| | ateatro 87.12 12/08/2005
 La rinascita della tragedia?
 Dionysus Since 69. Greek Tragedy at the Dawn of the Third Millennium, a cura di Edith Hall, Fiona Macintosh e Amanda Wringley
 di Oliviero Ponte di Pino
 
 
 Era il 1968. In un garage di New York un gruppo di giovani 
      attori diretti da Richard Schechner portò in scena un allestimento 
      innovativo e provocatorio di un testo vecchio di duemilacinquecento anni, 
      Le Baccanti di Euripide. Lo spettacolo debuttò il 6 giugno. La sera 
      prima era stato assassinato Robert Kennedy, gli americani combattevano in 
      Vietnam. A San Francisco si radunavano i Figli dei Fiori, da qualche 
      settimana Parigi era infiammata da una rivolta studentesca che si sarebbe 
      diffusa nel mondo intero. Alla fine dell’anno una capsula spaziale con un 
      nome mitologico, Apollo 9, sarebbe partita per compiere la prima orbita 
      intorno alla Luna. Quello spettacolo fu uno scandalo, fin dalla chiara 
      allusione sessuale del titolo, Dionysus in 69, un successo 
      replicato per un anno e mezzo (e un work in progress in continua 
      evoluzione), una messinscena destinata a segnare la storia del teatro di 
      quegli anni. Di più, quell’allestimento avrebbe anticipato una ripresa 
      d’interesse per la tragedia greca a cavallo di due millenni, tanto da 
      fornire oggi, trentacinque anni più tardi, lo spunto – grazie alle cure di 
      Edith Hall, Fiona Macintosh e Amanda Wringley – per un volume di quasi 500 
      pagine sui moderni allestimenti della tragedia greca, Dionysus Since 
      69. Greek Tragedy at the Dawn of the Third Millennium, ovvero 
      Dioniso dopo il 69. La tragedia greca all’alba del terzo millennio 
      (Oxford University Press, 2004).
 
 
   
 La locandina di I gladiatori dell'anno 3000 (1977), regia di Allan Arkush e Henry Suso.
 
 
 “La crisi 
      della società americana che stava dividendo i falchi dalle colombe, i 
      giovani dai vecchi, i cappelloni da queli con i capelli corti, i profeti 
      della liberazione sessuale e psichica dai moralisti conservatori, trovò 
      un’espressione teatrale eccitante e lucida nell’esplosione dionisiaca che 
      aveva luogo ogni notte nel Performing Garage, un ampio spazio nel downtown 
      di New York.” (p. 1)
 
 
   
 La locandina di Totò contro Maciste (1961), regia di Fernando Cerchio.
 
 Da allora (senza però dimenticare 
      un precedente come l’Antigone di Brecht nella traduzione di Judith 
      Malina, che il Living Theatre aveva presentato nel 1967), le 
      rappresentazioni delle tragedie greche – che prima di allora si erano rare 
      ed episodiche - si sarebbero moltiplicate sui palcoscenici di tutto il 
      mondo: secondo le tre curatrici, “sono più numerose le tragedie greche 
      portate in scena in questi trent’anni che in tutte le altre epoche della 
      storia, dai tempi dell’antichità greco-romana” (p. 2).
 
 
   
 La locandina di L'ira di Achille (1962), regia di Marino Girolami.
 
 Negli ultimi 
      trent’anni, nei cinque continenti e in centinaia di lingue, con obiettivi 
      e stili diversissimi, tra un Dioniso con i dreadlock e un Giasone 
      irrimediabilmente gay, un Filottete con l’Aids e una Clitemnestra en 
      travesti che sgozza il suo Agamennone nella vasca da bagno,
 
 “il mondo mitico, disfunzionale, 
      conflittuale descritto dai drammi archetipici di Eschilo, Sofocle ed 
      Euripide è diventato uno dei principali prismi estetici e culturali in cui 
      il mondo reale, disfunzionale, conflittuale della fine del 
      Ventesimo e dell’inizio del Ventunesimo secolo ha cercato di vedere 
      riflessa la propria immagine.” (ibid.)
 
 
   
 La locandina di Il colosso di Rodi (1961), regia di Sergio Leone.
 
