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Una delle possibili storie di Paolo Rossi
di Oliviero Ponte di Pino

Ho grande stima di Paolo Rossi: ho avuto la fortuna - per puro caso, perché il regista era mio compagno di scuola - di poter seguire al sua carriera dall'esordio nel Calapranzi di Pinter (ma si chiamava Ben e Gus) al Teatro Officina di Milano (dov'è adesso lo Zelig, ma allora era tutt'altra cosa). Poi l'ho rivisto al Derby (all'epoca del contingente italiano in Libano, prima metà degli anni Ottanta, lo feci anche venire a Rai3, con un numero che si chiamava Libano rosso), poi al Ciak...
Se recupero quei pezzi, quando ho un po' di tempo li metto in rete. Per adesso c'è questo (e naturalmente il pezzo sui Comedians nella pagina dedicata alla storia dell'Elfo).


 
Pop & Rebelot

Reduce dal successo televisivo di Su la testa!, nel suo nuovo spettacolo teatrale Paolo Rossi poteva cedere a diverse tentazioni: continuare a offrire un'antologia dei suoi pezzi migliori, che l'esposizione sul piccolo schermo aveva insieme antologizzato e "bruciato"; scegliere la strada del populismo brontolone e sotterraneamente qualunquista di Grillo; o ancora offrirsi come maitre à penser per tutti quelli che - dopo averlo visto in tv - avevano capito che era possibile "alzare la testa", ma non sono ancora del tutto pronti a pensare con la propria testa.
Per intuito o per saggezza, Paolo Rossi ha invece preferito restare fedele a se stesso, al suo personaggio inquieto, alla sua sensibilità al mutare delle circostanze, senza andare a ripescare nel già visto (solo i bis attingono al vecchio repertorio).
Così Pop & Rebelot (in scena al Teatro Ciak, regia del fido Giampiero Solari, collaborazione ai testi di Gino & Michele, Stefano Benni, Riccardo Piferi, Marco Posani...) è "puro Paolo Rossi", ma è anche (e coraggiosamente) un lavoro diverso da quello che molti si potrebbero aspettare. D'altro canto, lo sgretolarsi di un regime (e prima ancora del sistema di valori che lo sosteneva) che sta accadendo in questi mesi non poteva non riflettersi sul personaggio-Rossi, che si era costruito segnalando la propria differenza da quel regime, dai suoi valori. Perché oggi la solitaria e cocciuta resistenza, la dignitosa e combattiva difesa della propria marginalità, l'orgogliosa coscienza di un sistema di valori insieme "solidaristici e individualistici", il rifiuto del culto dell'apparenza su cui il comico milanese si era costruito negli anni Ottanta sembrano per molti aspetti dati acquisiti, e i Paolo Rossi rischiano di diventare, se non maggioranza, almeno minoranza visibile. E quando l'atteggiamento si diffonde, non è più possibile restare un antieroe solitario e ribelle.
Se i precedenti spettacoli tendevano a prendere la forma del monologo-confessione, dell'autobiografia ironica e epica, del viaggio iniziatico e beffardamente fallimentare, Pop & Rebelot trova invece il proprio sfondo in un luogo di comunicazione e di scambio, di quelli tipici dell'Italia di pochi decenni fa che la "modernizzazione" ha cancellato senza rimorsi: una di quelle vecchie osterie in cui bere - in primo luogo - e poi parlare, cantare, raccontare, magari scambiarsi qualche cazzotto e due bestemmie. In un'atmosfera di sconclusionata confusione, di casino generalizzato (e di ribellione: alla ribellione, peraltro, rimanda etimologicamente il milanese "rebelot").
Tuttavia la reattività morale, quando si massifica, rischia di scadere nel moralismo, nell'intolleranza dei buoni sentimenti; quando la confusione e l'incertezza si generalizzano, alla lunga la reazione può essere il riflesso d'ordine. Dunque Rossi cerca di anticipare, e di inserire qualche anticorpo per tenere aperti spazi di libertà, vie di fuga, possibilità dissenso da ogni nuovo conformismo. A muoverlo, ancora una volta, sono il dovere e la necessità di essere minoranza. Le armi sono quelle, poche e fragili, concesse ai comici: l'oltraggio e lo sberleffo, la sorpresa, bla violenza e la provocazione verbali, una nota improvvisamente tragica o seria che spezza il tono generale, le invenzioni poetiche, una esuberanza fisica che simboleggia e trasmette la diffidenza di fronte allo stato delle cose, fatte affiorare da un accurato rituale etilico, da una sbronza progressiva scandita come una parodistica cerimonia. Sono sette stadi di una mistica dei bassifondi, che conducono dallo stadio di "borracho" (ubriaco) agli "insultos al clero y apoteosis final", passando per il "muy borracho", i "cantos regionales", quelli "patrioticos" e i "religiosos" e, penultimo stadio ben noto a molti dei nostri potenti, la "negacion de la evidencia". Rossi se la prende in primo luogo con gli eccessi di retorica e di fiducia sulle Mani pulite e sulla Rivoluzione degli onesti. Lo scetticismo, il pessimismo del ribelle romantico, l'assenza di credibili progetti di riforma politica lo spingono a rifiutare i facili entusiasmi (anche a costo di scomodare il buonsenso).
La serata procede per apparenti improvvisazioni e divagazioni narrative, anche se rimane sottoposto all'assoluto controllo dall'autore-attore su un palcoscenico su cui campeggiano tavolini da osteria e abat-jour, ma soprattutto emblematici (e utilizzatissimi) fiaschi di vino; è "la cantina del Titanic", metafora fin troppo facile della situazione attuale, popolata da morti viventi e da vaghe presenze, oltre che dal pubblico (a proposito, un fortunato spettatore riceve all'inizio un fiasco di vino, che deve svuotare all'unisono con il protagonista, ad evocare il sacramento dell'auspicabile sbronza collettiva).
Al solito, lo spettacolo è costruito sulla serrata interazione tra il protagonista e il gruppo musicale che lo sostiene: al piano il cantautore Vinicio Capossela, con le sue atmosfere alla Paolo Conte, e poi Lucio Caliendo (percussioni), Giorgio Cavalli (chitarre), Enrico Lazzarini (contrabbasso e violoncello).
La nota fondamentale di Pop & Rebelot è la sensazione d'incertezza in cui stiamo precipitando, la premonizione di un futuro non troppo rassicurante, il rischio di scivolare nel caos. Rossi non sceglie di cavalcare la tigre della distruttività, dell'assalto a poteri che già stanno crollando. Evidentemente non gli piacciono né il giustizialismo, né il rivendicazionismo, né il politicismo. Gli interessa, piuttosto, mantenere la propria libertà interiore (e non solo) di fronte a quello che sta accadendo, e a quello che accadrà dopo. Senza dimenticare che nella nostra storia recente rimangono dei buchi neri, delle verità da scoprire, delle ferite aperte - che tendiamo a dimenticare, rimuovere, sottovalutare.
La soluzione suggerita da Pop & Rebelot è un anarchismo apparentemente allegro e dissacrante, dionisiaco e conviviale, ma venato di pathos e malinconia, arricchito di impertinenze teologiche e sempre sostenuto dalla consapevolezza che, caduto un potere, ne sorgerà immediatamente un altro, del quale diffidare. Un atteggiamento che certamente non rispetta tattiche e strategie della politica, che semplifica un po' rozzamente l'inestricabile groviglio in cui si sta avvitando la politca italiana, ma che costituisce in ogni caso la condizione indispensabile per una pratica artistica come quella di Rossi: per mantenere viva l'insofferenza, la diffidenza, la capacità di indignarsi, il rifiuto del compromesso.
 
