Vai alla homepage who's who scrivi a trax

 

 

T i m R o l l i n s
Felix Gonzales-Torres

 

Felix Gonzalez-Torres died in 1996, after a short and brilliant career. He is mostly known for his scattered installations of candies, that anyone could take home. Gonzalez-Torres tried to promote the idea of a truly democratic art and it is to his generosity that Trax dedicates the reprint of this interview conducted by his friend and collegue Tim Rollins.

© Art Resources Transfer

Tre anni fa, nel gennaio del 1996, Felix Gonzalez-Torres moriva di AIDS a New York, dopo una folgorante carriera di artista. Le sue opere più note sono senz'altro le pile e le accumulazioni di caramelle e stampe, che i visitatori dei musei erano invitati a prelevare, distruggendo l'opera stessa. In vita Gonzalez-Torres è stato festeggiato con importanti retrospettive, inviti alle biennali giuste e articoli su tutte le riviste specializzate, fino a un toccante coccodrillo in Artforum. Dalla morte però è calato una specie di silenzio imbarazzato su di lui e sulla sua opera, che pure aveva affrontato problemi ancora attuali come quelli dell'identità delle culture cosiddette marginali e degli stereotipi con i quali devono fare i conti gli artisti latinoamericani. Questa intervista, condotta dal collega Tim Rollins, lo ripropone in tutto il suo acume e in tutta la sua generosità, di cui quei mucchi di caramelle destinati a scomparire sono certo la metafora più toccante.

Tim Rollins
Da quanto non vai al cinema?

Felix Gonzalez-Torres
Due anni e mezzo. Andavo sempre al cinema con Ross. Oggi ormai è più comodo noleggiare i video: mi sono abituato a rivedere le scene più importanti. Al cinema non puoi urlare al proiezionista: "Ehi, Joe, possiamo rivedere quella scena?".

Eppure molti tuoi lavori sono cinematici, vengono dai film o spezzoni. E i tuoi lavori con le date mi hanno sempre fatto pensare a dei titoli di coda, mentre le tue accumulazioni assomigliano a una pila di pellicole. E poi ci sono i lavori con le tende. È come se ci fossero dei fantasmi del cinema e dello schermo nelle tue opere.

Penso che i cinema siano dei luoghi di solitudine: uno dei pochi posti in cui mi trovo a mio agio anche da solo. È tutto buio e ti puoi sedere lì e guardare un film. Quando mi sono trasferito a New York, andavo un sacco al cinema perché non avevo amici. Era un modo divertente per passare un paio d’ore da solo. E poi allora c’erano ancora un sacco di cinema bellissimi — cinema d’essai — dove potevi vedere tre film di seguito con un paio di dollari. Lo facevo spesso. Era più che altro una cosa dovuta alla solitudine e agli schermi vuoti. Non è che mi interessassero certi film, mi piaceva più che altro il posto. Il film era una scusa per passare un po’ di tempo al buio. Poi, quando ho incontrato Ross, i cinema hanno assunto nuove connotazioni. All’improvviso il film diventò importante perché era parte del nostro dialogo, del nostro scambio di idee.

Molti artisti oggi lavorano secondo due tradizioni ereditate dal XIX secolo. La tradizione realistica, in cui l’artista riflette ciò che accade nella società - la visione. E poi ci sono gli artisti come Courbet che trasgrediscono questa visione e creano dei commenti sociali, progettano qualcosa. A quale tradizione appartieni?

