ateatro 124.16 Le avventure teatrali di Fortebraccio Teatro e di Roberto Latini Raccontate da Katia Ippaso di Andrea Balzola
L’autore-regista-attore Roberto Latini, indisgiungibile dai suoi fedeli collaboratori Gianluca Misiti, musicista e coautore, e Max Mugnai, light designer, costituiscono il nucleo fondante del Fortebraccio Libero Teatro, di matrice e formazione romana, ma ora con sede presso il Teatro San Martino di Bologna. Il loro lavoro, ormai decennale, rappresenta una delle esperienze più originali e innovative del teatro di ricerca italiano contemporaneo. Per conoscerlo e approfondirlo, oggi disponiamo di uno strumento di lettura in più, il volume Io sono un’attrice. I teatri di Roberto Latini, curato da Katia Ippaso per i tipi di Editoria & Spettacolo, di Roma. Si tratta del primo testo uscito in Italia su Latini, ma la curatrice, acuta e appassionata esploratrice del teatro contemporaneo, non si è limitata a studiare il fenomeno artistico attraverso gli spettacoli, com’è consuetudine dell’attività critica ed accademica, ma è entrata nell’intimità del processo creativo, frequentando assiduamente le prove e le fasi preparatorie degli ultimi spettacoli, e tessendo pazientemente una rete di dialoghi che attraversa tutto il libro.
Tutto il volume è strutturato mediante un ritmo serrato, intrecciando gli interventi di Latini e Misiti con alcuni brevi saggi di approfondimento, di Antonio Audino, Antonella Ottai, Paolo Ruffini (responsabile della collana editoriale), Paola Quarenghi e della stessa Ippaso, completano il lavoro un significativo corpus dei testi e dei frammenti teatrali scritti da Latini.
Quando Latini capita, quasi per caso, nel 1990, nella scuola di teatro di Perla Peragallo, intraprende un percorso irreversibile che gli cambia la vita e fa emergere il suo talento espressivo di performer e attore. Una formazione artistica che procede parallela a quella universitaria, dove la pratica della scena si rafforza nell’interpretazione colta dei testi e dei linguaggi teatrali. Ciò che colpisce, fin dai suoi esordi teatrali, alla fine degli anni ’90, è la sua duttilità e personalità nell’uso della voce, poi anche la sua capacità di riscrivere alcuni testi classici, soprattutto quelli shakespeariani, con un linguaggio poetico incisivo e ironico. Tratti distintivi che evocano subito l’ombra lunga di Carmelo Bene, riferimento consapevole e inevitabile per Latini, come anche la scrittura scenica di Leo De Berardinis e Perla Peragallo, ma che non suscitano nel giovane performer romano atteggiamenti mimetici o di confronto, sono piuttosto materia prima, insieme ai testi classici, di un autonomo posizionamento e orientamento della ricerca nella mappa teatrale contemporanea.
L’elemento centrale di questa ricerca – come emerge con chiarezza dagli spettacoli e dal libro – è l’asse corpo-suono-voce, soprattutto nelle pièces da solista, Latini appare, persino si veste, come una pop star che affronta la scena di petto e di voce, mettendosi in gioco con calcolati margini di improvvisazione (Latini e Misiti creano “scalette” più che copioni, modificabili fino all’ultimo minuto prima di entrare in scena). E qui la buona formazione lascia le sue tracce feconde, Leo infatti promuoveva l’idea dell’”attore jazzista” che conosce bene le regole per uscirne. Misiti, che è l’alter ego musicale di Latini, pensa a lui come a uno strumento in carne e ossa, e dice: “Roberto somatizza il suono, la musica, ha il talento musicale del performer che segue la linea del suono, che capisce dove la nota va a cadere”, e far diventare il corpo stesso strumento musicale vuol dire oggi esplorare la tecnologia del suono e la tecnologia del movimento.
