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W i l l S e l f
Intervista a Martin Amis

 

Due maestri della narrativa inglese a confronto: Martin Amis e Will Self si affrontano, parlano di ispirazione, Nabokov e topografia in una tra le più brillanti conversazioni d'autore.

Two masters of contemporary English fiction, Will Self and Martin Amis, sit down to talk about inspiration, perspiration, Nabokov and topography.

© Will Self

Will Self - La domanda che mi rivolgono più spesso i non scrittori è "Dove prendi le tue idee? Da dove vengono?". A un non scrittore l’immaginazione sembra una facoltà separata dal resto della mente, che sputa fuori le idee. Non so se sei d’accordo, ma non è così che immagino la mia creatività. Non sono nemmeno sicuro di credere all’idea di immaginazione.

Martin Amis - Sì, credo che il vero mistero sia il talento. Qualsiasi scrittore ha passato una di quelle giornate di puro sforzo, in cui ti sembra di far pulizia, cercando di arrivare al nocciolo. Auden diceva che scrivere è come grattare la polvere da una vecchia roccia per leggere l’inscrizione nascosta.

Ma ci sono anche idee alternative: c’è Hemingway che si sente "spremuto" o Simenon che pensa a se stesso come qualcuno impegnato nella visione di un film interiore, il cui dialogo viene trascritto mano a mano. Hai mai l’impressione di esserti affidato a una scrittura automatica?

Kerouac scriveva semplicemente qualsiasi cosa gli passasse per la testa, si affidava a una specie di borbottio interiore, trascrivendo quello che pensava. Ma la mia scrittura al massimo raggiunge una sorta di flusso comico, un flusso di invenzione comica. Allora le idee si susseguono, si suggeriscono a vicenda, scorrono in modo naturale, e la commedia diventa sempre più ridicola, sempre più comica.

È come essere un cabarettista, vero? Il tempo di ciascuna gag suggerisce quella seguente. E quando scrivi è come se assistessi a una specie di biforcazione: ti crei un pubblico interno che ridacchia aspettando la battuta successiva.

Sì, è così che funziona. C’è un aneddoto che esprime bene questa condizione: sai quando dovevi mettere per forza la professione sulla carta di identità? Sì, allora c’è questo scrittore che deve andare in Uganda e in aereo tira fuori il passaporto e cambia la professione per non correre troppi rischi. Fa un paio di scarabocchi e "scrittore" diventa "aspettatore". Scrivere, secondo me, significa aspettare. Non una semplice attesa, tranquilla seduto a tavola; no, una specie di veglia, piuttosto. Quando la scrittura non scorre, quando non c’è quella voce che ti detta cosa scrive, allora è meglio sedersi e aspettare.

La pigrizia è in un certo senso necessaria alla scrittura, vero?

È una specie di sensazione onirica. Ed è incredibile che è in quello stato che ti guadagni da vivere. Entri in un regno ipnotico, fatto di parole, e devi restarci finché le parole non sono tutte pronte, in ordine. Penso di nuovo a Auden: lui parla di poesie che "aspettavano di essere scritte", oppure diceva "questo poema non è ancora il mio migliore". E poi gli piaceva riscrivere, accorciare le poesie. Diceva sempre che Settembre 1939 era "una buona poesia, ma non avrei dovuta scriverla io".

Sì è un poema molto grezzo, molto rivelatore. È strano però che citi Auden. Cosa rappresenta per te? Lo senti vicino perché è come te uno scrittore inglese in esilio?

L’idea più diffusa è che Auden abbia commesso un suicidio letterario lasciando l’Inghilterra per l’America. E c’è qualcosa di vero in quell’idea. Ma per me Auden è l’ultimo dei poeti-demiurghi, una figura statuaria che parlava con autorità statuaria. È questa autorità – nel senso che gli avrebbe dato Shelley – che seduce tutti gli scrittori ispirati da Auden. Questa qualità è ormai scomparsa dalla poesia, ora tocca ai romanzieri. Ma c’era qualcosa di inimitabile e quasi ripugnante nello stile aulico di Auden.

Quindi cosa ti attrae di lui?

La sua voce.

Non l’idea del suicidio letterario?