Dipende dal giorno della settimana. Io scelgo le posizioni più diverse. Magari mi sveglio il lunedì con un umore un po’ politico e il martedì mi sento un po’ più nostalgico e al mercoledì sono diventato un realista. Non credo di potermi limitare a una sola scelta. Non me ne vergogno affatto: prendo qualsiasi posizione mi aiuti a esprimere al meglio ciò che sento e provo a proposito di qualche problema. Le strategie formali sono lì, pronte a essere usate, puoi farne ciò che vuoi.
Quando ho realizzato i primi pezzi con gli schermi vuoti, facevo il cameriere. Tornavo a casa molto tardi la notte e guardavo la televisione per dimenticare i menu del giorno e prima di concentrarmi sulla mia arte. Saltavo da un canale all’altro: c’era un sacco di roba e tutto si riduceva allo stesso, identico livello di insensatezza. Erano tanti frammenti di un enorme spettacolo: le notizie più terrificanti proprio accanto all’anello più costoso proprio accanto al personaggio più alla moda proprio accanto all’olio da cucina. Notizie, eventi, fiction, dati, scandali, bambini affamati, tutti appiattiti sullo stesso livello di inazione, di inutilità storica: un paesaggio oscuro, sterile, privo di senso. Mi sento così anemico stasera, deve essere la pioggia.

C’è una cosa che ho sempre voluto chiederti: perché hai scelto, anzi perché ti sei ostinato a non prenderti uno studio?

Lo vuoi sapere davvero?

Sì, perché è molto curioso. È come se creassi opere d’arte sul tavolo della sala da pranzo, come se fosse un hobby. È un limite incredibile. Ma allo stesso tempo non hai tutti gli altri inconvenienti di uno studio: gli assistenti, i visitatori e tutto il resto. E hai rinunciato completamente ai problemi di luce e spazio, visto che il tuo lavoro è così sensibile al luogo e al contesto in cui è esposto. In sostanza, come crei i tuoi lavori? Mi hai detto che non disegni nemmeno, anche se sono certo che devi disegnare qualche volta. Dovrai pur avere un idea di come sarà il tuo prossimo pezzo. Da dove cominci?

Non progetto mai i pezzi disegnando. Innanzitutto non mi sono mai piaciuti i disegni degli scultori: sono accademici, prevedibili. Io non seguo alcun percorso prescritto. Faccio qualche disegno, qualche foto, ma queste cose hanno una propria funzione specifica. Non sono schizzi per le sculture, sono disegni che rappresentano un insieme parallelo di idee.
La ragione per cui non ho uno studio è che sono piuttosto nevrotico. Anzi credo di essere proprio nevrotico. E se avessi uno studio, sarei completamente paralizzato. La sola idea di avere un posto in cui devo andare per fare qualcosa mi fa cagare addosso. Lo studio è un ambiente davvero spaventoso.

Paura del palcoscenico?

Forse. L’unica volta in cui ho avuto uno studio, non ho fatto niente per sei mesi. Che poi non è così male: ho risparmiato al mondo un bel po’ di inutili opere d’arte. Ho sempre desiderato uno studio, un posto che sembrasse davvero uno studio d’artista, con tutte le cose al proprio posto: le luci, la musica e gli assistenti come in House and Garden. Ma non ho mai avuto i soldi, quindi quando ho iniziato ad avere un po’ di quattrini, mi sono accorto che non mi serviva affatto uno studio. È stata una specie di vendetta, una vendetta dolce. E oggi sono molto felice di avere preso quella decisione perché così devo produrre oggetti tutto il tempo.

Ma allora, parliamoci chiaro, come decidi l’aspetto di una tua opera? Ad esempio Lover Boy: come hai deciso quanto doveva essere lungo? Come hai scelto le dimensioni di ciascun pezzo di carta e quale tipo di carta usare e che dimensioni dare? E come hai scelto il colore? E che posizione dargli?

Be’, l’ho avvicinato al muro perché il blu si riflette sulla parete. La carta è azzurra, è carta comune tagliata in fogli da 24 per 24 pollici.

Ma come facevi a sapere che avrebbe funzionato?

Non lo sapevo. Almeno finché non l’ho installato. Quando non hai uno studio, sei pronto a correre qualche rischio. Ti cambi le mutande in pubblico. Non ho paura di sbagliare: ho paura di preservare i miei errori. Per questo ho distrutto un sacco di lavori: mi piace la sensazione di mandare tutto a puttane, di fare errori colossali. Alcuni artisti riescono a mettere insieme una prova generale nel proprio studio; ma mi sembra troppo facile lavorare così. Non so, credo di non avere mai avuto niente da perdere e quindi ho lavorato sempre a modo mio.