La compagnia Fortebraccio infatti fa della sperimentazione audio un principio cardine, estendendo poi tale apertura a tutte le nuove tecnologie, ad esempio il motion capture (in collaborazione con Andrea Brogi) e l’uso dell’interattività con videoproiezioni artistiche e animazioni 3D, di cui Latini insieme a Studio Azzurro, Giacomo Verde e il gruppo Xlabfactory è uno dei pionieri in Italia. In questa dimensione l’attore-performer diventa il magnete che attira e risucchia al proprio interno la molteplicità dei ruoli, dei personaggi e dei generi, perciò Latini dichiara di essere “un’attrice” (e Katia Ippaso giustamente sceglie tale definizione come titolo emblematico del libro), intuizione spiegata da una citazione di Valère Novarina: “L’attore non esegue ma si esegue non interpreta ma si penetra, non ragiona ma fa risuonare il suo corpo (…) E’ il corpo femminile. Tutti i grandi attori sono femmine. Per la coscienza estrema che hanno del loro corpo di dentro. Perché sanno che il loro sesso è dentro. Gli attori sono corpi fortemente vaginati, recitano dall’utero”.
E’ la dimensione della vanitas dell’attore (etimologicamente la vanità viene dall’”esser vuoto”), colui che è posseduto, o meglio che si fa possedere, dai suoi personaggi e dai loro fantasmi, e in questo erotismo della possessione volontaria si gioca l’energia dirompente del corpo sbattuto in scena, e di una voce che diventa ermafrodita, che ritorna alla sua condizione ancestrale di soffio vitale, la voce come anima dell’invisibile e dell’irrappresentabile. Non a caso l’altra frase di Latini che nel libro ricorre è che “il teatro insegna a perdere”, perdita come smarrimento necessario del ruolo unico a cui la condizione sociale di solito ci consegna, perdita come mascheramento e quindi come smascheramento, perdita come devianza dal canone nell’improvvisazione, dal genere nel transgender, dal testo nella riscrittura scenica, dalla voce del corpo al corpo della voce. Allora anche il lavoro dell’autore contemporaneo, e questo Latini lo persegue e lo pratica con molta lucidità e gusto del ribaltamento (che poi è un portare alla ribalta), richiede una perizia chirurgica per incidere il testo ed estrarne il sottotesto, il dna che sta nella particella, nella cellula di un testo, e metterne in scena la potenza sorgiva piuttosto che la ripetizione ottusa e letterale che continua ad occupare la stramaggioranza dei palco-oscenici nostrani.
Infine, c’è da aggiungere che il libro dimostra come si possa, e sia interessante, “leggere” il teatro oltre che vederlo, nell’incrocio tra intelligenza dell’interpretazione e forza di una parola che anche scritta ha senso, talmente senso che stimola la voglia di dirla e sentirla, di andare in teatro per sentirla e quindi per seguirne le mutazioni e le ulteriori stratificazioni di senso che la voce e il corpo dell’attore, scusate, dell’attrice, gli regalano. Sarebbe ora infatti di uscire anche dalla palude editoriale che vede i volumi di teatro, di drammaturgia, all’ultimo posto o quasi, delle vendite, gli italiani vanno poco a teatro e proprio non lo vogliono leggere, ma forse perché nessuno tra i divulgatori e gli addetti ai lavori si è preoccupato abbastanza di comunicarne, discuterne e promuoverne il senso. In proposito aggiungo una piccola nota curiosa, ma significativa: Maximilian La Monica, l’editore del libro (“follemente” specializzato in editoria teatrale) , ha cominciato a far teatro insieme a Roberto Latini, formandosi da Perla Peragallo e poi fondando insieme a lui un primo gruppo e spazio: il teatro ES. Ora, a distanza di oltre un decennio, si ritrovano uniti da un progetto editoriale, dimostrando la complementarità di due azzardi, quello della scena e quello della pagina, indispensabili entrambi.
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