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P e t e r C o o k
Archigram

 

Archigram group was founded at the beginning of the Sixties, when young architects and students came together to create a new magazine that would free architecture from the modern tradition. Cartoons, plastic houses, moving cities and other utopian projects crowded the pages of the magazine. To Archigram is now dedicated a retrospective exhibition touring across Europe and the US. In this article, Archigram founder Peter Cook gives a brief summary of the amazing adventures of architecture in the age of Pop.

© Peter Cook

Chi passeggia nella rete a caccia di architettura è ormai abituato a fare i conti con espressioni come ‘utopia’, ‘distopia’ e ‘non luoghi’. Le Corbusier e Loos, il mito del moderno e della sua nemesi postmoderna sembrano dimenticati: gli architetti che invadono Internet si confrontano piuttosto con l’aerodinamica di Buckminster Fuller, con le visioni di Piranesi e con i sogni usa e getta e le plug-in cities di Archigram. Intanto, anche nella vita reale, nelle riviste patinate di immagine, si riscopre il gusto lounge anni Sessanta: sfogliate Wallpaper e Dazed & Confused, ma anche Artforum, che proprio ad Archigram e alla sua eredità ha dedicato di recente un articolo. Archigram viene anche consacrato in una mostra retrospettiva che scarrozza le case vestito, i moduli semoventi e le città degli architetti radicali inglesi nei musei di mezzo mondo.

Trax è andato a ripescare uno scritto di Peter Cook, animatore del gruppo inglese insieme a Warren Chalk, David Greene e Ron Herron, in cui si ricostruisce la storia della rivista portavoce del pensiero architettonico radicale. Dalle prime, timide indagini sulla relazione tra architettura e consumo, fino alle città che si snodano e collegano come punti di una gigantesca rete, dalle unità di abitazione semoventi a interi edifici che, simili a giganteschi ragni, si aggirano per la città, pronti a soddisfare tutti i bisogni dei nomadi del futuro e dei nostri pronipoti. E ancora: i fumetti, le immagini e i progetti che fanno il verso ai manifesti pop della Londra anni Sessanta, i fotomontaggi, una scorpacciata pantagruelica di motivi consumistici e triviali. Insomma, la mappa di un’architettura condannata a rimanere sulla carta, su quel materiale che negli anni Sessanta costituiva il massimo della virtualità possibile.

Il testo che presentiamo venne pubblicato sulla rivista Perspecta di Yale nel 1967, a pochi mesi dall’uscita del settimo numero di Archigram, quando ormai i fondamenti teorici erano già fissati, ma la creatività continuava a esprimersi in forme impreviste.

 

Il nome e la rivista

Perché Archigram? Deriva dal desiderio originario di non creare una rivista regolare e prevedibile con un sacco di pagine e una copertina, quanto dal bisogno di lanciare, espellere (quasi) un oggetto che potesse esplodere nelle mani degli assistenti oppressi degli uffici di Londra e in quelle degli studenti di architettura. Un grosso poster, un collage di immagini, un pamphlet... qualsiasi cosa di cui ci fosse bisogno allora. Da qui il bisogno di un nome che assomigliasse a un messaggio, a qualche comunicazione astratta, a un telegramma, un aerogramma ecc.

Il primo Archigram era un foglio, con alcune poesie di D. Greene. Dopo questo sfogo, che gli architetti senior presero per uno scherzo da studenti e che vendette solo trecento copie, tutti pensavano che Archigram sarebbe morto di morte naturale. Il numero seguente arrivò un anno (e tre concorsi) dopo. Molto più formale, con pagine, impaginati e rilegatura a graffette, raccoglieva progetti e scritti di diversi giovani architetti, non tutti simili, ma uniti nel presentare un punto di vista inedito. Oltre a noi di Archigram c’erano i Christian Weirdies (un gruppo medioevalista) e Cedric Price.

Fu a questo punto che cominciammo a considerare in modo istintivo l’idea della spendibilità come un motivo centrale dell’architettura. Metà dei progetti contenuti nel giornale affrontavano il tema del rifiuto, anche se non c’era stata alcuna discussione o progetto a priori. Questi vennero solo dopo. Di sicuro quando uscì Archigram 3, questi problemi erano ormai diventati una questione fondamentale.

