle, deciso a tutti i costi a soddisfare la propria vocazione d’artistra, mise a nudo il rapporto di Kafka con il padre - e infatti Löwy è una presenza fondamentale nella celeberrima (e mai spedida) Lettera di Franz al genitore.

    Il nuovo spettacolo di Roberto Andò (regista) e Moni Ovadia - che nel titolo riprende un’espressione "clinica" di Walter Benjamin, Il caso Kafka, ruota intorno a questo incontro, e lo sceglie come chiave per cercare di cogliere ed esplorare l’identità ebraica. Più che attraverso un confronto tra i due personaggi e la loro concezione del mondo (e dell’ebraismo), quello del Caso Kafka è un percorso che procede accumulando segni e suggestioni (a cominciare naturalmente dalle citazioni kafkiane).

    Il Caffè Savoy è abitato da un vecchissimo e silenzioso cameriere. È disseminato di bicchieri sporchi e vecchie scarpe (quelle che gli ebrei abbandoneranno prima di entrare nelle camere a gas). Il locale si anima di una scenetta rubata alla Bibbia e recitata con ridicola ed eroica inadeguatezza: ma Kafka s’era subito accorto che l’inadeguatezza del teatro, il suo essere insieme comico e tragico, è la sua verità, e anch’egli si sentiva "inadeguato" quant’altri mai.

    Irrompe una travolgente orchestrina di ebrei con pastrani sdruciti e barbe lunghissime (l’ormai mitica Theater Orchestra). Si materializza per un istante la presenza di Nathan il saggio. Esplodono le risate silenziose, mute, che tanto colpivano gli amici di Kafka. Echeggiano rari frammenti del Diario, con la voce di Bruno Ganz...

    Moni Ovadia è Jichzak Löwy. Ha la forza della lingua yiddish: la sua potenza poetica ed espressiva, ma anche l’impatto di verità che può avere solo la voce dei sei milioni di ebrei sterminati. Ha in sé la forza della tradizione, quella della retorica e del pathos, e una comunicativa trascinante. Tra le sue armi ci sono anche il canto e la musica, e la crudeltà dell’umorismo ebraico e della sua "contro-teologia". Dalla sua, ha anche il fascino della sua primattrice e cantante, la signora Tschissik (Lee Colbert, che regala alcuni splendidi song), di cui Kafka naturalmente s’invaghirà, lasciando più d’una traccia nel Diario.

    Al contrario Kafka (il giovanissimo e bravissimo Alexandre Vella) è solo. E’ un bambino timido e silenzioso, che indossa come un guscio gli abiti che riconosciamo nelle fotografie dello scrittore: la bombetta, e a stringere quel corpo magro il cappotto nero con il collo di velluto. E’ timido e silenzioso, fragile e perfetto, innocente ma irraggiungibile. Lontano. Già tutto chiuso, forse, nella scrittura.

    Difficile capire appieno, da questo Caso Kafka, quali tracce abbia effettivamente lasciato la "tentazione Löwy" nella vita e nell’opera di Kafka. Ma non è forse un caso che questa rivelazione della propria identità sia avvenuta in un teatro. (Tanto è vero che il teatro tornerà due volte - come una chiusa sospesa, con straordinaria forza profetica - in altrettanti momenti chiave dell’opera di Kafka: in America, con l’utopia del Teatro Viaggiante di Oklahoma; e nell’ultimo dei racconti, nel ritratto autobiografico e struggente di Giuseppina la cantante, che non ha caso ha i gesti diagnosticati da Kafka molti anni prima nella recitazione della signora Tschissick, e la voce di Kafka.)

    Difficile capirlo, anche perché Moni Ovadia, con pudore, preferisce non affrontare i nodi più vertiginosi della "ebraitudine" di Kafka e della sua abissale meditazione teologica, e si proietta interamente nel vero protagonista del Caso Kafka, l’attore Löwy. Oltretutto quello di Ovadia non è il Löwy che ha conosciuto Kafka: viene reinventato oggi, dopo che i massacri della storia hanno reso ancora più necessario salire sulle tavole di un palcoscenico - e fingersi - per ritrovare quell’identità ebraica, per salvarne un frammento, per farne vivere un respiro. È solo così, dopo che il "piccolo Kafka" ha abbandonato la scena, dopo aver scandito a due voci la Lettera al padre, che Ovadia nel finale potrà ritrovare l’aura di quel mondo, per quel poco che è possibile: in un ondeggiare del capo, in una danza incerta ed estatica, in una battuta tanto feroce quanto autodistruttiva, in una voce stanca, ormai logora, ma dispiegata in un canto che ancora vibra.
     

