ateatro 27.1 Per farla finita con il nome del padre Alcuni appigli per scalare la Socìetas Raffaello Sanzio dopo vent'anni di spettacoli di Oliviero Ponte di Pino  
 
 “30 ottobre 1921   
        La sensazione della più completa impotenza.   
        Cosa ti lega a questi corpi dai nettissimi contorni, a
        questi corpi parlanti, lampeggianti dagli occhi, più
        strettamente che a qualsiasi altra cosa, per esempio al
        portapenna nella tua mano? Forse il fatto che appartieni
        alla loro specie? Ma tu non appartieni alla loro specie,
        per questo hai posto la domanda.”   
        (Franz Kafka, Diario)   
          
        Nella prima parte di Genesi, Dio raccoglie da
        terra “un piccolo e luccicante nastro nero”.
        Compare un registratore, Dio cerca di far suonare il
        nastro: “Ma è una voce persa, distorta, che non
        restituisce più il significato delle parole, ma solo il
        suo rumore meccanico racchiuso nell’orrore della
        cosa”. (Epopea della polvere, p. 232)   
          
        Da vent’anni la Societas Raffaello Sanzio lavora
        alla disarticolazione e al disvelamento della forma del
        teatro e dunque della rappresentazione. Spettacolo dopo
        spettacolo, opera una puntigliosa destabilizzazione del
        senso - e dunque della forma del potere - nel costante
        tentativo di restituire vita al simbolo. Sulla scia di
        Artaud e della sua denuncia di una irrimediabile
        scissione tra pensiero e parola, sperimenta ostinatamente
        la potenza organica della liturgia e del mito,
        contrapponendosi alla dicotomia tra significante e
        significato che caratterizza la retorica novecentesca.
          
        E’ un teatro della malattia e della catastrofe, del
        segno che sfregia il corpo e del corpo sfregiato. Subisce
        il fascino del non-umano - l’animale, la macchina e
        il pupazzo, l’ottusamente biologico e la
        trasformazione alchemica - e forse dall’eco di una
        perduta pienezza vitale. In questa ricerca, condotta con
        ostinata radicalità, il gruppo di Cesena si è da tempo
        affermato a livello internazionale e costituisce oggi un
        punto di riferimento per molte realtà teatrali più
        giovani.   
        Oltre che all’elaborazione degli spettacoli, il
        gruppo dedica particolare attenzione all’aspetto
        teorico del proprio lavoro, con ampie e puntigliose
        dichiarazioni di poetica; e alla documentazione del
        proprio percorso (mentre la critica si è raramente
        dimostrata all’altezza del lavoro scenico e dell’elaborazione
        teorica del gruppo).   
        Nel nuovo libro firmato da Romeo Castellucci, Chiara
        Guidi e Claudia Castellucci, Epopea della polvere
        (Ubulibri, Milano, 2001, 328 pp., 55 illustrazioni, con
        una postfazione di Franco Quadri, euro 20,40), colpisce
        innanzitutto la meticolosa trascrizione dei cinque
        memorabili spettacoli realizzati dal 1992 al 1999, Amleto,
        Masoch, Orestea, Giulio Cesare e Genesi.
        Nella loro complessa e raffinata scrittura scenica (dove
        la parola viene più incarnata dal corpo e dal gesto dell’attore
        che effettivamente pronunciata sulla scena), questi
        lavori paiono refrattari a ogni trascrizione, per quanto
        accurata. Il testo - l’elemento cui il teatro affida
        da sempre la propria tradizione e nobilitazione, e che in
        questi spettacoli sopravvive invece solo come traccia, al
        termine di un processo di cancellazione, di
        scarnificazione, quasi di usura - è solo uno dei molti
        elementi che concorrono all’evento teatrale. Si
        addensa piuttosto una densa partitura di segni, gesti,
        eventi, suoni, rumori, articolata spesso lungo costanti
        contrappunti e attraverso filtri ironici e parodistici
        rispetto a un testo che quasi non esiste più, ma che
        resta il costante punto di riferimento di un’interpretazione
        puntigliosa, di impeccabile filologia ancorché spesso
        volutamente perversa.   
        Il problema della trascrizione di spettacoli di questo
        genere non è ovviamente nuovo, anzi, a partire dall’epoca
        del Living Theatre e del “teatro immagine” è
        un problema che si ripropone costantemente per tutto il
        teatro d’avanguardia degli ultimi decenni. E’
        dunque interessante vedere come la Societas Raffaello
        Sanzio abbia affrontato il problema, anche perché le
        cinque “spettacolografie” di Romeo Castellucci
        sono il frutto di un notevole sforzo di chiarificazione
        intellettuale.   
        A una lettura superficiale queste trascrizioni
        costituiscono di una sorta di verbale: la descrizione il
        più possibile “oggettiva” di quel che accade
        in scena. Come se uno spettatore attento e puntiglioso
        avesse voluto offrire una registrazione distaccata, quasi
        da école du regard, del flusso di immagini e
        suoni che costituiscono lo spettacolo. Persino le pause
        vengono cronometrate: “In questa posizione rimane
        immobile per circa cinque minuti (...) Dopo un altro
        minuto fa una smorfia (...) della durata di un decimo di
        secondo” (Epopea della polvere, p. 30).
          
        Tuttavia non mancano le notazioni tecniche: per esempio,
        “una lampadina accesa da 12 volt” (Epopea
        della polvere, p. 16). In altri casi vengono
        sottolineate le intenzioni dei personaggi , e a volte
        addirittura segnalate (o ipotizzate) le reazioni del
        pubblico. E spesso, nella apparente neutralità della
        descrizione, s’infiltra l’intenzionalità del
        regista: “Abbiamo visto che finora tutti i colpi di Amleto
        partono senza alcuna mira e dunque senza preavviso; e, si
        direbbe, senza nessuno scopo se non quello di provocare
        un’esplosione” (Epopea della polvere, p.
        26). Vengono a volte spiegate le ragioni della scelta di
        un determinato segno, oppure la sua genealogia culturale
        (vedi più avanti l’analisi dei segni che compaiono
        sulla schiena di Cicerone nel Giulio Cesare).
          
