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Il nuovo teatro italiano 1975-1988
La ricerca dei gruppi: materiali e documenti
di Oliviero Ponte di Pino
La casa Usher, Firenze, 1988
© copyright Oliviero Ponte di Pino, 1999

Parte 10
La ricerca dell’essenziale
TEATRO DELLA VALDOCA
 

La scoperta dell’assoluto nel segno teatrale: è questo forse l’imperativo che sottende il lavoro del Teatro della Valdoca, quel rigore venato di ritualità, nei confronti del proprio lavoro e del proprio pubblico, che traspare in tutti gli spettacoli. Questo ascetismo si risolve innanzitutto nel tentativo di costruire un rapporto di comunicazione il più possibile intimo e diretto, attraversato da sensazioni minime e spesso indicibili e costruito sui sottili rapporti che legano lo spazio dell’azione scenica, i corpi e gli oggetti che lo animano allo sguardo e al respiro di chi li coglie.

La ricerca della semplicità oltre l’intrico dei nessi e dei rimandi, la ostentata purezza dei gesti fanno parte di una tensione verso l’essenziale che percorre tutti gli spettacoli del gruppo raccolto intorno a Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri. Dalla dimensione apparentemente arcadica dello Spazio della quiete e delle Radici dell’amore, spettacoli strabordanti di pensieri silenziosi, si passa, per successive stratificazioni di esperienze e sensazioni, alle tensioni lacerate di Atlante dei misteri dolorosi e di Ruvido umano.

Il tentativo, sempre ambizioso e rischioso, ma affrontato con concentrata determinazione, è quello di coniugare il senso della bellezza con il sentimento della tragicità: per trovare ogni volta provvisori punti d’equilibrio nell’ispirazione dalla pittura o dalla poesia (Mariangela è autrice, fra l’altro, di quadri e poesie che spesso forniscono un filo conduttore agli spettacoli)

Cercando in questa ispirazione, così come nel rifarsi a pensatori come Jabès o alle impressioni d’Africa che hanno ispirato Cantos, ci si imbatte in progressive aperture e slittamenti di pensiero. E una ricerca del proprio limite e del limite del teatro che nasconde in sé un percorso di introspezione, fatto di fragilità e durezze, di orgoglio e di pudore, di ruvidità e dolcezze altrettanto improvvise.
 

CONVERSAZIONE CON CESARE RONCONI E MARIANGELA GUALTIERI

Che tipo di formazione avete avuto e come siete approdati al teatro?

C.R.: Abbiamo fatto un lunghissimo tirocinio, piccoli lavori e ricerche. Vista adesso, si è trattato di un’esperienza non fortemente professionale.

M.G.: Anche come tempo...

C.R..: Questo fino all’83. Era una specie di secondo lavoro, eravamo ancora studenti.

Non eravate studenti di teatro.

C.R.: No, studiavamo architettura. Il lavoro teatrale è cominciato negli ultimi due anni di università. Poi è diventato un lavoro a metà, ma già dall’81 abbiamo deciso di diventare professionisti, dopo la produzione della Biennale di Scaparro. Nell’83 abbiamo fatto Lo spazio della quiete, il primo vero lavoro del gruppo. La produzione dell’81, Tavole sinottiche, era ancora come un’oasi nel deserto, si tentava di organizzare un discorso di stile, di ricerca.

In che misura la formazione architettonica influisce sul vostro lavoro?

C.R.: Moltissimo. Nei nostri spettacoli c’è un rapporto complesso e difficile con il luogo in cui vengono rappresentati. C’è sempre la pulsione a un rapporto totale con lo spazio: quindi la ricerca costante di luoghi particolari in cui poter lavorare.

Lo spazio della quiete è nato in una stanza. Poi è stato esportato nei teatri, ma manteneva lo stile, la chiusura, la delimitazione di una piccola stanza. È stato sempre molto problematico per noi avere a che fare con luoghi tipicamente teatrali, con i palcoscenici e con le maestranze dei teatri. Ci troviamo meglio in spazi extrateatrali: rimane la tendenza a lavorare in uno spazio che sia solo spazio, non spazio deputato alla rappresentazione. Poi succede invece che i nostri spettacoli li facciamo quasi sempre, ovviamente, nei teatri.