Ma come fai a sapere che funziona. Devi avere almeno un block notes.

Sì, a volte prendo qualche appunto.

Vedi, che ce l’hai! Non sarà uno schizzo, ma almeno ti scrivi le misure da qualche parte. Devi aver scelto la carta, l’hai misurata e devi aver detto: "Ecco, questa è la dimensione giusta". So che il tuo lavoro non è puramente intuitivo, né istintivo.

Ci sono dei numeri misteriosi che mi piacciono. Spesso mi capitano certe cose, in base a certi numeri: cinque, ventiquattro, dodici. E questi sono i numeri che a volte determinano le dimensioni della carta e delle mie accumulazioni.

Un minimalismo mistico?

Sì e no. Alcune accumulazioni sono trentadue per ventinove pollici semplicemente perché quella è la misura della carta. Se poi un pezzo è molto distante da me, allora scelgo numeri come il diciassette, il venticinque e il ventuno, perché questi sono numeri che potrei usare solo per oggetti con i quali non mi trovo a mio agio. L’altezza invece dipende più che altro da come stanno quando sono installati in galleria. A volte penso che una decina di pollici andranno bene ma poi in galleria dieci pollici non bastano, non vanno bene. E allora devo aumentare o diminuire il numero dei fogli. Con i nuovi pezzi, le luci, lascio la scelta agli altri: non mi preoccupo del modo in cui verranno installate le luci, mi limito a dire quante lampadine ci devono essere in ciascun pezzo.

Ma così ti serve tantissimo tempo per l’installazione?

No, di solito faccio tutto in un giorno. Per alcune mostre ti bastano un paio d’ore ed è tutto fatto, me ne vado. È che in realtà penso al lavoro e all’installazione per un sacco di tempo. Ci perdo ore e ore di sonno per queste cose. Sono appena tornato da Vienna con le foto della galleria di Peter Pakesch e mi sveglio nel mezzo della notte per scrivere qualche appunto sull’installazione, così che quando arrivo alla mostra...

Quindi disegni?

A volte. Sono cose che finisco dritte nel cestino appena finisce la mostra. Non le metto da parte: non le firmo, non le numero, non ci metto la data. Sono solo cose che mi aiutano a produrre il pezzo definitivo, che l’unica cosa su cui voglio che si concentri il pubblico. L’idea voyeuristica che qualsiasi cosa faccia un artista sia interessante non mi affascina per niente. È roba per People.

Quindi non pensi che gli schizzi siano importanti o possano servire agli altri?

No, perché non voglio che il pubblico faccia i conti con l’insicurezza che precede la costruzione degli oggetti. C’è un sacco di paura racchiusa negli schizzi. Penso che quando ho iniziato a realizzare le accumulazioni e le pile di fogli stavo ancora cercando di capire Walter Benjamin. Ho letto Benjamin quando studiavo al Whitney, ma non l’ho capito subito perché ero troppo giovane. Ero appena uscito dal Pratt Institute dove avevo sprecato quattro anni di vita. Il Pratt Institute è un posto dove un insegnante ti guarda dritto negli occhi e ti dice senza imbarazzo che devi essere "onesto e sincero nei confronti dello spazio". Pratt è un posto dove gli insegnanti preservano il proprio posto di lavoro mandando a puttane il cervello dei giovani. Ci sono questi corsi inutili, tipo "Spazio, Forma e Forme", stile Bauhaus, ma senza alcun contesto sociale, privi di qualsiasi interesse. Dalla forma radicale al vuoto stilizzato in quattro facili passaggi.

Vorrei che mi parlassi un po’ di teorie e libri. Entrambi, io e te, veniamo da un mondo in cui i libri venivano guardati con sospetto.

Per me è una cosa gay, almeno dal mio punto di vista.