Operaccia romantica

Cattivo, volgare e sovversivo, Paolo Rossi lo è sempre stato. E per fortuna non ha perso il vizio, come dimostra il suo nuovo spettacolo, Operaccia romantica, che dopo aver scandalizzato vescovi e turbato sindaci rossi della bassa modenese è in questi giorni al Ciak di Milano: due ore di battutacce, canzoni e provocazioni, messe a punto con Gino e Michele (per i testi) e Giampiero Solari (per la regia).
Rabbioso e ghignante, il comico milanese trascina il suo pubblico per più di due ore, in una imprevedibile passeggiata che si fa beffe di tutto e tutti (a cominciare da se stesso), radiografando l'inesorabile declino della nostra qualità della vita, la volgarità crescente, l'imbarbarirsi di sentimenti, passioni e nostalgie, l'ondanta montante di arroganze e cliché. Con qualche brano da antologia, a cominciare da quello dedicato a Bossi e ai suoi Legaioli, assolutamente travolgente nel suo delirante iperrealismo. Non manca qualche esplicito omaggio al "maestro" Dario Fo, per esempio nella gestualità del pezzo su Gesù che, volendo crocifiggersi sulla stazione di Bologna, è costretto a chiedere aiuto al Grande Esternatore; e ritornano alcuni richiami allo Jannacci prima maniera, con le sue cantate malinconiche e sguaiate. Perché Rossi si scatena in vertiginosi assoli, a metà tra il blues e il valzer da balera; o meglio, come precisa con acribia filogogica lo stesso interprete, "tra i Sex Pistols e il duo di Piadena", o "tra i Pogues e Nanni Svampa" (in questo, trova una spalla, oltre che in Alberto Storti, che funge con discrezione da imbonitore, contrappunto e "effetto straniamento", nei tre musicisti Savino Cesario, Alessandro Simonetta e Emanuele Dell'Aquila).
Ma Operaccia romantica è anche un grande show d'attore, generoso fino allo spreco, scatenato fino all'isteria. Quello che esplode in una serrata e guittesca raffica di gag, è un mondo di alienazione metropolitana, di carenze affettive, di amare sconfitte e di improbabili riscatti. E' una vitalità soprendente, irrefrenabile, quella di Rossi, tanto che sembra nascondere - risospinto nei bassifondi dell'Io - un fondo di disperazione.
Ma gli spettacoli di Paolo Rossi tracciano anche, tra una risata e l'altra, la radiografia di uno stato d'animo che non è solo individuale, personale, e che si stratifica spettacolo dopo spettacolo. In principio c'era il bisogno di trasfomare il mondo, di cambiare la realtà affiché risponda ai suoi (ai nostri) desideri - a cominciare da quelli sessuali. Ma da tempo la realtà sembra aver preso un'altra direzione, e quei bisogni primari vengono ormai soddisfatti da succedanei, uno più insensato dell'altro. E da questo punto di vista, l'ossessione erotica, la volgarità gratuita, sono semplicemente la risposta più sana. Altrimenti rimane - e riaffiora anche nel corso di Operaccia romantica - la fuga nel sogno, in una surrealtà euforica e rabelaisiana, verso un paradiso ingenuo, innocente e orgiastico.
Poi, a segnare gli spettacoli di Paolo Rossi, c'è stata l'affinità elettiva con tutti coloro che quel sogno (reinventare una realtà commisurata al desiderio) l'hanno condiviso: ma ormai le tracce di tutti quei compagni di viaggio si sono disperse, e di quel senso di possibile comunità è rimasto soltanto un ricordo amaro e pieno di recriminazioni - che lascia spazio a una nostalgia amara, e qui godibilmente sbeffeggiata. E' forse anche da questo che emerge quel senso di solitudine, quella rabbia autentica di outsider, che così spesso si ribalta in guizzi dissacranti. A salvare dalla rassegnazione, è quella vitalità travolgente, quel rifiuto di darsi per vinto che spinge a ribaltare ogni sconfitta in una nuova ribellione, in una nuova scatenata parodia, in un'altra fuga in avanti. Quell'orgoglio che permette di riscattare ogni umiliazione in una esilarante lezione di dignità. E' questo, forse, il nucleo della maschera di Paolo Rossi, quello che lo trasfromano, sotto le luci della ribalta, in un antieroe, sempre pronto all'autodenigrazione, ma anche a un ironico riscatto attraverso oltraggi e impertinenze, oscenità e guizzi di follia.
Quello che di nuovo sembra affiorare in questa Operaccia romantica è però qualcosa di più profondo, e finora relegato in secondo piano, ancora più irriducibile, che salva la sua rivolta dai rischi del qualunquismo. E' una sorta di rivolta morale, un rifiuto di cui è difficile trovare i motivi, ripercorrere la storia. Ma è di lì che nascono, probabilmente, la lucidità e l'intransigenza di certi rifiuti, la precisione (e la quantità) dei bersagli, e la capacità di ironizzare sulle proprie colpe, debolezze, difetti. Insomma, quella libertà da folletto braccato che illumina anche questa Operaccia romantica.

Operaccia romantica (2)

Vietato ai minori di 18 anni "per il turpiloquio compiaciuto e le oscenità gratuite presenti in tutto il lavoro". Non è l'ultimo exploit cinematografico di John "37 centimetri" Holmes o il ritorno di Susy Tettalunga. Neppure il comizio finale di Bossi, l'inguaribile esibizionista che da anni raduna in piazza vecchi e bambine per urlare che "ce l'ha duro". E nemmeno i clip dei sedicenti naziskin che, al prezzo di qualche biglietto da centomila per marchetta tv, ripetono la parte dei feticci dell'intolleranza.
Il "vietato ai minori" è Paolo Rossi: sempre scarruffato, non alto (primo eufemismo), vestito casual (secondo eufemismo - ma pur sempre vestito), è stato imprevedibilmente proclamato nuova star dell'erotismo all'italiana. L'attore milanese è l'ultima vittima della censura del Ministero dello spettacolo: da oggi per meritarsi i brividi adulti di Operaccia romantica bisogna esibire la carta d'identità e dimostrare di essere maggiorenni.
La motivazione ministeriale è tanto telegrafica quanto ridicola: infatti il pubblico di Rossi paga per sentire le sue "oscenità gratuite" (solo le parolacce sono gratis), e il compiacimento è tutto del maniaco che sottolinea le parolacce in rosso e blu. Ma il sesso evidentemente non c'entra. Rossi è colpevole soltanto di essere un incazzato (giustamente) e di dire quello che pensa (e che pensiamo) su mafie e affini. Con una aggravante: fa morire dal ridere. D'altro canto, questo stupido e tardivo divieto è solo l'ennesima manifestazione del revival censorio che ha accompagnato la campagna elettorale, mettendo le mutande alla Moana Pozzi di Avanzi e alle piazze (incazzate) di Samarcanda, al sesso triste di Ferrara e alle interviste alla segretaria di Chiesa.
Al debutto, in ottobre, Operaccia romantica aveva eccitato qualche parroco della bassa padana; e visto che molte sale sono di proprietà delle varie curie, alcune repliche erano state critianamente cancellate d'autorità (soprattutto dopo che Dario Fo aveva lanciato un appello in difesa di Rossi e della Rame, ugualmente "scomunicata"). Premurosa, la curia di Carpi si era anche offerta di "correggere" il testo scomunicato e poi ospitare Operaccia romantica - a patto che l'interprete promettesse di "non improvvisare". Rossi, viziosamente affezionato alla sua idea di teatro, aveva rinunciato al fioretto e la cosa sembrava finita lì: in tournée da mesi, lo spettacolo ha collezionato esauriti da Milano a Roma. Pare che persino Bobo Craxi abbia ingoiato il rospo: quando è venuto a vedere lo spettacolo, la sua accompagnatrice gli avrebbe fatto notare che volavano battute pesanti; Bobo, magnanimo, avrebbe risposto: "Lasciamo perdere, non vedi che è un drogato".
Ma dove non arrivano la fede e la legge Jervolino-Vassalli, arriva la burocrazia. In questo caso la Divisione Revisione Cinematografica e Teatrale, che di questi tempi si sta dando molto da fare: tra le ultime vittime, le nudità teatrali della Pozzi e l'incesto cinematografico delle Amiche di Placido. Il copione di Operaccia romantica (firmato da Gino & Michele e da Riccardo Piferi, oltre che dall'attore) era pervenuto al Ministero in ottobre: è stato esaminato e tartufescamente bocciato in data 5 febbraio. Forse a causa delle poste, il pesce d'aprile è arrivato con un paio di giorni di ritardo: è però diventato immediatamente esecutivo, creando problemi a chi - under 18 - aveva già il biglietto. Ma anche a Rossi: dopo aver turbato schiere di adolescenti indifesi con il suo incontenibile sex appeal, adesso vorrebbe andare a confessarsi. Intanto, alcune piazze rischiano di saltare.
Una mezza soluzione ci sarebbe. Il copione della prima parte di Operaccia romantica, intitolato C'è quel che c'è, presentato circa un anno fa, aveva superato indenne le forche caudine della censura. Rossi e soci hanno già pensato di offrire la prima parte gratis ai diciottenni, per poi "rastrellarli" a malincuore verso l'uscita, durante l'intervallo. Ci sarebbe anche una soluzione "intera": il Ministro dello spettacolo, Carlo Tognoli, appassionato di teatro e sincero fan di Rossi, avrebbe il dovere (morale e politico) di dissociarsi dagli assurdi furori degli "integralisti italici". Oggi, forse, è sperare troppo. Ma domani...
 
