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Teatri del rifiuto

di Oliviero Ponte di Pino


Questo testo è stato scritto, su sollecitazione di Lea Vergine, per il catalogo della mostra Trash. Quando i rifiuti diventano arte, Trento-Rovereto, 11 settembre 1997-11 gennaio 1998. E’ stato pubblicato all’interno del catalogo Trash. Quando i rifiuti diventano arte, Electa, Milano, 1997, pp.289-304.
Non avremo avuto successo nel demolire tutto se non distruggeremo anche le rovine. Ma credo che l’unico modo di farlo sia utilizzarle per costruire molti edifici ben progettati. 

(Alfred Jarry, in epigrafe a Ubu incatenato)

Esattamente all’alba del secolo, nel 1900, in epigrafe al suo Ubu incatenato Alfred Jarry pone questa dichiarazione di poetica, in cui potrebbe condensarsi il percorso di un secolo che ha deciso di chiudersi nel segno del post-moderno. A considerarlo un programma d’azione, è possibile scomporlo in due fasi: la prima, distruttiva, porta alla produzione di rovine, rifiuti e frammenti; la seconda, caratterizzata da un esasperato formalismo, sarà un’opera di riciclaggio e assemblaggio. Segnate, l’una e l’altra, da una possibile "poetica del rifiuto". 
 . Prima di esplorarle, va però sottolineato che il rapporto tra il rifiuto (che è un oggetto, e dunque è suscettibile di essere letto come "opera") e il teatro (che è nella sua essenza azione e gesto, comunicazione e rapporto) non può essere lo stesso da quello si crea per esempio nelle arti visive. E’ ovvio che si possono rintracciare con facilità scenografie che usano il rifiuto (o in generale materiali desueti) in chiave di collage, così come a partire dagli anni Sessanta si possono trovare numerosi esempi di scene costruite per accumulo di oggetti pop. Ma il rapporto si fa assai più vitale e denso di implicazioni che riguardano lo specifico teatrale in altri casi: quando il rifiuto come oggetto è il risultato di un processo (e il rifiuto si trova così ambiguamente sospeso tra l’oggetto e il gesto che lo produce); oppure quando il resto, o l’avanzo, è il punto di partenza di un processo di riciclaggio che rimette in circolazione lo scarto, reinserisce il rimosso nel circuito della comunicazione (a rigore, qualsiasi spettacolo che utilizzi un testo preesistente, a cominciare dai classici, ricade in questa tipologia). 
  Una seconda ambiguità si genera sul fragile confine tra la scena e il mondo. In teoria, tutto quello che esiste e accade sulla scena è necessario e significante; questa ricerca di essenzialità non ammette scarto né prevede alcun residuo non significante - se non tutto quello che è escluso dalla scena, il "reale". Tuttavia il confine tra vita e scena resta da sempre permeabile, ambiguo; molto spettacolo del Novecento ha danzato proprio su questo limite, proprio come punto di partenza per una riflessione sulla natura stessa del teatro. Tra il mondo della scena e quello reale (e tra la scena e la realtà sociale o la polis in cui è inserita) si verifica la possibilità di un continuo scambio, dove ciò che per l’uno è resto diventa per l’altro necessità. Così sulla scena il resto, l’avanzo, il rifiuto si trovano spesso inseriti in una dinamica che li trasforma in elementi drammaturgici. 
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Con un inizio esplicito e sfolgorante come la frase di Jarry - senza dimenticare che la prima parola pronunciata dall’impresentabile Ubu è un sonoro "Merdre", clamorosa evocazione dell’escremento, rifiuto del corpo che richiama una comicità bassa e carnevalesca - si potrebbe supporre che l’intero teatro del Novecento abbia trovato nel rifiuto e nell’avanzo una fonte d’ispirazione. Invece nella prima metà del secolo le tracce di una poetica di questo genere sono scarse e paiono casuali: il teatro "vecchio" non si è ancora sintonizzato su questa lunghezza d’onda (non può farlo), e quello "nuovo" fatica a trovare la sua vera voce. Spesso le avanguardie useranno la scena per sognare un mondo perfetto, a immagine e somiglianza dei propri rivoluzionari programmi di modernizzazione, purificazione e razionalizzazione della realtà. In una scena che nasce utopicamente per rispondere a queste esigenze, difficilmente possono trovare posto il superfluo, l’inessenziale, il rifiuto. Anche quando entrano in scena il simbolo o il sogno, il loro proliferare sembra dettato da una necessità che giustifica e rende necessario tutto quel che entra nel gioco scenico. Il presupposto implicito è che non appena il vecchio ordine sarà stato spazzato via, non appena si sarà conclusa l’esplosione liberatoria, non dovrà più esserci più spazio per i residui di un mondo ormai superato.
 . Per futurismo e dada, il grido di battaglia è la distruzione del vecchio ordine e la promessa di una copiosa produzione di rovine, come nel manifesto marinettiano sul Teatro di varietà (1913). Ma il futurismo realizzerà il suo progetto teatrale solo in maniera superficiale e casuale, non solo per quanto riguarda la parte costruttiva ma anche quella distruttiva: per veder distruggere sulla scena in maniera efficace "il Solenne, il Sacro, il Serio, il Sublime dell’Arte" è necessario attendere gli Shakespeare "alla Carmelo Bene"; mentre per veder distrutte "tutte le nostre concezioni di prospettiva, di proporzione, di tempo e di spazio" (e le utopie del teatro surrealista) bisognerà aspettare Robert Wilson. E tuttavia non manca, nel repertorio futurista, una gag sul rifiuto della comunicazione come la "sintesi" Atto negativo di Bruno Corra ed Emilio Settimelli. Anche se poi, a ben guardare, si scoprirà che questo rifiuto è anch’esso una forma di comunicazione. 
 . Per dada, la prima cosa da distruggere, anche in teatro, è l’arte come dominio separato dalla realtà. E di conseguenza tutte le forme costituite, comprese quelle del teatro. Anche qui, la tattica non può essere che quella dello sberleffo e dell’oltraggio - anche e forse soprattutto per quanto riguarda le attese del pubblico, abilmente solleticate e poi frustrate. Le serate dada al Cabaret Voltaire di Zurigo sono fatte di rumore, mugolii senza senso, gesti e azioni immotivati, stracci e cartone, materiali brutti e deperibili sono altrettante armi della distruzione dell’arte come sfera separata dalla vita. Il rifiuto resta un gesto, un’azione esemplare, non diventa quasi mai un elemento dotato di autonoma forza poetica. Al massimo, può diventare il sottoprodotto del gioco dadaista, nella classica forma degli oggetti lanciati verso gli attori da un pubblico (quello parigino del 1920) che ormai è si abituato agli oltraggi di Tristan Tzara e compagni. 
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Una volta assorbita la provocazione, dada tramonta rapidamente. Perché la distruzione e l’oltraggio trascendano anche in teatro il gioco teppistico e la disarticolazione liberatoria del vecchio ordine, e perché il rifiuto venga assunto sulla scena consapevolmente come efficace elemento drammaturgico, almeno dal punto di vista teorico, sarà necessario attendere Antonin Artaud e la sua visione delle affinità tra la distruzione della Peste e il teatro. E prima che questa consapevolezza si rifletta efficacemente nella pratica scenica e che lo slogan di Jarry trovi una sistematica applicazione, sarà necessario aspettare ancora: la seconda metà del secolo, le rovine della Seconda guerra mondiale, dell’Olocausto e di Hiroshima.
 . In uno dei suoi testi più celebri, Il teatro e la peste (1934), Artaud traccia una equivalenza tra "il Teatro, vale a dire una gratuità immediata che induce ad atti inutili e privi di benefici del presente", e la distruttività della peste, a più livelli: a livello individuale tra l’attore e l’appestato; ma l’analogia investe anche gli effetti della peste e quelli del teatro sul corpo sociale. Al di là dei suoi disperati sforzi con il Teatro Alfred Jarry, le visioni teatrali di Artaud resteranno tali, senza concretizzarsi efficacemente. Tuttavia è proprio dall’intuizione dell’intreccio tra distruzione e rigenerazione (e dai progetti di avanguardie come futurismo e dada) che bisogna partire per capire il lavoro sullo scarto e sull’avanzo che verrà compiuto sulla scena nella seconda metà del secolo. L’esplorazione procederà più per episodi singoli e apparentemente casuali che non in maniera sistematica (a differenza di quanto avviene in altri ambiti artistici), ma la centralità di questi episodi nel percorso dei massimi artefici della ricerca degli ultimi decenni lascia ipotizzare che il tema dello scarto abbia contribuito alla consapevolezza che il teatro ha di sé.
Il coperchio di uno dei bidoni per la spazzatura si solleva e appaiono le mani di Nagg, aggrappate all’orlo. Poi emerge la sua testa, sormontata da un berretto da notte. Faccia molto bianca. Nagg sbadiglia, poi ascolta.