Credo più che altro che abbia a che vedere con il desiderio di un mondo più grande. Credo che derivi dalla voglia di lavorare con le idee. E ci vuole un certo coraggio per entrare in questo mondo. Ma c’è anche un rischio nella teoria: arrivi a un livello di educazione in cui la teoria e la pratica si equivalgono.

Guarda, devo dire che se non avessi letto Benjamin, Fanon, Althusser, Barthes, Foucault, Borges, Mattelart e molti altri, non sarei mai riuscito a fare certe opere, né a raggiungere certe posizioni. Alcune idee e alcuni scritti mi hanno trasmesso la libertà di vedere in un certo modo. Queste idee mi hanno condotto nel territorio del piacere e mi hanno insegnato a capire come si costruisce la realtà, come il sé è informato di cultura, come il linguaggio costruisce certe trappole. Mi hanno fatto scorgere alcune crepe nelle grandi narrazioni - crepe in cui si può esercitare una certa forza. E naturalmente mi hanno fatto capire il significato delle influenze e dei modelli.
Ma anche i film mi hanno influenzato molto: i film di Godard, Journeys from Berlin di Yvonne Rainer, ma anche One Way or Another di Sarah Gomez - una lettura femminista della rivoluzione cubana. Questo film è molto interessante perché parla del significato dell’amore durante un particolare momento storico. L’ho visto nella settimana in cui ho visto Hiroshima, Mon Amoir.

È un grande film sull’amore.

No, è un film che parla del significato e di come i significati dipendano dal contesto. E poi c’è anche l’influenza di Brecht. Penso che se dovessi ripetere l’elenco delle mie influenze, comincerei da Brecht. È stato molto importante perché, essendo un artista sudamericano, ci si aspetta da me che sia pazzo, colorato, incredibilmente colorato. Dovremmo essere abituati a "sentire", non a pensare. Brecht ha insegnato a mantenere una certa distanza, a lasciare un certo tempo allo spettatore, al pubblico, il tempo di riflettere e pensare. Quando esci dal teatro, non dovresti avere una catarsi, quanto un’esperienza intellettuale, di pensiero. E soprattutto ci ha insegnato ha distruggere il piacere della rappresentazione, della narrazione scorrevole. Questa non è la vita: è solo teatro. Tutto questo mi è sempre piaciuto: questa non è la vita; è un’opera d’arte. Voglio che lo spettatore sia coinvolto intellettualmente, informato, provocato.

Ad alcuni non piace.

Certo che no, perché sono affezionati alla narrazione. Dagli artisti ci si aspetta che sappiano "sentire", devono essere degli idiot savant. Ammiro gli artisti che infrangono le regole, artisti pronti a dirti quanti soldi sono stati tolti dai programmi per l’assistenza alle donne incinta.

Ciononostante tu non sei né Brecht, né Althusser. Probabilmente ti verrebbe un infarto se ti chiedessi se Dan Flavin è stato un tuo mentore?

No, non avrei un infarto. È un gesto eroico e poetico quello di prendere una luce fluorescente e trasformarla in qualcosa che è più di una luce, senza nemmeno dipingerla. Ma la mia ammirazione per Flavin si ferma lì.

Tu però hai assunto delle strategie costruttiviste e minimaliste e le hai concentrate in un lavoro che industriale quanto quello di Flavin e personale quanto la poesia di Emily Dickinson.

Sì, i miei lavori sono decisamente industriali.

Come sono nate le tue accumulazioni di fogli e caramelle?