    Oylem Goylem su Raidue
    ("il manifesto", 28 gennaio 1998)

    Non capita spesso che una cultura trovi il suo cantore. E l’evento è quasi miracoloso quando questa cultura non esiste praticamente più, spazzata via dalla storia con la ferocia indicibile dell’Olocausto. Questo "quasi miracolo" lo dobbiamo a Moni Ovadia, nato in Bulgaria da una famiglia ebraica con ramificate origini storico-geografiche, ma radicato – per quanto gli è possibile – a Milano. Moni è musicista e cantante (è stato l’anima del Gruppo Folk Internazionale), drammaturgo, regista e attore, eccetera, insomma un autentico creatore, autore di spettacoli, dischi, libri...

    La cultura è naturalmente quella yiddish, sedimentata e cresciuta negli shtetl, i villaggi ebrei dell’est europeo. Ma l’orizzonte spazia dai Racconti dei chassidim di Buber ai racconti e romanzi del Premio Nobel Isaac B. Singer, dai capolavori di Kafka a Woody Allen, dalle irresistibili barzellette ebraiche (e dal Witz freudiano) alla musica klezmer con i suoi struggenti e scatenati violini, dal falso messia Shabbetai Zevi ai pii rabbini, dalla miseria dei ghetti all’orrore dei campi di sterminio, ma anche all’emigrazione verso gli Usa e Israele. C’è tutto questo mondo, con le sue inesauribili ricchezze, in Oylem Goylem, l’"opera d’arte totale" che Moni Ovadia e la sua travolgente Theaterorchestra presentano mercoledì 28 su Raidue in prima serata (dopo un’introduzione di Gad Lerner e prima di Broadway Danny Rose di Woody Allen, all’interno dunque di una delle "serate a tema" care a Carlo Freccero).

    Perché il "cabaret yiddish" Oylem Goylem è certo uno spettacolo divertente, caratterizzato da una comicità di qualità superiore. Ma è anche un distillato di intelligenza e umanità, il sedimento della saggezza di un popolo. Spiega un’esperta come Judith Stora: "È commentando, filosofando, interpretando, che gli ebrei verificano quotidianamente l’ambiguità fondamentale di tutti i fenomeni umani. Così non può non nascere una visione ironica del mondo. Nel momento in cui si scopre che tutto è vero e anche il suo contrario, è molto difficile prendere una qualunque decisione per agire". Da questo mix di intelligenza e autoironia nasce una comicità irresistibile. Di qualità superiore, perché pienamente consapevole del senso tragico dell’esistenza.

    Oylem Goylem diventa allora un grande viaggio storico-geografico-antropologico-teologico, che ha la forma di una collezione di brani musicali, aneddotti, barzellette. Questa antologia di storie e storielle raccolte nel repertorio di una ricchissima tradizione, colta e popolare, affianca con assoluta naturalezza le gag nell’intimità famigliare agli spazi infiniti dell’emigrazione, i miseri ebrei dei ghetti polacchi e quelli emigrati in America alla divagazione metafisica, i rabbini che discutono dell’Eterno alle fulminanti freddure alla Woody Allen, dove la lucidità critica spinta fino all’estremo si condensa in una battuta, la riflessione esistenziale o filosofica viene messa a fuoco in un motto di spirito, il senso della vita si condensa in una risata.
     

    mame mamele mama mame mamma mamà
    ("il manifesto",16 novembre 1998)

    Moni Ovadia ha iniziato a far conoscere in Italia la cultura degli ebrei dell’Europa dell’Est con il suo cabaret yiddish Oylem Goylem (visto anche in tv). Poi ha iniziato un’esplorazione tematica: un capitolo dedicato all’Olocausto (Dybbuk), un altro agli slanci rivoluzionari del giudaismo secolarizzato (Ballata di fine millennio), un altro a Kafka e al suo amico attore Löwy (Il caso Kafka). Ora tocca alla figura della leggendaria "yiddishe mame", la mamma ebrea (per chi volesse saperne di più, è disponibile la monografia di Rachel Monika Herweg, che ripercorre l’intera storia di questo "matriarcato occulto ma non troppo da Isacco a Philip Roth").

