NOVITA'
oliviero 
ponte 
di pino
HOMEPAGE
CERCA 
NEL SITO
 MATERIALI 
NUOVO TEATRO
TEATRO LINKS
ENCICLOPEDIA PERSONALE
TRAX

 
Appunti su Pasolini
di Oliviero Ponte di Pino

Ovvero un paio di articoli su Pasolini (o su spettacoli pasoliniani) apparsi sul "manifesto" nel 1993-1994.
 

Che cosa ne avrebbe detto Pasolini?

«Chissà cosa ne avrebbe detto Pasolini?» è la domanda che da diciotto armi continuano a porsi in una sorta di riflesso condizionato le redazioni dei giornali (e le coscienze di molti italiani) di fronte a eventi che coinvolgono la cronaca, viziata da periodici ritorni del rimosso. Su questa domanda si è tornati inevitabilmente più di una volta, durante gli incontri e i dibattiti di «Con le armi della poesia...», la megamanifestazione pasoliniana in corso in queste settimane a Milano con grande successo.
Del resto come non porsela, la domanda, quando la prima mmagine che campeggia nell'inserto che il "Corriere della sera" ha dedicato agli Scritti corsari ritrae Moro e Pasolini seduti l'uno accanto all'altro (in occasione di un festival di Berlino)? Come non porsela quando (come è accaduto all'Elfo nell'incontro che ha inaugurato la mostra dedicata appunto agli Scritti corsari, con Giulio Nascimbeni,  Stefano Agosti, Enzo Golino, Francesca Sanvitale, Gianni Riotta ed Enzo Sicilaàno) i nomi di queste due «vittime degli anni Settanta» sono stati accostati, nel tentativo di capire insieme un'epoca e due destini diversamente tragici?
Come non porsela, la domanda, quando la cronaca di questi mesi sembra riprendere alla lettera uno dei temi più clamorosi ed efficaci dell'ultimo Pasolini, quel Processo alla dc rifiutato proprio da Moro quando difese in Parlamento il ministro Gui, inquisito per lo scandalo Lockheed? Quando la farsa tragica e controproducente che l'interrogatorio allo statista sequestrato dalle br occupa ostinatamente la cronaca con i suoi veri e finti misteri? Come non porsela, quando le trame golpiste e depistanti dei servizi riportano d'attualità tutti gli interrogativi irrisolti su Piazza Fontana, ripresi dal documentario realizzato da Pasolini e Lotta Continua nel '72, e ripresentato sabato scorso, sempre all'Elfo, da Adriano Sofri, Marco Boato e Guido Calvi, tra ricordi personali e rimandi alla cronaca giudiziaria?

Eppure, mentre la domanda risuona come un ritornello, scatta anche un senso di disagio di fronte a un Pasolini vissuto come profeta dell'eterno degrado italiano e perciò eternamente intrappolato nell'attualità. Un disagio ancora maggiore lo suscitano i suoi eredi autoproclamati, stonati e irritanti. Diventa allora opportuno riflettere su quanto, di quelle virtù profetiche, non dipenda - più che dalla intransigente chiaroveggenza del poeta - dai ritardi, dalle vischiosità, dai doppi fondi della nostra storia recente, dai blocchi e dalle rimozioni della nostra coscienza civile.
Del resto il metodo per arrivare a quelle verità, richieste con insistenza sospetta agli imitatori postumi, è chiaramente delineato dallo stesso Pasolini. Per esempio, nel celebre articolo dell'«Io so»:

«Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, uno che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace, che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logicà là dove sembrano regnare l'arbitrarietà e la follia e il mistero».
Per irnrnaginare quel che avrebbe detto Pasolini, è sufficiente fare quello che devono fare tutti quelli che vogliono semplicemente capire quello che sta accadendo, tutti quelli che si interrogano sulle trasformazioni della realtà e sulle spinte che le determinano, tutti quelli che non possono accontentarsi delle spiegazioni di un potere che è stato, in Italia, «corrotto, inetto, degradato» (Pasolini, inconfondibile). Con intransigenza e coraggio, evitando le trappole dell'opportunismo politico; e partendo, più che da schemi ideologici, dalla conoscenza empirica, dalla sperimentazione fisica e antropologica della realtà. Insomma, quello che evidentemente finora hanno fatto troppo pochi.