CLOV Ti lascio, ho da fare.
HAMM Nella tua cucina?
CLOV Sì.
HAMM Fuori di qui è la morte. (Pausa). Va bene, vattene. (Clov esce. Pausa). E intanto si va avanti.
NAGG La mia pappa!
HAMM Maledetto progenitore!
NAGG La mia pappa!
HAMM Ah, la vecchiaia moderna! Mangiare, mangiare, non pensano ad altro.
(Samuel Beckett, Teatro, Einaudi, Torino, p. 112)

L’autentico ma clamoroso avvio della "poetica del rifiuto" arriva in teatro solo con Samuel Beckett, e trova la sua immagine più esplicita in Finale di partita (1956). Nella didascalia iniziale si legge: "In primo piano a sinistra, ricoperti da un vecchio lenzuolo, due bidoni della spazzatura, uno accanto all’altro". Sono naturalmente i bidoni in cui vivono Nagg e Nell, gli anziani genitori del protagonista Hamm (dal canto suo immobilizzato su una sedia a rotelle), emblemi di un’umanità inferma e impotente, o forse gli estremi residui di quanto può essere definito umano. L’intero teatro di Beckett (o meglio, la sua intera opera) si sviluppa lungo un percorso di progressiva astrazione e riduzione. Il paesaggio teatrale si svuota sempre più: si passa all’albero che campeggia al centro della scena di Aspettando Godot (1952) al mucchio di terra - o di polvere - in cui sprofonda Winnie, la querula protagonista di Giorni felici (1961), che con disperata ilarità resta attaccata ai pochi, banali oggetti contenuti alla rinfusa nella sua borsa (gli avanzi di una vita) ed estratti senza ordine per riempire le sue inutili giornate, così come la sua mente ha raccolto e ora restituisce confusamente i ricordi - forse veri forse immaginari - di un’intera esistenza. Per approdare alla bocca - solo una bocca che parla nel buio - in Non io (1972) e al vuoto metafisico in cui si muovono i personaggi delle sue pièce televisive. Parallelamente a questo processo di desertificazione del mondo, si assiste a una degradazione della figura umana – sempre più sola, sempre più vecchia, sempre più debole, sempre più affaticata. Al decorso apparentemente irreversibile del personaggio beckettiano fa però da contrappunto una terribile condensazione dell’umano in quel corpo sempre più fragile. Fino quasi, al termine di questa purificazione nichilista, ad assolutizzarne l’essenza vitale nel soffio della voce, in quel monologo interminabile che è l’ultima cittadella dell’io.
  Da allora, sulla scia di Beckett, le immagini che rimandano in qualche modo al rifiuto e al suo accumulo si moltiplicano. E’ inevitabile la citazione di Harold Pinter, che porta spesso in scena personaggi cui la vita sembra aver deviato dal corso principale per arenarsi in una secca dimenticata. La didascalia iniziale del Guardiano (1960) descrive una stanza-deposito ingombra di oggetti desueti: "tavolo di ferro, vari, barattoli di vernice, una scala, un lavandino, un secchio di carbone, una falciatrice, un caminetto, un Buddha, due valigie, un tappeto arrotolato, una fiamma ossidrica, mucchi di giornali, un vecchio aspirapolvere" e il secchio che pende dal soffitto. In questo autentico paradiso del rigattiere il barbone Davies (un "rifiuto della società" o uno che ha rifiutato la società) viene assunto da Aston come "guardiano".
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Forse chi meglio ha saputo utilizzare sulla scena le capacità evocative degli avanzi e degli oggetti riscattati dall’oblio è il polacco Tadeusz Kantor. Come artista visivo, Kantor ha spesso utilizzato tecniche come il collage, il ready made e l’imballaggio, recuperando oggetti e materiali disparati e di scarto. Questa esperienza non è certo estranea al suo uso poetico del rifiuto in ambito teatrale: per il regista della Classe morta gli oggetti desueti sono un mezzo, quasi un talismano, che permette di accedere al passato, a ciò che è stato sepolto e rimosso, per farlo rivivere. Gli scarti - anche quelli della storia, non solo quelli della memoria personale - diventano la materia prima del teatro: perché a far scattare l’immaginazione creativa del regista demiurgo e quella dello spettatore sono oggetti antichi, miseri, logorati dall’uso, conosciuti per una antica consuetudine e riscattati dalla scena.

Già il "teatro informale" (1961) di Kantor è caratterizzato dall’uso dei sacchi, "oggetti senza vita", "massa pesante", "imballaggio che occupa il gradino più basso nella gerarchia degli oggetti e che diventano quindi facilmente una materia non oggettivizzabile". 

