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Le eccezioni e le regole
Sei spettacoli teatrali su Raidue
di Oliviero Ponte di Pino
 

Pubblicato originariamente sul "Patalogo 19"
 

Il 9 ottobre 1997 una trasmissione ha mandato in frantumi molti luoghi comuni sul teatro in televisione. Era un giovedì, quel giorno era arrivato l’annuncio del Nobel a Dario Fo. C’era aria di crisi di governo, e infatti Fausto Bertinotti era ospite di Santoro a Moby Dick per illustrare agli italiani le sue minacce a Prodi. Su Raiuno sfilavano le più belle modelle del mondo, con gli abiti dei più famosi stilisti. Insomma, una serata con diversi appuntamenti di forte richiamo.

Eppure quella sera un attore sconosciuto al grande pubblico, mai visto in televisione o al cinema (a parte qualche trascurabile comparsata) ha sbancato l’Auditel con un monologo di oltre due ore e mezza su una tragedia dimenticata e vecchia di oltre trent’anni (insomma, rimossa), tra lo sbalordimento dei funzionari Rai e degli esperti. Alle stelle saliva invece l’entusiasmo di Carlo Freccero, il direttore di Raidue che malgrado tutto e tutti aveva tentato quella scommessa.

Tre milioni e mezzo di spettatori sono una cifra incredibile per un programma del genere, oltretutto inclassificabile. Un giornale l’annunciava come "documentario", un altro come "dibattito", un terzo come "film drammatico", qualcun altro semplicemente non lo classificava. In ogni caso nessuno aveva osato la definizione tabù: "teatro". Insomma, roba adatta al massimo alla seconda serata di "Palcoscenico" o magari ai quattro gatti e ai videoregistratori di Fuori orario.

Invece, dopo mesi di lamentele e polemiche sulla scarsa qualità della programmazione televisiva, sulla mancanza d’idee dei palinsesti, sul logorio delle solite "teste parlanti", la forza e il successo dello spettacolo di Marco Paolini, Gabriele Vacis e Felice Cappa hanno suscitato un vivace dibattito tra critici e dirigenti televisivi, fino agli "Oscar" della televisione vinti dal Racconto del Vajont il 23 aprile 1998. (Va aggiunto che in tre anni il Vajont – con la sua programmazione in luoghi spesso marginali, eccentrici rispetto al normale circuito – non aveva affatto messo in discussione i meccanismi del "luogo d’origine" di Paolini, il teatro.)

Le ragioni di un successo del genere sono tante, e non casuali (anche se non sono calcolabili a priori, e paiono difficilmente riproducibili). In primo luogo dietro a questo exploit ci sono gli anni di lavoro dell’attore-autore veneto, che con i suoi "Album" – un’autentica Heimat all’italiana in forma di monologo – ha messo a punto raffinati meccanismi di scrittura e di narrazione: non a caso il primo "Album" inizia proprio negli anni della catastrofe del Vajont e con un viaggio in treno, a recuperare il filo della memoria. Poi, sempre sul versante artistico, c’è stato il lungo lavoro su questo "non spettacolo", cresciuto a partire dal 1993 in centinaia di repliche, grazie anche alle reazioni e al contributo degli spettatori: negli appartamenti degli amici e nei centri sociali, nelle scuole e nei manicomi, nelle piazze e nei teatri. È stata anche questa elaborazione e verifica collettiva a dare all’attore autorevolezza e legittimità di testimonianza. Sul versante dell’attenzione del pubblico televisivo, c’è senz’altro la ferita aperta dei molti misteri italiani, di cui questa tragica vicenda rappresenta un caso esemplare. E vi forse ha contribuito anche – seppure tangenzialmente e con qualche equivoco, visto che la memoria che mette in gioco Paolini è una memoria viva, attiva – il filone così ricco di sentimenti della nostalgia (che proprio su Raidue ha in Paolo Limiti il suo dolciastro cantore).