        Queste “trascrizioni” chiudono un cerchio
        alchemico: dai testi originari allo spettacolo alla
        sedimentazione di questo nuovo testo. Potrebbe essere
        interessante chiedersi se, utilizzando la scrittura di
        Romeo Castellucci come una sorta di partitura, sarà
        possibile un giorno riallestire questi “testi”.
        Anche se, come vedremo affrontando il problema della
        tradizione, l’operazione in sé contraddirebbe la
        poetica praticata dal gruppo nella realizzazione di
        questi lavori.   
        Ma di certo, davanti a creazioni di pulsante densità
        segnica la lettura di queste “spettacolografie”
        può risultare chiarificatrice rispetto alla visione
        degli spettacoli - anche se ormai la pagina si è
        svuotata di tensione emotiva, di sensazioni tattili, di
        quella proiezione e rispecchiamento dello spettatore
        nelle creature che popolano la scena, che siano esseri
        umani o animali.   
          
          
        Le tre età della Societas Raffaello Sanzio   
          
        E’ la stessa Societas Raffaello Sanzio a dividere
        implicitamente la propria attività in tre fasi, scandite
        dalle pubblicazioni del gruppo. Nella bibliografia,
        questo Epopea della polvere è preceduto infatti da Il
        teatro della Societas Raffaello Sanzio. Dal teatro
        iconoclasta alla super-icona, a firma di Claudia e
        Romeo Castellucci (Ubulibri, Milano, 1992, 192 pp., da
        ora in poi Il teatro della Societas Raffaello Sanzio),
        che raccoglie testi e materiali di quattro drammi, Santa
        Sofia, I miserabili, La discesa di Inanna
        e Gilgamesh.   
        La prima fase - quella gli inizi, che precede questi
        quattro spettacoli arrivando fino alla metà degli anni
        Ottanta - la potremmo definire scanzonatamente
        postmoderna, con spettacoli costruiti per contaminazioni
        di segni e linguaggi e l’azzeramento di categorie e
        gerarchie culturali ormai obsolete. L’obiettivo è
        la rivitalizzazione della forma teatro e in generale
        della comunicazione, attingendo a segni e grammatiche
        rubati a forme più “moderne”: tra tutte, il
        fumetto e la sua sintassi, come notavano all’epoca
        diversi osservatori: ma anche il fumetto come successione
        di immagini statiche rispetto alla fluidità di cinema e
        televisione.   
        Il principio costruttivo è quello del bricolage, così
        come era stato teorizzato da Claude Lévi-Strauss. Alcune
        citazioni dal Pensiero selvaggio (Il Saggiatore,
        Milano, 1964, 1979; queste citazioni erano state già
        riprese a suo tempo nel mio saggio “PostModerno”,
        il Patalogo cinque/sei;, Ubulibri, Milano,
        1983, al quale si rimanda per ulteriori approfondimenti)
        possono illustrare questo metodo compositivo:   
          
         “I materiali del bricoleur
        sono elementi che si possono definire in base a un
        duplice criterio: sono serviti, quali termini di un
        discorso che la riflessione mitica smonta come il
        bricoleur smonta come una vecchia sveglia; e possono
        ancora servire per il medesimo uso, o per un uso
        differente se appena si modifica il loro primitivo
        funzionamento.”    
          
        “Per quanto infervorato, il
        suo modo di procedere è inizialmente retrospettivo: egli
        deve rivolgersi verso un insieme già costituito di
        utensili e di materiali, farne e rifarne l’inventario,
        e infine, soprattutto, impegnare con esso una sorta di
        dialogo per inventariare, prima di sceglierne una, tutte
        le risposte possibili che può offrire al problema che
        gli viene posto.”   
          
        “Se si tiene conto della
        ricchezza e della varietà del materiale bruto da cui
        solo alcuni elementi, tra i tanti possibili, sono usati
        dal sistema, non c’è dubbio che un considerevole
        numero di sistemi dello stesso tipo avrebbero offerto una
        uguale coerenza e che nessuno di essi è predestinato a
        essere scelto (...) Il significato dei termini non è mai
        intrinseco, ma soltanto di posizione, ossia è una
        funzione della storia e del contesto culturale e, insieme,
        della struttura del sistema in cui esse compaiono.”   
          
        Di fronte all’irrimediabile svuotamento delle forme
        della rappresentazione, il tentativo è quello di
        contrastare la perdita di senso con innesti e
        accostamenti dai quali far scaturire nuove possibilità
        di significato, attraverso una retorica fatta di analogie,
        accostamenti imprevisti, contrapposizioni stranianti,
        contrasti... Questo atteggiamento sottende fino a oggi l’intero
        lavoro del gruppo:   
          
        “Credo che questo sia un
        teatro in cui la dialettica non ha luogo (...) Solo una
        contrapposizione di tipo chimico può scatenare delle
        reazioni che escono dal controllo. Queste reazioni
        possono scatenare il caso, la casualità. La casualità
        è un elemento fondamentale in ogni problema della
        bellezza. Lasciarsi sorprendere.” (Epopea della
        polvere, p. 271)   
          
        A consentire questa stratificazione di segni è uno
        sguardo fondamentalmente ironico sulla realtà e sui dati
        culturali. Questa ironia nei primi spettacoli della
        Societas Raffaello Sanzio viene portata fino alle estreme
        conseguenze, al limite della parodia: quei lavori erano
        ricchi di episodi decisamente divertenti, se appena ci si
        abbandonava al loro gioco. Basti pensare all’incontro
        tra Giotto e Cimabue nei Fuoriclasse della bontà
        (1983).   
        Ma ben presto ogni sovraccarico di segni finisce per
        girare a vuoto, avvitandosi vorticosamente su se stesso:
        il rischio è quello dell’appiattimento di ogni
        gerarchia, dove perciò tutte le associazioni sono
        legittime, e lo sbocco è la deriva infinita e gratuita
        del senso... Al dilemma fondamentale del postmoderno, la
        Societas Raffaello Sanzio trova due soluzioni paradossali,
        oltre al rigore estetico e alla scoppiettante energia che
        contrassegnano gli esordi. La prima soluzione (proclamata
        in Kaputt Nekropolis, 1984) è l’invenzione
        di una lingua perfetta e assolutamente significante, la
        Generalissima, in grado di comunicare qualunque senso con
        un vocabolario che viene progressivamente ridotto a sole
        quattro parole (per la cronaca, le quattro parole sono
        agone, apotema, meteora e blok, “immense ma univoche”,
        Il teatro iconoclasta, p. 93). La seconda è il
        rifiuto della rappresentazione e la scelta dell’iconoclastia,
        teorizzata e praticata in Santa Sofia. Teatro Khmer (1986),
        che segna la nascita della nuova Religione Columna (e
        accosta sulla scena il dittatore comunista cambogiano Pol
        Pot a Leone III Isaurico, l’imperatore iconoclasta
        di Bisanzio). Sul manifesto consegnato agli spettatori
        prima dello spettacolo si legge:   
          