   
L’ideale è la tendenza alla nascita spontanea del costume dall’uso, dall’usura, dalla distruzione, dall’annichilimento,
mentre i resti,
le reliquie,
"ciò che rimane e sopravvive"
ha delle buone probabilità 
di diventare la forma!
(Tadeusz Kantor, Il teatro della morte, Ubulibri, Milano, 1979, p. 67)
. Mettendo in scena Una tranquilla dimora di campagna con il titolo L’armadio (1964) Kantor riempie la sala "in modo assai caotico e a caso di sgabelli, pacchi, banchi disposti liberamente". Ma da un lato ci sarà anche "un armadio vecchio e polveroso" (che non può non richiamare alla memoria il celeberrimo armadio del Giardino dei ciliegi, in cui sono stati dimenticati i vecchi giocattoli); e comparirà addirittura "un semplice carro per immondizie, preso a prestito dalla nettezza urbana... un oggetto piuttosto ripugnante", e una cassa misteriosa che si rivelerà essere "la Macchina per seppellire". Coadiuvati da un "cameriere tuttofare" che è anche "sbirro, becchino e sistematore", gli attori usciranno dall’armadio: la loro sarà una breve apparizione prima di una nuova morte.

Armadi e "Macchine per la morte", ormai assurti a elementi necessari della drammaturgia kantoriana, torneranno anche nei successivi spettacoli, così come si vedranno spesso anche macchine fotografiche e armi, ugualmente necessari a fissare la vita in una rigidità mortale. Kantor continuerà a lavorare anche sugli imballaggi, quasi ossessivamente; e sulla decomposizione e sulla distruzione, teorizzando addirittura un "Teatro Zero" in cui giocare

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. con il caso,
degli avanzi,
dei "residui",
delle cose futili,
dei nulla disdegnosi,
delle cose vergognose,
fastidiose,
non importa con che cosa,
con il vuoto.
(p. 121)
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. In questo contesto, l’attore tende ad apparentarsi sia con il cadavere sia con il manichino ("un MODELLO che incarna e trasmette un sentimento profondo della morte"). Ma i "nulla disdegnosi" e le "cose vergognose" alludono anche ai tabù della sfera sessuale e alle intimità segrete, alla nascita e alla morte, insomma a tutto ciò che è osceno - tutto ciò che la scena rifiuta, e che irrompendo sulla scena porta con sé una insopprimibile emozione. Dalla conflagrazione di tutti questi elementi nasceranno i grandi spettacoli di Kantor, a partire dalla Classe morta (1975), dove il passato ritorna con tutta la sua straordinaria forza evocativa grazie all’uso sapiente degli oggetti:
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. Cerco di mettere in evidenza che il nostro passato finisce col diventare una riserva dimenticata dove, a fianco dei sentimenti, dei cliché, dei ritratti di coloro che un tempo ci erano cari, si trascinano alla rinfusa dei fatti, degli oggetti, dei vestiti, dei volti. La loro morte è soltanto apparente: basta toccarli perché comincino a far vibrare la memoria e a far rima con il presente. Questa immagine non è affatto il frutto di una nostalgia senile, ma traduce l’aspirazione a una vita piena e totale, che abbraccia passato, presente e futuro.
(pp. 242-243)
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Questa poetica è sorretta da un apparente paradosso. A Kantor interessa far vedere, sulla scena, l’invisibile; riesce a farlo utilizzando oggetti reali che però sono diventati "invisibili" perché usurati, inutilizzati, dimenticati, degradati, insomma segnati dal tempo, rimossi dalla storia. Ridare visibilità a questi oggetti, riannettere all’arte la "realtà di grado più basso" significa dare visibilità all’invisibile e alla realtà di grado più alto, l’arte e la poesia.
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Così come gli oggetti di scena, anche l’edificio teatrale può riflettere la fascinazione per il desueto, insediandosi in spazi non convenzionali, marginali, abbandonati, spesso inutilizzati e inutilizzabili. Al di là delle contingenze pratiche, questa affinità tradisce una duplice esigenza: da un lato reinserire quei luoghi nel flusso della comunicazione sociale, dall’altro (e qui l’analogia con il procedimento di Kantor è evidente) nutrirsi delle presenze che avevano animato quegli spazi, farle rivivere. Come spesso accade con il teatro, si tratta di far da ponte con un presente attraversato da cesure, tensioni e conflitti, e con un passato da tenere vivo o da restituire alla vita. Esemplare resta la decisione di Peter Brook di stabilirsi in un teatro abbandonato da decenni, fatiscente, quasi diroccato, i muri scrostati, gli arredi semidistrutti: le Bouffes du Nord a Parigi sono subito diventate uno dei teatri più vivi del pianeta, e un modello di spazio teatrale. Una scelta di questo genere si inserisce in una strategia che il regista inglese pratica anche quando è lontano dal suo teatro, e che è sintomo di una profonda conoscenza della realtà ambigua del teatro.
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In ogni città, Brook chiede per visitare per prima cosa i luoghi vuoti (...) Di solito sono luoghi abbandonati oppure incompiuti. Sono luoghi disponibili, malleabili. (...) La malleabilità di un luogo scaturisce dall’abbandono o dall’incompiutezza. In che modo interpretare questi aspetti? Sono la prova di una attesa di vita, una vita che si è ritirata o che non è ancora sbocciata. Lo spettacolo che vi si svolge la reca con sé e così facendo desta un luogo alla vita. L’estetica di Brook negli ultimi vent’anni rimane inseparabile dal rapporto tra un luogo in attesa dell’evento e la rappresentazione come evento che lo realizza. Quando l’incontro avviene, si determina questa illusione di vita in cui atto e spazio, insieme, si uniscono nel comune sforzo di fare del teatro una manifestazione "condensata" della vita. E’ il motivo per cui Brook ha cercato "questo luogo di condensazione dove ogni gesto può avere il suo significato". (Georges Banu, "Il teatro come luogo", in Gli anni di Peter Brook, Ubulibri, Milano, 1990)
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. Come già accennato, la tematica del rifiuto non riguarda solo gli oggetti. Mysteries and smaller pieces (1961) del Living Theatre segna la scoperta (o meglio la riscoperta) del corpo sulla scena e darà inizio a una autentica rivoluzione: questo spettacolo-manifesto costruito a partire dagli esercizi compiuti dagli attori della compagnia nel loro training aprirà l’orizzonte a un teatro anti-letterario, dove la parola non è necessaria (e dunque viene bandita, o al massimo considerata elemento di pari importanza degli altri, dalla scenografia allo spazio, dai suoni alla gestualità).

Tuttavia nei Mysteries questa reinvenzione del corpo in tutte le sue capacità espressive si conclude - in maniera sorprendente e emblematica - con un’altra rivelazione: quella del corpo come oggetto inanimato, come cadavere, quando nell’ultima scena si realizza l’ipotesi di Artaud sul teatro come Peste. 