Anche le modalità della trasmissione – qualche critico televisivo ha accusato la regia di scarsa inventiva – hanno contribuito a creare l’evento: in diretta, la sera dell’anniversario, dal luogo della catastrofe, con un pubblico attento e commosso, una lavagna e mille persone sul costone della montagna. L’attore quasi sempre in primo piano o in piano americano, come sfondo l’impressionante scenario della diga, qualche immagine di repertorio, diverse inquadrature degli spettatori, qualche sbavatura registica a rafforzare l’effetto-diretta. Nell’insieme un mix di fortissimo impatto emotivo, in grado di imprimersi con forza nella memoria e nell’immaginario. Uno dei rari casi in cui andrebbe speso – se non fosse stato svalutato – il termine nazional-popolare: l’occasione offerta alla comunità di riflettere (anche criticamente) sulla propria storia e sul patto di cittadinanza.

Date queste caratteristiche, va ribadito che si tratta di un’operazione che è difficile programmare a freddo. Il racconto del Vajont ha preso la sua forma dopo una lunga gestazione, lontano dai mass media, seguendo un lungo itinerario di ricerca che l’ha sovraccaricato di significati e di contenuti. È sorretto da motivazioni umane e politiche che trascendono il consumo e il cinismo televisivi. Anni di lavoro, di letture, di incontri, di esperienze: il video consuma tutto questo in una sera, moltiplicando la platea dalle migliaia ai milioni di spettatori. Impone una posizione isolata e quasi personale, una verità occulta e dimenticata, al centro del dibattito civile. Simmetricamente, dopo, lo spettacolo teatrale, la sua energia, il suo impatto politico, rischiano di perdere senso, a prescindere dalla volontà e dalla consapevolezza di autori e spettatori. Grazie alla televisione, il lavoro ha già raggiunto – in pratica – tutto il suo pubblico potenziale; la denuncia civile e politica è già esplosa; tendono a entrare in gioco i meccanismi del divismo. Dopo il trionfale passaggio su Raidue, il Vajont si ritrova inserito in un contesto che ne altera il significato e l’effetto, e incide sul rapporto con il pubblico. Non ha più senso fare altre decine e decine di repliche militanti. Possono mantenere una forte carica simbolica ed emotiva poche rappresentazioni, fatte in occasioni particolari (Paolini già "celebrava" con Vajont una sorta di rituale laico il 9 ottobre, nei paesi della tragedia, e il 12 dicembre a Milano).

Il Vajont non è stata l’unica incursione in un certo teatro nella programmazione di Raidue. Carlo Freccero e il suo collaboratore Felice Cappa (che firma gli adattamenti televisivi e nel caso di Marino libero! Marino è innocente! il programma) hanno chiamato a lavorare altri autori-attori di forte personalità, tutti iscrivibili a vario titolo sotto l’etichetta (discutibile come tutte le etichette) di "teatro di narrazione": Moni Ovadia, Marco Baliani, Dario Fo, mentre il "profeta" Beppe Grillo restava in esilio, confinato nel ghetto di Tele+ con le repliche dei suoi vecchi spettacoli. (Nel palinsesto di Raidue non hanno ovviamente trovato posto solo i "narratori", ma anche esperimenti in altre direzioni: da Testori interpretato da Sandro Lombardi all’Annuncio a Maria con la regia di Antonio Syxty.)

La collaborazione ha avuto modalità ogni volta diverse, che vale la pena di approfondire. La presenza di un attore monologante, solo in video per ore, sembrerebbe andare contro tutte le regole della neo-televisione, dove nei talk show si ha diritto di parola al massimo per un minuto e mezzo, e in genere per scatenare un qualche battibecco; oppure, nel caso delle macchiette comiche, si possono ripetere gli stessi tre minuti fino allo sfinimento. Tuttavia l’attore-monologante guadagna ben presto una diversa autorevolezza, forse perché mette in atto una strategia comunicativa come quella della narrazione, profondamente radicata in tutti gli esseri umani. E poi a differenza del "normale" teatro ripreso per la televisione – che tende a mantenere i propri ritmi e tempi rallentati, e una recitazione convenzionale – il solista riesce più facilmente a modulare la propria presenza rispetto al mezzo. È in grado di adattare il testo con facilità, tagliandolo o divagando. Soprattutto, parla direttamente allo spettatore, senza la quarta parete e senza alcun illusionismo posticcio, imponendo fin dall’inizio la verità della propria comunicazione (anche se ovviamente infarcita di sofisticate tecniche retoriche).