        “Questo è il teatro che
        rifiuta la rappresentazione (...) Questo è il teatro
        della nuova religione: perciò vieni tu che desideri
        essere seguace delle colonne dell’Irreale. Il reale
        lo conosciamo, e ci ha delusi fin dall’età di anni
        quattro. (...) Ma non credere che sia il surrealismo la
        chiave del problema; la chiave surrealista è
        completamente sbagliata, nel suo inconscio
        conservatorismo rielaborato. Questo è il teatro
        iconoclasta: si tratta di abbattere ogni immagine per
        aderire alla sola fondamentale realtà: l’Irreale
        anti-cosmico, tutto l’insieme delle cose non pensate.”
        (Il teatro della Societas Raffaello Sanzio, p. 9)   
          
        La nuova lingua e la nuova religione sono due soluzioni
        che dovrebbero implicare una negazione del teatro ma che
        vengono condotte proprio sulla scena, in forma di
        spettacolo: negano il teatro, e al tempo stesso lo
        ritengono indispensabile - tanto da utilizzarlo come
        passaggio obbligato verso un recupero del senso. Dietro
        questo apparente paradosso si nasconde una verità
        insieme banale e profonda: il teatro è l’arte che
        usa gli strumenti della realtà - i corpi, gli oggetti,
        la materia - per trasformarla. Proprio per questo la
        Societas Raffaello Sanzio rifiuta fin dall’inizio
        ogni forma di superficiale realismo a favore di una
        “superrealtà”. Perché sulla scena può
        materializzarsi quella superrealtà “che ti può
        cambiare la vita”: si rivendica così al teatro una
        dimensione decisamente politica, che rischia però di
        coincidere - se questa funzione viene effettivamente
        svolta fino in fondo - con lo svuotamento e la
        disintegrazione del teatro stesso. E’ una apocalisse
        del teatro che si rispecchia in quella che è, per
        Societas Raffaello Sanzio, la sua origine:   
          
        “Il nostro teatro è la
        risposta incoerente rispetto a un vero e proprio blocco
        morale - nei confronti del teatro stesso - di origine
        platonica, perciò si può dire che esso può esistere e
        si esalta solo là dove viene impedito.” (Epopea
        della polvere, p. 286)   
          
        Intanto però nella loro provocatoria inventiva queste
        due utopie burlesche - la neo-lingua Generalissima e la
        neo-religione Columna - imboccano altrettanti vicoli
        ciechi. Pongono il paradosso, ma non possono risolverlo,
        se non ironicamente, tangenzialmente, lungo una via di
        fuga parodistica. Nella parabola del gruppo, sono due
        scacchi, che aprono a una nuova ricerca: risalire all’indietro,
        sempre più indietro, fino a trovare il punto in cui la
        rappresentazione e il suo significato, la parola e la
        cosa, erano ancora un tutt’uno - indiviso e
        immediatamente comunicante, efficace (peraltro l’opzione
        del “ritorno alle origini” ha, nella storia del
        pensiero occidentale, numerosi precedenti).   
        Questa unità si può ritrovare, ipotizza la Societas
        Raffaello Sanzio, nel simbolo. Così nella seconda fase,
        con La discesa di Inanna (1989), l’interesse
        si rivolge alle grandi narrazioni dell’antico
        oriente mesopotamico, alle fonti del rito e del mito dell’Occidente.
        Si tratta di recuperare e rimettere in circolazione
        simboli elementari e profondi, all’origine del
        nostro immaginario, che possano avere efficacia sulla
        realtà (almeno sull’interiorità dello spettatore),
        come una magia o una peste. Come se in quelle antiche
        narrazioni, ancora vicine agli impulsi primari, si
        potesse trovare la linfa necessaria per ridare al teatro
        la potenza perduta. Questa fase culmina, dal punto di
        vista estetico, nel terribile Gilgamesh (1990),
        spettacolo-rito tenebroso e inquietante, una sincera
        invocazione alle antiche divinità. Ma l’esperienza
        di Gilgamesh costituisce un punto limite, oltre il
        quale è difficile andare - se non forse abbandonando il
        teatro per una dimensione esplicitamente sciamanica.
          
        Che si tratti di un nuovo vicolo cieco lo dimostra il
        ridotto impatto dello spettacolo successivo, Iside e
        Osiride (1990), dove la potenza numinosa del mito si
        trova ridotta a pura coreografia. Tra l’altro questa
        fase coincide, non a caso, con il momento di massima
        difficoltà della compagnia, anche nei suoi rapporti con
        le istituzioni teatrali dell’Italietta: lo
        scandaloso Gilgamesh segna la rottura con il punto
        di riferimento milanese, il Crt; la conseguenza sarà,
        nel giro di un paio d’anni, una scandalosa
        esclusione dalle sovvenzioni ministeriali, a cui la
        Societas Raffaello Sanzio reagirà con una provocatoria
        “Festa plebea”.   
        E’ un secondo scacco, ma ancora una volta ricco di
        insegnamenti. Ritornare agli inizi per ritrovare la
        potenza originaria del rito non ha risolto il problema,
        se non temporaneamente, con spettacoli dalla tensione
        estetica difficilmente ripetibile. Tuttavia ha permesso
        di misurare la forza del simbolo, che ancora può agire
        attraverso il mito, e ha fornito i primi elementi di una
        possibile grammatica. Ed è con questa grammatica - ma
        assumendo su di sé questo scacco totale, attraverso un
        azzeramento radicale e assoluto di cui si fa testimone un
        Amleto autistico - che la Societas Raffaello
        Sanzio si misura con quella che potrebbe (o dovrebbe)
        essere la nostra mitologia contemporanea. Sono miti che
        forse hanno perso la loro efficacia, e sopravvivono solo
        come vestigia culturali: e tuttavia hanno plasmato il
        nostro immaginario, e mantengono una forza sotterranea
        con cui è possibile scontrarsi, attraverso riletture di
        radicale provocazione.   
        Come ha insegnato l’autore de Il crudo e il cotto,
        il senso del mito si costruisce per differenze e per
        opposizioni di significato:   
          
        “Le logiche pratico-teoriche
        che regolano la vita e il pensiero delle cosiddette
        società primitive sono mosse dall’esigenza di
        scarti differenziali (...) Il principio logico è di
        poter sempre opporre dei termini, che un impoverimento
        preliminare della totalità empirica permette di
        concepire come distinti.” (Il pensiero selvaggio,
        cit.)   
          