In quali spazi sono nati gli altri spettacoli?

C.R.: Le radici dell’amore è nato in un teatro, ma con il pubblico sul palcoscenico. Atlante dei misteri dolorosi è nato sì in una sala deputata al teatro, ma si trattava in realtà di un salone. Quando siamo nei teatri "veri", tutti notano che si riduce qualcosa del nostro lavoro: difficilmente, allora, riusciamo a recuperare la suggestione di fondo carpita al luogo non deputato in cui lavoriamo.

Non si tratta dunque di scegliere uno spazio non teatrale per recuperarne la quotidianità. Per esempio, nel caso di Cantos, non si tratta di recuperare la memoria di un capannone industriale, quanto di mettere in evidenza il rapporto spaziale tra un evento scenico e lo spazio che lo circonda.

C.R.: Cerchiamo di osservare gli spazi per carpire i segreti che contengono: ogni luogo, anche maledetto, sporco o deprimente, contiene dei segreti. Il teatro contiene invece la rappresentazione dei segreti. In teatro c’è sempre questo pulire e ripulire, lasciare il graticcio libero: quando arrivi è come se non ci fosse mai stato niente. Invece, in ogni luogo ci sono sempre delle tracce.

Delle memorie.

C.R.: Esatto. Un lavandino rotto, oppure una vetrata fatta in un certo modo... Il teatro, invece, è abituato a ricancellarsi; c’è proprio una specie di autocancellazione dei suoi elementi, e questo è sconvolgente. Quando siamo stati in grandi teatri, abbiamo avuto l’impressione che non ci fosse mai stato nulla, o che ci fosse stato tutto.

M.G.: La penso un po’ diversamente da Cesare, in modo molto soggettivo. In tutti gli spettacoli abbiamo sempre un tappeto che stendiamo a terra. Per me è una specie di tentativo di sentire il punto geografico del luogo: il punto del pianeta, il teatro o qualcos’altro. A parte Ruvido umano, in cui dall’interno sentivo di abitare un luogo, in tutti gli altri spettacoli sentivo di abitare un punto della Terra: un punto qualsiasi, che aveva un involucro che cambiava di volta in volta, ma sempre con un contatto forte con il pavimento, con la terra.

Quindi l’architettura non è la costruzione di un edificio, ma il rapporto di un vissuto con uno spazio.

M.G.: È come abitare un dato luogo, con delle coordinate precise nello spazio.

Un altro aspetto dei vostri spettacoli credo sia lo stretto rapporto con le arti visive, sia con esperienze contemporanee che con la storia dell’arte.

C.R.: Questo rapporto con la storia dell’arte è spiegabile solo a posteriori. L’arte è il canto dell’uomo per ciò di cui è privato quotidianamente; questo almeno per l’arte occidentale. L’arte orientale o quella primitiva mi interessano poco. Mi sembra infatti che l’arte occidentale sia la parte maggiore della storia dell’arte, in termini strutturali, di lingua; anche se poi è chiaro che i dolmen, le pietre dell’isola di Pasqua o i templi maya o buddisti sono impressionanti. Mi sembra che l’arte sia il canto di un qualcosa che viene massacrato per diventare simbolo. È un canto di dolore, un canto di privazione, tranne forse qualche piccola parentesi di arte sacra in cui il rapporto è diverso. Mi sembra sostanzialmente che la storia dell’arte occidentale, soprattutto la sua ultima parte, sia un canto di grande dolore, il canto di una perdita. Questo è strettamente connesso con il nostro punto di vista poetico sul teatro, sui suoi contenuti, sul senso che diamo al fare teatro.

È chiaro che nei nostri spettacoli incidono anche i gusti personali, cioè i riferimenti a alcune esperienze particolari o a alcuni periodi della storia dell’arte: chiunque può rilevare che a volte il riferimento è l’arte povera, il suo atteggiamento nei confronti della materia, altre volte il manierismo, altre la pittura sacra. Ma questo mi sembra irrilevante rispetto al discorso di fondo, che è filosofico: ci interessa la sintesi profonda e esatta all’interno di un’immagine di privazione. Non è più possibile avere altro tipo di rapporto con la realtà: quello che crei nell’opera d’arte è una tomba, una grandissima stele funeraria di quello che non ti è più possibile avere completamente.

