ateatro 96.9
Il Progetto Domani di Luca Ronconi: un teatro delle idee contro l’espropriazione della storia e dell’economia Intorno a due spettacoli anomali: Il silenzio dei comunisti e Lo specchio del Diavolo di Andrea Balzola
Il Progetto Domani, pentatlon olimpico di Ronconi a Torino, è un Kolossal a puntate del Teatro delle idee. Infatti, da molti anni ormai, Ronconi risponde al dramma della realtà e alla telecronaca del disastro (disfatta delle utopie, conflitti culturali e religiosi, guerre endemiche e d’esportazione, recessione economica, tentazioni autoritarie, politica mediatica, economia globale e finanza gangsteristica...) con una regia teatrale del pensiero, come dire: “è ancora possibile pensare oggi, con la propria testa? E’ ancora possibile pensare la realtà in relazione a un progetto umano, che non sia più l’apriori ideologico e religioso o la precettistica di un mercato globale?” Poiché si fa fatica a pensare così, nella ragnatela mediatica e nell’agorà sociopatologico in cui siamo immersi, subacquei in carenza di ossigeno, Ronconi offre quel doppio della realtà che è il teatro, di cui egli è illuminato sovrano, come laboratorio del libero pensiero non organizzato, come Stabile del dubbio, come “vorace” osservatorio critico sul mondo e sulla trinità temporale di passato presente futuro.
Per fare questo, e lo sa fare molto bene, rimescola le carte: fa scrivere i suoi copioni a matematici (come Barrow con Infinities), economisti di alto profilo intellettuale (come Ruffolo con Lo specchio del Diavolo), o porta sulla scena le voci di politici di passione più che di professione per riflettere su un passato non abbastanza elaborato (come ne Il silenzio dei comunisti), ripropone tragedie post-moderne, dove non è più il Fato o la Natura ma l’uomo l’unico assoluto responsabile del disastro (Atti di Guerra di Bond), esplora il repertorio per estrarre tutto ciò che può “parlare” nel dibattito contemporaneo senza essere schiavo dell’attualità (come il Professor Bernardi, attualissima incursione nel travagliato rapporto tra scienza, etica e fede), rivisita i classici in chiave contemporanea (dalle Rane di Aristofane fino all’ultimo Troilo e Cressida di Shakespeare) non per il consueto ammiccamento all’oggi che consente un riciclaggio tanto più appetitoso quanto esteriore dei testi canonici, ma selezionandone gli aspetti più sostanziali, quelli capaci di trascendere le frontiere del tempo.
Il bozzetto della scena per Lo specchio del Diavolo.
Fare un Teatro delle idee, significa avere un‘idea del Teatro e non c’è dubbio (sia tra i suoi cultori sia, spero, tra i suoi detrattori) che Ronconi sia uno dei pochi “resistenti”, almeno nell’attuale Italia devastata dal berlusconismo, ad aver mantenuto e maturato un’idea del Teatro (del suo senso e della sua funzione), che è in fin dei conti, semplificata al massimo, l’idea di una realtà commentata, elaborata, eventualmente trasformata, mediante la finzione, come se la finzione potesse essere, o diventare, coscienza critica della realtà ma anche creatrice di un’altra realtà possibile, quella di un etica della responsabilità (opposta agli imbonimenti “neo-napoleonici” e alla grigia retorica dell’ineluttabile). Non l’utopia rivoluzionaria brechtiana o quella metafisica artaudiana, ma una tessitura dell’intelligenza sull’intricatissimo e contraddittorio ordito del divenire.
In particolare mi vorrei soffermare su due spettacoli del progetto Domani, forse i più anomali: Il silenzio dei comunisti di Vittorio Foa, Miriam Mafai, Alfredo Reichlin e Lo specchio del Diavolo di Giorgio Ruffolo. Una “doppietta” che si potrebbe pensare come una risposta (aperta) a due interrogativi cruciali, in qualche modo collegati tra loro: Il fallimento di un regime è necessariamente il fallimento di un’utopia? L’economia è al servizio dell’uomo o l’uomo dell’economia?
Con Atti di guerra di Edward Bond se ne aggiunge una terza: Cosa succede quando si porta alle estreme conseguenze e si interiorizza la logica della guerra?
Il denominatore comune c’è ed è l’espropriazione.
Il bozzetto della scena per Il silenzio dei comunisti.