Operaccia romantica (3)

Paolo Rossi non è soltanto il "bravo comico" che qualche settimana fa ha concluso trionfalmente la tournée di
Operaccia romantica con un megaspettacolo al Teatro Smeraldo; che si è meritato le attenzioni della censura; che per tutto il mese di giugno occupa lo Zelig con una rassegna di cabaret di cui è padrino-presentatore.
Ma Rossi è anche un professionista che riflette sul suo lavoro di attore e performer. E il suo lavoro che è molte cose insieme:
arte, che richiede la dignità di non piegarsi passivamente al mercato; artigianato, cui può applicarsi un metodo; mestiere, con una tradizione e dei maestri; e politica, non solo per quel che si dice in scena ma anche per il modo in cui si lavora, per il tipo di attenzione alla realtà.
Il lavoro
. "Resto un privilegiato perché faccio un lavoro che mi piace. E poi, qualsiasi problema io abbia, me lo porto addosso alla sera, senza dimenticarlo: e se sul palcoscenico si vede la persona aldilà dell'attore, il teatro mi restituisce il mio problema più leggero, molto più leggero. E quando alle sette e mezzo di mattina - no, mi sveglio un po' più tardi... Insomma, quando mi sveglio e mi chiedo cosa farò stasera, qualsiasi problema io abbia, ci vedremo con gli amici, forse faremo qualcosa di sensato, e poi andremo a mangiare insieme. E' già molto."
La carriera
. "All'inizio è facile. E' vero che non hai ancora il mestiere, però hai venticinque anni di vita che capitalizzi in una performance, in uno spettacolo. Poi, se le cose funzionano, questo capitale di vita si riduce sempre di più. La tua vita diventano gli autogrill, i viaggi in macchina, gironzolare per la città un'ora prima di fare lo spettacolo, quelle cene raramente divertenti. La tua vita si restringe e si restringe e alla fine ti ripeti: non solo per pigrizia o per mancanza di coraggio, ma perché non sai cosa dire."
La scuola
. "Perché ho avuto sempre difficoltà con le scuole di recitazione? Perché lì raramente incontri persone che ti insegnano a trovare il tuo metodo personale. Ma questo è indispensabile per un attore: perché, come in altri lavori artistici o artigianali, devi essere originale. Invece a scuola ti insegnano un metodo assoluto a cui devi aderire, se vuoi essere funzionale alle esigenze del mercato. E ovviamente la creatività ne risente."
Il metodo
. "Uso tutto quello che ho a disposizione. E seguendo la mia via, spesso mi trovo d'accordo con le teorie dell'arte moderna più avanzata, di cui francamente non so quasi niente. Ma quando me ne parlano, capisco che sto facendo qualcosa di simile: quando segui un metodo personale e ascolti la città, ti ritrovi in sintonia con alcune delle cose che succedono e non a caso fai uno spettacolo su qualcosa che tutti vivono in quel momento. Ma lo riesci a fare solo se sai ascoltare fuori e dentro: e questa è la cosa più difficile."
Il monologo
. "Ci sono due possibilità. Se ti definisci - "Io sono questo, faccio solo questo" - allora puoi andare avanti tutta la vita a rifare la stessa cosa. Ma se vuoi metterti veramente in gioco, se hai delle cose da dire, e da dire nella forma del monologo, quanti monologhi puoi fare nel corso della tua vita? Cinque, sei... Non di più. E nel monologo il tuo mestiere non migliora."
La compagnia
. "Per un attore comico, avere una compagnia è come gestire una rosticceria. Sai fare molto bene il vitel tonné, è la tua specialità. Però se fai sempre quello stesso piatto, diventi la boutique del vitel tonné e la gente viene solo quando vuole il vitel tonné. Ma se tu fai quello il lunedì e il martedì provi il pasticcio - certo, non è così buono, non ti viene così bene, ma la gente ci torna. Poi fai il pollo arrosto, che viene sempre bene. E col tempo impari anche a fare il pasticcio, a fare meglio il pollo, e anche l'insalata russa. E paradossalmente elevi anche il vitel tonné."
La squadra
. "E' quello che nel calcio si chiama la squadra, lo spogliatoio. Quando uno spettacolo sembra tutto improvvisato, vuol dire che dietro ci sono persone assolutamente affiatate. Amici. Anche aldilà delle liti, degli scazzi; perché poi ci sono abbracci, pianti, scuse... Fin dai tempi di Nemico di classe. Perché puoi metterti in gioco solo se c'è il clima giusto. Noi abbiamo capitalizzato un'esperienza politica, quella del lavoro collettivo, di cui resto un sostenitore. Però abbiamo modificato alcune cose che non andavano bene: si tendeva ad abbassare tutto per rendere tutto omogeneo, e quindi creando tensioni, frustrazioni... Un esempio ottimo di lavoro collettivo è il jazz, che esalta l'individualità, ma con ruoli ben precisi. Oppure il gioco a zona nel calcio, dove tu sei lì, ma copri anche il tuo compagno di squadra."
Il personaggio
. "Il personaggio non esiste. Tu, attore, non devi concentrarti sul tuo personaggio, ma sul personaggio che incontrerai in scena tra un attimo, perché è lui che ti fa la parte. Come nella vita. Se hai un incontro per un posto di lavoro, non ti concentri solo su di te: appena entri devi concentarti sull'altro, perché è lui che ti dà il lavoro."
La politica, la musica
. "Nella Commedia da due lire il fatto politico non era tanto il discorso sulla Duomo Connection, ma il lavoro collettivo della compagnia. Era il fatto che mi mettevo in gioco insieme a altre persone e assieme tentavamo - memori di passate esperienze - di andare avanti. Molti mi hanno sconsigliato - soprattutto gli addetti ai lavori: "Tu fai lo stand up comedian molto cattivo, che ci vai bene così, nella tua stanzina a dire le tue cose". Allo stesso modo, hanno sconsigliato la contaminazione con la musica in Operaccia romantica. Ma io non volevo fare il cantante, anche se la canzone buffa rientra nel bagaglio di un attore comico. Però la mia cultura è quella - fatta di musica - e volevo lavorare con un gruppo musicale: e Operaccia romantica è l'unico spettacolo con musiche in cui non si avverte mai il distacco tra il pezzo recitato e la canzone."
Persone e replicanti
. "Questa è un'epoca in cui tutto si è omologato. E' diventato difficile distinguere il comico dal politico, il politico dal qualunquista, il qualunquista dall'uomo riflessivo. In teatro come in televisione o su qualsiasi altro medium, se aldilà del comico o del politico non vedo la persona, io mi annoio. Non mi interessa il grande esecutore, non mi interessa farmi stupire o illuminare dalla magia di un talento particolare. Anzi, come spettatore potrei anche irritarmi. Quello che mi interessa, dietro uno che racconta una storia, in qualsiasi forma, è vedere che lì c'è un essere vivente. Una persona, non un replicante."
Il cinema
. "Nel cinema ho fatto quello che ho fatto all'inizio in teatro: un giro attraverso tutti i generi. Ho lavorato negli stabili, nei teatri tradizionali, anche nell'opera lirica e quando ho finito il giro me ne sono uscito. Al cinema non credo di aver mai fatto una cosa interamente bella. Però in ciascuna delle cose che ho fatto c'è uno spezzone giusto. In Kamikazen la scena della sigaretta; nei Cammelli la scena finale, quella del treno; anche nei film commerciali c'è qualche lampo. Ma l'unico film di cui sono soddisfatto, in cui mi riconosco, è My sweet camera di Ranuccio Sodi, premiato a Filmaker, fatto con gli stessi criteri e metodi con cui lavoriamo in teatro. E' quasi tutto improvvisato; le riprese sono un po' come le prove, la parte in cui confeziono lo spettacolo è il montaggio. E paradossalmente queste condizioni le ho potute ottenere solo quando ho girato un film con due lire."
La televisione
. "Non la userò certo per mettermi in un contenitore brillante, spiritoso, evasivo. Se mi daranno uno spazio, dovrò comunque cercare di capire come posso usarla per fare lo stesso lavoro che faccio in teatro. A quel punto, la telecamera diventa un mezzo, come la linea d'ombra che mi separa dal pubblico in teatro - perché anche quello è un medium. Uno degli insegnamenti di Dario Fo (ne ha anche scritto) è che quando fai un monologo devi avere in testa una macchina da presa. E' come se l'attore guidasse una ipotetica cinepresa: in questo momento state vedendo me, in questo momento state vedendo l'immagine che vi voglio dare. Anche Jerry Lewis aveva dei problemi di grammatica televisiva e allora ha inventato un marchingeno: era lui che con dei pedali dava le indicazioni alla telecamera. Questo non vuol dire che bisogna riprendere il marchingeno di Jerry Lewis, ma che bisogna in ogni caso pensarci, usare la propria intelligenza e creatività. Può essere divertente provarci. Per me, l'importante è fare un gioco e rischiare, non sputtanare quello che ho fatto finora."
I limiti
. "Ci si dimentica spesso che l'artista si scontra sempre con una struttura produttiva: che sia artigianale come quella del teatro, burocratica come in televisione, o risponda a criteri economici come il cinema. E se una struttura ti impone dei limiti, allora devi mettere dei limiti tu per primo, per allentare le pressioni. Non è una regola valida in assoluto: ma vale per il mio modo di lavorare. Per me è fondamentale il clima che c'è sul palco, sul set o in uno studio, un clima che comunque passa al pubblico. E del clima devo essere io il responsabile, non il produttore."
I maestri, la tradizione
. "Quando mi dicono che ho preso molto da Fo e da Jannacci, sono molto contento. In Operaccia romantica ci sono due veri e propri omaggi a Fo. Il nostro lavoro è scritto nell'aria; per quanto trasgressivi, nuovi, outsider possiamo sembrare, il vero trasgressore è il continuatore della tradizione. Certo, la contamini: con la tua cultura, i tuoi umori, come ha fatto Dario con la commedia dell'arte. Prima di tutto è necessario avere un rapporto stretto con qualcuno da cui imparare, vedere come lavora: certe cose gliele rubi, certe altre magari te le spiega; leggi i libri che ha letto, probabilmente con più fatica, mentre io leggo con più facilità Burroughs, per esempio. I metodi sono sempre personali, e nascono da quella che è la tua formazione umana. Io ho fatto il perito chimico e per quanto odiassi la chimica, mi è rimasto molto di quel modo di procedere: parlo spesso di "contaminazione", accosto delle cose apparentemente inaccostabili per vedere come "reagiscono"... Qualche tempo fa leggevo i poeti minori del Duecento, su cui Fo ha lavorato molto, e studiavo il loro rapporto con la lingua. Contemporaneamente avevo per le mani anche uno dei primi racconti di Burroughs, Gli ultimi bagliori di un crepuscolo, che racconta dell'affondamento di una nave - l'archetipo è quello del Titanic, che in certi momenti storici funziona - e ho iniziato a leggerlo come se fosse un'affabulazione. Del resto, siccome ci sono molti personaggi, ci vogliono grandi scenografie, in teatro può essere solo un monologo: un attore e nient'altro."
La metropoli, la generazione
. "E' stato giusto vivere un certo periodo fuori città. E non sono tornato perché ho sentito il richiamo della foresta. Ma questa è la mia città, quella con cui ho un rapporto, e non posso lasciarla. Se hai un buon rapporto con la tua città, racconti le tue storie a tutto il mondo, puoi portarle fino a Bangkok. A Milano mi chiedono sempre: "Ma fuori di qui, come funziona?". In realtà funziona allo stesso modo, a volte meglio. Primo, perché la mia non è una comicità di linguaggio o di slang, e può essere capita ovunque. Secondo, perché è sempre meno generazionale: è un altro credito della Commedia da due lire, che ci ha portato a lavorare su temi universali - la corruzione, le corna, i rapporti di poter - e ci ha fatto staccare la presa da una specie di parlarci addosso. E man mano che vai avanti, t'accorgi che il pubblico cambia: c'è lo zoccolo, quelli della tua generazione che ti hanno seguito da sempre, ma poi si aggiungono spettatori più giovani e più vecchi, perché evidentemente abbiamo rotto un piccolo ghetto. Dunque, la mia è una comicità di situazione. E quando parlo della mia città - e adesso dico addirittura i nomi delle vie - ridono ovunque. Se c'è una differenza, è tra la città grande e quella piccola, non tra Nord e Sud. E comunque ridono anche nella città piccola, perché ormai siamo un villaggione."
La sinistra, il muro, la mafia
. "Avevo iniziato facendo teatro politico, sono e resto di sinistra. Quando è caduto il muro, mi sono sentito liberato. Il crollo delle ideologie, dei dogmi... Non per citare uno che ci andava giù duro, ma "quando grande è il disordine sotto il cielo, la situazione è favorevole". Soprattutto per un artista. Non mi sono mai depresso. Sono caduti i muri e non potevo che essere contento: queste cose le sapevo già, come le sapevano tutti. Anzi, erano le cose che mi frenavano quando parlavo con quelli che la pensavano diversamente. Anche nel mio lavoro mi sono scontrato spesso con dei burocratismi che derivavano da quel modo di intendere e di fare politica. Per me fare politica ha un senso diverso: sentire i problemi degli altri come fossero i miei. Detto questo, continuo a pensare che: 1) esiste lo sfruttamento; 2) esiste e viene ben incrementata l'emarginazione; 3) esistono le classi e ci sono dei privilegiati. Non ho cambiato le mie idee. E la mafia esiste perché esiste tutto questo. La mafia non è la lupara, il colpo di pistola, il pizzo: la mafia è un atteggiamento culturale diffuso in tutti gli strati della società, nei rapporti pubblici e in quelli privati. Ha a che fare con l'omertà, con il compromesso, col farsi spingere per arrivare là dove non si merita, con l'escludere determinate persone per gestire meglio una situazione di potere, col controllare altre persone."
 