Il teatro può essere in qualche modo il luogo in cui si sopperisce a questa privazione, un luogo di conciliazione. Hai detto che usate la storia dell’arte perché è il racconto di questa privazione...

C.R.: Di questo massacro.

Ma il teatro può essere il luogo in cui questo massacro viene risarcito, la ferita rimarginata?

C.R.: Ho definito il nostro ultimo lavoro, Cantos, "ferite nello spazio cosmico". Pensavo che gli attori dovessero essere dei corpi feriti e dissanguati in uno spazio assoluto e in un tempo non definibile. È chiaro che cerco una conciliazione con il pubblico che lo vede: questo lavoro non avrebbe senso se non tentasse di restituire, anche a chi lo guarda, quel tipo di perdita. Ma un simbolo non può sopperire in toto; e, infatti, quando si è finito uno spettacolo, il problema ti si ripropone. Ma lo spettacolo è un rituale che, anche senza mito al suo interno, rimane tale. Il teatro di routine è una messa celebrata malissimo, tuttavia rimane una messa: questa ritualità esiste al fondo di tutto il teatro. Perciò chiedi che ci sia un rapporto con l’oggetto e con il sacrificio che stai facendo in quel momento. In fondo gli attori sono veramente carne da cannone quando entrano nello spazio scenico. Non chiedi solidarietà al pubblico, ma almeno un riconoscimento del rituale e delle sue forme.

Quindi il teatro non è tanto la rimarginazione della ferita, quanto la riproposta del processo della lacerazione, di questa macellazione?

C.R.: È il riconoscimento della ferita, con più o meno distacco. A volte, come in Ruvido umano, si tratta di riaprire una ferita, costantemente e ripetutamente, davanti al pubblico. A volte è un tentativo, fatto con maggior pudore, di mostrare le ferite senza esibirle. A volte si fa più scrittura. È una ferita a volte più scritta, a volte più sanguinante: dipende anche dalla situazione psichica e fisica in cui si trova l’artista quando prepara un lavoro, ma la ferita è la medesima. È una ferita che non si rimargina: puoi curarla, mostrarla, riscriverla, ridefinirla. Penso che il nostro teatro sia un unico lavoro, non vedo differenze tra Lo spazio della quiete e Cantos.

Dal punto di vista dell’attrice, della gestualità, c’è un calarsi in un certo tipo di arte e di figuratività. All’interno del lavoro degli attor4 si ritrova questo percorso di lacerazione, di ferita?

M.G.: Per me, come attrice, abitare lo spazio teatrale non è una cosa dolorosa, bensì di pienezza, un ritornare alla mia infanzia, a un esistere semplice: anche se c’è bisogno di molto lavoro per trovare questa semplicità. Avverti però come un dolore cosmico, che riguarda te e la tribù a cui appartieni. Sei portavoce di una ferita e nello stesso tempo portavoce di una pienezza. È molto complesso.

Prima Cesare diceva che secondo lui non c’è frattura fra i primi spettacoli e gli ultimi. Secondo me, invece, nel ripercorrere la vostra storia, c’è una crescente dimensione tragica.

