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Il nuovo teatro italiano 1975-1988
La ricerca dei gruppi: materiali e documenti
di Oliviero Ponte di Pino
La casa Usher, Firenze, 1988
© copyright Oliviero Ponte di Pino, 1999

Parte 7
Ritualità postmoderna
OUT OFF

Fumetti e modelle, fotoromanzi e canzonette, listini di borsa e attrezzi sportivi, pubblicità della Coca-Cola e gadgets di plexiglas: potevano essere questi gli ingredienti di una performance di Antonio Syxty, rubati alla sottocultura e alla sfera del consumo, prelevati dal rincorrersi adolescenziale delle mode e trasformati in "teatro", in un intreccio voluto di superfici e superficialità che attraversava liberamente generi e codici.

Chi ha assistito nelle ultime stagioni a uno spettacolo di Syxty non ritrova certamente quella dimensione: emerge invece un approccio più personale, quasi intimo, un labirinto di sensazioni e sentimenti spesso impalpabili, contraddittori, un continuo coagularsi e dissolversi di identità, in una operatività che si è concentrata sulla scrittura e sull’approfondimento del lavoro sull’attore, due elementi che le performance cancellavano programmaticamente.

Restano però, a legare questi due approcci, alcune linee di continuità: il senso della gratuità dell’atto teatrale, destinato a dissolversi appena oltre il "qui e ora" dello spettacolo; la necessità di ridefinire ogni volta l’evento scenico; l’ansia di misurarsi con la contemporaneità, attraverso le varie poetiche del postmoderno: prima negli specchi della società della comunicazione e dell’immagine, ora nella dissoluzione di una soggettività che sta svaporando e che può forse trovare nell’evanescente impotenza dell’attore e del personaggio il suo modello.
 

CONVERSAZIONE CON ANTONIO SYXTY

Un punto di partenza: Marcei Duchamp.

Penso che da Duchamp si possa imparare un certo atteggiamento nei confronti del fare artistico, allargabile a tutti i campi, dalla pittura alla musica, al teatro, al cinema... ma soprattutto al teatro, che racchiude un po’ tutte queste arti. Il suo atteggiamento sempre euforico è quello dell’uomo contemporaneo, sempre ricco di autoironia, di capacità di giudicarsi e di non raggiungere mai un prodotto da tramandare ai posteri. E di pensare, in ogni caso, che quando si è raggiunto questo oggetto bisogna abbandonarlo per cercarne un altro... Si crea così un percorso continuo all’interno del fare artistico. Questa in teatro mi sembra la lezione più attuale: non fermarsi al singolo testo o al singolo spettacolo, ma lavorare a un progetto.

Parlavi prima di euforia: molti lavori di Duchamp mi sembrano invece piuttosto freddi, calati in una dimensione tutta mentale.

Non necessariamente. La posterità crea poi una sorta di filtro, che in questo caso è quello dell’arte concettuale. In realtà quella di Duchamp è un’euforia in un senso allargato. Penso sia l’espressione dell’uomo contemporaneo, di un uomo proiettato nella cibernetica: quindi è necessariamente mentale, ma non per questo manca di istintività, di sensualità; c’è quel continuo giocare, mettersi in gioco, recitare, cioè teatro: giocare con il fare artistico, come il giocatore di carte o di scacchi, e muovere le pedine dell’estetica.

Proviamo a considerare alcune delle pedine con cui hai iniziato a giocare. Uno degli elementi che caratterizzavano i tuoi primi lavori è stato il ricorso a forme di cultura "bassa": il fumetto, la fantascienza, le canzonette... Quale era l’atteggiamento che ti spingeva a utilizzare questo tipo di materiale?

In quegli anni la postavanguardia, così veniva definita, usciva dal teatro-immagine, da un teatro concettuale, analitico, magari condizionato dall’arte povera, dalla body art. Subito dopo, insieme ad altri, siamo passati a una specie di disgregamento di tutte queste forme, per arrivare a un azzeramento totale, secondo me identificabile con la nuova spettacolarità: cioè al punto in cui si lavorava solo sulla superficie.

Parlavi di azzeramento. Significava andare a recuperare all’interno della dimensione culturale gli elementi più vicini alla quotidianità?