No, quella non è la mia posizione, quello è il senso comune. Al contrario di Larkin o di mio padre, non sono convinto che sia stata la codardia, la fuga a incrinare il suo talento. No, non credo siano andate così le cose.

Cambiamo argomento. Mi sono sempre chiesto se con Territori londinesi hai voluto scrivere un romanzo manifesto. Voglio dire, un romanzo in cui di proposito hai voluto legare la tua voce a quella del tempo, dello zeitgeist, se vuoi…

No, non credo di aver mai sentito il bisogno, o la pressione, di scrivere in un modo o in un altro. Territori londinesi è nato come un racconto: doveva essere una storia di sessanta pagine intitolata The Murderee. Avevo già inventato il personaggio di Keith e quello di Nicole, si sarebbero incontrati e da lì sarebbe venuta l’azione. Ma il racconto è cresciuto quando si è inserito il terzo personaggio, Guy, che ampliava l’ambientazione sociale, quindi si è aggiunto il narratore, che allo stesso tempo svolgeva il ruolo di attore.

Quindi il narratore si è inserito dopo?

Sì, praticamente io non ho mai scritto una storia semplice, in cui l’azione venga presentata come reale, o almeno realmente accaduta: c’è sempre un elemento ludico e c’è sempre una specie di scrittore che si aggira tra le pagine, un narratore-attore. Territori londinesi è una specie di gioco postmoderno in cui il narratore trascrive quello che sta succedendo perché è incapace di inventarsi qualsiasi altra storia.

E poi c’è Mark Aspery, che sommergi in atmosfere orribili

Sì, lui è l’antiscrittore.

Fai dell’autoironia?

No, in realtà è una parodia dell’odio che alcuni mi indirizzano contro. Ma in un certo senso è proprio così che immagino un vero scrittore odioso.

Ti sei diviso in due personaggi quindi. Addio "Madame Bovary c’est moi".

Sì, lo faccio sempre, credo che abbia a che fare con la mia natura essenzialmente comica e spietata. Molti scrittori, se avessero scritto Territori londinesi, avrebbero semplicemente usato un solo personaggio maschile, che in alcuni punti sarebbe stato romantico, in altri lascivo, avrebbe avuto idee generose e meravigliose, e in altri momenti solo pensieri perversi e spietati. Agli scrittori piace avere un solo figlio, che a volte si comporta bene e altre volte male. Ma io riesco a raggiungere uno stile comico e fluido solo quando riesco a separare questi tratti. Molti scrittori cercano di cogliere le sottili oscillazioni tra due caratteri, a me piace separarli, tenerli il più lontano possibile, con un bel muro in mezzo.

Direi che questo atteggiamento deriva dal fatto che tu, sotto sotto, sei uno scrittore satirico. E la satira cresce sulla esagerazione comica, sugli stereotipi.

E tu, sei uno scrittore satirico?

Certo, senza dubbio, un critico ha detto a proposito del mio Quantity Theory: "Non credo che a Self interessino i personaggi, o la narrazione; piuttosto lo affascinano la ricerca stilistica e il linguaggio". Mi sembrava perfetto. Ho letto questa recensione quando stavo scrivendo Misto maschio, che in realtà è semplicemente un gioco sofisticato sul fallimento della narrazione. E ho scoperto che era vero: i personaggi non mi interessano affatto. In ultima analisi non credo nemmeno all’idea di un realismo psicologico. Credo che sia morto con il romanzo dell’Ottocento.

Sì, anch’io credo che alcune nozioni, il carattere, le motivazioni, l’intervento del fato, sono semplicemente creazioni nostalgiche.

Sì, è una specie di sentimentalismo.

Non so se i personaggi siamo mai stati reali, nemmeno in passato. Ora però tutto deve essere più incoerente e complesso.

Kundera dice che la gente costruisce motivi elaborati per abbellire la propria vita, per spiegare la propria vita a se stessi. Forse nell’Ottocento la gente si divertiva di più con quelle spiegazioni, doveva sembrare una scelta legittima. Ma noi non ragioniamo più così.