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. La peste
Tutti gl’interpreti sono nello spazio scenico.
Formano la città.
Il loro respiro è malato.
Sono vittime della peste.
Molto lentamente la peste, i sintomi della peste, la loro consapevolezza della peste, le sofferenze della peste, la devastazione della peste, aumentano.
La luce aumenta.
Azione artaudiana.
Febbre. Spossatezza. Nausea. Vesciche. Vomito. Cancrena. Congestione.
Pustole. Pus. Intorno all’ano. Sotto le ascelle. La pelle si spacca. Cistifellea. Polmoni forati che si afflosciano. Frammenti di una sostanza nera sconosciuta. Aberrazioni. Frenesia. Omicidio. Parossismo erotico. Mucchi di cadaveri. Putrefazione. Fetore. Disordine. Un liquido spesso e viscoso scaturisce dai cadaveri. Fuga. Visioni orrende. Urla nella strada. Il cervello si scioglie, si rattrappisce, cristallizza in una specie di polvere nera. Morte ovunque.
Ciascun interprete si sceglie il suo ruolo e lo rappresenta.
Strisciando, scivolando, rotolando, gemendo, barcollando, cadendo, lottano fuggendo dallo spazio scenico, origine geografica dell’epidemia, e si riversano nello spazio degli spettatori.
La peste avanza con loro.
"Il teatro è come la peste". (Artaud)
Il teatro è pieno di cadaveri. Posizioni contorte da morte violenta.
Silenzio.
Pausa.
I dottori emergono molto lentamente.
Sono sei. 
Tolgono le scarpe ai cadaveri. Molto lentamente.
Dispongono le scarpe in fila davanti allo spazio scenico. Si muovono da un cadavere all’altro. Solennemente, tolgono le scarpe a ciascun cadavere.
I corpi dei cadaveri sono rigidi.
Le scarpe vengono allineate di fronte allo spazio scenico.
I morti seppelliscono i morti.
I dottori lavorano a coppie. 
Due dottori lentamente e solennemente raddrizzano le rigide membra contorte dei cadaveri.
Raddrizzano le membra. Chiudono bocche, occhi. Riordinano gli abiti. Raddrizzano le dita. Allisciano i capelli. Asciugano gli sputi.
Il cadavere è rigido. Dritto come una tavola.
Lo sollevano tenendolo per il collo e le caviglie.
Il corpo sospeso è rigido.
Lo trasportano lentamente verso il centro dello spazio scenico.
I morti stanno seppellendo i morti.
Lo dispongono nell’area scenica.
Due dottori sollevano un cadavere e lo sistemano al centro della scena.
Un secondo cadavere viene posto accanto al primo. Poi un terzo. E un quarto. E un quinto.
Una linea di cinque cadaveri spalla a spalla, caviglia contro caviglia.
Il sesto cadavere viene posto sopra alla linea formata dai primi cinque. La testa è appoggiata sulle caviglie, i piedi sulle spalle dei cadaveri al disotto.
Una piramide di cadaveri.
Nella fila più in basso ci sono cinque cadaveri, nella seconda quattro, nella terza tre, nella quarta due, nella quinta uno.
Una piramide di cadaveri. Accatastati in ordine.
Una pozza di luce.
I dottori spariscono nel buio.
Silenzio. Cadaveri.
La luce svanisce lentamente.
Buio.
(Julian Beck e Judith Malina, Il lavoro del Living Theatre (materiali 1952-1969),Ubulibri, Milano, 1982, pp. 116-118)
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. Si può notare che l’esperienza della propria morte è un lusso che, tra gli umani, è dato solo all’attore: è una verità che ha un carattere aneddotico (vedi la lapide di quell’attore romano che recitava: "Sono morto tante volte, ma così mai"), e che tuttavia risale anche alle origini rituali del teatro, quando l’attore-sciamano era il tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti, quando la maschera lo proiettava tra i non-vivi. L’insistenza sull’analogia tra l’attore e il cadavere, presente in molti dei maestri del Novecento, è spesso un indizio della necessità di tornare alle fonti del teatro.

A radicalizzare il nesso tra la scena e la morte è per esempio Jean Genet. Il suo teatro e la sua opera romanzesca sono un inno alla diversità e alle sue mille maschere, al male e al suo fascino; i suoi eroi sono i criminali e gli omosessuali, e in generale coloro che vengono rifiutati dalla società; e i terroristi che, imboccando la strada della violenza compiono una scelta irreversibile. Non sorprende dunque che in Genet anche la diversità più estrema, quella della morte, trovi un proprio ruolo preciso, fino a fargli teorizzare la necessità di fare teatro nei cimiteri, come suggerisce nel saggio La strana parola di... (1967, ora in L’immoralità leggendaria. Il teatro di Jean Genet, a cura di Sergio Colomba e Albert Dichy, Ubulibri, Milano, 1990): "Non parlo di un cimitero morto", avverte, "ma vivo, non di quello in cui resta solo qualche stele. Parlo di un cimitero dove si continua a scavare tombe e a sotterrare morti, parlo di un crematoio dove notte e giorno si cuociono cadaveri".

Nell’utopia tracciata dall’autore del Balcone, "Il teatro avrà per scopo di sottrarci al tempo, che si dice storico, ma che è teologico".

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. Abbattere le cappelle. Conservare forse qualche rovina: un pezzo di colonna, un frontone, un’ala d’angelo, un’urna spezzata, per indicare la vendetta indignata che ha voluto questo primo dramma perché la vegetazione, magari anche un’erba robusta, nata dal mucchio dei corpi in putrefazione, livellasse il campo dei morti. Se un’area è riservata al teatro, il pubblico (per venire e andarsene) dovrà seguire dei sentieri che costeggeranno le tombe. Si pensi a cosa sarebbe l’uscita degli spettatori dopo il Don Giovanni di Mozart, al loro passaggio tra i morti coricati nella terra, prima di rientrare nella vita profana. Né le conversazioni né il silenzio sarebbero gli stessi che all’uscita di un teatro parigino.
La morte sarebbe a un tempo più vicina e più lieve, il teatro più grave.
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Sempre a proposito di Genet, va citata per la radicalità della lettura la scenografia (una enorme scultura di cemento dalla forma inequivocabile costituisce un vero e proprio monumento alla merda) realizzata da Arnaldo Pomodoro per I paraventi con la regia di Cherif (1990):
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"Per rendere la passione di Genet per la vita, che, come si sa, in lui si realizza e insieme si rovescia continuamente col gettare ‘merda’ su tutti i falsi valori, pregiudizi, convenzioni..." 

"La mia proposta di ‘scena’, o del ‘visivo’, è anzitutto unitaria: la cosiddetta ‘realtà’ è proprio quel magma, caos, maceria, ammasso di detriti e di scorie".