Detto questo, il problema non è tanto «che cosa» avrebbe detto Pasolini, quanto perché il fatto che lo dicesse lui (e non altri) abbia avuto e conservi tuttora quell'effetto, quel peso, quel prestigio. «L'effetto di verità» delle risposte pasoliniane non dipendeva infatti solo dagli enunciati, o dalla loro carica provocatoria, in quel preciso momento storico. Non è facile risalire alle fonti di quell'autorevolezza. Partendo da presupposti diversi, sarebbe facile individuarne il nucleo, di volta in volta, nell'identità etica o estetica, nell'aspirazione religiosa o politica, nella pulsione sessuale o di morte, nella vocazione pedagogica...
Ogni definizione univoca di questa legittimazione risulterebbe parziale, limitante (anche se probabilmente l'identità più forte è, soggettivamente e oggettivamente, quella di poeta); perché è nella compresenza di tutte queste spinte, in questo nucleo, a volte contraddittorio, che si sono plasmate tanto la personalità e l'opera quanto l'efficacia di Pasolini. Che è sempre rimasto fedele a questo nucleo di difficile decifrazione, eppure evidente nella sua ostinata potenza.
A legittimare qulle prese di posizione era anche una parabola personale ricca di lacerazioni spesso dolorose e traumatiche: circostanze biografiche e scoperte personali che l'hanno strappato e ristrappato da un contesto «naturale», nel quale la speranza era legittima; e, soprattutto sul versante della pratica artistica, una serie di svolte radicali e sorprendenti: dopo aver imboccato ogni volta un vicolo cieco, e dopo averlo esplorato fino all'estremo con furiosa radicalità, Pasolini ha sempre trovato la forza per cambiare terreno, per ricominciare a cucire il rapporto tra l'arte e la realtà da una posizione diversa, in un percorso che ha attraversato («in ordine di apparizione», ma con costanti corsi e ricorsi, e continui superamenti e negazioni anche all'interno di ciascun ambito d'attività) la poesia in friulano, quella in italiano, la poesia lirica e quella civile, il romanzo, il cinema, il teatro, e poi la critica, il saggismo colto e il giornalismo «corsaro».
In questo intreccio di assoluta coerenza e massima flessibilità, di rigore strategico e acume tattico, Pasolini ha mutato, quando gli sembrava necessario, il terreno, il canale di comunicazione, continuando però a cercare sempre le stesse cose. tentando, sul versante più direttamente estetico, sfondare con l'arma della poesia la superficie della realtà. E sul versante politico-sociale, cercando di inveritre (o almeno rallentare) il corso del «degrado italiano» (e non possono sorprendere, su questo fronte, le ricorrenti esplosioni di disperazione, gli attacchi di angoscia per il mondo, fino al cupo pessimismo degli anni di Petrolio, Salò e di certi Scritti corsari).