        La Societas Raffaello Sanzio applica questo principio
        oppositivo in maniera sistematica, con venature
        nichilistiche:   
          
        “Ogni figura sa di essere
        minata al proprio interno o di essere foriera della
        propria scomparsa definitiva.” (Epopea della
        polvere, p. 85)   
          
        Così la terza fase del lavoro della Societas Raffaello
        Sanzio, quella documentata da Epopea della polvere,
        consiste nel confronto-riscrittura con cinque testi
        chiave (probabilmente i cinque testi-chiave, dal
        punto di vista del gruppo) della tradizione occidentale,
        in una sistematica opera di azzeramento e reinvenzione.
          
          
          
        L’animale cancella l’arte   
          
        Una svolta fondamentale, di cui si erano già avute le
        avvisaglie in precedenza: i soci fondatori della
        compagnia praticamente non appaiono più in scena in
        ruoli centrali, e sempre più spesso vengono scritturati
        attori esterni alla compagnia, in base alle necessità
        dei singoli progetti. Non è solo una più precisa
        divisione del lavoro (con Romeo Castellucci in veste di
        autore e regista), quanto soprattutto la scelta è quella
        di “oggettivare” il lavoro, rifiutando ogni
        prospettiva psicologica, qualunque tentazione
        autobiografico-generazionale, qualsiasi la deriva lirica
        - cui viene peraltro riservato uno spazio specifico, vedi
        La mistica del corpo e Uovo di bocca, le
        raccolte poetiche di Claudia Castellucci.   
        Uno degli aspetti più evidenti del lavoro della Societas
        Raffaello Sanzio, che qui si dispiega compiutamente, è
        proprio la ricerca sulla presenza dell’attore sulla
        scena. Già nei lavori precedenti la dicotomia uomo-animale
        era stata esplorata, utilizzata e teorizzata: “L’animale
        ci rende vuoto il palco” (Il teatro della
        Societas Raffaello Sanzio, p. 118), “Veramente
        un animale può cancellare l’arte, rendere banale
        fino alla morte il teatro” (Il teatro della
        Societas Raffaello Sanzio, p. 124). Ecco dunque i due
        pitoni di Alla bellezza tanto antica (1988), la
        pecora, le capre e i sei babbuini-totem della Discesa di
        Inanna, i due inquietanti cani neri che in Gilgamesh
        scorrazzano a pochi centimetri dal pubblico.   
        L’uso degli animali sulla scena resta una costante
        anche in questo “ciclo della polvere”, in varie
        forme. Nell’Amleto, ridotto come si è visto
        a un monologo inarticolato, il protagonista trova una
        serie di partner che possono dare un’idea dei
        sistematici slittamenti operati sul testo di Shakespeare,
        in assoluta coerenza con il ribaltamento operato sul
        ruolo del titolo. Infatti i comprimari vengono
        trasformati quasi tutti in animali totemici: si comincia
        con “l’Orso di peluche, il padre di Claudio”,
        e si prosegue con Orazio che è un pappagallo pure di
        pezza, con Ofelia bambola parlante, con la madre/Gertrude
        che è un canguro (dal cui marsupio lo stesso Amleto
        estrarrà un cangurino).   
        Nell’Orestea compaiono nell’ordine (oltre
        al Coniglio/Corifeo rubato a Alice nel paese delle
        meraviglie e al coro dei dodici coniglietti di gesso
        destinati a esplodere fragorosamente - un omaggio
        citazione di Carroll che tornerà anche nell’atto
        centrale di Genesi, dove ricomparirà una coppia
        di conigli-bambini) due “enormi cavalli neri”,
        “due asini bianchi albini” e “cinque
        scimmie macaco”, oltre al “cadavere di una
        capra scuoiata” che emerge dalla tomba di Agamennone
        e che verrà “resuscitata” da Oreste in un
        sanguinoso rituale macchinico (o meglio, cyberpunk),
        insufflandogli il respiro attraverso un complesso
        meccanismo di tubi (e tra i simboli va ricordato senz’altro
        anche l’uovo di struzzo che partorisce Oreste).
          
        Negli spettacoli successivi l’elenco si allunga. All’inizio
        del Giulio Cesare compare il totem di questa
        tragedia: “un lungo ariete romano da assalto che
        (...) ondeggia la grande testa”; all’inizio del
        secondo tempo percuoterà con violenza il pavimento della
        scena. Dopo di che la presenza animale viene declinata da
        “una volpe imbalsamata [che] attraversa la scena
        passando davanti ai piedi di Cassio” (Epopea
        della polvere, p. 166). Può ridursi a traccia:
        “Il muro rivelato pare essere quello di un edificio
        adibito alla rozza custodia di animali. Lo si deduce
        dalla presenza di sporco sulle pareti, all’altezza
        dei fianchi dei grandi quadrupedi domestici” (Epopea
        della polvere, 172), incarnarsi in “un grande
        cavallo nero” (Epopea della polvere, p. 174),
        rendersi udibile come “rumore di mosche” (Epopea
        della polvere, p. 176). Nella seconda parte compaiono
        “un cavalluccio marino” che “attraversa la
        scena” (Epopea della polvere, p. 192), “un
        gatto imbalsamato” che si rivelerà “osceno,
        infernale e terrorizzante” (Epopea della polvere,
        p.195), ancora la volpe (Epopea della polvere, p.
        198), mentre il cavallo ricompare come scheletro, “questa
        volta con la testa abbassata; non appena si odono alcuni
        nitriti, il collo si alzerà e ricadrà all’indietro”
        (Epopea della polvere, p. 199)...   
        Quel rituale luciferino che è Genesi ruota
        intorno a un oggetto sacro dai poteri misteriosi: la
        zampa di gallina, unico oggetto che ricompare nelle tre
        parti dello spettacolo. Ma non è ovviamente l’unico
        segno di questo genere. Nell’Atto Primo la presenza
        animale viene in qualche modo incorniciata dalla scienza:
        siamo peraltro all’interno del laboratorio di Madame
        Curie, dove si conducono sconcertanti esperimenti su Dio,
        Lucifero e la loro creazione. Ecco una “grossa teca
        di vetro in cui un cane pastore tedesco imbalsamato si
        masturba meccanicamente con ritmo ossessivo, fino a farci
        vedere il conseguente getto di sperma che arriva al
        centro del palco” (Epopea della polvere, p.
        232); racchiuse in un’altra teca di vetro, “un
        paio di ali di qualche grande uccello (...) fremono e
        battono una contro l’altra. Potrebbero volare ma il
        resto del corpo non c’è” (Epopea della
        polvere, p. 232); in una terza teca, quando compare
        Adamo, due grosse pecore “si muovono meccanicamente
        e il loro movimento riproduce all’infinito una
        copulazione” (Epopea della polvere, p. 234).Finalmente
        diverranno visibili “altre teche (...) tutte
        riempite con animali impagliati: pecore, montoni, volpi,
        cani, uccelli, pesci, capre... Tutti stanno a guardare il
        tentativo di uno di loro di svegliarsi e camminare fuori
        dalle pareti di vetro della propria conservazione” (Epopea
        della polvere, p. 237). La nascita di Eva è
        contrappuntata da un coccodrillo in “una grossa teca”,
        da cui sembrano provenire gli organi che la compongono.
          