C.R.: No, perché Lo spazio della quiete è quanto di più tragico abbiamo fatto: si chiudeva con una pietà, aveva momenti di inquietante piccolezza, e anche di tenerezza, nei confronti dell’universo. Ma c’è una stratificazione che può appesantire l’immagine e farla diventare tragica. In fondo, quando in uno spettacolo, partendo da un tuo punto di vista, cominci a scrivere, a allargare, e a scrivere ancora, è quasi automatico aumentarne il peso. Difficilmente riesci a scandirlo in leggerezza: puoi innalzarlo per un attimo e rendere la cosa elevatissima, ma nel complesso il corpo si invecchia, si appesantisce, anche il corpo mentale, quello della ricerca. In Cantos abbiamo come stratificato cinque lavori ossificati dentro di noi e il peso di questi scheletri è enorme, lo si sente: ci sono alcune dimensioni di Ruvido umano, ritornano alcuni momenti delle Radici dell’amore e dello Spazio della quiete, e anche certi aspetti dell’assoluta mancanza di centro di Atlante dei misteri dolorosi. Da una parte c’è un corpo che si appesantisce progressivamente, inevitabilmente. Dall’altra si aprono degli squarci sempre più brillanti, come se il corpo diventasse pesante ma nello stesso tempo tu potessi saltare più in alto con la mente e riaprire il tuo discorso per slanci, più profondamente che negli spettacoli precedenti. Ma il tessuto è il medesimo: la stessa cura con cui puliamo lo spazio, con cui dilatiamo il tempo, con cui ci riscaldiamo prima di entrare.

Il nostro modo di lavorare, al di là degli attori che di volta in volta hanno costituito il gruppo, è sempre stato il medesimo: un rapporto di conciliazione con il luogo per scoprirne i segreti. Poi a volte puoi fare dei salti più alti, a volte medi: dipende da come riesci a mettere in rapporto, in quel momento, la tua fatica, il tuo peso che si accumula, con la scrittura o con l’intuizione di quel lavoro specifico. A volte, in questo lavoro, hai degli attimi che nessuno vede: come in Cantos, in cui sono squarci paradossali, in termini di paura, di nulla, di vuoto, mentre in certi altri momenti ci sono rapporti estremamente concilianti. Per esempio le quattro corifee hanno tra loro un continuo rapporto di assistenza, di tribù, di branco, mentre in altri momenti ci sono enormi solitudini, anzi, viene mostrato un reiterato meccanismo della solitudine.

M.G.: Per me, dall’interno, c’è stato invece un cambiamento tra gli spettacoli in cui non c’era la parola e gli ultimi, in cui invece si parla. Prima potevo fare tutto lo spettacolo bloccando completamente il pensiero: arrivavo alla fine dopo che era trascorsa un ora e mezzo in cui il pensiero era bloccato. È una cosa molto difficile nella vita ordinaria, che offre una felicità piena, di bestia, di animale, di inconsapevole. L’ingresso della parola, che richiede una presenza della mente, un esserci con la testa, a volte mi disturba, mi fa vivere in un altro modo lo spazio.

C.R.: D’altro canto non si può rimanere bambini in eterno.

M.G.: Mi piacerebbe arrivare al punto in cui anche la presenza della parola ti fa ritrovare questa strada della mente che si ferma.

C.R.: La questione è un po’ teorica. Neppure Carmelo Bene, credo, riesce totalmente a fermarsi con la mente, salvo poi affrontare tutto su un piano di sballo continuo, che però non è sostenibile perché l’esterno te lo impedisce. L’atteggiamento ludico non è più permesso. O meglio, non lo è mai stato, dal momento in cui la scrittura ha sostituito l’oralità. Perfino Lo spazio della quiete era scrittissimo, pieno di pensieri suscitati dai movimenti e dalle relazioni, anche se non detti dall’attore.

M.G.: Di Cantos mi piace molto il fatto che, siccome parliamo a turno, gli attori escano da questa inconsapevolezza e si facciano portavoce di un discorso... E quando corri nel fondo di quell’enorme spazio, è quasi una corsa all’indietro: nel tempo, in un mondo non ancora articolato, con suoni inarticolati.

Nei vostri spettacoli c’è sempre stata, a differenza di altri gruppi che si sono confrontati direttamente con il presente, un’attenzione alle "origini", a una dimensione contadina, sia nella gestualità che negli oggetti usati. Gli altri partivano molto più dal presente.

C.R.: Ma quale presente intendi? Quello metropolitano?

Sì, per esempio le poetiche metropolitane. Mentre da parte vostra c’è stato un distacco dall’attualità, almeno a livello di sollecitazioni immediate.