 Insomma, la domanda che sottende Dionysus Since 
      69 è “perché la tragedia greca ha avuto tanto successo in 
      questi decenni?” (p. 5)
 Partendo da una minuziosa ricostruzione della 
      messinscena di Schechner, affidata a una testimone di quello 
      spettacolo-evento, Froma I. Zeitlin, il volume cerca di analizzare i 
      motivi di questo recupero, con una ricognizione ad ampio raggio che si 
      appoggia al lavoro svolto negli ultimi anni dall’Archive of Performances on 
      Greek and Roman Drama di Oxford. Nell’impostazione del volume, i 
      filoni lungo i quali si articolano le moderne letture dei testi di 
      Eschilo, Sofocle ed Euripide coincidono dunque con le ragioni della loro 
      attualità e le esplicitano. Dionysus Since 69 è così scandito in 
      quattro grandi aree di ricerca, “quattro ampie categorie (che sono 
      tuttavia strettamente intrecciate): sociali, politiche, teatrali e 
      mentali” (p. 9).
 
 
   
 La locandina di La regina delle Amazzoni (1960), regia di Vittorio Sala.
 
 Il primo blocco riguarda Dioniso e la guerra dei 
      sessi: “‘il personale è politico’ (…) potrebbe essere una delle 
      possibili descrizioni della tragedia greca, dove vicende individuali, 
      intime, domestiche di conflitti sessuali, parentali e di potere vengono 
      narrate nella prospettiva collettiva, comune, politica della società in 
      cui vive la famiglia tragica” (p. 10).
 
 
   
 La locandina di Le guerriere dal seno nudo. Le amazzoni di Terence Young (1974), regia di Terence Young.
 
 Ecco dunque – dopo la ricostruzione 
      dello spettacolo di Schechner - due saggi che contrappongono 
      l’esplorazione della femminilità attraverso le moderne incarnazioni delle 
      “Bad Girls” attiche (a cura di Helen Foley) alla riflessione critica 
      sull’immagine maschile (l’“Ercole decostruito” di Kathleen Riley).
 
 
   
 La locandina di Xena and Hercules (1998), regia di Lynne Naylor.
 
 A 
      seguire, il Dioniso politico: “la tragedia greca è nata in una fase 
      di transizione politica, ovvero con l’emergere dei primi segni di una 
      rivoluzione democratica nell’Atene della fine del Sesto secolo (…) La fine 
      del Ventesimo secolo ha risvegliato il suo impatto politico” (p. 18).
 
 
   
 La locandina di Spartacus (1961), regia di Stanley Kubrick.
 
 In 
      questa chiave Oliver Taplin, partendo dalla situazione emblematica 
      dell’Irlanda del Nord, si concentra sulla riscrittura del Filottete 
      da parte di Seamus Heaney, The Cure at Troy. Edith Hall misura 
      il rapporto con l’attualità geopolitica dei Persiani di Peter 
      Sellars (1993) (secondo il quale la tragedia greca ci permette di dire 
      quello che altrimenti sarebbe indicibile, di rappresentare 
      l’irrappresentabile), e del Prometeo di Tony Harrison (1998).
 
 
   
 La locandina di Edipo Re (1967), regia di Pier Paolo Pasolini.
 
 Pantelis Michelakis traccia una rapida panoramica sulla cinematografia, a 
      cominciare ovviamente da Edipo Re (1967) e Medea (1969) di un apripista come Pasolini, ma arriva fino al 
      Teatro di guerra di Martone (1998) – senza naturalmente dimenticare 
      il documentario che il giovanissimo Brian De Palma dedicò proprio al 
      Dionysus in 69 di Schechner.
 
 
   
 La locandina di Medea (1969), regia di Pier Paolo Pasolini.
 