Milanin, Milanon

Milano 1963-1994. E' possibile raccontare la storia di una città che ha ormai perso l'anima? E' quello che hanno provato a fare Paolo Rossi e soci, ribaltando provocatoriamente la sigla dello spettacolo simbolo di Leydi e Crivelli (datato 1962), nel terzo spettacolo ospitato e sponsorizzato dal Piccolo Teatro, Milanin Milanon, regia di Giampiero Solari, al Lirico fino al 31 ottobre, e poi in tournée.
Ad accogliere il pubblico è un Rossi in veste di Meneghino, la maschera (o, come dice lui, "il sex symbol") della città, che parla in uno sgangherato anglo-franco-lumbard. Inizia così la mega-antologia di sketch e canzoni del cabaret dai tempi del Derby a oggi, con l'accompagnamento della band "C'è quel che c'è" con l'uniforme dei Ghisa, i vigili milanesi e, al piano, Teo Ciavarella. Quasi tre ore di spettacolo, con l'ambizione - appunto - di fare quello che, aldilà delle cronache giornalistiche, nessuno o quasi fa più: raccontare Milano e le sue emozioni.
Soprattutto all'inizio, lo spettacolo è infarcito di battute ferocemente (giustamente) antileghiste e antiberlusconiane, quasi a rilanciare dal palcoscenico quel gusto dell'opposizione più che mai necessario di questi tempi (ora che la satira in tv è off limits, verrebbe da aggiungere). E' un'opposizione antropologica e morale ben prima che politica o ideologica: questa satira hard è una sorta di talismano di sopravvivenza di fronte a una situazione ogni giorno più inquietante. La continuità tra vecchio e nuovo nell'attuale avvitamento della vita politica cittadina e nazionale è dunque uno dei bersagli di Milanin Milanon, e produce un paio di sketch travolgenti: l'aggiornamento all'attuale ceto politico del "Bravo sette più" con Cochi, e l'incredibile, delirante, gigantesca Ad Hammamet, sui "buchi neri" di una città che "nelle piantine ha già la forma di una torta".
E' più difficile far capire quale può essere, oggi, l'altra Milano, quella che non ha mai creduto alla poesia degli spot e del conto in banca, che non si è mai riconosciuta nel quadrilatero della moda e negli slogan bugiardi sulla "capitale europea". Perché quella Milano è diventata difficile da trovare, ha perso la voce, si è rinchiusa in quello che si chiamava "privato". Per cominciare non può più esistere, in uno spettacolo anni '90, la Milano popolare, da tempo cancellata dalla speculazione edilizia. Della Milano delle fabbriche e dell'"aristocrazia operaia", nella capitale terziario avanzato, resta la struggente nostalgia della Vincenzina di Jannacci (una straordinaria interpretazione della guest star Maria Monti); e resta la ballata per l'ultimo eroe dell'Innocenti, Ubaldo Urso detto Celentano (ne parla Stajano nel Disordine), affidata alla maschera lunare e disperata di Lucia Vasini.
C'è stata, è vero, la Milano delle lotte collettive, i '68 e i '77, evocate da un esilarante monologo sulla "rivoluzione studentesca"; c'è stata la lotta armata, inquadrata da una pseudobarzelletta che è come un calcio sui denti: ma è un'altra delle pagine del recente passato milanese (e italiano) che la maggioranza degli italiani preferisce rimuovere e non vuole sentirsi ricordare, e che torna solo come ferita. C'è stata, più di recente, l'ondata d'immigrazione africana: ed ecco due attori della Costa d'Avorio e uno del Marocco impegnati una versione soul della celebre La luna è una lampadina, a ricordare, anche, che aldilà di ogni purezza "lumbarda", Milano è da sempre un melting pot - anche se in nome soprattutto dell'efficientismo.
Ma insomma, a parte la "furiosità" tribale dei tifosi delle curve (che si meritano anch'esse un rap), le solidarietà collettive si sono tutte dissolte - o meglio sono state frantumate, distrutte e costrette al silenzio. Allora, per raccontare una delle poche anime milanesi forse ancora vive, restano la fascinazione per la città e il successivo rifiuto rabbioso, vorace, solitario alla Bianciardi: l'intellettuale sradicato, nevrotico, autodistruttivo raccontato da Pino Corrias in Vita agra di un anarchico può forse diventare il prototipo di tutti i personaggi che sfilano sul palcoscenico di Milanin Milanon. Tutti sconfitti, traditi, soli, patetici e stranieri a se stessi. E spesso sospinti verso una follia che è semplicemente il risvolto surreale dell'assurdità quotidiana.
Punto di partenza sono allora quegli intellettuali anticonformisti che, giunti a Milano dalla provincia, proprio in quegli anni Sessanta seppero raccontarla e darle voce, e spesso radiografare come il boom abbia abbia iniziato a mangiarle l'anima: Arbasino, ma soprattutto Beppe Viola e Luciano Bianciardi (e volendo, per capire ancora di più, nella stagione d'oro di Volponi e Scerbanenco, degli Ottieri, a quella lista andrebbero aggiunti Parise e il primo Testori, per arrivare poi, volendo chiudere il cerchio, al Pasolini di Petrolio). Non è un caso che molti di loro, in quell'alba degli anni '60, qualcosa per i cabaret abbiano scritto...
L'approdo, allora, non può essere che una straniata malinconia, rabbiosa e ironica. Perché quella che racconta Milanin Milanon (la scvelta dei testi, oltre che dai tre protagonisti, è firmata da Gino & Michele e Riccardo Piferi) non è l'apocalisse cittadina - né quella collettiva allucinata da Testori nel suo ultimo Gli angeli dello sterminio, né quelle individuali dei racconti di Luca Doninelli. E', piuttosto, una serie di resistenze individuali, ribellioni interiori, dissociazioni.
Come la protagonista dei Giorni felici beckettiani, le sgangherate macchiette di questa metropoli in catastrofe si ostinano a raccontarsi, a ridere, a cantare. Come i graffitisti che riempiono di nomi e colori i muri e i treni della metropoli, praticano lo sfregio come forma d'arte. E Milano? La città sembra quella vecchia ragazza di vita cantata da Walter Valdi in Quand seri giuvina (affidata a Maria Monti), che ricorda con nostalgia i vecchi amanti e spera ormai soltanto che qualcuno, passando di fronte al suo marciapiede, ricordi i suoi passati splendori