Lavorare su materiali di rifiuto, di largo consumo, legarli insieme per costruire una situazione teatrale o performativa. Simulando, nel mio caso, determinati meccanismi del mercato.

Sono materiali di rifiuto che però moltissima gente consuma...

Per esempio le canzoni di Mina e Fred Buongusto, nel mio caso, nel caso di altri il rock o la pornografia... Innescavano meccanismi di riproduzione, di simulazione del contemporaneo, del reale. Però non più con una base artistica di un certo tipo, allargando invece l’orizzonte ai mass media. Così, materiali che ancora non avevano contaminato il teatro, mentre sicuramente avevano già contaminato le arti visive, vi sono entrati di colpo.

Come funzionava il loro assemblaggio?

Nel mio caso alla base c’era un discorso di scrittura letteraria. C’era una storia: poteva essere, come in Eloise, quella di due donne che si specchiavano l’una nell’altra. Prendevo una serie di riferimenti al porno soft, tipo Emmanuelle, oppure la musica che accompagna quei film, la moda. Poi mischiavo quei materiali: in quel caso veniva presa a modello la seduta fotografica per uno spot di moda, che veniva intrecciata e assemblata in modo da costituire una sorta di finzione su un fatto reale; che però si annullava, non accadeva. Venivano mischiate tutte queste cose, in maniera molto superficiale, usando cioè solo elementi di pura superficie, o anche "stupidi". In effetti dietro non c era niente altro, lo spettacolo valeva per quello che era.

Come impatto visivo, erano generalmente spettacoli senza un filo narrativo, che sembravano funzionare piuttosto per associazioni.

Partivo da una situazione, da una storia che doveva poi dissolversi, diventare solo una copertina. Come quando si fa un servizio di moda: ci si mette a tavolino e si parla di un’ambientazione o di un intreccio, di una storia. Poi, quando si va a realizzare il servizio, quest’intreccio man mano si perde, si alleggerisce fino a diventare carta stampata, si condensa nell’immagine finale. Si mischiava tutto questo in maniera abbastanza libera, senza una traccia, senza preoccuparsi di un prodotto, perché si facevano performance basate su eventi, su situazioni. Funzionava a meraviglia come percorso di ricerca; mentre il singolo spettacolo, come prodotto finito, probabilmente aveva diverse incongruenze, anche perché non c’era una grammatica, si stava formando allora. Era un bel periodo. C’era un’euforia veramente globale, fermenti da tutte le parti, personaggi, critici e non, che erano grandi fautori della nuova spettacolarità; anche se, all’inizio, è stata accettata non senza contrasti.

Quali sono, tra i tuoi spettacoli, quelli che più corrispondevano alla poetica, ammesso che sia esistita, della nuova spettacolarità?

Quello basato sull’uccisione di Kennedy, Eloise, e Ragazze ’81, con le modelle, le ragazzine che raccontavano la loro storia al microfono, si truccavano e venivano riprese dalla telecamera... Si era arrivati a un effimero totale, non c’era più niente dietro. Quello che mi interessava in quel periodo non era arrivare a uno spettacolo chiuso e finito, ma cercare un modus operandi.

Nel 1981, con Famiglia Horror, ho dichiarato finito quel periodo. Famiglia Horror voleva esser un riassunto del percorso fatto fino ad allora, ma conteneva un elemento inquinante: il testo, che già portava da un’altra parte, che già conteneva in germinazione quel che sarebbe venuto dopo. Tutto il resto poteva andare bene: le modelle, le ragazze che danzavano (e non danzavano), l’apparato scenico dello Studio Alchymia, i vestiti di Krizia, le musiche di Battiato, le architetture di Mendini: era la festa di tutte queste cose.

Se tu avessi seguito ancora quella direzione, saresti riuscito a costruire una formula spettacolare funzionale a un certo tipo i pubblico?

Secondo me, sì; ci sono anche altri esempi, vedi Falso Movimento.

Ma questa strada è stata quasi subito abbandonata praticamente da tutti.

Perché non ha un fondamento, non l’aveva già in partenza: era una pratica e non poteva diventare un modello; preludeva a qualcos’altro, era un po’ come un’araba fenice, doveva far morire una certa situazione per poi rinascere.