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 . Abbandonando queste punte di radicalità (e ricordando che esistono molte scene teatrali ambientate in un cimitero, a partire da quella celeberrima dell’Amleto), va ricordato che il teatro può continuare a esistere solo nel momento in cui il rapporto vita-morte è reversibile. La sua sopravvivenza è garantita da un implicito tabù: quello che accade sulla scena deve poter essere ripetuto, in scena non dovrebbero verificarsi eventi irreversibili e definitivi. Si presuppone che tutto ciò che viene utilizzato sulla scena possa essere recuperato per rendere possibile una ripetizione dell’evento, e che quindi - in questo senso molto preciso - non si producano scarti o avanzi. Naturalmente si tratta di un tabù e non di una norma, e non è difficile trovare infinite trasgressioni, più o meno consapevoli. Questa infrazione del "principio di irreversibilità" (se così vogliamo chiamarlo) tende a produrre una forte reazione nel pubblico: come nei casi clamorosi della farfalla (vera o finta?) bruciata nel corso di U.S. (1966), lo spettacolo contro la guerra del Vietnam di Peter Brook; o della discussa replica di Genet a Tangeri nel mattatoio di Riccione (1985), durante la quale gli spettatori erano testimoni della macellazione di un cavallo. L’esplorazione di questo tabù, di questo limite (l’"impossibilità" a produrre avanzi inutilizzabili per la replica successiva) sarà non a caso uno dei temi esplorati da chi si interroga sul significato profondo del teatro.
 . Il tema della produzione di rifiuti in ambito teatrale è stato affrontato esplicitamente da Klaus Michael Grüber, nella seconda e conclusiva serata dell’Antikenprojekt, realizzato nel 1974 alla Schaubühne di Berlino e dedicato alla tragedia greca. Nella prima serata, gli "esercizi per attori" curati da Peter Stein, l’antica ritualità veniva esplorata con ampio uso di materiali "sporchi" e "poveri" (fango bende eccetera), che imbrattavano gli attori e lo spazio scenico. All’inizio della seconda serata, Le Baccanti con la regia di Grüber, lo spazio è interamente bianco, asettico: "bianco il soffitto metallico, bianche le pareti, ma interamente bianco anche il suolo". Anche se poi questa scatola scenica si rivelerà una boite a surprises, in cui si aprono voragini, specchi, vetrine, varchi e botole: aperture verso l’inconscio, il rimosso, o l’immaginario. Lo scatenamento dionisiaco delle Baccanti che uccidono e smembrano Penteo comporta una devastazione dello spazio scenico, segnato e sporcato dalle forze dell’irrazionale. A segnare il ritorno all’ordine sarà l’intervento di una pattuglia di poliziotti o inservienti, in tute di plastica gialla e maschere che nascondono il volto, che tureranno le falle e riporteranno l’ambiente alla condizione iniziale. Con l’ausilio di uno di quei furgoncini gommati che si usano per le pulizie, che come un panzer, irromperà nella sala portandovi la violenza invadente, l’orrore del suo meccanismo livellatore, e il suo tanfo inquinante. Esteriormente tutto sembra tornato come prima, le tracce del disordine sono state cancellate. Ma qualche traccia, è inevitabile, rimane: sui corpi degli attori ("Penteo ha un braccio e una gamba segnati di bianco gesso, il primo messaggero una spalla e un fianco verdi di muschio, Agave è tutta marchiata del colore del sangue, il Secondo Messaggero striato di un materiale giallo come il miele"). E rimane naturalmente nella memoria degli spettatori.
 . Negli anni Sessanta e Settanta diversi scenografi hanno utilizzato i materiali del pop e dell’arte povera, a volte con funzioni esplicitamente provocatorie. E’ il caso appunto di molte delle scenografie realizzate per Klaus Michael Grüber dal pittore-scenografo Eduardo Arroyo: allestendo Off limits di Arthur Adamov al Piccolo Teatro di Milano (1969) si inventano "una scena pop, tutta in ceramiche rosa dalla dominante statua della libertà ai bidé e ai water che la circondano".
 . Più vicina all’arte povera l’impostazione di Carlo Quartucci, Roberto Lerici e Jannis Kounellis per Il lavoro teatrale alla Biennale Teatro di Venezia (1969): in scena materiali "poveri e vivi che vanificano l’azione" degli attori: "venti cani, no so quante galline, un bue squartato, pietre, sacchi di fagioli e di farina, una bicicletta, una macchina da cucire, infiniti barattoli da riempire d’acqua, un tronco d’albero".
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L’arco dello spettacolo va dalla nascita alla distruzione. Una nascita-distruzione scenica, naturalmente, in cui la machina scenica viene costruita a poco a poco, partendo dai corpi non ancora segnato avvolti nelle membrane di carta, e attraverso una accumulazione continua di segni e di oggetti perviene alla propria distruzione. Il primo climax viene toccato, alla fine del primo tempo, con la costruzione della città.
La distruzione è trattata, prima di tutto, come fatto teatrale. Non si tratta della guerra atomica, anche se il crescendo che la precede potrebbe farlo pensare. E’ uno scontro scenico, lo scoppio dell’accumulazione di oggetti, introdotto da un possibile crescendo contemporaneo (l’escalation). Gli attori in questa scena devono scatenarsi. E’ il secondo climax: e in un certo senso devono scatenare tutta la tensione dello spettacolo, preparandosi alla fucilazione e alla risata finale. (...)
Ci sono dei momenti in cui, almeno per ipotesi, bisogna partire da zero: anche se poi, di fatto, è impossibile farlo. Così ha avuto un senso profondo il gesto dadà, o la discesa in piazza dei surrealisti. Ma a noi interessa un teatro di costruzione, non di distruzione. Una forma teatrale costruita, non la dissoluzione della forma teatrale. Nella tradizione della cosiddetta avanguardia del Novecento vediamo una immensa riserva di soluzioni, di tecniche, di sperimentazioni, di risultati meravigliosi e di fallimenti desolanti: un patrimonio da cui bisogna attingere, di cui bisogna servirsi. 
(Carlo Quartucci e Giuliano Scabia, a proposito di Zip...., "Sipario", n 235, novembre 1965, pp. 11-12, poi in Franco Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia, Einaudi, Torino, 1977, p. 165 e 169)
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Del resto, in tutta l’avanguardia italiana dagli anni Sessanta a oggi la "poetica del rifiuto" viene praticata in varie forme. Esemplare il soggiorno di Leo De Berardinis e Perla Peragallo a Marigliano, con una serie di spettacoli costruiti programmaticamente con materiali di scarti (da inserire in una tradizione colta): gli attori sono presi dalla strada, dal sottoproletariato dell’entroterra vesuviano, i testi di Shakespeare vengono contaminati con quelli della sceneggiata napoletana, la scena è disseminata di materiali di scarto e al suo centro, come un trono, può campeggiare un bidé in scena. Come annuncia Leo:
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L’eliminazione del teatro non si ottiene eliminando il teatro semplicemente tramite sicario, ma, al contrario, facendo teatro. (L’avanguardia teatrale italiana, p. 269)
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A certe performance estreme degli anni Settanta (da Gina Pane a Rudolf Schwarzkogler) si rifà invece il Carrozzone (non ancora Magazzini): se ne percepiscono gli echi in certi gesti di autolesionismo ("Federico ora prende il rasoio. Lo tiene sollevato. Si taglia tre volte sul braccio sinistra, a reticolo, poi con una lametta sette volte su tutte e due le braccia"; "Luca prende il vaso di vermi: si versa sulle mani i vermi rossi, chiude i pugni. Le mani rosse del sangue: ora piene di vermi"), in certi exploit distruttivi (muri abbattuti e macchine sfasciate nel corso di diverse performance). Anche se con una diversa consapevolezza dell’evento teatrale: i blocchi di ghiaccio che si sciolgono nel corso di Sandinista! a Santarcangelo (1984) scandiscono un tempo di un evento che non lascia traccia - se non un alone umido sull’asfalto.