Hammamet (il disco)

Da qualche settimana circola un bootleg di Paolo Rossi e della sua band, dal profetico titolo Hammamet. Ci sono dentro le canzoni del suo spettacolo Milanon Milanin, quelle che si sono sentite anche in tv, nel Laureato.
Paolo, la musica ha da tempo un ruolo molto importante nel tuo lavoro. Perché?
Per una serie di motivi, banali e non banali. Il primo è l'importanza del fatto musicale dal vivo in teatro: è un elemento spettacolare, che aiuta a mantenere la tensione e il ritmo in scena. Secondo, la musica aiuta ad evocare o a creare, per via immaginativa, altre realtà aldilà del palco. Inoltre la contaminazione tra la musica e il monologo obbliga a riformulare il linguaggio comico, sia come ritmo, come tempi. Anche perché un certo uso della musica si avvicina molto il teatro alla cultura dei tempi nostri. Oltretutto ho sempre pensato che il teatro fosse l'incrocio di tanti generi, di tanti stili e tecniche: per me la contaminazione tra teatro e musica è stato del tutto naturale.

Nel tuo lavoro la cultura metropolitana è molto importante, ma c'è anche grande attenzione alla tradizione.
Mi sono sempre rifatto alla Commedia dell'Arte. E i cantastorie, i menestrelli, i giullari usavano sempre l'apporto della musica, o perlomeno di una base ritmica per attirare l'attenzione. In realtà i comici, dalla Commedia dell'Arte al varietà, hanno sempre usato la forma della canzone, della filastrocca, del ritornello che chiudeva una storiella che veniva ripreso a chiudere la storiella successiva, come collante oltre che come colonna sonora.
Ma forse c'è un altro motivo dietro quest'uso della musica: io avrei voluto fare il musicista, ma ho iniziato tardi. Quindi ho pensato che portando in scena con me gente che suonava, mi sarei sentito anch'io un musicista.

Passare dal teatro ai concerti e ai dischi ti ha causato dei problemi?
Un mio spettacolo teatrale non è mai stato uno spettacolo solo teatrale, solo di parole e di gesti. Così i concerti vengono impropriamente definiti dei concerti, perché sono eventi che non hanno a che fare solo con la musica.

Come nascono le tue canzoni?
Non essendo un musicista, non nascono proprio come dovrebbero nascere le canzoni. N‚ per quello che riguarda me, n‚ per quello che riguarda i musicisti. Di solito non c'è un'indicazione di partenza stabilita a priori, prima il testo o prima la musica. Così la canzone può nascere in diversi modi: ho un'immagine, la racconto ai musicisti e incominciamo a improvvisare. Può capitare che nel testo ci siano due o tre passaggi nei quali il musicista improvvisa suggerendomi una frase o un periodo. Certe melodie nascono invece dalla mia improvvisazione: su una base ritmica, io continuo a cantare improvvisando.
Noi registriamo continuamente tutto quello che facciamo: così resta impressa una traccia su cui possiamo continuare a lavorare. Non è che questo metodo sia una nostra invenzione: ma per noi non è importante inventare. Piuttosto, reinventare e contaminare. Lo facciamo sempre, anche sui testi.

E il rapporto con Vinicio Capossela?
E' una situazione diversa, che credo sia vantaggiosa per tutti. In
Milanon Milanin, insieme al regista Giampiero Solari, gli abbiamo proposto dei temi, degli odori, delle atmosfere musicali, riferiti a una canzone già esistente oppure a un'idea, magari molto confusa. Vinicio, quasi su commissione - cosa che ha stupito anche lui - ha lavorato ritrasformando tutte le nostre indicazioni. Un esempio, La pioggia di novembre: noi volevamo fare la pioggia di marzo, ma non ci bastava. Allora ci siamo parlati: Milano, la pioggia... facciamo "la pioggia di novembre"... mettiamo la musica e non facciamo solo il centone su testo, facciamolo anche sulla musica. Così è nata la canzone...
E la mitica Hammamet come è nata?
Improvvisando. A un certo punto ho cominciato a gridare "Ad Hammamet", tipo nenia. Probabilmente la melodia è nata cos. Dopo di che ci siamo messi tutti l, è intervenuto Cochi, è nato un processo sinergico di combustione: infatti gli autori di questo pezzo sono almeno dieci.

Quanto tempo ci avete messo a scriverla?
C'è stata una gran fiammata, l'abbiamo registrata e abbiamo capito che era buona. Ci siamo ritornati sopra imbastendo un testo. L'abbiamo provato. Dopo di che c'è stato un terzo passaggio: ci siamo messi l e abbiamo messo a punto la stesura definitiva. La citazione "Mamma mia la più bella sei tu", che è molto comica, è venuta dai musicisti, anche come testo. Invece il ritornello, "Ad Hammamet / sai dove metter un oggett...", è nato da una mia improvvisazione che loro hanno formalizzato musicalmente. Poi sul palco si è affinata la parte parlata.

Tra tutte le idee musicali su cui lavorate, quante arrivano in scena?
La metà, direi. Ma è sempre difficile capire qual è il pezzo che funzionerà. Lo capisci dopo, facendolo col pubblico.

Per quanto riguarda Hammamet, basta sentirla cantare una volta sul palcoscenico, e si capisce subito che funziona.
Infatti adesso la usiamo come tormentone. Invece "Era meglio morire da piccoli" è il recupero di una filastrocca che mi piaceva da bambino e che mi è sempre piaciuta. A un certo punto ho detto: "Vorrei fare un pezzo che prenda di mira il governo", ma non mi venivano battute e ho detto: "Va bèh, leggo la lista. Mi fai una musica tipo quella del Settimo Cavalleggeri del generale Custer?". Allora i musicisti hanno iniziato a fare la rollata, con la batteria. Poi improvvisando, mentre facevo la lista, mi è venuto in mente che la canzone del generale Custer era come quella filastrocca per bambini che mi ricordavo, e così è nato il pezzo.