Pensa al materiale grezzo che avevano allora, e a ciò che abbiamo a disposizione noi oggi. Oggi la gente vive la condizione postmoderna: cioè siamo esseri dissociati in cerca di una forma. E lo strumento, l’arte, con cui si dà forma alle nostre vite è la televisione. Nell’Ottocento c’era qualcos’altro, non so cosa fosse, ma non c’era la televisione. Poteva essere il peggior romanzo da quattro soldi, ma almeno non era una telenovela, capisci?

Sì, ma mi sembra una posizione legittima. Non capisco perché qualcuno non possa accettare questa situazione: è la percezione comune a dare una validità ontologica al mondo. La televisione è il nostro nuovo sostrato, se vuoi.

Ma cosa ti spinge in realtà a dare forma alla vita? Credo che sia una disposizione artistica, in un certo senso, anche se implicita. Invece di farlo sulla pagina, dai direttamente forma alla tua vita, o al modo in cui immagini la tua vita.

È una situazione paradossale però: gli scrittori, la gente che per lavoro descrive la vita dei nonscrittori, non ha la più pallida idea di cosa significhi vivere quella vita, mi segui?

Sì, agli scrittori la vita dei nonscrittori sembra terribilmente piatta e pallida: sembra monodimensinale, perché nessuno fa niente con quelle vite. È come essere schiavi della vita stessa.

Vorrei che parlassimo un po’ del modo, o della libertà, con cui citi i tuoi maestri nei tuoi romanzi. È una capacità che ti ho sempre invidiato, qualcosa che non riuscirei mai a fare, soprattutto con Nabokov ad esempio. Ho in mente un paio di pagine in Territori londinesi in cui ti chiedi come avrebbe reagito Nabokov, come avrebbe trattato quei fatti che hai appena finito di descrivere. I tuoi mentori sono fantasmi o barriere che innalzi per non perderti nell’immagine tardo romantica dello scrittore autodistruttivo?

Ormai i miei maestri non sono più una vera e propria influenza e quindi li posso riconoscere e citare nelle pagine dei miei romanzi: sono fonte d’ispirazione. È una specie di rito di passaggio: quando smettono di essere un motivo d’ansia, diventano qualcos’altro.

Quindi è come se ormai fossero al tuo stesso livello?

No, assolutamente no. Se penso a Nabokov o a Bellow, oggi so che non potrei più rubare una loro frase per uscire da un angolo in cui mi sono cacciato con la mia scrittura. Il fondamento di qualsiasi forma di plagio consiste nel sentire nel tuo lavoro la presenza e la sicurezza di un altro scrittore, che sia riconosciuto da tutti come un grande scrittore. Quindi quando plagi pensi: se riesco a mettere qualche loro frase nella mia storia, allora darà un po’ di forza a quello che scrivo. Ma in realtà si tratta di una forma di debolezza. Oggi invece quando affronto una certa scena o una descrizione, non mi chiedo più "Come l’avrebbero scritta loro?". Oggi so che loro l’hanno già fatto, e a me spetta il compito di farlo di nuovo, e di farlo in modo diverso. È la sensazione piacevole di avere un amico accanto, diciamo. Ormai ho imparato a far corrispondere il talento con l’universale. Nabokov, quando gli chiedevano di distinguere i vari stili e le diverse scuole di scrittura, diceva che in realtà esiste un solo tipo di scrittore: lo scrittore di talento.

Dove lo dice?

Oh, non ricordo, forse in Strong Opinion. Il talento è un concetto molto strano. Quando invento un personaggio che so che non piacerà ai lettori, continuo a scrivere senza preoccupazioni: è quasi assiomatico che più il personaggio è odioso, e più finirà col piacere ai lettori. È sempre stato così: ci sono sempre piaciuti i briganti e i villani. Semplicemente perché – come ha detto Updike – è la vita che ci piace davvero. E se un personaggio è vivo, allora ci piace. Se è un personaggio vitale, non ci importa niente della sua moralità. È una questione di universalità, tutti noi siamo stati quel personaggio, forse solo in una piccolissima percentuale, ma lo siamo stati, ecco perché ci piace.

Nabokov si è sempre interessato al problema della topografia in letteratura. Nel suo saggio su Northanger Abbey disegna persino un diagramma della casa…

E Joyce ha disegnato una mappa di Dublino.