Tra i "monologatori" di questa stagione di Raidue, il secondo – e finora l’unico – a meritarsi gli onori della prima serata è stato Moni Ovadia con il suo cabaret yiddish Oylem Goylem. L’audience è stata decisamente minore di Vajont, "solo" un milione di spettatori (anche se va in ogni caso ricordato che lo spettacolo ha avuto lo stesso share del Macbeth scaligero diretto da Abbado e il doppio dello share dell’Isola degli schiavi trasmesso la sera della morte di Strehler). È stato proposto in prima serata ma in differita, con un finto pubblico e un montaggio "pulito", che voleva far pensare a uno spettacolo ripreso "quasi" dal vivo in una situazione particolare: un caffè yiddish reinventato per l’occasione. Alcuni attori seduti ai tavolini di quell’immaginario (e un po’ triste) locale impersonavano gli immaginari spettatori ebrei, e insieme i possibili protagonisti delle storielle ebraiche raccontate con l’abituale verve da Moni Ovadia: una platea finta e fredda, un filtro che ha forse diminuito il coinvolgimento e l’empatia del pubblico da casa (va anche aggiunto che Oylem Goylem era già stato ripreso e trasmesso da Tele+, e successivamente distribuito in videocassetta, in una versione ripresa nel corso di una replica con un normale pubblico teatrale). Lo spettacolo, preceduto da una rapida presentazione di Gad Lerner, nell’atrio di un teatro, è stato inserito in una serata "tematica", seguito dal film di Woody Allen Broadway Danny Rose e da un secondo blocco di materiali di Moni Ovadia. Rispetto a uno spettacolo "nazional-popolare" come Vajont, il target era a priori più ristretto: la cultura ebraica in Italia resta di fatto (malgrado Woody Allen) patrimonio di un’élite, i meccanismi della comicità di Ovadia sono spesso sofisticati, la musica klezmer è totalmente sconosciuta al grande pubblico. E non è scattato – per fortuna, bisogna aggiungere – neanche lo scandalo di fronte a certe battute irriverenti (si pensi per contrasto al patetico putiferio scatenato, solo pochi mesi prima, dall’affermazione di Carmelo Bene a Macao: "Dio non esiste").

Anche Oylem Goylem è il distillato di un lungo processo di lavoro, il frutto di un’esperienza di ricerca che aveva finora toccato in pratica solo il pubblico teatrale. Dedicare un’intera serata alla cultura ebraica – in una forma non hollywoodiana – è stata una scelta di cultura "politicamente coraggiosa", che certo ha lasciato qualche traccia. Per quanto riguarda l’impatto del passaggio televisivo sullo spettacolo teatrale – che è un montaggio fluido di brevi testi e canzoni, soggetto a continue mutazioni e inserimenti – non è stato probabilmente devastante: solo una tappa in più in un lungo percorso.

Marco Baliani ha portato a Raidue (nel contenitore-ghetto di "Palcoscenico", e con un’ora di ritardo sull’orario programmato) quello che rappresenta probabilmente il più rigoroso ed estremistico saggio di "teatro di narrazione", il Michele Kohlhaas di Heinrich von Kleist raccontato dall’attore seduto in uno spazio vuoto. Anche in questo caso, la versione dello spettacolo che hanno potuto apprezzare i telespettatori è il punto d’arrivo di una ricerca durata anni, su un testo rappresentato e modificato centinaia di volte in un continuo work in progress. Si è trattato ovviamente di una differita, caratterizzata da un montaggio raffinato, con post-produzione da videoclip. In apparenza questa scelta – una sintassi cinematografica decisamente complessa, con evidenti effetti a sottolineare e ritmare determinati passaggi – tradisce la purezza di intenzioni della versione teatrale, che era costruita unicamente sulla nuda e ascetica presenza dell’attore. D’altro canto in teatro il rapporto attore-pubblico – anche in una cornice così rigida – è assai fluido: lo spettatore ha sempre modo di costruire un suo montaggio, un suo percorso d’attenzioni e distrazioni; la resa apparentemente più "oggettiva" (camera fissa, nessun montaggio eccetera) in realtà impone un punto di vista rigidissimo. Il montaggio serrato e gli effetti di blocco immagine e di colorazione costruiscono certo un filtro per lo spettatore, ma possono essere utili per ritrovare il ritmo e la suspense che catturavano e guidavano il pubblico teatrale. Dal punto di vista del linguaggio televisivo, il Kohlhaas è certamente uno dei prodotti teatrali più "studiati" e meglio realizzati dalla Rai in questi anni, anche se lo spettacolo dal vivo resta un’esperienza totalmente diversa.