Il quarto numero era già il portavoce di un gruppo più ampio e articolato, il fulcro del quale era senza dubbio il lavoro di Warren Chalk. Proprio come il primo Archigram, anche questo numero infastidì molta gente, soprattutto quelli che ancora consideravano l’architettura una disciplina sacra, con la quale non si potesse giocare e che certo non potesse essere paragonata ai fumetti e ad altri prodotti simili. Il quinto numero era un documento più ampio perché il gruppo nel frattempo aveva cercato alleati in altre nazioni che si esprimessero con lo stesso spirito e (a volte) con le stesse forme. Il sesto numero indagava i dimenticatissimi anni Quaranta, che in Inghilterra avevano segnato l’esplosione del prefabbricato. Allo stesso tempo la rivista conteneva una sezione dedicata alla "scena emergente", con i progetti del primo manipolo di studenti educati dagli architetti Archigram.

Il passo seguente sarà più complesso. I modi in cui il gruppo articola le proprie idee sono sempre più articolati. Archigram 7 è un altro numero-manifesto, poiché il tempo ha dato nuova forma ad alcuni concetti chiave di Archigram, che a causa di una certa sovraesposizione sono ormai sistematicamente fraintesi. Siamo alla seconda fase. Possiamo elencare in dettaglio le nostre soluzioni tecnologiche e i nostri metodi. Esiste ormai un numero crescente di giovani architetti che accettano i presupposti enucleati nelle fasi precedenti: l’idea della spendibilità, il bisogno di immaginare l’architettura come una disciplina aperta, il bisogno di leggere la città — o ciò che la sostituirà — non come una serie di semplici edifici, quanto come una serie di eventi intersecantesi all’infinito. E ancora: il bisogno di immaginare la progettazione di alloggi come estensioni dell’emancipazione umana, protesi per la sopravvivenza, e non semplici case.

Archigram 7 sarà un documento duro e diretto. Ma il nostro gruppo è così ottimista che non potrà esimersi dal presentare le ultimissime proposte e alcuni progetti della seconda generazione di architetti che stanno creando un nuovo fronte di indagine.

 

L’architettura e la nuova scena, 1961-66

Il primo Archigram è stato uno sfogo contro la feccia di Londra, contro un atteggiamento che continuava la tradizione europea di un’architettura di buone maniere, senza fegato, un’architettura assorbita nell’etichetta del Moderno, pur avendo tradito la filosofia del primissimo modernismo. Nessuno voleva riconoscere il nostro lavoro allora. Eravamo alla fase dell’imitazione, del "Continuiamo così, signorine", e la nostra Living City era vista come un progetto folle, destinato a intrattenere il mondo artistico del West End: il nostro messaggio venne raccolto da pochi.

A causa dei nostri attacchi al pubblico dell’architettura — attacchi che peraltro non perdevano di vista i problemi degli oggetti e delle idee — intorno al 1964 cominciammo a essere identificati come "Quelli là". Molti giovani architetti londinesi non condividevano le nostre idee. Sembravano imbarazzati dalla fruttuosità dei nostri progetti e dal rifiuto della tradizione di un’architettura per architetti. Il risultato, il frutto è in realtà tanto importante quanto la lista delle priorità: è troppo facile giocare con valori astratti, elaborare strategie senza combattere battaglie. Disegnare l’oggetto per poi discuterlo: cambiarlo e svilupparlo. Renderlo migliore.

Spesso ci fanno domande sul nostro immaginario pop. Non ci interessa un granché il legame che potrebbe avere, o non avere, con l’omonimo movimento artistico e grafico. Ci sarà sempre un legame a livello storico o dinamico tra il nostro lavoro e quello degli altri.

Di certo la cena surgelata e preconfezionata è più importante di Palladio. Se non altro è più semplice: è fondamentale. È l’espressione di un bisogno umano, il simbolo di un’efficace interpretazione di quel bisogno, una soluzione che ottimizza la tecnologia e l’economia disponibili.

Allo stesso modo i nostri alloggi a capsule riproducono la stessa domanda e la stessa risposta tecnologica. La scala e il grado di complessità sono superiori, ma la base filosofica è la stessa. E se il preconfezionato diventasse l’oggetto preferito? Si tratterebbe di una semplice rigenerazione della tradizione della simbologia dell’architettura. La colonna ionica era l’oggetto preferito di una certa epoca. La pellicola d’alluminio potrebbe diventare il nostro simbolo preferito. Nei nostri lavori più recenti ci siamo accorti che dobbiamo aggiornare e futurizzare alcune parti (almeno dal punto di vista dell’immagine) non appena appaiono obsolete. Solo allora staremo interpretando i valori e i simboli di un’architettura spendibile.