Ma per comprendere oggi la forma delle prese di posizione di Pasolini, è importante riflettere anche sulle sue controparti e sulle loro reazioni. Semplificando e generalizzando, ogni sua opera, ogni suo gesto pubblico, incontrava almeno tre destinatari diversi. In primo luogo Pasolini si muoveva a livello estetico; dove quello che importa è la qualità dell'opera in sé, all'interno di ciascuna disciplina o genere. Un secondo destinatario era l'establishment culturale, con tutto quello che di fecondo e conflittuale questo rapporto poteva comportare (basti pensare agli scambi con Fortini). Infine c'era la società italiana nel suo complesso: all'inizio soprattutto «popolo» e alla fine più genericamente «opinione pubblica».
Senza dimenticare le aggressive reazioni (e le autentiche persecuzioini) di apparati poliziesco-ideologici di vario tipo, portavoce della borghesia incolta e reazionaria, dei benpensanti che Pasolini disprezzava: reazioni in sé poco interessanti, ma in grado di influenzare lo scenario, di mantenere l'oggetto delle loro ottuse attenzioni (che l'interessato lo volesse o no) in una dimensione protagonistica, a volte scandalistica.
Nelle sue libertà e nei suoi vincoli silenziosi, è stato complesso anche il rapporto con le due realtà che, da un punto di vista antropologico-culturale, egemonizzavano l'Italia di quegli anni: la chiesa cattolica e - soprattutto - il partito comunista, le due grandi forze «popolari» rispetto alle quali Pasolini si mosse sempre da battitore libero, con rispetto o magari ferocemente critico, considerandoli necessari interlocutori.
Le risposte alle sue sollecitazioni giungevano dunque da più direzioni e a diversi livelli. Non necessariamente erano coerenti: spesso le provocazioni pasoliniane funzionavano proprio nella loro capacità di dividere, di spezzare e ricomporre gli schieramenti costituiti.

Se ripercorrere qualsiasi itierario personale (compreso quello di Pasolini) risulta impossibile, così come è ridicolo scimmiottarne la statura artistica, è altrettanto banale sottolineare che il contesto, gli ambienti nei quali si muoveva, gli eventuali destinatari, sono radicalmente cambiati (e, andrebbe aggiunto, si sono degradati).
Detto questo, risulta fin troppo evidente perché tutti coloro che, hanno cercato di «rifare Pasolini», di sostituirsi a lui, di dare le risposte che avrebbe dato il loro modello, abbiano potuto incarnare solo aspetti parziali, rigidi, limitati, velleitari; e per rivelarsi invariabilmente caricature goffe, pretenziose e ambigue.
Peraltro chi è realmente convinto dell'attualità di Pasolini, prima di chiedersi «che cosa avrebbe detto», dovrebbe porsi un'altra domanda: perché ai suoi appelli, che oggi risultano così appassionati e sinceri, così veri e urgenti, nessuno ha reagito adeguatamente nel momento in cui vennero lanciati? Perché, solo per fare un esempio, a quel fatidico «Io so» non hanno risposto gli intellettuali, non ha risposto il Palazzo, non hanno risposto gli italiani?
A quelli che invece preferiscono continuare a interrogarsi sulle qualità profetiche di Pasolini, si potrebbe invece suggerire un altro tema di riflessione, urgente e inquietante. Oggi - ci sembra - molte delle «profezie» pasoliniane sembrano realizzarsi, a cominciare dal fatidico Processo al Palazzo. Ma allora è possibile istituire un parallelo tra le pulsioni che attraversano questa Italia incancrenita, amareggiata, angosciata, che vive, alimenta e subisce quel Processo, e la pulsione di morte di chi a metà degli anni Settanta denunciava con lucido furore questo degrado e le sue conseguenze?

copyright Oliviero Ponte di Pino 1993, 2000
"il manifesto", 3 novembre 1993
 
 