Dario Fo – che di tutti i moderni entertainer italiani è il prototipo – si era rivisto in televisione nei giorni del Nobel, quando sono stati mandati in onda materiali di repertorio, sia vecchi spettacoli sia le lezioni di teatro all’Università La Sapienza. Se il riconoscimento dell’Accademia svedese aveva suscitato in molti letterati nostrani reazioni stizzite (e beceramente provinciali), la replica del "blasfemo" Mistero buffo in televisione era stata accettata (finalmente!) senza polemiche. Ma Fo – anche dopo il Nobel – resta sempre Fo, forza di provocazione compresa. Non appena vinto il Nobel, ha subito iniziato una campagna per la liberazione di Sofri, Bompressi e Pietrostefani, culminata con la realizzazione di uno spettacolo che fin dal titolo-sberleffo Marino libero! Marino è innocente! si ricollega al precedente illustre di Morte accidentale di un anarchico. Allestito in gran fretta, il monologo sul caso Calabresi è stato trasmesso da Raidue in una differita che sembrava quasi una diretta: registrato in un teatro dell’hinterland milanese, con il pubblico in sala, e con un montaggio per blocchi e lunghi spezzoni. In pratica, quella che è andata in onda è stata una sorta di "prova aperta", registrata nei giorni caldi in cui i giudici della Corte d’Appello decidevano della richiesta di un nuovo processo da parte dei tre condannati per l’omicidio Calabresi. Con un ridicolo eccesso di prudenza, ufficialmente per non influenzare i giudici milanesi, lo spettacolo è stato mandato in onda quando la sentenza – che peraltro negava il nuovo processo – era già stata scritta, anche se non ancora resa pubblica; e per non turbare gli italiani è stato relegato in seconda serata (inutile ricordare gli imputati eccellenti che hanno goduto in tempi recenti di enormi spazi televisivi dove difendersi con grande agio). Risultato: oltre un milione ottocentomila spettatori (grosso modo le cifre dei due programmi di maggior successo in onda in quel momento, Il Maurizio Costanzo Show e di Porta a porta) per uno spettacolo definito "infamante" (dall’onorevole Giovanardi, Ccd) e "inqualificabile" (da An).

Marino libero! Marino è innocente! non è in senso stretto un monologo, ma le altre presenze in scena, a cominciare da quella della super-suggeritrice e spalla Franca Rame, hanno un ruolo di supporto alla narrazione. Più che negli altri casi presi qui in esame, confluiscono nello spettacolo di Fo varie forme teatrali (e non solo): entrano in scena sagome (quelle di Sofri, Bompressi e Pietrostefani) e pupazzi (quello di Marino), ci sono tabelloni da cantastorie e un plastico da scuola guida con le automobiline, si usano il mimo e il grammelot. E si contaminano anche forme spettacolari ben note ai telespettatori, come il procedural alla Perry Mason, il telefilm poliziesco, le sensazionali ricostruzioni in stile Telefono giallo e l’apparente obiettività dei documentari scientifici.

Come nel caso di Vajont, con Fo il teatro è tornato sulle prime pagine dei giornali (cosa che non era accaduta con Ovadia e ovviamente con Baliani, e che nel corso di questi mesi è successa solo con la morte di Strehler). L’impegno pubblico dell’ultimo premio Nobel su un caso politico-giudiziario di questa importanza è già di per sé una notizia, al di là del giudizio (sul piano artistico e su quello della ricostruzione giudiziaria) sull’operazione. D’altro canto la storia politica di Fo, percepita da molti come caratterizzazione ideologica e partito preso, divide da sempre il pubblico in due schieramenti contrapposti (di qui il ricorrente sospetto che l’attore rischi di parlare sempre ai convertiti, tanto che alcuni dei suoi detrattori l’hanno paragonato a Fede).