 . Atmosfere ugualmente distruttive, in uno scenario fantascientifico, al suono ossessivo di un rock aggressivo e metallico, tra esplosioni fragorose e rombi esplisovi, gru e paranchi d’ogni gerere, caratterizzano le prime performance del gruppo post-punk catalano la Fura dels Baus (letteralmente: la Faina dell’Immondizia). Lo spazio scenico è invaso da rottami e macchinari obsoleti riassemblati in macchinari dal sapore cyber; il pubblico, aggredito attraverso lanci di interiora animali, getti di sangue, fango, farina, piume, vernice colorata, può assistere alla distruzione di prodotti di consumo (a cominciare dalle automobili: nel 1985, in due anni di repliche di Accions, il gruppo ne aveva sfasciate ben 76). Nell’immaginario della Fura, i paradossi si rincorrono. Il futuro è popolato dai rifiuti dell’era industriale: il mondo della fabbrica, con la sua metallica e rugginosa pesantezza, viene riutilizzato e reinventato dopo il collasso della civiltà (o l’avvento del terziario), in un futuro che tradisce una venatura nostalgica. Il consumismo imperante si rovescia in distruttivi riti neobarbarici, che scatenano una festa violenta e isterica. Il rifiuto riciclato è l’orizzonte del futuro, e allo stesso tempo la liberazione festiva può arrivare solo da una nuova distruzione, dalla produzione di nuovi rifiuti - e dalla degradazione del pubblico, terrorizzato dalle aggressioni degli attori e imbrattato da immondizie di ogni genere, e reso euforico da quest’orgia fragorosa e bestiale.
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Chi ha praticato con maggior radicalità "l’eliminazione del teatro attraverso il teatro" ipotizzata da Leo De Berardinis è stato però Carmelo Bene. Il suo teatro, come ha scritto Gilles Deleuze, funziona "per sottrazione". 
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Non si tratta di un anti-teatro, di un teatro nel teatro, o che neghi il teatro... ecc: Carmelo Bene ha una profonda avversione per le formule dette d’avanguardia. Si tratta invece di un’operazione più precisa: si comincia col sottrarre, col detrarre tutto quanto costituisce elemento di potere, nella lingua e nei gesti, nella rappresentazione e nel rappresentato. E non si può nemmeno dire che sia un’operazione negativa in quanto dà inizio e mette in moto tanti processi positivi. Se detrae dunque o si amputa la Storia, perché la Storia è il marchio temporale del potere. Si toglie la struttura perché è il marchio sincronico, l’insieme dei rapporti tra invarianti. Si tolgono le costanti, gli elementi stabili o stabilizzati perché appartengono all’uso maggiore. Si amputa il testo, perché è il testo è come il dominio della lingua sulla parola, e testimonia ancora un’invarianza o un’omogeneità. Si sopprime il dialogo, perché il dialogo trasmette alla parola gli elementi del potere e li fa circolare: tocca a te adesso parlare, in queste condizioni codificate. (...) Si toglie anche la dizione, anche l’azione: il play-back è anzitutto una sottrazione. Ma cosa resta? Resta tutto, ma in una luce nuova, con nuovi suoni, con nuovi gesti. (Gilles Deleuze, Cinema 2 L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989, ora in Carmelo Bene, Opere, Bompiani, Milano, 1995, pp. 1439-1440)
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Il percorso artistico di Bene è un lungo addio al teatro attraverso la messinscena di questi progressivi e radicali rifiuti, a partire da quelli - che rimarranno punti fermi - della rappresentazione e dell’interpretazione, della storia e della catarsi tragica. Anche il testo - il resto del teatro del passato, quello che ci ha lasciato la tradizione - viene tagliato, sminuzzato, ricomposto, raddoppiato nella ripetizione. In una prima fase, la distruzione della forma teatrale e della tradizione assume una tonalità parodistica e provocatoriamente grottesca, per rivelare via via la sua natura tragica e i suoi presupposti filosofici. Un parziale inventario di segni può render conto degli "scarti" teatrali che può produrre questo metodo: il rifiuto della comunicazione con il pubblico, con la parete di vetro che separa l’attore dal pubblico in Nostra signora dei turchi (1973); il rifiuto dell’edificio, con il teatro sventrato e incendiato che fa da sfondo all’attore in Bene! Quattro modi di morire in versi (Rai, 1977); la cancellazione del femminile in Riccardo III (1978), con il protagonista circondato nel primo tempo da una corte di figure femminili seminude, tra letti, bare e specchi; e mentre nel secondo "queste donne, la storia femminile, abbandona Riccardo (e ne è sciaguratamente abbandonata)", e lo lascia alla sua solitudine e al suo delirio feticistico e masturbatorio (e Bene precisa: "Ma l’assenza del femminile in questo caso è la gestione assurda e ossessiva della propria intollerabile presenza d’attore..."); il rifiuto della trama, come nell’Otello (1979), dove l’omicidio di Desdemona è spostato nella prima scena e l’intera vicenda viene vissuta come un luttuoso flashback; senza dimenticare gli "Amleti di meno" dove, annota Deleuze, "le parole cessino di far testo", cui Bene si dedica periodicamente, in un continuo affinamento della scomposizione degli elementi drammaturgici, fino a riconoscere nell’essenzialità della voce - della phonè - l’unico elemento necessario. Bene rifiuta l’atteggiamento "costruttivista" delle avanguardie, che isola una serie di elementi dalla totalità (scartando quindi a priori tutto il resto) e ne fa oggetto di pensiero da cui è impossibile far scaturire qualsiasi azione autenticamente teatrale; ricompone tutti questi frammenti, aggiunge, non si otterrebbe che un ordine chiuso, una rappresentazione (è per questo che avanguardie come il Bauhaus, per esempio, si sono dimostrate poco sensibili alla "poetica del rifiuto"; e - aggiungerebbe Bene - non sono state in grado di produrre un teatro vivo ma solo fredde dimostrazioni di lavoro). Dunque, implicitamente, l’unico gesto teatrale ancora possibile e vitale, nell’orizzonte della coscienza-incoscienza di sé, può essere solo quello della negazione.
Amleto: là dove la A risuona come alfa privativa. Non è un Amleto ‘malato’ di autismo. Non si tratta, dunque, di una rappresentazione sull’autismo, così come non è una rappresentazione sull’Amleto. Penso si tratti di stare nell’attore, di stare (come nella rivoluzione copernicana) attorno alla sua inesausta domanda che, già da sempre, è quella del bambino autistico e di Amleto: essere o non essere. E la domanda nasce da uno scandalo profondo, radicale, che il soggetto prova a causa dell’incomprensibile indifferenza dei genitori. Come la lumaca toccata, così offesi, vi è un ritrarsi ermetico nel proprio mondo, con il sigillo del narcisismo. Ora per l’attore il padre risuona come autore e la madre (incestuosa) è significata dal palcoscenico. Questo è il punto. Ma alla domanda amletica segue un immediato congelamento (un grande gelo viene restituito) e una farla rivoluzione. A questa domanda così massivamente formulata è dato in risposta un vuoto a sua volta, in qualche modo, interrogante. Ecco allora la scelta, insieme più facile e più difficile, della neutralità come campo vuoto. L’interrogazione ‘essere o non essere’ viene duplicata, doppiata, dalla proposizione ‘essere e non essere’, alla quale è affidata una nuova possibilità, una nascita partenogenetica, nel tentativo di mettersi al mondo nel proprio mondo. Senza genitori. Nella e. Come tentativo.
(dal programma di sala)
Legato da profonde affinità con il gesto nichilista di Carmelo Bene (o forse una risposta alla sua visione del rapporto tra il testo, la scena e l’attore) è la messinscena (o meglio "smessinscena"), da parte della Societas Raffaello Sanzio, di un altro Amleto (1992). C’è solo il protagonista, ridotto a una dimensione sadico-anale, regressiva ed escrementizia. In una scena ingombra di cavi elettrici e luci al neon in forma di croce, di batterie da automobile e di oggetti di scarto, una rete di letto (che rimanda al "Morire, dormire" amletico). L’attore è ridotto a pura presenza fisica: urla, si dimena, si percuote, urina in faccia al pubblico, compie gesti masturbatori, gioca con un orsacchiotto di peluche. Ansima, tra scoppi di petardi e colpi di pistola. Emette solo mugolii, mugghi, lamenti e brandelli di frasi. Scrive qualche parola sul muro, e poi la cancella: "I’M ABORTO" si riduce per esempio a una A. Fino all’ultima regressione, quando Amleto seduto sul vasino defeca per poi imbrattarsi il viso e il muro con le feci, fino a immobilizzarsi alla fine nella posizione fetale (quella in cui fu trovato il cadavere di Artaud). Da questa decostruzione del mito di Amleto, la Societas Raffaello Sanzio partirà per altre operazioni di smontaggio provocatorie ed estreme, continuando a portare in scena ciò che la scena tende a rifiutare: nella recente Orestea (1995), che per quanto riguarda l’impatto visuale riprende molte suggestioni dalle immagini di Joel Peter Witkin, figurano tra l’altro diversi animali (cavalli, asini e scimmie), un mongoloide (nella parte del re Agamennone), un attore privo di braccia come una statua antica (per impersonare Apollo).
   