Il Circo di Paolo Rossi (1)

La carovana del Circo di Paolo Rossi sta per partire. In queste settimane, prima di trasferirsi a Savignano sul Rubicone (dove lo spettacolo debutterà il 2 marzo), la troupe di Les Italiens ha lavorato sodo nella sala prove sui Navigli.
"Volevamo un po' raschiare il fondo del barile", mi accoglie Paolo. "Pensavamo di prendere alcuni dei nostri pezzi migliori e di rimontarli in un diverso contenitore. Invece stiamo lavorando su moltissimo materiale nuovo, che continua a venir fuori. Tante cose le buttiamo via o le mettiamo da parte, e pian piano lo spettacolo sta prendendo forma...".
E' una vera e propria officina, quella che funziona a tutto regime in quel capannone, senza incazzature o nevrosi (almeno in apparenza) ma con ritmi implacabili. C'è chi legge e chi si guarda batterie di video per rubare ispirazioni, atmosfere, immagini. Poco più in là stanno provando i "C'è quel che c'è". Al computer, qualcuno scrive e riscrive freneticamente le modifiche ai copioni del giorno prima. Antonio Cornacchione (uno dei "mostri" che si esibiranno sotto il tendone) se ne sta andando, così come le ballerine (sì, ci sarà anche una fila di chorus girls!). Fuori dall'ingresso c'è appesa una scritta: "Silenzio si improvvisa". Un costume da giraffa, un altro fatto tutto di spaghetti che sembrano schizzar fuori da un cartone animato.
Lucia Vasini prova e riprova con la coreografa mentre il registratore ripete all'infinito la stessa canzone: "Johnny....". L'importante è cominciare da una struttura gestuale ferrea (e il discorso vale per la musica e per il testo). Prendere il ritmo giusto, padroneggiare la situazione. Solo a quel punto diventa possibile improvvisare.
"All'inizio è stato un lavoro molto fisico, molto diverso da quello che facevamo abitualmente, molto più fisico. Con meno battute: quello sono arrivate dopo". Con un occhio al lavoro di Lucia, Paolo continua a spiegare: "Lo spettacolo è anche una riflessione sul comico. I miei diversi numeri esplorano diverse sfaccettature del comico. Per esempio, c'è il comico più grande del secolo, Adolf Hitler, quello che aveva organizzato con Goebbels quella gigantesca tournée: prima successi colossali in Austria, in Cecoslovacchia, in Polonia, in Francia, poi i fiaschi in Russia, in Africa... Fallita quella tournée, il capocomico se n'era stato per quarant'anni nascosto in Paraguay, e adesso torna perché sente che sta cambiando il vento, e pensa che sia arrivato in momento buono... Un altro pezzo ha per protagonista il Comico di Sinistra, per una specie di satira della satira politica. Poi c'è un pezzo che tengo da tempo nel cassetto, John Belushi che arriva in paradiso. Ci dovrebbe essere anche Lenny Bruce: naturalmente un Lenny Bruce reinventato da noi, alle prese con la nuova destra."
Aggiunge il regista Giampiero Solari: "E' uno spettacolo allegro, ma curiosamente ci sono tanti morti, e una quota notevole di humour noir".
Jubiläm
deve aver lasciato qualche segno...
"Probabilmente non sull'intero spettacolo", precisa Paolo. "Ma senza Jubiläm il pezzo su Hitler non avrei potuto farlo: nasce proprio dalle mie reazioni a quello spettacolo".
Continua Giampiero: "Sono amico di un pittore che vive a Londra, un astrattista duro, che lavora cos: prima riempie la tela con una quantità enorme di colori, che mescola e rimescola e poi la appende, e c'è tutto questo colore che cola. Poi inizia a dipingerci sopra. Gli ho chiesto a che cosa servisse tutta quella preparazione e mi ha detto: 'Quando arrivo alla fine del lavoro, nel quadro devo ritrovare l'emozione, la sensazione da cui ero partito', quella contenuta in quel grumo di colore ormai cancellato dal quadro. E' quello che stiamo facendo noi: pian piano, quasi senza volerlo, stiamo ritrovando tutti gli impulsi e gli stimoli da cui siamo partiti. Stanno riemergendo nel corso del lavoro".
Lucia ha messo a punto la sua parte. Ora lo prova con Paolo-Hitler: deve partire per il fronte, ma quella donna sensuale lo attira e lo trattiene. Il pezzo viene ripetuto un paio di volte, e puntualmente alla fine piovono i commenti. Non è difficile sentire una sequenza di frasi come questa: "La chiave cabarettistica sarebbe quella di rispondere con una battuta ogni volta che chiama Johnny" (Giampiero, il regista); "A me verrebbe di risponderle in tedesco, che so, l'ultima parola che dice" (Paolo, l'attore); "Oppure potrebbe rispondere con un tormentone, sempre la stessa frase" (uno degli autori presenti, che sono Michele e Riccardo Piferi, Gino oggi è in libertà); "Invece Paolo potrebbe fare come nelle comiche del cinema muto" (Lucia); "Ma quello è troppo volgare"; "Il comico non si ferma né di fronte all'assurdo né di fronte all'osceno" (Paolo); "Sono dieci anni che lo dico e sono dieci anni che Michele mi sgrida" (Piferi); "Questo pezzo potrebbe durare tre ore"... E naturalmente commenti su punti specifici: qui sarebbe meglio fare così piuttosto che cosà, citare questo piuttosto che quello, ieri quella battuta funzionava meglio, sì, perché tu prima facevi quel gesto che poi avevamo deciso di togliere, eccetera eccetera. L'intera sequenza viene sminuzzata e discussa, senza che sia mai chiaro il confine tra il cazzeggio (spesso spassosissimo, come le improvvisazioni) e il commento serio, dal punto di vista tecnico ma anche politico, valutando la reazione del pubblico ma anche la logica del testo. Il registratore è sempre in funzione, qualcuno corregge il copione che viene costantemente rivoluzionato e messo a punto nella pratica di palcoscenico.
Il lavoro di Les Italiens procede così, con un metodo ormai collaudato. Si parte da un canovaccio, poi si improvvisa (registrando tutto), discussione, gli autori inseriscono nel copione le modifiche e le aggiunte accettate, usando se necessario la registrazione. Il giorno dopo il processo ricomincia (nel frattempo gli attori l'hanno fissato nella memoria), procedendo per approssimazioni successive, fino al giorno del debutto (e anche oltre).
Sarà una specie di varietà, chiedo a Paolo.
"S, con angeli, santi e diavoli, e soprattutto con molte contaminazioni: il cabaret, naturalmente, poi il circo. E ci sarà anche molta interattività: ci sono diversi numeri con coinvolgimento del pubblico, a comiciare da quello di Maurizio Milani".
Si sente anche una certa atmosfera anni Trenta, che ricorda la Germania di Weimar...
"E' vero. In quell'epoca in Germania funzionavano molto i film con i freaks. Anche il nostro spettacolo sarà pieno di mostri".
Paolo sta per andare a casa, più tardi rifarà un brano dello spettacolo allo Zelig. Sta prendendo quello che gli servirà, poi si ferma: "Ma devo proprio portarmela a casa, la svastica? E se mi ferma la pula?".

Il Circo di Paolo Rossi (2)