Poco tempo dopo, e per la precisione sabato 9 maggio Marco Baliani è tornato su Raidue per Corpo di Stato. Il delitto Moro: una generazione divisa, un’altra operazione coraggiosa - ma non fino in fondo, perché relegata dopo qualche incertezza in seconda serata (infatti sulla stampa passerà quasi del tutto inosservata). Per l’occasione la Rai si è fatta addirittura co-produttrice di un nuovo spettacolo teatrale e l’ha presentato in anteprima, in grande anticipo rispetto al debutto teatrale (ribaltando così una prassi consolidata, che vede nella replica televisiva l’ultimo sfruttamento al termine di tutte le possibili tournée). Ugualmente coraggiosa la scelta del tema, il caso Moro. Oltretutto la storia di quelle drammatiche settimane non viene ricostruita con la neutralità dello storico o l’ambigua autorevolezza del protagonista, ma rivissuta da un punto di vista assai particolare, quello di un militante dell’estrema sinistra ma certo non brigatista. La data della messa in onda, in coincidenza quasi perfetta con il ventesimo anniversario del ritrovamento del cadavere dell’uomo politico in via Caetani, non è stata ovviamente casuale.

Baliani rivive la cronaca del sequestro di Moro da parte delle Brigate Rosse e ripercorre e rimedita quelle che furono le sue reazioni, settimana dopo settimana; attraverso una sedie di episodi – un’assemblea, la morte di un amico durante una rapina, la richiesta d’aiuto di un latitante, una visita in carcere – ricostruisce il contesto sociale, politico e generazionale della propria esperienza. È un racconto in prima persona, che però assume un valore di testimonianza collettiva: è il vissuto di coloro che da allora tacquero, zittiti prima dalle armi delle Brigate Rosse e da quelle dello Stato, e poi dal continuo fragore di ricostruzioni più o meno scandalistiche, più o meno credibili da parte dei protagonisti di quell’oscura vicenda. Teatro civile, nelle intenzioni dell’autore: e dunque da celebrare nel centro della città, tra le rovine dei Fori a Roma (non lontano da via Caetani), davanti a un gruppo di giovani spettatori, seduti sugli scalini di antico marmo. E una regia televisiva "di servizio", senza invadenze, in grado di seguire e valorizzare l’attore nel suo monologo.

Quasi esattamente un anno dopo il successo del Vajont, il 10 settembre 1998 Marco Paolini è tornato a occupare la prima serata su Raidue con il Milione, una sorta di visita guidata alla città di Venezia così come la vede un "Campagna", cioè un veneto dell’entroterra. Per lo spettatore televisivo medio lo spettacolo è certo più "difficile" del Vajont. Tanto per cominciare, manca in questo caso l’impatto emotivo della tragedia "nazional-popolare". In secondo luogo, nel Milione il racconto non segue un unico filo narrativo, ma procede per frammenti, aneddoti e divagazioni. L’attenzione del pubblico viene costantemente reindirizzata e riaccesa. In compenso, questa volta non si tratta di un nudo monologo. L’attore solista è in scena con un gruppo musicale, i Maistral, che spaziando tra vari generi musicali non si limita a offrire un semplice accompagnamento o sfondo, ma costituisce quasi un deuteragonista: spesso sono proprio i Maistral a dare l’attacco per un nuovo blocco narrativo.

Per quanto riguarda l’ambientazione, si è cercato di creare ancora una suggestione forte, spettacolarizzando un altro luogo carico di memorie: allora la celebre diga, questa volta l’Arsenale, fonte un tempo della potenza veneziana e ora ambiente di potente carica evocativa. Particolarmente suggestiva è la sistemazione del pubblico: la "platea" era il bacino che fronteggia una delle grandi cavane dove un tempo venivano costruite le navi, occupata dal palco galleggiante che ospitava Paolini e i musicisti. Gli spettatori dovevano raggiungere il bacino per via d’acqua e assistere allo spettacolo restando a bordo delle gondole e dei vaporetti, dei gozzi e della caorline che li avevano condotti fin lì: e non è difficile immaginare l’impatto che una macchina organizzativa e simobolica di questo genere può aver avuto su Venezia.