È stato un percorso di appropriazione di una serie di tecniche, di meccanismi, anche se poi ha preso una direzione diversa: non c’è stata l’accettazione delle regole del gioco della simulazione...

e di quelle del mercato. Come chi, per una sera, si mettesse i vestiti più belli del mondo; il giorno dopo si guarderà allo specchio, e siccome quei vestiti non gli hanno aggiunto niente, gli hanno semplicemente dato la follia di una sera, allora rimetterà i vestiti di sempre e riscoprirà se stesso: senza follie, in maniera forse più vera.

Avevi individuato il punto di frizione, l’inadeguatezza di Famiglia Horror nel testo. In che senso la parola faceva slittare il meccanismo?

In sé il testo conteneva delle ingenuità che ora, a distanza di tempo, posso capire. Allora no: ma non crederò mai che chi si occupa di ricerca possa capire esattamente quello che sta facendo. C’era una specie di schizofrenia interna al lavoro: da una parte una commistione di tutti gli elementi tipici della nuova spettacolarità; dall’altra, forse inconsciamente, questa commistione non poteva, da sola, diventare spettacolo, non costituiva un fatto teatrale.

Dal tuo punto di vista o da quello del pubblico?

Dal punto di vista del pubblico probabilmente era sufficiente. Era un mio problema: se io non l’avessi avuto, probabilmente sarebbe stato un lavoro riuscitissimo, che avrebbe accontentato tutti.

Un prodotto in qualche modo facilmente consumabile.

E facilmente utilizzabile come bandiera. Ma in Famiglia Horror c’erano due anime: una era l’anima duchampiana, la spinta a distruggere quello che stai facendo; l’altra, che subentrava, era un discorso mio personale: riuscire a motivare tutto questo apparato, questa macchina spettacolare.

Provenivo dal teatro, non potevo non avvertire la necessità di un testo, di una narrazione; quello di Famiglia Horror. Ovviamente non era recitato, ma registrato su nastro, con voci di doppiatrici che simulavano la radio. Ma era sotteso a tutto lo spettacolo e costituiva un elemento stridente, perché nei lavori della nuova spettacolarità le regole del gioco erano diverse, il testo entrava per rimandi, per citazioni, insomma per schizofrenia, in maniera coatta: non autonoma, dall’interno. Invece il testo, in quello spettacolo, per la quantità del parlato e per il modo in cui era inserito, non lasciava libero di volare tutto l’apparato, lo inquinava. Ma il testo era la porta per abbandonare la nuova spettacolarità.

Passata quella barriera si apriva un’altra prospettiva.

Che era quella del "modello-attore". Prima parlavo di modello come problema di simulazione: allora, per esempio, era l’elemento della seduta fotografica, che trasmetteva una finzione surreale... Ritornando invece a una forma rituale e primitiva del teatro, i modelli non erano più questi ma l’attore. E l’attore non poteva più essere il performer; ma doveva diventare una macchina parlante, non più registrata ma dal vivo. Il modello-attore ha bisogno di parole per raccontare una storia; una storia più chiara, perché come tramite ha solo l’uomo che racconta, mentre prima aveva come tramite l’aspetto massmediologico della comunicazione.

Si trattava di restringere il fuoco su un solo elemento?

Esatto. Quindi, dopo Famiglia Horror, quasi come un manifesto, ma anche per provocare, abbiamo fatto Il grido, uno spettacolo basato su testi miscelati da me, tratti da Rimbaud e dalla fantascienza, con una situazione definita: un uomo e una donna in una camera da letto, con un terzo uomo che li guarda. Lo spettacolo, presentato all’interno di un festival dove si parlava solo di video-teatro, di teatro e rock, venne preso da molti come una provocazione bella e buona. Ma era proprio questo il nostro atteggiamento, deve essere questo l’atteggiamento di chi fa sperimentazione: non prendersi sempre sul serio. Ogni tanto bisogna provocarsi, non capirsi. Non era un testo totalmente riuscito, ma muoveva i primi passi in quella direzione.