Quando scrivi di Londra, vuoi che i lettori abbiano l’impressione di essere nella vera Londra? E fino a che punto devono conoscere la città?

Ma, a dire il vero, non ho mai capito perché Nabokov fosse così affascinato da questi problemi. Credo che fosse una specie di correttivo letterale: vuole cancellare quella nebbia che il lettore percepisce in certi romanzi. È per la stessa ragione che amava ripetere che non ci si deve identificare né con l’eroe né con l’eroina, ma con il narratore. Vuole che il lettore capisca cosa fa il narratore. Ti ricordi il dibattito che è seguito a Il falò delle vanità. Quando Tom Wolfe ha scritto quell’articolo parlando di quanti straordinari soggetti ci sono là fuori, nella realtà. E lo scrittore dovrebbe essere un giornalista, dovrebbe fare più ricerca. Be’, per me non funziona così: non voglio troppa ricerca nei miei romanzi. Ed è così che penso a Londra. Non voglio che si capisca tutto. Naturalmente ci casco volente o nolente, ma trasformo Londra, la ricreo nella mia psiche. Quindi, alla fine, non è più la stessa città. È Londra filtrata dal mio cervelletto.

Ti devo confessare che la tua versione di Londra mi sembra un po’ alla Saul Steinberg: ci sono tutti quei segni, un sacco di nuvole, si direbbe che le nuvole e le stelle ti interessano più di qualsiasi altra cosa.

Sì, è verissimo, mentre la strada è sempre la stessa.

E il cielo è quasi un’ossessione.

Bellow dice che la voglia di trascendere è tipica della vita nel ghetto. Se ti guardi in giro non vedi altro che la bassezza umana, e quando Bellow aveva dieci anni ormai aveva visto di tutto, omicidi compresi: e allora la testa si alza, lo sguardo si solleva, non hai altra scelta. Quindi se vivi in una città, punti lo sguardo al cielo. È un imperativo fisiologico quasi. Quando guardo la città, mi chiedo "Che cavolo ci fanno queste cose qui?". Nessuno ha mai detto che ci dovevano essere le città. È semplicemente una direzione che abbiamo preso, escludendone altre. Quando cammino per strada, penso: perché le macchine, i parchimetri, i muri, i mattoni. Chi ha deciso che dovesse essere così?

La mia versione di Londra è invece una trascrizione più letterale.

Be’, la tua Londra è il tuo mondo. È un posto che nessuno conosce, che non è mai stato scritto. È una specie di supersobborgo, immerso nell’oscurità, in cui la gente fa lavori di cui non hai mai sentito parlare prima.

Eppure io potrei disegnare una guida alla mia Londra. Una volta un tizio schizofrenico ha bussato alla mia porta in Shepherds Bush e mi dice: "Puoi accompagnarmi in macchina fino a Leytonstone e darmi 17.37 sterline?". E io l’ho fatto: eravamo in macchina, direzione Leytonstone, e lui stava delirando, completamente fuori. E gli dico: "Ehi, amico, tu sei pazzo. Voglio controllare sulla cartina se esiste davvero il posto dove vuoi andare". E lui mi dice: "Entrambi sappiamo che la cartina è solo un progetto di quello che deve ancora essere costruito". Ecco, è così che immagino la mia versione di Londra. Nella mia Londra – e guarda che non voglio criticare la tua idea – nella mia Londra tra il cielo e i segnali stradali c’è molto di più. Mi interessa molto la realtà fisica degli edifici e del paesaggio. Ed è piuttosto strano che Nabokov usasse la geografia come un correttivo, perché in realtà quando pensi al suo lavoro non ritrovi queste preoccupazioni topografiche. Parliamo ancora po’ di Nabokov se ti va. Tu hai scritto l’introduzione alla nuova edizione di Lolita, e affronti il libro dal punto di vista morale. Non è un colpo basso?

Forse c’è una certa componente edipica: mio padre aveva scritto un saggio su Lolita, attaccandolo dal punto di vista morale. Aveva affermato che non ci fosse nessuna distanza tra Nabokov e Humbert Humbert. Diceva, prendete Pnin, è scritto nello stesso stile, quindi non ci sono dubbi, Lolita parla la lingua di Nabokov, è la sua voce, forte e chiara.