La forte presenza di un gruppo musicale e lo scenario "pittoresco" hanno probabilmente suggerito al regista televisivo Duccio Forzano (che nel suo curriculum ha tra l’altro gli show di Renato Zero, Pino Daniele e, più di recente, Claudio Baglioni) un ritmo molto rapido ai cambi d’inquadratura, con un montaggio più attento all’aspetto musicale che a quello teatrale, spezzato da frequentissimi stacchi sul pubblico e sull’ambiente. Purtroppo il tempo del monologo e quello della regia televisiva hanno faticato più del dovuto a trovare un accordo; ci sono stati diversi momenti imbarazzanti, spesso quando al testo che descriveva un preciso gesto (la voga, o il santo che schiaccia il serpente) non corrispondeva l’immagine dell’attore che lo stava eseguendo, ma divaganti inquadrature di bandiere svolazzanti o corde di chitarra. Un racconto già di per sé complesso finiva così per diventare ancora più criptico.

Nell’insieme, come hanno fatto notare diversi critici televisivi, la regia di Forzano era più adatta a un concerto rock che a un monologo teatrale: ancora una volta, lo specifico teatrale ha faticato a trovare la sua misura in video. Per approntare una trasmissione "che deve avere successo", in mancanza di un’autentica cultura e di un linguaggio efficace, con tempi di prova troppo stretti e per di più con una troupe a rapido turn over, la soluzione più facile resta quella di provare a trasformare il teatro in qualche altra cosa, ricorrendo a stilemi più frequentati. Ma i risultati in genere non sono all’altezza delle ambizioni. Nonostante le sbavature (e tenendo conto che l’exploit di Vajont resta con ogni probabilità irripetibile) dal punto di vista dei dati d’ascolto il risultato del Milione è stato più che lusinghiero, con oltre due milioni di telespettatori e uno share accettabile.

In questo specchietto sono riassunte alcune delle caratteristiche di questi spettacoli: è evidente che sono state fatte scelte specifiche, calibrate in base alle peculiarità dei singoli eventi teatrali, e alla destinazione del programma nel palinsesto. (I dati relativi a durata, audience e share sono stati forniti dalla Rai.) Val forse la pena di ricordare che in questi casi lo share degli spettacoli teatrali tende a restare costante nel corso della trasmissione: gli spettatori "agganciati" dalla trasmissione la guardano cioè fino alla fine.
 

 
regia tv
location
pubblico
in video
montaggio
collocazione
e data
durata
audience
share
Marco  Paolini
Il racconto del Vajont
Antonio Moretti con
Marco Paolini
In diretta dalla diga del Vajont
Vero pubblico
Minimo
Prima serata
9 ottobre 1997
21.00-22.50 circa
3.515.000
15,78 %
Moni Ovadia
Oylem Goylem
(il mondo è scemo)
Giovanni Ribet
Registrato in teatro
Finto pubblico
Maurizio Bonomi
Medio
Prima serata
28 gennaio 1998
21.03-22.47
(prima parte)
1.21-1.59
(seconda parte)
1.039.000
3,9 %
65.000
4 %
Marco Baliani
Michele Kohlhaas
Giovanni Ribet 
(fotodipinti di Luca Del Balzo)
Registrato
in studio
Senza pubblico
Michele Buri
Complesso,
molta 
post-produzione
Seconda serata 
"Palcoscenico"
14 marzo 1998
23.45-24.45
n. d. (ma circa 300.000)
3,47 %
Dario Fo
Marino libero! Marino è innocente!
Tullia Ferrero
Registrato in teatro
Vero pubblico
Diego Angeli
Minimo
Seconda serata 
18 marzo 1998
23.00-24.15
(prima parte)
24.30-1.15
(seconda parte)
n.d. (ma circa 1.800.000)
16 %
n.d.
16,09 %
Marco Baliani
Corpo di Stato.
Il delitto Moro: una generazione divisa
Eric Colombardo
In diretta dai Fori a Roma
Un gruppo di giovani studenti
Di servizio
Seconda serata

9 maggio 1998

23.30-00.30
1.100.000
10%
Marco Paolini
Il Milione.
Quaderno
veneziano
Duccio Forzano
In diretta dall’Arsenale di Venezia
Vero pubblico sistemato su barche
Da concerto rock
Prima serata 

1° settembre 1998

20.50-23.00
2.100.000

10%

 
 

Da quel 9 ottobre, Il racconto del Vajont viene portato a esempio del fatto che quando si fa un programma serio, bello e intelligente, il pubblico lo apprezza. Il problema è capire se si tratta di un evento in qualche modo ripetibile, o se resterà un’eccezione.