Oggi ci sono molte cose da dire a proposito dell’idea del plug-in. Anche gli architetti più mainstream difendono il progetto di alloggi modificabili. E finalmente possiamo usare la televisione e altri sistemi in quadricromia per descrivere il nostro futuro. Alcuni nostri studenti (e anche noi, speriamo) dovranno realizzare capsule usa e getta. I nostri lavori possono essere citati e copiati, ma non dovranno mai diventare i giocattoli di una cultura povera ma sofisticata. Non ci siamo organizzati politicamente come un gruppo, ma un desiderio di emancipazione sta alla base dei nostri progetti. L’uomo è a un passo dal baratro: svilupperà tutte le proprie potenzialità oppure rinuncerà alla propria esistenza per sempre. In Inghilterra, in questo momento, siamo pronti a sfruttare la nostra genialità: l’uomo deve reinventare se stesso, al di là delle scelte terribili che lo aspettano in questo momento, e deve inventarsi una vita che gli conceda la possibilità di scegliere e dirigere i propri consumi. Noi pensiamo ai nostri progetti come oggetti di consumo. La casa capsula è un oggetto da negozio: le parti che la compongono possono essere cambiate e scambiate, possono essere giustapposte all’infinito. La natura del "luogo" sarà transeunte nella definizione delle proprie parti, ma la vera personalità del proprietario verrà rivelata molto più facilmente. Leggete "casa", ma pensate "uomo".

A volte usiamo la tecnica dei giornali, altre quella della dimostrazione politica, altre ancora il linguaggio accademico. Le magliette Archigram stanno vendendo molto bene. Vogliamo che Archigram dopo cinque anni rifletta questa umano-architettura e allo stesso tempo sprema nuovi lavori dai nostri studenti sofisticati ma indolenti. C’è bisogno di tutta la nostra disciplina per convincere uno studente a costruire città plug-in invece di una bella casettina in mattoni. Non cerchiamo di convertirli. La tradizione architettonica è un piacevole argomento di conversazione: valori formali che non condividiamo, ma di cui si può discutere.

 

It’s All Happening

Forse è una frase un po’ passé, ma davvero it’s all happening, proprio adesso. L’architettura è divertimento, e non siamo superficiali. Pensate alle cose su cui stiamo lavorando: la creazione di una città elettrica, un’unità intercambiabile, pulita, comoda, perfettamente controllabile. La vecchia lotta tra l’uomo, la strada e le auto forse non sarà mai vinta: sarà semplicemente bypassata.

La macchina elettrica non sarà più un servizio che si ferma alla porta di ingresso: diventerà una parte della casa. La sedia lascerà il tappeto e fischiettando seguirà la strada che porta in campagna o in centro (ovunque succedano davvero le cose). La casa non è l’abitazione (Reyner Banham, Art in America, e ha perfettamente ragione). Una stanza non è una stanza, né un muro è solo un muro, basta volere che non lo sia. Gli alloggi a gabbia sono una nostra nuova creazione collegabile alla plug-in city: una struttura minimale alla quale possono essere appese altre strutture, sottocapsule, macchine e sedie a reazione. Si tratta di zone, più che di parti. E ci suggeriscono che in alcuni casi si può coordinare — più che allineare — la posizione degli oggetti. Queste coordinate creano una serie di opzioni: da qui il bisogno di creare binari per schermi, buchi nel pavimento dai quali estrarre aria compressa per gonfiare il pavimento o i nostri schermi televisivi. L’arredamento scomparirà, come l’architettura.

Finalmente gli edifici possono diventare animali, con parti gonfiabili e tubi idraulici e un piccolo ed economico motore elettrico. Gli edifici potranno crescere e rimpicciolirsi, diventare diversi, diventare migliori. La città non è solo una serie di incidenti, è anche una rete di incidenza. City is not a Tree di Christopher Alexander — con la sua fredda logica matematica — ha espresso gli stessi concetti su cui lavoravamo anche noi. È una coincidenza che la città plug-in, il progetto di Friedman e la schema elicoidale giapponese siano tutti concentrati sulle potenzialità della gabbia multistrato e delle diagonali, sugli strumenti che rispondono alle situazioni, invece di incarcerare gli eventi in scatole definitive e piatte?

E ora arriva McLuhan a dire "È quello che dice Archigram": no, professore, non siamo stati i primi a dirlo, ma certo è più che una coincidenza. Siamo soggetti alle stesse pressioni alle quali sono sottoposti tutti.

It’s all happening.

 

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