Il Circo di Paolo Rossi è in giro per l'Italia. La carovana ha tra le sue attrazioni Lucia Vasini, Bebo Storti, Aldo Giovanni & Giacomo, Antonio Cornacchione, Maurizio Milani, più naturalmente il domatore e maestro di cerimonie Paolo Rossi e gli immancabili "C'è quel che c'è". Il tutto è confezionato in un tendone di 44 metri d'altezza per 1800 posti.
Spiega Michele, che con Gino e Riccardo Piferi è tra gli autori: "Il circo, con la sua classica pista centrale e il pubblico che ti vede da tutte le parti, ci piace perché ricrea un po' la stessa atmosfera del cabaret, con gli spettatori che ti soffiano sul collo e ti trascinano. Solo che non è un pubblico di poche decine di persone, ma è moltiplicato per mille".
In questo Circo ritornano sia l'atmosfera sia i personaggi che animavano il tendone di Su la testa!
"Ma c'è anche qualcosa di Comedians, lo spettacolo che ha lanciato un nuovo tipo di comicità", aggiunge Paolo.
L'inizio del viaggio ce lo racconta il regista Giampiero Solari: "In realtà, a ispirarci non è stata tanto l'aura romantica che aleggia intorno al circo. Piuttosto, siamo partiti da certi film di Fritz Lang, da Lola Montez di Ophls, e naturalmente da Freaks, il film di Tod Browning con nani, mostri e altre attrazioni. E di recente ci è piaciuto Pulp Fiction: un grande fumettone, che però mi interessa moltissimo, perché il modo di pensare del fumetto è uno dei metodi più precisi per analizzare la realtà contemporanea, e si adatta molto bene al circo. Ci piacciono i canadesi del Cirque di Soleil, che fanno un circo molto moderno. E abbiamo guardato i vecchi manifesti, anche quelli dei varietà circensi con le marionette. Abbiamo lavorato su un grande attore e autore napoletano come Scarpetta. Qualcosa dei Clown di Fellini arriva invece dalle musiche di Vinicio Capossela. Poi i libri: per esempio, Sorriso ai piedi di una scala di Henry Miller, che racconta la storia di un clown che va in trance...".
Ma cosa c'entrano tutte queste suggestioni con lo spettacolo? Spiega Giampiero: "Sono amico di un pittore che vive a Londra. E' un astrattista duro, che lavora così: prima riempie la tela con una quantità enorme di colori, che mescola e rimescola. Poi appende il quadro, e c'è tutto questo colore che cola. Poi inizia a dipingerci sopra. Gli ho chiesto a che cosa servisse tutta quella preparazione e mi ha detto: 'Quando arrivo alla fine del lavoro, nel quadro devo ritrovare l'emozione, la sensazione da cui ero partito', quella contenuta in quel grumo di colore ormai cancellato dal quadro. E' anche la nostra idea. Alla fine, tutte le suggestioni su cui abbiamo lavorato, tutti questi materiali, in un modo o nell'altro, magari irriconoscibili, contaminati, trasformati, riempergono nello spettacolo".
Come vi siete preparati per lavorare sotto un tendone?
"All'inizio", spiega Paolo Rossi, "volevamo un po' raschiare il fondo del barile, riprendendo alcuni dei nostri pezzi migliori per rimontarli in un diverso contenitore. Invece abbiamo lavorato su moltissimo materiale nuovo. Nella prima parte delle prove, abbiamo fatto un lavoro molto diverso da quello che facciamo abitualmente, molto più fisico. Con meno battute: quello sono arrivate dopo e continuiamo ad aggiungerle adesso che siamo in scena".
Il vostro è un circo, ma è anche un varietà, ci sono perfino le ballerine...
"Sì", continua Paolo, "e ci sono anche angeli (più o meno azzurri), santi e diavoli. Ci sono, soprattutto, molte contaminazioni: con il cabaret, naturalmente, e con il circo. C'è anche molta interattività, diversi numeri con coinvolgimento del pubblico, a comiciare da quello di Maurizio Milani".
E cosa succederà, in questo circo-cabaret-varietà?
"Lo spettacolo è anche una riflessione sulla comicità. I miei diversi numeri esplorano diverse sfaccettature del comico. Per esempio, c'è il comico più grande del secolo, Adolf Hitler. Con il suo socio Goebbels, aveva organizzato quella gigantesca tournée: prima successi colossali in Austria, in Cecoslovacchia, in Polonia, in Francia, poi i fiaschi clamorosi in Russia, in Africa... Fallita quella compagnia, quel capocomico se n'era stato per quarant'anni nascosto in Paraguay, e adesso torna perché sente che sta cambiando il vento, e pensa che sia arrivato in momento buono... Un altro pezzo ha per protagonista il Comico di Sinistra: è una specie di satira della satira politica. Poi c'è un pezzo che tenevo da tempo nel cassetto: John Belushi che arriva in paradiso. C'è anche Lenny Bruce: naturalmente un Lenny Bruce reinventato da noi, alle prese con la nuova destra."
Aggiunge il regista Giampiero Solari: "E' uno spettacolo allegro, ma curiosamente ci sono tanti morti, e una quota notevole di humour noir".
Jubiläm
, lo spettacolo che avete fatto quest'estate sull'Olocausto, il nazismo e il neonazismo, deve aver lasciato qualche segno...
"Non sull'intero spettacolo", precisa Paolo. " Jubiläm il pezzo su Hitler non avrei potuto farlo: nasce proprio dalle mie reazioni a quello spettacolo".
Si sente anche una certa atmosfera anni Trenta, che ricorda la Germania di Weimar...
"E' vero. In quell'epoca in Germania funzionavano molto i film con i freaks. Anche il nostro spettacolo, l'ho già detto, è pieno di mostri".

Rabelais

Nel suo nuovo spettacolo, Paolo Rossi rinuncia al trampolino dei meccanismi e del successo televisivi, e anche alle facili gratificazioni della satira politica. Prima del 21 aprile, spiega, bastava dire "Fede!" o "Berlusconi!" per scatenare la risata; adesso finalmente "i comici possiamo tornare a farli noi". Per tornare a fare il comico, Paolo Rossi si abbevera al Medioevo più popolare e colto, all'arte di Rabelais, usando addirittura il nome dello scrittore come titolo del suo scatenato assolo.
L'incontro del "piccolo" Paolo Rossi con le avventure del gigante Gargantua scatena una irresistibile alchimia teatrale. Rabelais è un maestro del comico. Le sue opere edificano una gigantesca "accademia pratica" dalla tradizione carnevalesca, anarchica e orgiastica, nutrita di contrasti e inversioni (tra alto e basso, ragione e follia, maschio e femmina, re e schiavo, vivi e morti...); e affinata in secoli di esibizioni da piazza e da mercato, di canti e deliri da osteria, e soprattutto rinvigorita dal trionfo del corpo in tutta la contagiosa voracità del ventre e del sesso. Nel Rabelais rivisitato da Paolo Rossi (con l'aiuto di un pool di co-autori, della regia di Giampiero Solari e della chitarra di Emanuele Dell'Aquila) la deformazione grottesca della realtà - di una realtà umana ricondotta anche alle leggi fondamentali della corporeità - c'è ancora tutta. Ancora illuminata, a tratti, da quella deriva surreale che è uno dei marchi di fabbrica del "cabaret alla milanese".
Ma nella comicità di Rabelais c'è qualcosa di più. Tanto per cominciare, non è satira (o meglio, è prima di tutto un'altra cosa). La satira è un prodotto sostanzialmente parassitario: isola dalla realtà alcuni aspetti, certi elementi (brutture, idiozie, ingiustizie...), e poi li distorce fino a far esplodere la risata. La satira prende il mondo così com'è, e ci disegna sopra uno sberleffo, come i baffi sulla Gioconda. La comicità di Rabelais, invece, disegna semplicemente un altro mondo, una realtà dove funzionano regole diverse. Dove funzionano soprattutto delle "non-regole". Dove si parla un linguaggio diverso. Dove danzano corpi diversi (sciolti, per dirla con Benigni). Dove si liberano altre energie.
Questa comicità non vuol essere una nota o un commento moralistico al mondo così com'è. E' semplicemente un altro mondo, tendenzialmente amorale: quello della festa, della notte, del corpo, del dono, dell'eccesso, forse dell'utopia. Quello della follia, dell'invenzione, della fantasia, della vertigine. Insomma, della risata.
In alcuni numeri di questo Rabelais Rossi si limita a leggere, alla sua maniera, una pagina del Gargantua e Pantagruel: e dopo cinque secoli la carica comica e sovversiva resta intatta, come nell'irresistibile - e sconcissima - "invenzione del nettaculo". A volte Rossi si cuce addosso una
"situazione Gargantuesca": come quando, all'inizio della serata, racconta il suo albero genealogico, che rivaleggia con quello dei Giganti. Ma per inglobare un numero basta un'affinità elettiva: come il feroce ed esilarante "cabaret di Sarajevo", ispirato all'unico monumento della città che non è stato distrutto dalle bombe, il mitico culo di Mirna, la figlia del tabaccaio. O basta appena un pretesto, come quello che permette la rivisitazione di un tema classico della comicità, come la riscrittura del Vangelo "dalla parte di san Giuseppe". Altre volte, per accumulo di situazioni, divagazioni e attualizzazioni, Paolo Rossi approda ad esiti imprevedibili, come nel bellissimo "sogno all'incontrario", i cui protagonisti finiscono per costituire una delle presenze costanti della serata, in cui racconta una Milano da Fahrenheit 451, inventata ma non troppo: dove la cultura è bandita, dove le puttane offrono enciclopedie sulla circonvallazione e gli spacciatori vendono poesie, sotto lo sguardo e l'olfatto vigile di poliziotti e cani "anti-lettura".
Eversivo e vitalistico, colto e popolare, scurrile e umanista, il Rabelais di Paolo Rossi, liberandosi da ogni serietà della vita, costruisce così il suo frammento di utopia. Che però vorrebbe crescere, anche via Internet. Ai suoi tempi, Rablelais s'era immaginato l'utopia dell'Abbazia di Thélème. Oggi, con una specie di referendum tra i suoi spettatori, Paolo Rossi chiede suggerimenti per una nuova Abbazia di Thélème, che confluiranno nel numero finale dello spettacolo: se avete un'idea l'indirizzo Internet è
www.copin.it/paolo.rossi/rabelais.