 Lorna Hardwick affronta il nodo 
      dell’anti- e post-colonialismo, con particolare attenzione alle 
      reinvenzioni caraibiche di Derek Walcott e alle esperienze africane:
 
 “la tragedia greca si è rivelata un terreno 
      fertile per esplorare le differenze culturali (…) in tutte le tragedie 
      greche s’incontrano, in pratica, personaggi che vengono dai diversi stati 
      della Grecia – tebani, ateniesi, argivi, tessali, cretesi – ma è anche 
      sorprendente che la metà circa di questi testi mostrino dei greci che 
      interagiscono con individui o gruppi (spesso il coro) di etnie e lingue 
      diverse.” (p. 23)
 
 
   
 La locandina di Maciste nell'inferno di Gengis Kahn (1964), regia di Domenico Paolella.
 
 La terza sezione è dedicata 
      all’estetica della performance. Del resto il confronto con la tragedia 
      greca – ovvero con l’origine del teatro – è alla radice di alcune delle 
      moderne rivoluzioni teatrali. In un momento in cui si rifiutava il “teatro 
      di parola” per ritrovare sulla scena la forza espressiva e comunicativa, 
      il ritorno all’origine era un passaggio pressoché obbligato: esemplare, in 
      questo senso, un unicum come l’Antikenprojekt nelle due serate di 
      Peter Stein e Klaus Michael Grüber alla Schaubühne di Berlino nel 1972, di 
      cui parla Erika Fischer-Lichte. Si esplora in primo luogo il recupero 
      della maschera: se ne occupa David Wiles; mentre la riflessione sul coro, 
      un problema altrettanto e forse ancor più centrale nelle messinscene 
      moderne, è confinata alla riflessione di Erika Fischer-Lichte sulle regie 
      di Einar Schleef.
 
 
   
 La locandina di La vendetta di Ercole (1960), regia di Vittorio Cottafavi.
 
 Al centro dell’analisi di Katharine Worth c’è invece 
      l’influenza della tragedia greca sulla drammaturgia contemporanea, a 
      cominciare da Beckett, ma con un risvolto interessante: per molti registi, 
      tra cui Tadashi Suzuki e JoAnn Akalaitis, proprio Beckett è stata la 
      chiave per arrivare – dopo – alla tragedia greca. L’uso che la 
      musica contemporanea, in particolare il teatro lirico, ha fatto dei miti 
      greci è invece oggetto della compilazione di Peter Brown.
 
 
   
 La locandina di Ercole e la regina di Lidia (1959), regia di Piero Francisci.
 
 Infine, gli 
      aspetti psicologico-mentali, affrontatati da Fiona Macintosh (con 
      un’analisi dell’Edipo anti-freudiano di Steven Berkoff in Alla 
      greca), Erika Fischer-Lichte e Timberlake Wertenbaker.
 
 “Il nostro inconscio è nascosto, i greci lo sapevano e 
      hanno fatto teatro proprio con la parte nascosta di noi stessi (…) il 
      recente successo della tragedia greca non dipende da particolari 
      evoluzioni della società o politica o del teatro della fine del Ventesimo 
      secolo; dipende invece dalle ‘parti nascoste di noi stessi’, dalle 
      evoluzioni psicologiche, intellettuali ed emotive della coscienza alla 
      fine del Ventesimo secolo.” (p. 36)
 
 
   
 La locandina di Saffo, Venere di Lesbo (1960), regia di Piero Francisci.
 
 Non è un caso che, 
      dopo Freud e Jung, molti teorici del post-moderno (Derrida, Foucault, 
      Barthes, Lyotard, Jameson, ma anche teoriche del femminismo come Kate 
      Millet e Germaine Greer, cui andrebbero aggiunti almeno i Deleuze e 
      Guattari dell’Anti-Edipo) abbiano trovato nella tragedia greca 
      materiali, suggestioni e metafore. Del resto, la riflessione sulla 
      distruzione (o l’indebolimento) della soggettività e sull’instabilità 
      della coscienza individuale trova nei personaggi tragici ampie e variegate 
      esemplificazioni.
 
 
   
 La locandina di Elena di Troia (1955), regia di Robert Wise.
 