È difficile dirlo Non me lo ricordo, davvero. Le prime pile le ho fatte con i pezzi delle date. Intorno al 1989 tutti lottavano per avere un pezzo di parete. Lo spazio sul pavimento invece era libero, era una zona marginale. E poi volevo restituire allo spettatore e al pubblico qualcosa che non era mai stato veramente mio: un’esplosione di informazione, che in realtà è un’implosione di significato. In secondo luogo quando ho iniziato a fare i mucchi di fogli - è stato per la mostra da Andrea Rosen - volevo fare una mostra che sparisse completamente. Era un lavoro sulla sparizione e l’apprendimento. Volevo anche attaccare il sistema dell’arte e volevo essere generoso. Volevo che il pubblico potesse conservare il mio lavoro. Era davvero eccitante che qualcuno potesse venire alla mostra e potesse andarsene con un mio lavoro. Freud ha detto che mettiamo in scena le nostre paure per diminuirle. In un certo senso questa generosità - il rifiuto di una forma statica, della scultura monolitica, a vantaggio di una forma fragile, instabile - era un modo per mettere in scena la mia paura di perdere Ross, che scompariva a poco a poco davanti ai miei occhi. Ed è una sensazione molto strana quando vedi il pubblico che entra in galleria e se ne va con un pezzo di carta che è tuo.
Poi è un casino quando mostro i miei lavori nei musei perché la gente non si aspetta di poter toccare le opere, tantomeno di portarle via. Nel 1991 alla Biennale del Whitney il pubblico si avvicinava alle guardie per chiedere se fosse vero che i pezzi erano da portar via. Invece ho fatto una mostra in una galleria di New York e c’era questa artista dell’East Village che ce l’aveva a morte con il mio lavoro. Non lo sopportava. L’ho vista prendere venti, venticinque foglie e gettarli nel cestino della spazzatura.

Penso sia uno degli svantaggi della democrazia.

Immagino ci sia un sacco di spazzatura nel lato più oscuro della democrazia. Ma continuo a preferirla, nonostante i suoi difetti.

L’amore e la paura sono due temi centrali nella tua opera.

È strano che te ne sia accorto. L’amore ti dà una ragione di vita, ma è anche un motivo di panico, si ha sempre paura di perdere quell’amore.
Non è che abbia lavori diversi: sono solo fronti diversi sui quali lavorare. È come essere un travestito: mi metto abiti diversi a secondo di ciò che serve in un dato momento. A volte faccio le mie pile di carta, altre volte lavoro sulle tende, a volte scrivo un testo, o una tela, una serie di luci o un pannello pubblicitario. Ci sono opre che crescono e cambiano col tempo. C’è un lavoro in cui spedisco al proprietario di tanto in tanto e lui la mette in una scatola. È un’opera che non deve mai essere esposta. Non so se conosci questo lavoro.

No, chi riceve cosa esattamente?

La persona che compra la scatola vuota riceve degli oggetti via posta.

E dove si compra la scatola?

Da Andrea Rosen. È un’opera che non deve essere esposta. Mi piace lavorare sulle contraddizioni: creare opere completamente private, quasi segrete; e allo stesso tempo creare lavori pubblici e accessibili. Purtroppo molto arte pubblica è solo arte da paesaggio. Il fatto che venga piazzata in strada, non trasforma automaticamente un’opera in lavoro pubblico.

Si parla molto del fatto che nel tuo lavoro non ci siano riferimenti diretti alla politica e alla cultura latinoamericana.

Be’, mi posso scusare dicendo che il mio prossimo lavoro è una scultura a forma di maracas (Ride). Vedi, è che io non sono un simbolo facile da usare, non uso i colori giusti; ho degli interessi molto personali. Alcune persone cercano di promuovere il multiculturalismo, a patto di esserne gli unici promotori, gli unici direttori del circo. E ti assegnano un ruolo molto preciso e limitato. È come se fossimo in vetrina: noi - l’Altro - dovremmo inventare solo performance rituali ed esotiche per soddisfare i bisogni della maggioranza. Fortunatamente questa parodia è sempre più noiosa. A chi spetta il diritto di definire la mia cultura? Non è solo Borges e Garcia Marquez, è anche Gertrude Stein e Freud e Guy Debord: sono tutti parte della mia formazione.
Il problema è che non sono mai stato circondato dalle cose che la gente identifica con la cultura latinoamericana. Non so come sia un ghetto, non ho mai vissuto nella giungla e non ho mai costruito un altare. Quindi quando la gente dice: "Oh, dovresti fare questo. Dovresti essere così", penso sempre si tratti di un senso di colpa. Si aspettano che noi si indossi ancora una bella gonnellina di erba. Non capiscono cosa ci interessa davvero. Non sanno nulla delle nostre esperienze, di quanto siamo ibridi. Sono rimasti alle immagini del National Geographic del 1950. E questi pregiudizi si fondano sull’ignoranza e sulla condiscendenza.