Escluso che Paolini conduca il Tg3 (come, secondo un sondaggio, desidererebbe il pubblico televisivo), si tratta di capire quale possa essere oggi il rapporto tra teatro e televisione, nel difficile equilibrio tra la qualità del prodotto e le caratteristiche dell’attuale programmazione. (Un discorso completamente diverso andrebbe fatto per un’offerta che comprenda reti tematiche. Così come andrebbe approfondita l’analisi sul teatro in televisione come risorsa e sui suoi possibili canali di ulteriore diffusione: vedi videocassette, vendite all’estero, repliche, cd-rom, documentazione per centri di ricerca e università; un altro terreno di sperimentazione e indagine è la produzione – o coproduzione – di trasmissioni televisive e spettacoli teatrali che rovesci l’attuale iter produttivo, dove la televisione è l’ultima tappa dello sfruttamento di un allestimento; qualche anno fa la Rai aveva già coprodotto, per esempio, uno spettacolo del Trio Marchesini-Solenghi-Lopez).

Con tutta evidenza il successo di audience di un programma non è determinato solo dalla qualità del prodotto (dalla forza del testo e dalla bravura dell’attore sul versante teatrale, dalla qualità della regia e del montaggio su quello televisivo), ma anche da molti fattori "esterni". Dipende in misura determinante dal contesto. In una televisione dominata dalla volgarità e dalla sguaiataggine, se abbandonato a se stesso il prodotto di qualità si perde: se resta un fatto episodico non riesce a catalizzare gli scontenti del banal-televisivo, e passa inosservato agli altri.

Dunque il teatro può aspirare a raccogliere una grande audience solo quando tutti i fattori "interni" raggiungono un equilibrio ottimale e – in più – si crea un "evento" in grado di catturare l’attenzione del grande pubblico. In caso contrario pare destinato a restare irrimediabilmente un prodotto di nicchia (opposto è ovviamente il punto di vista del teatro: la platea televisiva allarga certamente il pubblico teatrale, ma spesso anche il pubblico che va a teatro). Ci sarebbe un’altra opzione: creare una continuità, un’abitudine, con prodotti di alto livello e di forte capacità d’attrazione. Ma da un lato nell’attuale televisione italiana attuale non c’è spazio né tempo per una scelta del genere; dall’altra è molto difficile costruire una "scorta" di programmi sufficiente: un po’ perché gli spettacoli in grado di funzionare anche in video non sono numerosi, un po’ perché mancano gli investimenti e la continuità per sperimentare e mettere a punto un linguaggio efficace (o meglio una serie di linguaggi, perché ogni trasposizione deve trovare il suo). È quasi superfluo portare come esempio negativo la programmazione di Palcoscenico, con le sue scelte di repertorio per metà casuali per metà gastronomiche, senza alcuna ricerca di linguaggio video, destinate purtroppo ad affondare nell’indifferenza e a ribadire il luogo comune che il teatro, in televisione, non passa.

E invece, lo si è visto, il teatro in televisione può passare. È una strada stretta, che non consente errori e comporta il rischio di molte illusioni e delusioni, disseminata di false piste, che richiede impegno e attenzione costanti. C’è chi non ama il teatro in televisione perché ritiene che siano due mondi incompatibili, con ritmi e respiri diversi. C’è chi lo odia perché ama di un amore esclusivo il teatro e la verità della sua presenza. Gli uni e gli altri avranno sempre ottimi motivi per ritenere che il teatro in televisione sia solo un surrogato, una promessa non esaudita. Salvo eccezioni che confermino la regola.

(Una prima versione di questo saggio è apparsa nel catalogo della 13a edizione di "Riccione ttv", Video Festival, 28-31 maggio 1998, Riccione. Un ringraziamento a Felice Cappa per la pazienza con cui ha soddisfatto le mie richieste d’informazioni.)