  La dimensione del rifiuto, dello scarto e del loro riciclaggio può investire lo stesso processo di scrittura e il linguaggio, attraverso un meccanismo può diventare esplicito e consapevole solo con la disgregazione della forma teatrale. In questo ambito l’operazione forse più radicale è il frutto del mix di utopia e nichilismo che caratterizza le opere di Heiner Müller. In Riva abbandonata (1983), portato in scena dal duo Manfred Karge e Thomas Langhoff in un deserto post-apocalittico di lattine vuote e rottami d’aereo, fin dai primi versi la tematica è chiara:
. Lago a Straussberg Riva abbandonata Traccia
Di Argonauti dalla fronte piatta
Chiome di canna Ramaglia mora
QUESTO ALBERO NON CRESCERA’ sopra di me
Cadaveri di pesci
Barbagli nel fango Scatole di biscotti
Mucchi di letame PRESERVATIVI FROMMS ACT CASINO
Gli assorbenti igienici stracciati Il sangue
Delle donne della Colchide.
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Quello che Müller rivisita in questa come in altre occasioni è un mito classico, quello degli Argonauti. Ma in una prospettiva insolita, e soprattutto in un mondo post-apocalittico e degradato - invaso dai rifiuti, fatto di rifiuti. Da sempre il teatro si nutre dei miti classici e li riporta a nuova vita (una forma di riciclaggio). Ma in questo caso il procedimento è di assoluta radicalità: la consapevolezza di non poter recuperare la totalità del mito e del mondo che lo sottendeva è acutissima, quasi dolorosa. Non restano che brandelli opachi, da raccogliere e interrogare. Anche se Müller in seguito ha rifiutato un’etichetta applicata con eccessiva facilità, la sua scrittura procede per frammenti. Quando le grandi narrazioni e le grandi forme non sono più possibili, non resta che raccoglierne i detriti, accostarli e riassemblarli in una nuova architettura: che sarà tuttavia necessariamente precaria, fragile, suscettibile di cambiamenti - oltre che di infinite interpretazioni, che interroghino di continuo il testo per estrarre un possibile senso. La stessa scrittura di Muller - che inserisce versi classicamente scanditi in strutture esplose e continuamente spezzate - sembra una applicazione dell’epigrafe di Jarry.
Sdi certo spres’avete svoi-svoi a sdimandarvi, et con ogniduna sragion, sdiperché sessa lei, la esse-sessa, sdisposta s’è in del disdavanti del nomine mio e del disconnesso smeghico vocabular. Et io-sme-smego, sdisùbbito, sattisfazion sdarovvi.
Lo sdiperché sdisconsiste in dello sfatto che sproprio con l’esse sdisprincipia il superàno nomine di sessa-lei, la ssessena, la smarxiana sessenza della sdialettigal, sdiscenzial et sdiscientifigal sceritas-sveritatorum di sessa slei: la sdivinissima scienza. ’Sme lo spetalo d’una rosa srosa, ’sme lo stremitante sdisalbor del die, l’esse sdisapèruit sessa-sella, la sdisunichissima sessentità della sreal et scausal sessenza. La sreal et la scausal sessenza che sfuit, set et sfurèbit la sdisorighinal origihine della tota stoziarum totalizazion totalis et anta-anta. Et seghella sest sessenza sessica sdisinternazional-scosmical-splanetarica, et, in plus-plùis, slaical et issimament’èssica; èssica et sfùrens; sfurens et stroica; stroica et staurus: staurus et staurinorum; stroica et staurinorum di lor-lor, le sdisfigatissime sfedi. Stutte. Sdissolutissimamente stutte. Sdisìan, sesse, sbuddistighe; sdisìan, sesse, sdiagnostighe; sdisìan, sesse, sdismaomettighe; sdisian, sesse, sdiscristighe; et àltere, et àltere; sanzi, sdisinfintamente sdisàltere, sdisàltere, sdisàltere; sdisàltere et, sdisàltere et, sdisàltere et, sdisàltere et, sdi et, sd’et, d’et et, d’et et, et et et, et et e, et et e, et et e... 
(Sfaust, Longanesi, Milano, 1990, p. 13-14)
Per certi aspetti simmetrica all’operazione di Müller è quella condotta negli ultimi monologhi di Giovanni Testori: una lingua espressionisticamente ipertesa e deformata, in una struttura narrativa dagli ascendenti classici (o meglio, radicati nella tradizione cattolica). Come nello Sfaust (1990), che ha tra l’altro per protagonista il padrone di una discarica (e l’intera scena è occupata da un gigantesco mucchio di detriti, un’autentica discarica a cielo aperto formata da centinaia di sacchetti di plastica, che con la sua massa minacciosa incombe sul pubblico): in un linguaggio distrutto, degradato, e uniformato dal suono di mille sibilanti sfatte, fluide, viscidamente rabbiose, questo epigono nichilista di Faust racconta le proprie illusioni (a partire dalla scienza) e il proprio degrado, fino al punto più basso.
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Sdi certo spres’avete svoi-svoi a sdimandarvi, et con ogniduna sragion, sdiperché sessa lei, la esse-sessa, sdisposta s’è in del disdavanti del nomine mio e del disconnesso smeghico vocabular. Et io-sme-smego, sdisùbbito, sattisfazion sdarovvi. Lo sdiperché sdisconsiste in dello sfatto che sproprio con l’esse sdisprincipia il superàno nomine di sessa-lei, la ssessena, la smarxiana sessenza della sdialettigal, sdiscenzial et sdiscientifigal sceritas-sveritatorum di sessa slei: la sdivinissima scienza. ’Sme lo spetalo d’una rosa srosa, ’sme lo stremitante sdisalbor del die, l’esse sdisapèruit sessa-sella, la sdisunichissima sessentità della sreal et scausal sessenza.
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In questo esercizio di sfregio linguistico, le particelle privative (a-, dis- sdi-) negano a priori quello che la parola afferma, e danno luogo a una raffica di giochi di parole (ragion-sragion, sme-smego, essenza-sessenza). Anche le lingue si rivelano una gigantesca discarica, da cui attingere sonorità vocaboli, costruzioni sintattiche: il testo è intessuto di elementi persi e rifiutati, di lingue morte: le ossessive cantilene e le buffonesche deformazioni del bla bla infantile, i dialetti, il latino riecheggiano continuamente. Là dove la parola dell’Amleto della Societas Raffaello Sanzio si chiudeva intorno a un autistico silenzio, la parola di questo Sfaust prolifera, s’accumula, eccede, straborda.
Alla fine di questo brano - uno dei momenti iniziali del testo - questo procedimento sembra portare a una disarticolazione della lingua, a una sua frantumazione in puri fonemi privi di significato, in rumore incomprensibile. E tuttavia, così come tipicamente in Testori la negazione del peccato porta alla fine, in punto di morte, alla salvezza della grazia, così anche la lingua, così devastata e deturpata, risorge, nelle ultime pagine del testo, in forma di poesia (e quasi di litania). Come spessissimo accade nel teatro di Testori, solo degradandosi fino all’estremo, solo arrivando alla soglia della morte, è possibile essere illuminati dalla grazia. E questo vale tanto per gli esseri umani quanto per le loro parole.
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"E’ come se fossi diventato un archeologo: scrostando dallo strato più vecchio quelli più recenti, facevo emergere quello che mi sembrava più autentico. Mi sono lasciato catturare dalla loro emotività compressa. Ho voluto valorizzare tutto il potenziale espressivo di questi uomini. Ho usato quel materiale, quella gestualità ribelle - conosciuta quando ero bambino - per creare e ricreare una realtà fittizia, l’immagine di un popolo che era nella mia fantasia, frutto di un mio bisogno. Un popolo semplice, vitale e combattivo, non ammansito, non ammaestrato, lontano dall’ipocrisia e dalla falsità" (Armando Punzo, La scena rinchiusa, p. 28).