Il problema per il modello-attore era (ed è) che cosa l’attore dice, perché lo dice e quando lo dice. Questi tre elementi danno l’equazione teatro = vita, permettono di parlare di ritualità del teatro. Era quasi un ritorno al primitivo, e l’abolizione ferrea, per quanto mi riguardava, di tutte le forme di mediazione massmediologica: niente più fari né effetti spettacolari, ma la candela; niente più costumi di Krizia, ma le pelli primitive; eliminare dal vocabolario tutto quello che poteva essere legato alla contemporaneità più effimera. È l’uomo delle caverne che cerca di esprimersi. Il problema era che questo non rimanesse solo un atteggiamento; all’inizio in effetti lo era, ma poi doveva diventare una necessità. Quindi ho studiato, per quanto mi è stato possibile, il percorso dell’attore all’interno del fatto teatrale e del mio percorso di regista e di scrittore. Poi c’è stata, anche per necessità, la scelta di non lavorare più su un palcoscenico, in teatro, ma in spazi diversi, che coinvolgessero un altro tipo di situazione spettacolare, con un lavoro quasi da set cinematografico. Andavo, insieme all’attore, a cercare uno spazio e lo facevo diventare il luogo del rito, con tutti i problemi del caso. C’erano due tipi di difficoltà: in primo luogo, l’attore non capiva, non entrava in questa logica; poi il testo te lo dovevi cercare, perché aggrapparsi ai classici non serviva a niente, mentre era necessario un testo che contenesse una contemporaneità. Una scappatoia poteva essere il testo lirico, e infatti in quel periodo si cominciava a parlare di teatro di poesia.

Si trattava di recuperare la parola in una dimensione rituale, non quotidiana, non psicologica?

Essenzialmente rituale, anche se il recupero poteva passare per la quotidianità degli elementi.

Prima hai detto che di quel che avevi /atto nel primo periodo non hai tenuto niente; mentre tante cose, a mio parere, sono rimaste.

Nel senso visivo, forse. Nel senso del percorso, che per me è sempre uguale. Sono sempre lo stesso, con la stessa idea, che chiaramente cambia: ma la radice è sempre la stessa. Quindi è inutile cercare lo psicologismo, non c è nessuna psicologia del personaggio. Anche nelle metodologie attorali: non esiste nessun metodo, ma solo simulazioni di percorso che rendono più vero quello che l’attore dice. Più rituale, più contemporaneo. L’attore contemporaneo - non sono il primo a dirlo - è una scatola vuota, un vuoto aperto: riceve una serie di input, è una specie di mixer e non può che funzionare da mixer. Questo era vero già per le performance, che erano mixaggi.

Volendo cercare una logica comune: mentre prima il gioco era la simulazione di un mondo, ora si tratta della simulazione di una persona. Non a caso la situazione drammatica di base di molti tuoi spettacoli è quella della proiezioneident4icazione di due personaggi...

Posso fare un parallelo tra Eloise, la performance con le due modelle, e Il filo pericoloso delle cose: sono identici, ma cambiano i motivi e le esigenze. Il teatro rimane se diventa testo, un evento che puoi ripetere. Gli happening molte volte non erano nemmeno documentati: quelli documentati e più strutturati li potresti forse ripetere, ma oggi avrebbero un sapore favolistico.

Ma a questo punto non rischi di privilegiare ancora una volta il prodotto, l’opera, rispetto al percorso?

Certo, ma è necessario. Il teatro non può identificarsi, oggi, con una contemporaneità legata a altre forme spettacolari come la televisione, il cinema. Prende dall’una e dall’altro, ma poi deve trasformare tutto in maniera autonoma. E per essere aut6nomi, bisogna stare da soli.

Un altro modo di leggere il percorso degli ultimi anni segue l’evoluzione della scrittura.

Per quanto riguarda la scrittura, ovvero cosa far dire all’attore, mi sono mosso inizialmente in modo complesso e confuso. Cercavo una problematica e una scrittura contemporanee. Si parlava di teatro di poesia; ma, nel mio caso, questo limitava l’attore, che diventava una specie di macchina parlante, mentre il testo non riusciva a farsi scrittura perché mancavano una serie di elementi esterni come la scenografia, che volevo assolutamente abbandonare per occuparmi del modello-attore. Per La corsa dei mantelli e Il grido ho utilizzato materiali di poeti; per Un milione di domani ho cercato un testo lirico. Mi sono accorto, però, che nel mio caso era come mettersi delle pietre in bocca. Così con La corsa dei mantelli si è conclusa una trilogia in cui c’è un lirismo sotteso.