    Il nuovo spettacolo è però anche qualcosa di diverso - di più personale e autobiografico, parrebbe. mame mamele mama mame mamma mamà. Il crepuscolo delle madri (così suona il titolo completo) è un kaddish, cioè una orazione funebre, in onore della madre scomparsa. L’associazione più immediata è all’omonima struggente lirica di Allen Ginsberg (debitamente citata), ma in questo collage s’incontrano anche – tra gli altri – Laing e Brecht, Ritsos e Rózewicz, Esenin e Proust (il celeberrimo incipit della Recherche, quello del bacio della buona notte), una sfilza di canzoni ora beffarde ora struggenti, comprese sconclusionate rivisitazioni yiddish di melodie celeberrime come "La Cucaracha" o "Ciribin", e naturalmente una manciata di irresistibili storielle ebraiche che hanno per protagonista una o più mamme ebree, personificazione di un affetto che può diventare devastante, implacabile, terroristico.

    Nel cantare la madre – sua madre – Moni Ovadia attraversa un’autentica babele di lingue, con sottotitoli casalinghi per la traduzione, che scorrono come papiri su due rotoli di stoffa ai lati della scena: l’italiano e lo yiddish, naturalmente, ma anche russo e inglese, francese e bulgaro, tedesco, polacco e spagnolo… Un po’, banalmente, perché le mamme del mondo sono tutte belle, e tutte temibili. Ma anche perché si intuisce, forse, che il "crepuscolo delle madri" (cui lo stesso Ovadia dedica, in questa alba dell’era genetica, un’angosciata profezia) sta cancellando la madrelingua. Resta spazio solo per quella lingua primordiale che è il canto, forse il pianto.

    Quella di Moni Ovadia resta una drammaturgia embrionale, ancora vicina alla liturgia, un concerto teatralizzato popolato più da figure che da personaggi, con uno sviluppo che è musicale ancor prima che narrativo, sospinto dalla tensione che anima tutti i suoi lavori: la sovrapposizione di lutto e riso, lo scontro tra un cordoglio inaccettabile e una comicità che libera dall’angoscia, l’imperativo di una memoria che attraversi i millenni, con tutti i loro Olocausti e diaspore, e il piacere dello sfogo immediato ed esplosivo della battuta. Per parlare di sé, Ovadia si oggettiva nel ruolo di direttore d’orchestra, e poi si moltiplica in tre personaggi (l’orfano piagnucoloso di Olek Mincer, l’orfanella sguaiata e petulante della scatenata Lee Colbert, il decrepito attore di varietà che pensa ancora alla mamma di Ivo Bucciarelli). Soprattutto, si proietta nella sua travolgente Theaterorchestra, indisciplinata e coreografica banda di orfanelli.

    Il patetico, l’eccesso di sentimento, vengono subito ribaltati nel grottesco, deformati nei consapevoli oltraggi del guitto. Il pregiudizio e la presunzione vengono ogni volta ridicolizzati con una barzelletta. La verità dell’intelletto si disintegra in un motto di spirito. Solo a quel punto, dopo il pianto e il riso, oltre il sentimento e l’ideologia, dopo aver fatto il suo nido dentro il dubbio, una verità umana può finalmente riaffiorare: attraverso una storiella, una poesia, una canzone magari sgangherata, l’eco di una banda. È una verità dolente, imbevuta di malinconia, lo sguardo perso in una nostalgia senza oggetto né redenzione. È una verità che – come nel Teatro della Morte di Tadeusz Kantor, che è un po’ il suo modello di riferimento – Moni Ovadia può ritrovare in quella terra di fantasmi che è il palcoscenico, così vicino ai confini del Nulla o dell’Apocalisse. Per poi ridere di sé, ancora una volta, e ricominciare a cantare.


     
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