L'utopia della parola

«Con le armi della poesia...», la megakermesse pasoliniana in corso a Milano e seguita dal pubblico con grande attenzione, prosegue una esplorazione che è iniziata con il cinema, si è poi concentrata sul Pasolini «corsaro» e si concluderà domenica con una giornata dedicata alla poesia. Forse non è un caso se al centro troviamo il teatro, al quale lo scrittore si dedicò soprattutto intorno alla metà degli anni Sessanta, quando durante una convalescenza compose Calderòn, Affabulazione, Pilade, Porcile, Orgia, e iniziò a lavorare all'incompiuto Bestia da stile; a quel periodo risale anche il Manifesto per un nuovo teatro, nel quale Pasolini, polemico sia nei confronti del «teatro della chiacchiera» che di quello «del gesto o dell'urlo», disegna la sua utopia del «teatro di Parola».
Oltre al Calderòn (in arrivo dal 18 al teatro dell'Elfo nella messinscena dì Luca Ronconi) e all'emozionante recital di Laura Betti Una disperata vitalità, la rassegna ha riservato al teatro di Pasolini anche un'intensa giornata di riflessione e una serata laboratorio dedicata alla presentazione di tre frammenti di spettacoli ispirati a testi pasoliniani, il primo già allestito nell'85, Bestia da stile, regia di Cherif con Marisa Fabbri. E due spettacoli a venire: I Turcs tal FIlui dramma giovanile ricco di presagi, scritto in una lingua friulana di pietrosa musicalità, al quale sta lavorando Elio De Capitani, di cui Fabiano Fantini e Renato Rinaldi hanno letto alcuni brani, e infine la messinscena di Porcile firmata da Federico Tiezzi, di cui è stato presentato uno studio con Sandro Lombardi voce recitante, accompagnato dal flauto «mozartiano» di Arcadio Baracchi.
All'incontro di sabato 13, coordinato da Franco Quadri, hanno partecipato registi (Mario Missiroli, Giorgio Pressburger, Luca Ronconi, Federico Tiezzi), drammaturghi (Emilio lsgrò e Giuseppe Manfridi), un poeta e critico teatrale come Giovanni Raboni e, dalla Germania, il sociologo Peter Kammerer. Per confrontarsi da un lato con la pratica di alcoscenico sui testi pasoliniani, e dall'altro con il Manifesto, nelle sue intenzioni e nella sua attualità. Al centro della riflessione, il «teatro di poesia» con le sue diverse implicazioni. In primo luogo, ovviamente, «teatro di poesia» in contrapposizione agli eccessi della chiacchiera, alla invadente banalità della prosa: e dunque «teatro in versi» sulle scie divergenti di Eliot, Claudel, Brecht (e ovviamente Pasolini), ma anche di certe esperienze dialettali, per restituire vitalità alla parola teatrale. Dal punto di vista del lavoro scenico, questa scelta impone di affrontare il difficile rapporto tra l'attore italiano contemporaneo e il verso, tra la realtà fisica, antropologica, storica del corpo, e la sua capacità di «capire» la parola, a un livello quasi fisico, e dunque renderla immediatamente comunicativa.
Specularmente, si pone il problema del pubblico. Pasolini si rivolgeva allora ai «gruppi avanzati della borghesia», ed era un azzardo; oggi, dopo un trentennio di destrutturazione della società italiana, l'identificazione di un destinatario è ancora più difficile.
Da un altro punto di vista, in analogia al «cinema di poesia» teorizzato da Pasolini, Tiezzi ha insistito nell'elaborazione di un «teatro di poesia» che non è solo «teatro in versi», ma un teatro in cui la stessa scrittura scenica obbedisca alla logica della poesia.
Infine, emersa soltanto a tratti dal dibattito, la specificità del «teatro di poesia» pasoliniano. Che è opera di un poeta «che desidera di scrivere attraverso personaggi», che «ha bisogno d'un pretesto, di interposte persone, per scrivere versi», come ha confidato lo stesso autore. Ed è al tempo stesso, «in ogni caso, in ogni tempo e in ogni luogo», un rito. Proprio l'incrocio tra la dimensione lirica e quella rituale caratterizza più d'ogni altra cosa il teatro di Pasolini. Come se la mediazione del personaggio ribaltasse quella che è una delle funzioni (soggettive) fondamentali della poesia pasoliniana: costruzione e conferma dell'Io. Proiettata nel personaggio, al di fuori della forma chiusa della composizione poetica, la tensione lirica non si oggettiva: al contrario, come disancorata, frammentata, diventa dismisura, abisso, deriva. Nei monologhi (spesso sogni, o deliri incontenibili) dei personaggi pasoliniani, nella loro ostentata impudicizia, nell'ambigua sincerità delle loro confessioni, la coscienza perde il suo centro, per portare alla luce tutte le tensioni nascoste e proiettarsi in un gorgo destabilizzante, oltraggiosarnente autodistruttivo. A rendere possibile questo gioco pericoloso e crudele (che sarebbe mortale tanto per l'autore quanto per lo spettatore) è appunto la dimensione rituale, la teatralizzazione della tensione poetica. In questo senso, il «teatro di poesia» è indissolubilmente legato all'esperienza pasoliniana, ma dall'altro si carica di una estrema radicalità. Lo scandalo, la provocazione non consiste solo e tanto in quello che i personaggi «dicono», ma nell'esibizione dell'Io e delle sue pieghe più riposte, delle sue pulsioni più segrete e incontrollate, di fronte a un pubblico. L'opposto del pettegolezzo, della confidenza: un denudamento, una distruzione, un sacrificio rituale, nella speranza di una catarsi.