 Di più, pensando alla parabola di molte eroine 
      tragiche, la drammaturga Timberlake Wertenbaker fa notare una differenza 
      sottile ma fondamentale rispetto ai maschi:
 
 “gli uomini affermano di arrivare alla consapevolezza di 
      sé, di capire perché hanno fatto quello che hanno fatto, di aver appreso 
      da questa esperienza, e di essere in grado di compiere azioni fondate su 
      una ragione che nasce dall’esperienza. Le donne, per esempio Ecuba, 
      si 
      sentono prima di 
      conoscersi, e agiscono senza fare appello a una consapevolezza di sé – né 
      mentre agiscono né a posteriori.” (p. 45)
 
 
   
 La locandina di La guerra di Troia (1961), regia di Giorgio Ferroni.
 
 In un’epoca 
      in cui le certezze della ragione illuministica vacillano, minate dagli 
      orrori della storia, queste figure femminili “non ci insegnano a Conoscere 
      Noi Stessi, ma ad essere umili di fronte all’Inconoscibile, come è giusto” 
      (ibid.).
 
 
   
 La locandina di Gli ultimi giorni di Pompei (1959), regia di Mario Bonnard.
 
 Di fronte a un’impresa di questo genere, che 
      raccoglie le voci di una dozzina di studiosi di area angloamericana e 
      tedesca, non si può certo pretendere la completezza, anche perché la 
      quantità di informazioni contenuta nel volume resta in ogni caso notevole. 
      Sarebbe fin troppo facile notare quanto siano scarsi, per esempio, i 
      riferimenti alle stagioni di teatro classico di Segesta e Siracusa (con 
      l’INDA, fin dagli anni Trenta) ed Epidauro (anche se è interessante 
      l’accenno di David Wiles alla pionieristica attività di Eva 
      Palmer-Sikelianos a Delfi alla fine degli anni Venti).
 
 
   
 La locandina di La caduta dell'impero romano ((1964), regia di Anthony Mann.
 
 Nella teatrografia 
      finale, compilata da Amanda Wringley, manca per esempio qualunque accenno 
      alle memorabili Troiane di Thierry Salmon, e allo stesso modo viene 
      appena citata un’altra messinscena in greco antico, quella 
      dell’Orestea del rumeno Andrei Serban. Allo stesso modo, per 
      limitarsi alle vicende italiane, Massimo Castri (con il suo lavoro di 
      ampio respiro sul ciclo di Eracle) non è presente neppure nell’indice dei 
      nomi; e di Luca Ronconi non si cita l’epocale Orestea – si 
      ricordano piuttosto la sua Fedra da Seneca e, in una nota, la 
      censura berlusconiana alla scenografia delle Rane a Siracusa. Ma 
      quello del “chi c’è e chi manca” è un gioco troppo banale, e in definitiva 
      inutile.
 Il vero nodo è invece un altro: come si legge 
      nell’introduzione, “l’aspetto più significativo di questa impresa consiste 
      nel disegnare i rapporti con i programmi sociali, estetici ed 
      intellettuali dei registi e con le società in cui operano” (p. 5).
 
 
   
 La locandina di Troy (2004), regia di Wolfgang Petersen.
 
 Insomma, si tratta di trovare le chiavi in base alle quali possiamo 
      affermare che i greci sono nostri contemporanei - per parafrasare il 
      titolo della celebre raccolta di saggi shakespeariani di Jan Kott, che 
      alla tragedia greca sulla stessa falsariga ha poi dedicato un altro libro 
      fortunato, Mangiare dio.
 Pochi anni prima che andasse in scena 
      Dionusus in 69 di Schechner, George Steiner aveva pubblicato 
      Morte della tragedia (seguito qualche anno dopo da Le 
      Antigoni, rivisitazione delle diverse e contrastanti letture del testo 
      di Sofocle attraverso i secoli, fino allo spettacolo del Living Theatre: 
      un saggio che ha segnato la storiografia dello spettacolo, e di cui questo 
      stesso volume è obliquamente debitore). Tesi di fondo della carrellata di 
      Steiner attraverso duemilacinquecento anni di drammaturgia era che il 
      senso tragico dei greci fosse per noi moderni irrimediabilmente perduto, 
      irrecuperabile.
 
 
   
 La locandina di Alexander (2004), regia di Oliver Stone.
 