In convalescenza


Ha una benda sull'occhio, come nella pubblicità della Stream. Ma non è uno scherzo. Anzi, è una faccenda piuttosto seria.
Perché quello che s'incontra di questi tempi (assai di rado, in verità) è un Paolo Rossi assai diverso – che si vuole diverso, e ci tiene a dirlo. A dicembre stava provando, al Piccolo, l'Arlecchino. La metamorfosi era quasi avvenuta: "Ormai provavo sempre con la maschera". Poi è arrivata una raffica di influenze con ricaduta, e alla fine non ci vedeva più, non stava più in piedi. "I sintomi non facevano presagire niente di buono", racconta. A gennaio è finito al reparto neurologia del San Raffaele. Per due settimane è rimasto bloccato su una sedia a rotelle, cieco – come Hamm in Finale di partita. Non lo si vedeva più in giro, hanno cominciato a girare strane voci.
"Purtroppo (per alcuni) non è Aids, le conseguenze dell'alcolismo o della tossicodipendenza", spiega Paolo."Mi sono beccato un virus nuovo, esibizionista e burlone". Ricorda il nome dei medici che hanno dato il nome alla malattia, Miller-Fisher. Per gli scettici esibisce il certificato medico, aggiunge che tutto quel che deve fare, adesso, è starsene buono buono per i tre mesi di convalescenza. "È un virus autolimitante, di quelli che se ne vanno da soli, il mio organismo reagisce bene, sarà un recupero lento ma naturale. Se fossi stato un impiegato, mi sarebbe bastato un mese di convalescenza, ma siccome faccio un lavoro agonistico ci dev'essere più attenzione nel recupero, i controlli devono essere più accurati".
La stagione, insomma, è già finita. Paolo ha ancora un paio di cosette in sospeso – che farà dal divano: deve fare alcune pecette per il Rabelais che Raidue trasmetterà in primavera, e dovrà rimettere la benda (finta ma purtroppo profetica) per una coda dello spot. Ma per il resto la stagione è finita. E Arlecchino?
"Lo farò. Il problema è quando. Stava venendo benissimo, la compagnia era strepitosa".
Ma c'è dell'altro, e Paolo ci tiene a sottolinearlo.
"Dopo un mese di neuro, dai un senso diverso ai valori basici della vita. Non vedo più le cose come prima, le scale di valori si sono invertite. Quella situazione mi ha fatto vedere il film del passato. Fino a quel giorno, ho vissuto molti privilegi, spensierato, sforzando il fisico al massimo. Ora, anche come artista, devo pormi delle questioni. Di certo il mio lavoro non sarà uguale a prima. Devo ritrovare certe cose che ho perduto. Il mio sarà un lavoro più contro, più umano, più politico, più creativo. Le malattie, se gli dai un senso ti possono aiutare. Come mi ha detto al telefono Vinicio Capossela, se la vita ti da dei limoni, devi spremere limoni".
E adesso?
"Intanto non voglio dimenticare quello che mi è successo. Il medico mi ha detto che è importante ricordare, ma che spesso tendiamo a dimenticare".
Forse è anche per questo che Paolo a deciso di raccontare la sua malattia: come una specie di promemoria per il futuro. E adesso che cosa farai?
"Sono nella fase il cui sto mandando a fare in culo una certa leggerezza, sia mia sia di altre situazioni e persone. Nella prossima fase, forse mi chiederò cosa mi resta, cosa mi ritorna. Ma sarebbe sbagliato decidere in anticipo quel che mi deve capitare".
In ospedale, ridere ti ha aiutato?
"Mi è tornato un umorismo che non mi riconoscevo da una vita, su di me e sugli altri. E lì c'era gente che faceva ridere molto più di me. Chi riesce a far ridere in quei luoghi, fa certamente quello che dev'essere il servizio del comico. Mi è tornata in mente una battuta di Comedians: c'è una comicità che è come le caramelline, serve per dimenticare ma ti guasta i denti. E ce n'è un'altra che allenta la tensione, che sposta il punto di vista: una comicità di servizio".
Dove andrai in convalescenza?
"Non lo so. Ma mi porto dietro la maschera di Arlecchino".

Romeo & Juliet

È difficile per un personaggio che ha attraversato tutti gli stadi del successo televisivo, con i suoi alti e bassi, ritrovare un rapporto autentico con il pubblico teatrale. È assai arduo per il divo, ma contraddice anche le abitudini di un pubblico assuefatto a moduli di fruizione predeterminati. A Paolo Rossi va riconosciuto tanto per cominciare il merito di averci provato, uscendo dai sentieri più praticati per rischiare in prima persona. Nel Romeo & Juliet (visto al tendone No Limits di Milano, con una platea opportunamente ridotta rispetto alle masse televisive richiamate da Aldo Giovanni e Giacomo) fa quello che molte avanguardie teatrali hanno teorizzato e che la neo-televisione alla Stranamore o Scherzi a parte pratica da tempo, anche se spesso con qualche inganno e sotterfugio: trasforma gli spettatori in attori.
Romeo, Giulietta, i loro genitori, Benvolio, i servi delle fazioni rivali, vengono assoldati nel foyer del teatro, appena prima dell'inizio della serata e promossi all'istante protagonisti. Come Carmelo Bene, Rossi si riserva il ruolo di Mercuzio, almeno per il celeberrimo monologo della regina Mab, per poi cederlo nel finale della serata, che in effetti copre solo i primi due atti della tragedia shakespeariana, al cantastorie senegalese Modou Gueye. La scelta ludica e provocatoria di coinvolgere il pubblico vuol essere una critica implicita alla società dello spettacolo, che tuttavia usa molti dei suoi meccanismi: dal diritto di ciascuno di noi al suo quarto d'ora di celebrità, profeticamente sancito da Andy Warhol, al fatto che ormai siamo tutti allenati a esibirci in pubblico da un'educazione a base di tv. E ovviamente la riuscita di questa Serata di delirio organizzato non può prescindere dal carisma e dall'abilità del regista-in-scena, un Paolo Rossi che torna al teatro dopo una lunga assenza, entusiasta e incontenibile – una specie di Maradona in una partita del campionato giapponese.
In effetti il "teatro di rianimazione", come si definisce questa forma di spettacolo altamente interattivo, usa tecniche assai antiche, un sapere tradizionale, di recente formalizzato e ripreso nelle varie forme di animazione teatrale, dallo scolastico al turistico. Non a caso Rossi ha voluto in compagnia, oltre a una coppia di musicisti (Emanuele Dell'Aquila e Pepe Ragonese) e a un comico con chance televisive (Giovanni Caccioppo), un cantastorie e un artista di strada (il francese Gerard Estrème). Rossi (che tempo fa, in una Tempesta con Carlo Cecchi, era stato Ariel, il folletto che realizza le magie teatrali di Prospero), conduce ora con una zazzera fiammeggiante e un costume vagamente clownesco una sgangherata prova aperta nella quale il testo viene analizzato, commentato, discusso, parodiatoà E insieme preso assai sul serio, in molti di quelli che sono i suoi valori più autentici.
Costruita intorno a una vicenda stranota (che non a caso è anche al centro di un successo mondiale come Shakespeare in Love), la serata è un'operazione esplicitamente pedagogica, una rianimazione (appunto) dei sensi e dell'intelligenza dello spettatore imbalsamati dai mass media.
Il comico viene usato come chiave per aprire i diversi snodi drammaturgici e teatrali, per misurare la distanza del classico dall'attualità (non mancano battute "politiche"), per suggerire costantemente mondi diversi, altre possibilità d'esistenza. Perché la risata può incorniciare e commentare qualsiasi situazione, smascherandone i presupposti ideologici: è uno degli snodi dello straniamento brechtiano, che Rossi e il suo abituale co-autore Riccardo Piferi hanno compreso e utilizzano con efficacia.
C'è un altro meccanismo in atto: l'uso di "attori per caso" e l'improvvisazione mantengono costantemente viva la tensione, come in un numero d'acrobati del circo. Chi accetta di prestarsi al gioco indossando per una sera i panni di Romeo può esagerare per compiacere pubblico e platea, oppure irrigidirsi e rifiutare di baciare Giulietta, perché c'è in sala una fidanzata gelosa, mettendo in imbarazzo gli attori-attori, cui toccherà ricucire lo strappo con la loro superiore sapienza. Questa imprevedibilità, per eccesso di confidenza o per blocchi di timidezza, è connaturata al "qui e ora" dell'evento teatrale, ma in questo caso viene spinta fino al suo limite estremo e utilizzata come continua fonte di divertimento (rifiutando però le crudeltà gratuite nei confronti dei giocatori).
Spettacolo teatrale che non si può vedere solo con sguardo teatrale (non a caso in scena sono costantemente accesi due televisori per "chi si annoia"), Romeo and Juliet gioca con i meccanismi più elementari e insieme profondi della scena. Istruttivo senza mai essere serioso, riesce a far ridere rispettando Shakespeare, demistifica tutto quello che può ma al tempo stesso suggerisce che vale la pena di prendersi qualche responsabilità nei confronti della cultura.


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