copyright Oliviero Ponte di Pino 1993, 2000
"il manifesto", 18 novembre 1993
 
 

Due spettacoli pasoliniani
Paolo di Tarso e Il pratone del Casilino

Il poeta, con i suoi scritti e i suoi film. L'intellettuale, con le sue polemiche, le sue analisi, le sue profezie. Ma anche l'uomo, con la sua tormentata coerenza, e quella morte che per certi aspetti fu anche un martirio.
E' probabilmente impossibile, nel valutare l'importanza che Pier Paolo Pasolini ha avuto nella vita culturale italiana del dopoguerra - soprattutto negli ultimi vent'anni - dare il giusto peso a ciascuno di questi tre aspetti: scindere l'opera dalla biografia, il pensiero da un'immagine costruita dai mass media, oltre che dall'interessato.
Una conferma di quanto sia difficile districarsi tra questi punti di vista viene da due spettacoli attualmente in tournée, certo molto diversi tra loro. Tratti entrambi da opere postume, appaiono accomunati da un identico segno "forte": la proiezione - se non l'identificazione - dei protagonisti con l'autore. Ma curiosamente i due personaggi sono (o dovrebbero essere) agli antipodi, a cominciare da un aspetto cruciale: San Paolo, sessuofobo e omofobo; e Carlo, il protagonista di Petrolio, che in un prato di periferia decide di offrirsi a un intero plotone di ragazzi di vita.
Paolo di Tarso di Paolo Billi e Dario Marconcini è tratto dalla sceneggiatura del film che Pasolini non girò mai. Il progetto era stato concepito dopo le Mille e una notte, quindi ai tempi della clamorosa Abiura della "Trilogia della Vita". Era basato sulla trasposizione della vicenda dell'apostolo ai tempi del nazismo e negli anni immediatamente successivi (non a caso, l'epoca di Salò). Nella sceneggiatura (così come in questo spettacolo), Paolo pronuncia unicamente parole tratte dagli Atti degli Apostoli e dalle Lettere, a testimoniare uno "scandalo" inconciliabile, una doppia natura indecifrabile: da un lato il mistico, il profeta, il poeta; dall'altro il fondatore di una chiesa, l'abile organizzatore, l'efficace agit prop.
In Paolo di Tarso, rielaborazione del lavoro presentato quest'estate a Volterra vista al Crt di Milano dopo il debutto di Buti, il protagonista è quasi sempre in proscenio. Con la forza delle sue frasi oscure e ispirate scatena le reazioni di una sorta di coro composito, ora travolto, ora scandalizzato, ora pronto a dare concretezza alle sue visioni: dalle inquietudini dei Vangeli apocrifi alle rivoluzionarie comunità delle origini (con la loro etica gruppettara), dalla furia inquietante (e ancora pagana) della tarantata all'istituzionalizzazione della Chiesa.
Paolo di Tarso vive della contrapposizione tra il teatro di parola e di poesia dell'apostolo, e la ritualità liturgica del coro, fatta di corpo e di voce (che attinge a "maestri" che vanno da Barba a Brook alla Bausch, e a una vocalità ben affilata dalle cure di Carine Jourdant). Emblematicamente, nella scena finale sarà proprio il gruppo (Alessandra Carlesi, Antonella Caron, Mario Lembo, Virginia Martini, Antonella Questa, Filippo Timi) a farsi portavoce degli aspetti per noi meno accettabili, più scandalosi, della predicazione dell'apostolo, "rubandogli" e introiettando i divieti sessuali contro i "fornicatori", i severi limiti posti alle donne eccetera, come se questo rifiuto del corpo non fosse organico a una visione del mondo basata sulla colpa originaria dell'uomo.