Allora è davvero edipico…

Sì, volevo scrivere qualcosa che potessi dare a mio padre e dirgli: "Beccati questa". Ma c’era anche un’altra storia, un saggio scritto da un mio amico, Craig Raine, un lettore molto attento e intelligente. Diceva che il finale era una soluzione posticcia, applicata solo per giustificare quel balletto satiresco che si snoda per duecento cinquanta pagine. E questa idea non mi convinceva: credo che per tutto il romanzo l'autore controlla perfettamente il materiale morale del libro. In ogni pagina è in grado di anticipare qualsiasi obiezione morale che vorresti sollevare.

Cambiamo argomento di nuovo. Ti piacerebbe essere ebreo?

Sì, sono un perfetto filosemita. La mia prima ragazza era ebrea. E mi è sempre piaciuto quel loro acume, la loro spinta verso il trascendentale. Sono senza casa e quindi alzano sempre la testa verso il cielo.

E poi credo che siano una controparte perfetta all’antiintellettualismo tipico degli inglesi. Quella ebrea è una cultura in cui gli uomini possono essere affettati e studiosi allo stesso tempo.

Sì, io ho sempre associato l’esperienza ebraica americana a questa immagine di un ragazzino di tredici anni che vive nel ghetto e va in biblioteca a leggere, che so, Spengler. E alla sera torna in questa vecchia casa che divide con otto famiglie polacche, che si odiano a morte da sempre. E poi mi piace la promiscuità di registri linguistici e sociali. Il modo in cui gli ebrei combinano cultura alta e bassa. Ecco cosa mi piace.

Ed è una delle conquiste dei tuoi romanzi: mescolare l’alto e il basso, il mandarino e il proletario.

È per questa ragione che cerco di evitare le classi medie nei miei lavori.

Non ti piace la loro lingua?

Sì, non succede mai niente nella media borghesia.

Come me, anche tu vuoi infilare il cazzo proletario nel vocabolario borghese e vedere che succede, vero?

Sì, L’informazione si apre con due scrittori che lottano per imporsi l’uno sull’altro. Quindi all’improvviso stacco su due brutti ceffi che stanno fissando gli scrittori e quando stavo scrivendo quella scena, c’è stata una specie di iniezione di energia quando sono passato alla parlata dei due tipacci.

Non è un po’ troppo alla Lawrence quello che dici?

C’è una specie di parodia di Lawrence all’inizio di Territori londinesi: cose tipo "Brangwen sentì il vento soffiargli sul petto…". Però è riscritta dal punto di vista di Keith: "Sentì il richiamo del pub…". È un’energia corrotta, che non ha più nessun senso in una città moderna e postindustriale.

Eppure ti senti tradito anche dalla classe operaia, vero? Ti sembra altrettanto decadente.

Sì, credo che sia una cultura esausta. Ma dal mio punto di vista, è proprio questo l’aspetto più interessante.

E poi nei tuoi libri c’è sempre una specie di paura per i tipacci grandi e grossi, gente che sa davvero fare a pugni.

Sì, ma è una paura che perdi con il passare del tempo, quando diventi adulto. Non ho più paura adesso, quando cammino per strada. Credo che abbia più che altro a che fare con le gang. Io sono stato un mod, quando andavano di moda i mod. Sono stato un hippy negli anni in cui andavano gli skinhead, correvi il rischio di essere menato, ogni giorno. Credo che sia una cosa tipo testosterone e controllo del territorio. Ma la classe operaia, dopo tutto, mi piace. Mi piace parlarci, c’è sempre una specie di bellezza in quel linguaggio.

Cocteau diceva che fino a trentacinque anni non sopportava nessuna forma di esperienza: voleva trasformare tutto in arte e letteratura e quindi non riusciva a fare niente. La sua esperienza era immobilizzata dall’arte.

No, non è mai stato un mio problema. E poi credo che oggi ormai ci siano ben pochi scrittori che siano disposti a provare qualcosa.

 

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