C.R.: Sembra, ma poi il senso di alcuni libri e di certe musiche dicono il contrario. Noi abbiamo lavorato su sonorità africane già dall’83, su musiche del Burundi e di altri luoghi. Abbiamo poi lavorato su alcuni poeti, sulla cultura ebraica, soprattutto in Atlante dei misteri dolorosi, in cui c’era una forte attenzione al rapporto tra la parola e l’essere, fondamentale nella scrittura e nella poesia ebraica. Poi c’è stata la lettura di Jabès e di altri. Voglio dire che è difficile valutare il presente: è il laser? è il computer? sono gli scrittori alla moda? che altro? Non so se, al di là degli scoop e delle vendite, esista veramente una cultura contemporanea compatta. Mi sembra difficile giudicare qual è il presente. Il discorso delle origini è comunque vero.

Per quanto riguarda la civiltà contadina, il riferimento esiste, ma non più di tanto: c’è però da parte nostra un’attenzione alla scrittura e alla mente che la civiltà contadina non possiede, mentre c’è invece una grande diffidenza, da pane della civiltà contadina, nei confronti di tutto ciò che è pensato. Quello delle origini è un discorso che sfiora anche un problema "esistenziale" e "religioso", cioè il senso dell’esistenza. È un problema nodale del nostro lavoro: da li parte tutto, perché in ogni percorso si mette a fuoco, per prima cosa, il punto di partenza. La storia non è cronologica ma automatica, percettiva e poetica, e se non dichiari un punto di partenza non hai riferimenti.

Perché pensi che il teatro possa essere un luogo in cui è facile individuare questa origine?

C.R.: Non penso che in teatro sia più facile che altrove: anche la poesia o l’arte parlano delle medesime cose. Ma il teatro è l’unica possibilità che ho io: personalmente starei in teatro dalla mattina alla sera, vi mangerei e dormirei dentro. Non riesco a trovare altre motivazioni. Ultimamente quello che mi fa imbestialire è l’impossibilità di questo uso totale, di questo rapporto totale con il proprio lavoro. C’è una tale sproporzione con la gran massa di offerte, di distrazioni, di incontri, di relazioni fra linee, spettacoli, gruppi, istituzioni. Se mi garantissero la possibilità di lavorare quarant’anni in un unico luogo, decidendo con criteri miei i tempi di lavoro e tutto il resto, lo farei. Ma questo mi è impedito: sono invece costretto a uscire fuori dal teatro, perché il luogo non è mio, e non è mio il tempo che vi è contenuto. Non bisognerebbe mai garantire a un attore di andare in scena, fino all’ultimo momento: se fosse per me, il rapporto sarebbe diversissimo, sarebbe un processo esistenziale: finché non si trova il punto esatto della relazione, non si va in scena. Sto cercando da anni di ottenere una situazione di questo tipo, ma è assolutamente impossibile.

E per te, Mariangela, qual è il rapporto tra la tua dimensione lirica e la dimensione del teatro?

M.G.: Penso che il mio destino si trovi casualmente a passare di qui, ma potrebbe passare attraverso qualsiasi altra cosa. In fondo, mi sembra un dettaglio il luogo in cui ci si applica, il teatro, il giardinaggio o l’arte, perché il punto verso cui ci si proietta resta quello. Vedo il teatro come la strada attraverso cui passa il mio lavoro.

Da un certo punto di vista la dimensione lirica è sempre estremamente personale, soggettiva, mentre il teatro costruisce una comunicazione collettiva, in un certo senso oggettiva: rappresentazione e non pura espressione. In che modo pensi che queste due dimensioni possano incontrarsi nel vostro lavoro?

M.G.: Penso che, quando si va a fondo in questa soggettività, si arriva a un punto, comune a tutti, in cui di soggettivo non c’è quasi più nulla. È questo che ti permette di dare un senso, di rappresentare quello che fai. Arrivi a un punto di anonimato in cui non è più di te che si parla, né delle tue vicende particolari: in quel punto ci sono un po’ tutti. Questo penso accada sia nella poesia che in tutta l’arte.