Il processo, che si svolge per la maggior parte in realtà chiuse e segregate, interessa in primo luogo la percezione di sé di chi ne è il protagonista: "Viene in mente che, probabilmente, l’asprezza di un’esistenza passata in cella, ma poi sconvolta dall’opportunità che sa offrire il teatro quando riesce a farti scoprire diverso da quello che ti sei sempre creduto, ha finito per far nascere persone nuove. C’è il dubbio che possano esser nati nuovi talenti. Ma la certezza che il lavoro del teatro, fatto così, abbia insinuato tra quei ‘peccatori’ un’immagine di se stessi inedita, quella sì che c’è" (Armando Punzo, da un’intervista di Carlo Ciavoni, "la Repubblica", 24 luglio 1996).

C’è infine un ultimo senso in cui il teatro può dar visibilità al quello che si può definire rifiuto, questa volta in rapporto al corpo sociale, alla città che vi si rappresenta. Accade quando salgono sulla scena coloro che la società in qualche misura emargina e, appunto, rifiuta (si può pensare, senza pretendere di irrigidire in categorie astratte quella che è un fondamentale patrimonio di umanità, si può pensare ai carcerati, agli anziani, agli handicappati eccetera). Occupando il centro della scena e rappresentando se stessi e la propria diversità in uno spazio pubblico, rientrano nell’alveo della polis - vissuta come flusso di diversità e particolarità che sulla scena trova un punto comune di autorappresentazione collettiva. Questo intervento è vitale anche per un’altra ragione: le motivazioni profonde, quel bisogno di prendere la parola e trovare una forma in cui rappresentarsi di fronte alla collettività, la peculiare energia e forza comunicativa di quei corpi (che nasce da una diversa percezione di sé), possono offrire un formidabile anticorpo alla routine del teatro e dei teatranti.
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Un’ultima annotazione. Forse per il teatro rifiuto non è tutto ciò che è stato finora citato. Per il teatro, rifiuto è tutto ciò che resta quando è finito lo spettacolo, tutta quella materia che si sedimenta al di là del puro evento: forse il copione (il testo), le locandine e i manifesti, la scenografia, i costumi, gli oggetti, tutto ciò che resta di tangibile al di fuori della memoria dello spettatore, è rifiuto. Compreso questo testo.

Coyright Oliviero Ponte di Pino 1987, 2000
 
 
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