La voce di Pasolini - così come resta nelle registrazioni - era sottile, un po' roca, come logora, e insieme di una dolcezza quasi materna. Paziente e insistente ma con improvvise, quasi impercettibili esitazioni. A volte cantilenante, in particolare quando leggeva. Disposta ad abbandonarsi al ritmo della poesia e a lasciar riaffiorare discretissimamente sonorità dialettali, forse più emiliane che friulane. Questa voce è il modello di Lorenzo Minelli, "l'uomo che diventa Paolo" con effetti di notevole mimetismo.
Nel Pratone del Casilino la stessa voce guida Antonio Piovanelli; almeno all'inizio, prima cioè che l'interprete si cali ancora di più nel personaggio, per immedesimarsi nella parola pasoliniana, attingendo alle cadenze del proprio dialetto d'origine, quello bresciano - forse il meno "intellettuale" d'Italia.
Il pratone del Casilino (vietato ai minori di 18 anni) è tratto da un capitolo chiave (e lasciato come sospeso) dell'incompiuto Petrolio: il testo è dunque più o meno contemporaneo del San Paolo, anche se pubblicato alcuni anni più tardi. In quella fatidica notte, Carlo, protagonista del romanzo e per alcuni aspetti alter ego dello scrittore, si applica a un'intrapresa più mentale che fisica - o meglio, che arriva al corpo attraverso la scrittura: per "degradarsi senza limiti", Carlo farà "l'amore con venti uomini, né uno di più né uno di meno" - anche se la fatidica cifra non la raggiungeranno né Carlo né la scrittura di Pasolini (lo spettacolo riduce a quattro le sodomizzazioni, minuziosamente cantate in visioni ispirate e poetiche).
Piovanelli e Bertolucci (che firma la regia) saltano la mediazione del personaggio e l'architettura di messinscene costruita dallo scrittore nella materia del romanzo impossibile di Pasolini, e si concentrano sul capitolo più hard di quella "summa di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie", trasponendolo in prima persona. La vertigine sensuale è quasi assente, immediatamente soppiantata dalla pulsione di morte: un'ansia di autodistruzione vissuta in prima persona, fin nelle fibre più intime di sé, carne e spirito, bruciata in un ossessivo rituale erotico. Quello che viene officiato nella scena nuda e desolata, in quell'oscurità appena punteggiata di stelle, è dunque un sacramento osceno, attraverso il quale ricercare la verità del corpo - o almeno, una sua verità.
Visti Paolo di Tarso e Il pratone del Casilino, pare molto difficile coniugare queste due icone pasoliniane, l'asceta e il pornografo, con i rispettivi seguiti di chierici e marchettari. Certo, sono entrambi in grado di "épater les bourgeois" con i tabù della religione e del sesso. Ma, sul versante dell'omosessualità, l'unica lettura praticabile sembrerebbe un'insoddisfacente riduzione freudiana: leggendo da un lato un meccanismo di sublimazione e rimozione; dall'altro la perversione nevrotica, la coazione a ripetere. Altrimenti, ad accomunare l'uno e l'altro resterebbe una altrettanto generica giustificazione poetica, che permette di trascendere le divergenze nella sfera estetica. Ma proprio questo Pasolini, poeta profondamente in lotta con il suo tempo, non avrebbe voluto fare.

copyright Oliviero Ponte di Pino 1994, 2000

NOVITA'
oliviero 
ponte 
di pino
HOMEPAGE
CERCA 
NEL SITO
MATERIALI 
NUOVO TEATRO
TEATRO LINKS
ENCICLOPEDIA PERSONALE
TRAX