        Nell’Atto Terzo, durante tutto l’episodio di
        Caino e Abele, così come accadeva in Gilgamesh,
        vagano per la scena “due cani randagi, indaffarati e
        indifferenti. Cercano tracce sul palco e probabilmente
        del cibo. Che si trovino sul palco o in un immondezzaio
        non fa differenza per loro: è chiaro” (p. 248).
          
        Questo lungo elenco, probabilmente incompleto, vuole
        sottolineare in primo luogo la centralità dell’elemento
        animale all’interno dell’immaginario della
        Societas Raffaello Sanzio. Tenendo oltretutto presente
        che l’animale (come per certi aspetti i bambini o i
        folli) non recita mai, ma si offre semplicemente per
        quello che è - con un “effetto verità” che il
        teatro conosce da sempre ma che qui viene spinto fino
        alle estreme conseguenze. Progressivamente però, oltre
        questo “effetto verità”, lo zoo della Societas
        Raffaello Sanzio inizia a delineare un pantheon di
        presenze perturbanti, latori di potenza simbolica. Ancora,
        tra gli animali veri e le loro controparti meccaniche,
        tra le creature vive e gli scheletri e le teste mozzate,
        iniziano a stabilirsi connessioni e contrasti. Ovviamente
        si evidenzia la materialità, la realtà fisica e
        corporea dell’animale.   
          
        “Un buon pezzo di teatro deve
        potersi condensare in un’immagine, che è l’immagine
        di un organismo, di un animale: con quello spirito.
        Questo animale è una presenza, molto spesso un fantasma,
        che attraversa la materia, e io con lui. Il problema è
        essere pellegrini nella materia. La materia è l’ultima
        realtà. E’ la realtà finale che ha come estremi il
        respiro del neo-nato e la carne del cadavere. E’ un
        pellegrinaggio che facciamo nella materia. E’,
        quindi, un teatro degli elementi.” (Epopea della
        polvere, pp. 270-271)   
          
        Contemporaneamente si costituiscono rapporti e relazioni,
        che costruiscono l’ancoraggio di una costellazione
        simbolica, che si riverbera immediatamente sugli attori
        “umani”: solo per fare un esempio, in Genesi
        Lucifero nudo appare “lungo e prosciugato come un
        pesce secco” (Epopea della polvere, p. 229),
        mentre il suo panico ricorderà quello “di un ragno
        caduto nella ragnatela di un altro” (Epopea della
        polvere, p. 231).   
          
          
        Autopsia e resurrezione dell’attore   
          
        Un analogo “effetto verità” viene perseguito
        anche attraverso un casting certamente anticonvenzionale.
        Perché dopo gli esperimenti del Gilgamesh, a
        partire dall’Orestea diventa sistematica la
        ricerca e l’esposizione di attori dalle
        caratteristiche fisiche assolutamente particolari, legate
        al ruolo che devono assumere in scena: non sono solo
        attori che interpretano un personaggio, ma che li
        incarnano attraverso segni fisici evidentissimi, quasi
        marchi del divino, in un ambiente dichiaratamente
        convenzionale e costruito. E’ un teatro che rifiuta
        i personaggi per costruire invece figure, e che a partire
        dalla loro materialità esplora la fisica della
        rappresentazione. L’apparizione di queste figure nel
        corso degli spettacoli è peraltro attentamente studiata,
        in modo da causare agli spettatori il massimo di sorpresa,
        emozione e addirittura disagio - per poi innescare un
        processo di riflessione.   
        Nel Giulio Cesare, spettacolo nato dall’ossessione
        per la retorica, e contro la retorica, questa qualità
        dell’attore è oggetto di un complesso gioco ironico
        di chiaro sapore magrittiano: sul cadavere di Cassio (nel
        secondo tempo interpretato da una ragazza anoressica)
        viene posto un cartello: “Ceci n’est pas un
        acteur”. L’obiettivo è farla “finita, nel
        modo più radicale possibile, con la rappresentazione, nella
        rappresentazione” (Epopea della polvere, p.
        221). Quelli che usa la Societas Raffaello Sanzio sono
        dunque al tempo stesso meno e più che attori.   
        La sequenza di queste figure (qui di seguito
        sinteticamente esemplificata) comincia nell’Orestea
        con una Clitennestra obesa (“il corpo immenso di una
        femmina nuda, dalla pelle bianca”, Epopea della
        polvere; p. 101), un Agamennone down (“La sua
        testa è grande e gli zigomi sono alti. Gli occhi hanno
        un taglio vagamente orientale. Si siede con una certa
        difficoltà. (...) La luce ora lo colpisce pienamente. E’
        un mongoloide”, Epopea della polvere, p. 105),
        un Apollo “interpretato da un attore privo di
        braccia” (Epopea della polvere, p. 138).
          