Eppure anche tu sei coinvolto nel sistema del profitto. Compri un centinaio di dollari di carta, ci stampi sopra qualcosa e la rivendi a un migliaio di dollari, perché è diventata arte. E anche se tutti hanno il diritto di prendersi uno dei tuoi fogli, prima o poi ci sarà un collezionista che comprerà l’intera pila di carta e se la porterà a casa dove solo gli ospiti di riguardo avranno il diritto di prendersi un foglio. I meccanismi del mercato trasformano l’arte in novità. Cosa pensi di queste contraddizioni?

Per quanto mi riguarda, credo che sia giusto appartenere al mercato. Tutti si aspettano che io lavori negli spazi alternativi: sarebbe normale, naturale; ma è più pericoloso che ci sia gente come me nel mercato, in particolare se pensi che è una montagna di carta che non ho quasi toccato. Queste contraddizioni sono cariche di senso.

Da dove viene la tua conoscenza del lavoro manuale?

Dai piatti di spaghetti che ho servito quando facevo il cameriere. L’idea contraddittoria di assumere delle persone per fare il lavoro manuale deriva dal desiderio di mantenere una certa salutare distanza dall’opra. Voglio solo forzare i limiti. Mi piace quando la gente dice: "Ehi, sono solo dei pezzi di carta, delle semplici lampadine". Mi piace pensare a me stesso come un infiltrato. Ho sempre voluto essere una spia. Voglio che le mie opere sembrino qualcos’altro, qualcosa di non artistico, eppure qualcosa di bello. Non mi piace il contrasto, l’opposizione, perché l’opposizione si schiera sempre a favore di una posizione: "Rafforzati le braccia contro di me". Invece se sei una spia, se fai il doppio gioco, se stai nel sistema, sei la persona più pericolosa perché appartieni al sistema ed è impossibile definirti.

Sei una persona molto politica, eppure la forma ti preoccupa molto.

Sì, adoro le questioni formali perché hanno sempre un significato molto preciso. La forma deriva il proprio significato dal momento storico. L’esercizio minimalista dell’oggetto puro e pulito è solo un modo come un altro per affrontare la forma. Carl Andre ha detto: "Le mie sculture sono masse e il loro soggetto è la materia". Ma dopo vent’anni di pensiero femminista, abbiamo finalmente capito che "guardare" non significa semplicemente "guardare", che la vista è investita di identità, di problemi di genere, di status economico, di razza e di gusti sessuali. Il vedere è investito di molti altri testi. Le sculture minimaliste non sono mai state delle pure e semplici "strutture primarie": erano strutture avvolte in strati molteplici di senso. Dire che questi oggetti sono solo masse è come dire che l’estetica non è politica. Ma provate a farvi qualche domanda per descrivere l’estetica: L’estetica di chi? Di quale momento storico? E in quali circostanze? Per quali fini? Che ci crediate o no, io mi interesso di problemi formali, sì, e qualcuno come me - l’Altro - può affrontare problemi formali. Non è un territorio riservato all’uomo bianco. Mi dispiace, ragazzi.

Qual è la funzione della duplicazione e della ripetizione del tuo lavoro? Le pile di carta o le montagne di caramelle che, attraverso l’accumulazione, compongono un pezzo sono forme interne; ma allo stesso tempo ciascun foglio, ciascuna caramella esiste come un pezzo a sé.