Ma il problema rimaneva, e ho deciso di scrivere io stesso i testi, di strutturare drammaturgicamente qualcosa che offrisse all’attore una possibilità di modellarsi sulla scena. E ho finito per attingere a una certa narrativa, considerata postmoderna. Lo scopo principale dello scrittore postmoderno è quello di recuperare una determinata struttura, un’ambientazione, una forma del passato, e inserire in questa forma un’afasia, una schizofrenia di scrittura, di personaggio, di narrazione, che sono invece contemporanee. È il vecchio romanzo di Stevenson agito da un uomo moderno.

È il recupero di una forma in cui inscrivere il proprio disagio, la dissoluzione del soggetto e del suo linguaggio.

Ma alla fine sembra che non ci sia una forma. L’importante, in questo tipo di letteratura, è l’atteggiamento nei confronti di quel che si scrive o si fa. Non è psicologico, non è assolutamente compiaciuto, non è catartico, ha sempre il problema dell’io narrante; quindi, di riflesso, è il problema dell’attore recitante. Si tratta di non riuscire a raccontare una storia, pur raccontandola. Il termine postmoderno in questo caso non va riferito perciò a esperienze come la nuova spettacolarità.

Cioè l’assemblaggio di tecniche ed elementi presi da altre epoche, disciplina, contesti...

Questo materiale narrativo per me è stato fondamentale. Sono nati così Tartarughe dal becco d’ascia, ambientato in una cella frigorifera e ispirato a un racconto di William Gass, e Fessure esemplari & rumore del buio, ambientato in uno scantinato, ispirato a James Purdy; un autore americano, anch’egli degli anni Cinquanta. Poi è stata la volta di Ian McEwan, che è uno scrittore inglese, per Lontani dal paradiso. Mi sono messo dalla parte di chi scrive e di chi mette in scena, in maniera diversa dal solito drammaturgo, perché non sono né drammaturgo, né scrittore. Ho sempre chiarito, infatti, che non scrivo solo il testo da rappresentare, ma tutto lo spettacolo.

Simmetrico a questo problema è il recupero della parola da parte di attori appartenenti a una generazione che si era espressa raramente con le parole.

Di solito l’attore si pone davanti a un testo contemporaneo con il suo bagaglio tecnico e culturale. Quando non ha questo bagaglio, vuole che il regista gli crei la situazione: ma mi sono sempre rifiutato, ho sempre negato all’attore ogni tipo di sicurezza. L’attore più colto, che al di là di un metodo si è comunque messo in discussione come persona, si avvicina di più alla mia prospettiva, anche se di solito lavora in chiave psicologica.

Perché questa irritazione nei confronti della psicologia?

È un canale edonistico troppo forte per chi fa un certo percorso: il narcisismo dell’attore diventa mostruoso. L’attore "psicologico" diventa automaticamente minimalista, si concentra su se stesso: non ha più la coscienza della ritualità, perché punta sul soggettivo. Nei miei spettacoli molti cercano la psicologia, perché è un modo di giustificare il fatto teatrale e l’attore in scena: per me invece l’attore in scena non è giustificabile tramite la psicologia.

È un’operazione in negativo: togliere sia agli attori che allo spettatore i punti d’appoggio su cui costruire un’interpretazione dello spettacolo.

La pura spettacolarità è stata abbandonata per il contenuto. Per poter arrivare ai contenuti ho dovuto togliere, lavorare in negativo, essere volutamente insoddisfacente, per me e per gli altri; per raggiungere l’unità del personaggio, sono dovuto passare dall’afasia dell’attore, per poi rimettergli in bocca un messaggio. Considero l’ultimo lavoro, basato su una sceneggiatura di Antonioni, come la fine di un percorso di scrittura ispirata a un testo letterario. Il prossimo lavoro non sarà più tratto da un romanzo: finalmente mi sento libero di far dare da un attore un messaggio al pubblico.

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