        Nel Giulio Cesare Cicerone è “un uomo alto e
        obeso. Pesa duecentoquaranta chili” (Epopea della
        polvere, p. 171), Antonio “è un autentico
        laringectomizzato” (Epopea della polvere, p.
        182). Nel primo tempo Bruto e Cassio sono interpretati da
        due vegliardi, che nel secondo tempo diventano due
        ragazze anoressiche, “attrici estremamente magre, la
        cui magrezza riconduce all’idea del telaio” (Epopea
        della polvere, p. 186, ma sulle ragioni di questa
        scelta vedi p. 220).   
        Per quanto riguarda la Genesi, nell’Atto
        Primo Adamo è un “contorsionista, o per meglio dire
        un dislocatore corporeo”, che compare dentro una
        teca come “una massa carnosa confusa e tremante”
        (Epopea della polvere, p. 234), la sua Eva -
        imprevedibilmente “anziana” - “è stata
        mastectomizzata. Ha una sola mammella” (Epopea
        della polvere, pp. 236-237). L’Atto Secondo,
        ambientato in una Auschwitz di abbacinante candore, è
        interpretato da sei bambini, come in un’ennesima
        allucinata postilla a Alice nel paese delle meraviglie
        (curiosamente negli stessi mesi con La vita è bella
        Roberto Benigni racconta l’Olocausto come una favola).
        L’Atto Terzo ruota intorno al “braccio sinistro
        di Caino, (...) più piccolo dell’altro, come se
        appartenesse a un bambino. Un altro bambino, dentro Caino”
        (Epopea della polvere, p. 250). Sarà proprio
        questo “braccio bambino” a stringere il collo
        di Abele per soffocarlo, compiendo il primo omicidio
        nella storia dell’umanità. E’ un atto per
        certi aspetti innocente: a giudicare dalle sue reazioni
        Caino non era consapevole delle conseguenze del proprio
        gesto (che è un frutto più del destino che della sua
        volontà), anche se poi ne deve pagare tutte le
        conseguenze, assumendo su di sé la colpa. C’è
        ovviamente tutta una teoria sul male, in questa lettura
        del testo biblico: e l’origine del male in una
        imperfezione della creazione rimanda ovviamente a
        tematiche gnostiche (come peraltro potrebbero rimandare
        allo gnosticismo alcuni aspetti sapienziali della
        Raffaello).   
        Basterebbe questa immagine, che segna il culmine del
        ciclo iniziato con l’Amleto, a dimostrare che
        scelte in apparenza stravaganti e dettate dalla
        predilezione per il mostruoso, l’anomalo, l’imperfetto,
        sono in realtà profondamente radicate nella drammaturgia
        della Societas Raffaello Sanzio, e rappresentano un
        elemento fondante della sua filosofia.   
        Tuttavia l’avvento di queste figure “segnate
        dal Dio” è stato preparato dai due capostipiti, che
        ancora erano impersonati da attori nel senso
        convenzionale del temine: Paolo Tonti nel ruolo dell’Amleto
        autistico e Franco Santarelli in quelli di Masoch.
        Nel primo caso esplode la fisicità dell’attore,
        attraverso una serie di secrezioni e manifestazioni
        corporee che punteggeranno l’intero ciclo: bolle di
        saliva e sputi, rutti e singulti, peti, persino una
        evacuazione diarroica accuratamente simulata con “una
        grossa peretta da clistere caricata con una miscela di
        acqua, orzo e farina” (Epopea della polvere,
        p. 38). Negli spettacoli successivi non mancheranno
        sangue, vomito, sperma, anche per ricordarci che quelli
        che abbiamo di fronte sono corpi reali, dove scorrono
        fluidi vitali.   
        Nel caso di Masoch, viene invece messo a fuoco il
        rapporto corpo-macchina. Già Amleto (ma anche qui
        muovendosi sulla scia di Gilgamesh) era rinserrato
        in uno spazio-macchina fatto di filo spinato, di batterie
        di auto collegate da cavi e morsetti. Ma è con Masoch
        che quella della Societas Raffaello Sanzio diventa una
        autentica scena-macchina che entra in irreversibile e
        minacciosa simbiosi con il corpo dell’attore (non a
        caso è a partire da questi due lavori che le affinità
        con l’opera di Joel-Peter Witkin diventano
        innegabili). Nella scena finale dello spettacolo, Masoch
        viene denudato, gli vengono applicate pinze sui capezzoli,
        un cavetto gli viene sistemato tra i denti, gli
        spalancano la bocca con un allargascarpe, viene appeso
        con tre cinghie ad altrettanti paranchi elettrici e
        trascinato sopra il palcoscenico (Epopea della polvere,
        pp. 65-66).   
        Tra le numerose possibili esemplificazioni di macchine
        usate nel “ciclo della polvere” (alcune davvero
        complesse, come il telaio e il “corpo senza organi”
        di Eva nella Parte Prima della Genesi), vale forse
        la pena di concentrarsi sulla pistola, che punteggia come
        un leit motiv numerosi spettacoli: è la partner
        prediletta della pericolosa danza di Amleto, è
        ovviamente al centro del rapporto tra Oreste e Pilade, è
        lo strumento del mancato suicidio di Bruto.   
        Quello tra la scena-macchina e l’essere umano è
        ovviamente un rapporto carico di connotazioni sessuali,
        di esplicito carattere sadomasochistico, giocato
        sul confine animato-inanimato e sulla riduzione del corpo
        a oggetto. Non mancano peraltro nel ciclo presenze
        meccaniche, come i coniglietti che entrano in scena ed
        esplodono nell’Orestea o addirittura, nella Genesi,
        un pupazzetto che doppia ironicamente gli applausi del
        pubblico...   
          
          
        La tradizione e la contro-tradizione   
          
        Fin dal nome scelto dal gruppo, il rapporto con la
        tradizione è uno snodo chiave. Raffaello Sanzio, dunque,
        nell’ossessione per la forma come punto d’equilibrio
        (e forse d’annullamento) di diverse tensioni, e come
        culmine della parabola umanistico-rinascimentale - appena
        prima che s’incrini ed evolva nel manierismo. Ma
        anche un ironico e latineggiante Societas che pare rubato
        a una polisportiva, a distanziare il rimando al genio e a
        dar conto di un diverso punto di vista, collettivo e di
        gruppo. E c’è anche la scelta di opporsi al modello
        che i giovani fondatori avevano trovato al momento del
        loro esordio:   
          
        “Lo scatto, la molla, l’avemmo
        vedendo Punto di rottura dei Magazzini: pur facendolo a
        pezzi come spettacolo, nel senso che non ci piacque
        affatto, fu scatenante. E’ stato allora che ci siamo
        ribattezzati Società Raffaello Sanzio, per contrasto.”
        (da un'intervista a cura di Oliviero Ponte di Pino, in Il nuovo teatro italiano, la casa Usher, Firenze, 
	  1988, p. 121; il volume è disponibile sul sito olivieropdp).
   