Tutti questi lavori sono indistruttibili, perché possono essere duplicati all’infinito. Esisteranno sempre perché in realtà non esistono, o perché non devono esistere sempre. Sono creati per le mostre, o a volte sono creati in luoghi diversi contemporaneamente. Non esiste un originale, ma solo un certificato di originalità. Cerco di alterare il sistema di distribuzione di un’idea attraverso la pratica artistica; ed è quindi imperativo che l’opera investighi anche nuove nozioni di allestimento, produzione e originalità.
E per quanto riguarda i contesti diversi, si tratta di una questione piuttosto complessa che deve essere agganciata a un esempio specifico. Come sappiamo, il contesto attribuisce il senso agli oggetti. Il linguaggio delle mie opere dipende, in gran parte, dal fatto che sono esposti e letti in contesti artistici: gallerie, arte e giornali.

Le tue opere sono una metafora della relazione tra l’individuo e la folla?

Forse, tra il pubblico e il privato, tra il personale e il sociale, tra la paura della perdita e la gioia dell’amore, del cambiamento, della crescita, del diventare di più sempre di più, ma anche della paura di perdere se stessi a poco a poco e di dover rinascere a poco a poco, dal niente. Io ho bisogno dello spettatore, dell’interazione del pubblico. Senza pubblico i miei lavori sono il nulla. Il pubblico completa i lavori: gli chiedo di aiutarmi, di prendersi una responsabilità, di diventare parte del mio lavoro, di unirsi a me. A volte penso a me stesso come una specie di regista teatrale che cerca di trasmettere certe idee reinterpretando la divisione dei ruoli: pubblico, regista, autore. Quindi la tua domanda in realtà è più complessa di quanto pensassi, perché un pezzo di carta non costituisce l’opera in sé, eppure è un’opera; ma allo stesso tempo non lo è perché non c’è un vero pezzo, solo un’altezza ideale di copie infinite. Come sai, queste pile di carta sono composte da copie infinite o da stampe prodotte in massa. Ma in un certo senso ogni singolo pezzo acquista delle nuove valenze in base alla sua destinazione, che dipende solo dalla persona che lo sceglie.
Per questo creo degli oggetti e non faccio performance. Anche se amo il processo più che il prodotto finale. Ma devi accettare le regole del gioco: devi far circolare un oggetto nel mercato, per avere un accesso più diretto al potere. Per anni ho aspettato la rivoluzione, che non è mai arrivata. Non voglio più una rivoluzione: troppi sforzi per niente. Voglio lavorare all’interno del sistema, lavorare con le contraddizioni del sistema, cercando di migliorarlo.

Credi che realizzare un’opera d’arte sia una dichiarazione di fede? Che voglia dire credere all’esistenza di un significato? E al limite che implichi il riconoscimento della presenza, dell’esistenza di Dio?

Liberiamoci subito dell’idea di dio. Penso che sia solo un modo per accettare qualsiasi situazione come naturale e inevitabile. Una volta che capiamo che non esiste dio, che non c’è l’aldilà, allora la vita diventa un’asserzione molto precisa, positiva. Devi assumerti la responsabilità di rendere la vita migliore.

Quindi qual è il ruolo dell’arte?

Lascia un segno. Una frase che dimostra che sei stato qui, che è possibile guardare la vita in modo diverso.

E perché dovrebbe interessare?

Penso che una delle ragioni per le quali creo delle opere sia Ross.

Ma anche per il pubblico?

Faccio arte anche per descrivere i miei sentimenti nei confronti di ciò che è fuori dalla mia sfera privata.

Non ho mai conosciuto un’artista che amasse il proprio pubblico quanto te;

Tutto comincia dal modo in cui ami ciò che hai in casa. Non puoi uscire a predicare se la tua casa non è in ordine: non puoi predicare un nuovo ordine sociale. L’arte è soprattutto un modo per lasciare una traccia della mia esistenza: io ero qui. Ho avuto fame, sono stato tradito, ero felice, ero triste, mi sono innamorato, ho avuto paura, ho avuto tante speranze, ho avuto un’idea, avevo un buon fine, ecco perché faccio arte.

 

  Vai alla homepage who's who scrivi a trax