 La domanda che i brillanti e informati saggi di 
      Dionysus Since 69 non si fanno – e forse non possono farsi, ma 
      sfiorano continuamente – è proprio questa: al di là delle mille possibili 
      attualizzazioni e interpretazioni, contaminazioni e parodie, al di là 
      dell’uso di un patrimonio condiviso di trame e di personaggi, in questi 
      ultimi decenni è stato in qualche modo possibile trascendere il dramma 
      (ovvero il discendente depotenziato della tragedia), e invece recuperare e 
      trasmettere sulla scena contemporanea l’autentico senso tragico? E se 
      questo è accaduto, se questo può accadere, che cosa nella nostra 
      sensibilità e visione del mondo ci accomuna agli antichi greci e ci rende 
      diversi dai nostri immediati predecessori?
 
 
   
 La locandina di Ulisse (1954), regia di Mario Camerini.
 
 Altrimenti la tragedia greca si 
      riduce a un repertorio di classici, più o meno belli, più o meno 
      inoffensivi, da usare come pretesti per obiettivi e scopi totalmente 
      “nostri”, attuali, utilitaristici (che poi si tratti di obiettivi politici 
      o turistici, a questi punto poco importa). Una risposta, da intrecciare 
      magari con il declino della soggettività cui si accennava, viene forse 
      suggerita verso la fine dell’introduzione:
 
 “dipingendo un universo retto da una moltitudine di 
      divinità pagane in cui oggi nessuno crede più, la tragedia greca può 
      offrire uno spazio importante, libero dalle specificità culturali del 
      presente, per riflettere su questioni metafisiche e (nel senso più ampio 
      del termine) teologiche – le domande tragiche ‘cruciali’ del bene e del 
      male, il ruolo dell’umanità nell’universo e il suo rapporto con le forze 
      inconoscibili che lo plasmano – soprattutto nel mondo attuale, 
      frammentato, multiculturale (e, almeno in Europa occidentale, 
      post-cristiano).” (p. 45)
 
 Come se, archiviata la morte 
      di Dio, lo spirito tragico potesse in qualche modo tornare a soffiare.
 
 
   
 La locandina di Hercules (1997), regia di John Musker e Ron Clements.
 
 Tuttavia un interrogativo del genere non può essere l’argomento per 
      una raccolta panoramica di saggi di studiosi di teatro. Dovrebbe piuttosto 
      essere il tema del libro di un filosofo. Anche se proprio questo è il nodo 
      intorno a cui lavora un altro dei gruppi che questo Dionysus Since 
      69 non cita, la Societas Raffaello Sanzio, che nel corso degli anni ha 
      condotto una ossessiva e coerente riflessione sul tema dell’impossibilità 
      del tragico, dal Gilgamesh alla fondamentale Orestea, dalla 
      Genesi alla Tragedia endogonidia.
 
 
   
 La locandina di Ulisse contro Ercole (1963), regia di Mario Caiano.
 
 
 Altri saggi recenti affrontano, da angolature e con 
      ambizioni diverse, temi analoghi.
 I testi di una pioniera del 
      settore, Marianne McDonald, L’arte vivente della tragedia greca 
      (traduzione di Francesca Albini, con il saggio L’arte vivente della 
      tragedia greca in Italia di Umberto Albini, Le Monnier Università, 
      Firenze, 2004, 248 pp., 17,50 euro), lo fa in maniera più spigliata, visto 
      anche l’obiettivo del volume: “una breve introduzione che fornisca una 
      visione d’insieme bilanciata, in cui siano affrontate adeguatamente sia la 
      rappresentazione sia l’analisi filologica”. Il saggio comprende dunque una 
      serie di schede sui tre tragici greci e su ciascuno dei loro testi, con un 
      breve riassunto e alcuni appunti sulle messinscene moderne principali 
      (integrate per quanto riguarda l’Italia nell’appendice di Umberto Albini).
 Dello stesso Albini, che all’attualità dei tragici greci e di 
      Aristofane ha dedicato numerosi saggi, si veda anche il recente Maschere 
      impure, ovvero, come recita il sottotitolo, Spettri, assassini, 
      amori e mierie nei drammi greci (Garzanti Libri, Milano, 2005, 194 pp, 
      13 euro).
 
 
   
 La locandina di Gli invincibili fratelli Maciste (1965), regia di Roberto Mauri.
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