          
        Nella Societas Raffaello Sanzio c’è da sempre un’assoluta
        consapevolezza della tradizione, che viene riassunta in
        tutte le sue stratificazioni. Un esempio per tutti: nel Giulio
        Cesare Cicerone è “un uomo alto e obeso. Pesa
        duecentoquaranta chili. Indossa una toga bianca che gli
        lascia scoperto il ventre e il petto. Sul volto ha una
        maschera bianca di un uccello, un’anatra forse. Alle
        mani ha infilati guanti bianchi di lattice e ai piedi
        calzari di cuoio” (Epopea della polvere, pp.
        171-172). Sono subito evidenti l’ironia feroce di
        questa scelta (Cicerone, il grande umanista, il paladino
        della Repubblica, è un ciccione seminudo pronto per
        qualche pratica sadomaso) e l’intreccio di
        tradizione e modernità - toga e guanti di lattice. Poco
        dopo Cicerone si alza e mostra le spalle al pubblico. La
        trascrizione dello spettacolo a opera di Romeo
        Castellucci non è semplicemente descrittiva, ma tiene a
        precisare l’intera genealogia del segno che utilizza:
        “Sulla sua schiena sono dipinte due ‘effe’
        di violino, alla maniera di Man Ray nel ritratto
        fotografico a Kiki, che a sua volta riprendeva il dorso
        della bagnante di Ingres” (Epopea della polvere,
        p. 174). (Senza dimenticare, a completare questa spirale
        di segni, che nello spettacolo figura un personaggio
        chiamato “...vskij”, rimando a Staniskavskij,
        che aveva interpretato proprio il ruolo di Cicerone nel Giulio
        Cesare...)   
        Da un lato, anche in anni recenti, le affermazioni
        programmatiche sono chiare:   
          
        “Appiccare il fuoco all’immenso
        e vacuo archivio della tradizione.” (Epopea della
        polvere, p. 84)   
          
        Compresi gli archivi delle avanguardie novecentesche -
        che hanno il limite di aver semplicemente opposto una
        forma della realtà all’altra. Il punto di partenza
        è dunque la devastazione della forma e la puntuale
        negazione delle forme della tradizione.   
        Ecco dunque che il re dei monologhi, Amleto, si
        rivela un demente che emette suoni inarticolati e traccia
        sul muro scritte elementari, l’Orestea viene
        portata in scena “dal punto di vista di
        Clitemntestra”, il Giulio Cesare serve da
        trampolino per decostruire i meccanismi della retorica: i
        grandi monologhi shakespeariani vengono recitati da un
        attore che s’infila nella narice con una sonda che
        mostra le vibrazioni della laringe, da un attore che si
        distorce la voce inalando elio, da un attore senza
        laringe... Per culminare con una Genesi dove
        Auschwitz è un coro di bambini in un universo di soave
        biancore, posto a mezzo tra la nascita del potere
        apocalittico della scienza moderna e a la sconcertante
        lettura dell’episodio di Caino e Abele.   
        Sono solo gli esempi più clamorosi, le chiavi di
        interpretazione inconsuete di questi grandi testi della
        tradizione occidentale, ma nella “lettura scenica”
        il ribaltamento è sistematico, puntuale, meticoloso.
          
        L’iconoclastia della Societas Raffaello Sanzio non
        è però un gioco distruttivo fine a se stesso, uno
        sberleffo contro un patrimonio svuotato di senso e di
        necessità. Non si tratta solo di negare la tradizione,
        ma di negare anche se stessi:   
          
        “Come nella sintassi latina
        una doppia negazione equivale a una condizione neutra,
        così l’apocalisse di siffatta figura è ora il
        neutro, un neutro che rimane incoercibile al sistema
        binario della tradizione.” (Epopea della polvere,
        p. 85)   
          
        Ovvero, “l’iconoclastia viene, in definitiva,
        per togliersi” (Epopea della polvere, p. 85).
        Tuttavia questa posizione rischia di scontrarsi con un
        dato di fatto che genera un paradosso. In superficie (e
        nelle dichiarazioni d’intenti) è una scelta
        clamorosamente a-storica, in cui l’atto creativo nel
        presente si oppone a una tradizione vissuta come
        monolitica, dalla nascita della tragedia alla morte (inevitabile)
        delle avanguardie. Tuttavia la stessa evoluzione della
        Societas Raffaello Sanzio, a cominciare con un lavoro d’esordio
        dal titolo programmatico Diade incontro a Monade (1981),
        finisce per costituire un fenomeno storico, segue un filo
        evolutivo che è possibile ricostruire.   
        A questo si potrebbe opporre che si tratta semplicemente
        della storia dei tentativi di uscire dalla storia e dalla
        sua dialettica: ma finché la via d’uscita non viene
        effettivamente trovata, si potrebbe rispondere, siamo
        ancora nell’ambito della storia - anche se è in
        questo caso è una storia del rifiuto della storia.
        Infatti alla tradizione la Societas Raffaello Sanzio
        finisce per contrapporre una “contro-tradizione”
        altrettanto complessa e articolata - l’unica
        tradizione oggi possibile, proprio nella sua volontà di
        disarticolare l’altra, svellendo i suoi snodi,
        riaprendo le sue giunture, terremotando le sue linee di
        faglia. Spettacolo dopo spettacolo, questa sistematica
        negazione finisce per sedimentare un vero e proprio
        sistema, in grado di riscrivere alla fine di questa
        “epopea della polvere” persino l’alfa e l’omega
        della storia dell’uomo, la Genesi e l’Apocalisse.
        E per di più una Apocalisse inscritta nella storia come
        l’Olocausto, che nell’escatologia “in
        negativo” della Societas Raffaello Sanzio pare
        prendere il posto dell’incarnazione in quella
        cristiana.   
        A grandi linee, quello della Societas Raffaello Sanzio è
        un sistema dichiaratamente anti-umanistico. Un qualunque
        umanesimo presuppone la libertà dell’essere umano,
        un gioco che gli lasci la scelta tra un Bene e un Male.
        La Societas Raffaello Sanzio conosce piuttosto (e soffre)
        l’irreversibilità degli atti e del destino umani.
        Esclude la vertigine della libertà e si abbevera della
        malinconia dell’irrimediabile. (Una malinconia che
        si può lenire attraverso la ripetizione - o la ripresa,
        per utilizzare la terminologia kierkegaardiana prediletta
        dalla Societas Raffaello Sanzio; e lo spettacolo teatrale
        nella sua ripetibilità è l’arte della ripresa, un
        fatuo esorcismo contro l’irrimediabile.)   
        Di Dio, la Genesi assapora l’assenza, fino
        all’ultima goccia.   
          