C.R.: Come fai a dire che il lavoro di Carmelo Bene è oggettivo? È a un livello di soggettività spaventoso. È chiaro che esistono saggi sul suo Riccardo III, che quindi diventa automaticamente lingua e come tale viene reso oggettivo. Ma per il resto continua a parlare di un suo problema irrisolto e che non risolverà mai. Tutto questo va benissimo, perché è il cantore di un’inadeguatezza dell’oggetto. E perché è grande: più ti senti inadeguato a dire le cose, più diventa grande il modo in cui le dici e più ti coinvolgi guardandoti. L’errore è pensare che quello che dici sia definitivo: non c’è nulla di definitivo in quello che si dice, anche se tutto è fortemente necessario, compresi gli errori e le sbandate. Ma non penso che, a teatro, si possa parlare di un rapporto di oggettività oltre a quello linguistico.

In realtà il problema inizia nel momento in cui ciò che fai diventa un’altra cosa da te: diventa scrittura, opera d’arte, un oggetto, uno spettacolo e quindi automaticamente fruibile. È come una cosa che si separa da te. Puoi criticare uno spettacolo, un dipinto, ma non l’essenza, non il processo che lo ha prodotto. Il percorso che ognuno fa per arrivare a una cosa è soggettivo, ma poi valuti l’oggetto. Il pubblico che viene a vedere Cantos valuta non i miei pensieri sul teatro o sull’arte in generale, ma quello che vede. Se vi trova un percorso utile per altre riflessioni, bene, è comunque coinvolto in quella cosa specifica e in quel momento io sono quello, non sono separato.

Altri punti di riferimento oltre Carmelo Bene?

C.R.: Non è un punto di riferimento, è un omaggio devoto: proprio perché unico è il suo lavoro, unico il suo coraggio. Fa spettacoli di forte ricerca linguistica e teorica che, come Lorenzaccio, sono opere grandissime, più di quelle ingigantite dalle strutture tecniche. Per quanto mi riguarda, ho un grandissimo rispetto per il lavoro teorico di Grotowski, per la sua onestà nel percorrere una linea di essenza più che una linea di rappresentazione, fino alle estreme e intime conseguenze, fino all’abbandono della comunicazione finita.

Ho un rispetto profondo per tutto ciò che non si ripete e per tutto ciò che si ripete ad un livello di grandissima inquietudine. Come la ripetizione assurda e paradossale di Carmelo Bene, che in fondo ci sta restituendo, con tutti i suoi spettacoli, il punto di vista del primo lavoro. Ce lo sta dando a tutto tondo: non è più un dipinto, sta diventando una scultura, gli sta dando le spalle, sta indicando come è fatto, da sotto i piedi, c’è sempre questo allargamento del sé. In altri lavori, che invece non si ripetono mai, avviene il contrario. Ma nel mezzo si viene maciullati, perché nel mezzo esiste la lingua: diventa importante, cioè, la strada, il mezzo che scegli.

In questo abbandono della strada portante c’è, a mio parere, una grandissima qualità: nel prendere sentieri separati, sempre in totale solitudine e comunque con grande radicalità e decisione. Mi piace soprattutto ciò che nasce da un rapporto di identità forte con il proprio lavoro, mentre mi piace sempre meno tutto quello che viene confezionato per linee culturali. Questa scoperta massificata di autori, "di cui c’è tanto bisogno", mi infastidisce. Con i tempi che corrono questo approccio colto mi respinge.

Trovo interessante tutto quello che parla delle stesse cose ma con una lingua propria, con uno scarto, con una separazione. Tante cose sono invece richieste dal sistema degli osservatori e dal pubblico: secondo me oggi la grande difficoltà è che c’è grande attenzione per la riproposta, in termini contemporanei, di testi classici o moderni, mentre invece c’è una forte ostilità nei confronti di chi usa una scrittura propria per parlare delle proprie cose. Tuttavia proprio questo rapporto è delicatissimo perché è un’esperienza esposta al massimo rischio, mentre l’altra ha comunque una strada già tracciata, ha il peso automatico di una tradizione, anche quando la trasgredisci. Oggi tutto si sta muovendo nella direzione del teatro di regia, che diventa sempre più forte. Per me è invece molto più interessante tutto quello che è scrittura anomala, ciò che deriva da una scommessa quasi persa in partenza, in cui non sai mai cosa ti aspetta.

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