        “Il teatro è attraversato da
        questo problema, dalla presenza di Dio, perché il teatro
        nasce per noi occidentali, quando Dio muore. E’
        evidente che l’animale gioca un ruolo fondamentale
        in questo ruolo tra il teatro e la morte di Dio. Nel
        momento in cui l’animale sparisce dalla scena, nasce
        la tragedia. Il gesto polemico che facciamo rispetto alla
        tragedia attica è quello di riportare sulla scena l’animale
        facendo un passo all’indietro.” (Epopea
        della polvere, p. 271)   
          
        Ecco dunque la necessità di un teatro “infantile
        (...) pretragico (...) legato a una presenza o a una
        potenza di tipo femminile” (Epopea della polvere,
        p. 271). Ecco per cominciare (e per farla finita) un Amleto
        che dice no alla tragedia delle colpe che ricadono sui
        figli richiudendosi in se stesso, cancellando i genitori,
        rifiutando la rappresentazione e la dialettica, in un
        autismo dove “l’affermazione viene fatta per
        mezzo della ripetizione della domanda” (Epopea
        della polvere, p. 45). Ecco Masoch che si
        sottopone alla legge del femminile, o al femminile che
        diventa legge. Ecco l’Orestea “dalla
        parte di Clitennestra”, come una gran danza di morti
        ma vissuta con la profonda nostalgia dell’“essere
        animale” caro a Franz Kafka: così il ciclo tragico
        che segna la nascita della giustizia civile contrapposta
        a quella del sangue, il battesimo della democrazia (compiutamente
        e magistralmente portato in scena da Peter Stein qualche
        anno prima), viene letto “dal punto di vista
        materiale (...) a rovescio, cioè secondo il punto di
        vista invertito dell’ordine che sta cedendo; dell’ordine
        che stava prima, all’inizio; dell’ordine
        matriarcale” (Epopea della polvere, p. 158).
        Ecco, in un Giulio Cesare che si conclude dentro
        le rovine di un teatro bruciato, la negazione della
        storia e della politica - e insomma proprio di quell’azione
        che la retorica vorrebbe innescare. Ecco, insomma,
        gettate le basi per creare una teologia dell’assenza
        del divino e della paralisi (forse della fine?) della
        storia.   
        Dio, come principio trascendente, avrebbe potuto essere (com’era
        stato all’origine) l’estrema ancora del senso,
        il fulcro intorno a cui centrare la danza delle parole e
        delle cose, la spirale vertiginosa di significati e
        significanti, che paiono scivolare l’uno sull’altro
        all’infinito. Se la via della trascendenza conduce
        al nulla, ecco allora che la Societas Raffaello Sanzio (che
        oltretutto pare poco incline al monteismo, piuttosto al
        panteismo o a un politeismo animistico) cerca l’ancoraggio
        nell’immanente, nella materia del mondo - nei corpi,
        nelle cose, negli animali. Nutre la fiducia che la realtà
        risponda a un proprio ordine, che non sia solo caos.
        Perché forse nell’alternanza di vita e morte
        risuona un ritmo che ci culla nella sua pienezza di senso.
        Non è tanto una nostalgia di Dio, quanto una nostalgia
        del divino, della sua palpabile presenza negli esseri.
          
        E però questo ordine naturale del mondo ci appare
        dolorosamente infranto per sempre, trafitto e travolto
        dalla civiltà, dalla polis e dal flusso dialettico della
        storia - la tragedia che è all’origine della
        tragedia e del destino tragico dell’uomo. Allora l’unica
        possibilità di riscatto consiste in primo luogo nel
        negare il divenire dialettico - anche nei suoi margini di
        libertà; e poi nell’assumere all’interno di un
        ordine ricostituito anche tutta la potenza della morte e
        del negativo che scandiscono il ritmo della natura. Il
        teatro riesplode così in un Eden oscuro: l’idillio
        - il sogno dell’origine - si ribalta in un graffito
        necrofilo.   
        Come abbiamo accennato, la storia della Societas
        Raffaello Sanzio è punteggiata di dichiarazioni sull’impotenza
        e sull’inutilità della rappresentazione e del
        teatro, vissuto come vizio e spreco di fronte alla
        pienezza e alla potenza della vita - alla sua innocenza.
        Al tempo stesso, quello stesso teatro è una denuncia
        della ferita originaria inferta alla pienezza vitale -
        che è poi quella della coscienza, della consapevolezza
        di sé e del proprio divenire. Il teatro offre la
        possibilità di rifare la realtà con la materia stessa
        della realtà, e fa balenare il sogno di un mondo
        indiviso, che possa assumere in sé anche la ferita della
        morte.   
        Al culmine dell’“epopea della polvere”, il
        contrasto tra la creazione divina e la ri-creazione
        artistica si cristallizza nella Genesi in una
        doppia rivelazione. Da un lato denuncia l’essenza
        luciferina della creazione artistica, ma anche delle
        scoperte scientifiche e della politica - e insomma di
        ogni creazione autenticamente umana. Dall’altro si
        esplicita la consapevolezza che anche il Male è opera di
        Dio - di quel Dio pigro e assente che ci ha abbandonati.
        (Anche perché nello spazio chiuso e autosufficiente
        della scena, non esiste l’orizzonte del Nulla, ma
        solo la pienezza di un Essere carico di senso - dove ogni
        elemento è significante).   
        In questa Genesi, la creatura è innocente - ma a
        un prezzo: la perdita della libertà, e la consapevolezza
        della propria colpa. L’artista-creatore può imitare
        Dio, ma la sua fatica è patetica - un inno struggente,
        che canta la nostalgia della pienezza originaria. Per
        ritrovarla il teatro rinuncia alla tragedia - anzi, la
        rifiuta in maniera esplicita, programmatica, ma è il suo
        stesso scacco di fronte alla realtà a essere tragico e
        insieme comico. Come la maschera di clown che
        contrassegna Oreste e Pilade nell’Orestea.
          
          
        “La nostra ultima speranza sta
        nell’ingiustizia di Dio”.   
        Nicolás Gómez Dávila, In margine a un testo
        implicito    
         
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