Nel Silenzio dei comunisti, emerge in modo limpido l’espropriazione dell’utopia e della memoria: la storia tragica del sistema politico che prende avvio e si proclama realizzazione concreta dell’ideologia marxista espropria l’utopia di un superamento della società capitalistica e tutti coloro che le hanno dedicato la loro vita. Il fallimento di quel sistema nella sua dimensione storica è indubitabile, ma se ne sono valutate attentamente le diverse varianti, come ad esempio quella italiana? E soprattutto, da questa sconfitta dell’idea è legittimo dedurre che il capitalismo sia un sistema indiscutibile e senza alternative, il migliore di quelli possibili? e che le vite e le passioni di milioni di comunisti siano state, per dirla con De Andrè, “sbagliate”? e se non è così, quale elaborazione del lutto di un’ideologia bisogna fare per rigenerare l’idea e soprattutto la possibilità reale di un cambiamento? Questa, in sintesi, era la domanda sapiente innescata dal grande vecchio Vittorio Foa. Scrive Foa: “Il comunismo in Italia ha avuto grande importanza e una sua propria peculiarità rispetto al comunismo mondiale, ed ha contribuito alla formazione delle nostre istituzioni, della nostra democrazia, della nostra liberazione da brutti momenti.” Come mai allora si tende oggi a perderne la memoria, lasciando spazio solo una strumentale demonizzazione o a un’emotiva nostalgia?
Deleuze diceva che era assurdo stabilire una connessione diretta tra le rivolte, le rivoluzioni, le utopie e le loro conseguenze storiche, le rivoluzioni falliscono, forse falliscono sempre, ma questo non significa che siano inutili. Il 68’ ad esempio è stata solo una grande illusione? Non ha cambiato i sistemi politici ma ha sicuramente cambiato il nostro quotidiano, i costumi, i modelli culturali, la percezione dei diritti civili e umani. La non violenza è stata una risposta data alle tragedie della storia da chi ha creduto e crede nella possibilità di un cambiamento, non da chi stigmatizza come violento ogni radicalismo progressista e poi affida regolarmente alla guerra il compito di difendere lo status quo dei propri privilegi.
Naturalmente, la messa in scena di Ronconi, che riproduce un concentrato fedele dell’epistolario dei tre militanti comunisti “non pentiti”, non si spinge così lontano e non vuole dare risposte univoche, pone teatralmente il problema. Ronconi affida la voce conduttrice di Foa a un bravissimo Lo Cascio, raro esempio italico di recitazione intensa e disinvolta senza retorica e senza “spasimi”, quella della Mafai alla fervente Maria Paiato e quella di Reichlin a un travagliato Fausto Russo Alesi; allestisce tre ambienti paralleli e adiacenti (un salotto spoglio, da intellettuale di sinistra, uno stanzone da imbiancare, una stanza semivuota con un angolo piastrellato che fa intuire un’ex cucinotto) che sembrano luoghi dismessi in stile e colori anni Settanta, metafora di una fatiscenza della memoria storica (con una pigra vocazione al riabbellimento: solo una parete dei 3 ambienti sta per essere imbiancata), a cui le apparizioni monologanti ridanno vita; e mantiene l’isolamento epistolare-spaziale dei personaggi fino a una ricongiunzione finale che si proietta sul futuro come speranza non retorica e non scontata. Questo testo non teatrale volutamente poco “drammatizzato” azzera lo spettacolo in funzione dell’ascolto e della riflessione, pretende attenzione, colpisce sicuramente al cuore le generazioni che hanno vissuto in prima persona le battaglie e i travagli di cui si parla e resta forse di fruizione più problematica per le generazioni più recenti, quelle nate o cresciute già oltre le macerie del muro di Berlino che non solo hanno altra memoria ma anche altri linguaggi. Ma forse proprio questa differenza esprime l’esigenza di ritrovare, con qualche necessario impegno, gli anelli di congiunzione che possono fare da radici ai nuovi alberi.
Anche in Lo specchio del Diavolo di Giorgio Ruffolo, “cavalcata sulla storia dell’economia, dal Paradiso terrestre ai giorni nostri”, il tema è quello dell’espropriazione, nell’economia neocapitalista e liberista infatti la finanza prevale sulla produzione industriale, il valore astratto espropria a proprio vantaggio il valore reale delle cose, in termini ancora più generali espropria la relazione fra natura, cultura ed economia. Scrive Ruffolo: “Proprio come nello specchio di Alice (...) che, anziché riflettere l’immagine dritta, riflette l’immagine al rovescio, nei mercati finanziari non sono i prezzi dei titoli che riflettono il valore reale delle cose ma il valore reale delle cose è condizionato dal prezzo dei titoli. Questo è quanto fondamentalmente significa “Lo specchio del diavolo”.” Per la prima volta l’economia politica arriva in scena, non per via di metafora o di proclama ideologico, ma raccontata direttamente, anche nelle sue formule più ostiche, con i suoi protagonisti illustri e illusionisti, con le sue evoluzioni, rivoluzioni e involuzioni.
La struttura del testo prevede tre parti: l’economia e la tecnica, dove si tratta il tema delle origini delle relazioni tra uomo, ambiente e risorse naturali; l’economia e la moneta, dov’è appunto protagonista il tema dello scambio, le logiche del mercato e le teorie monetarie; l’economia e la politica, dove si affronta il tema più attuale e inquietante, cioè il rapporto tra capitalismo e democrazia, e in particolare l’ascesa e la crisi delle teorie liberiste, con un fugace sguardo al futuro possibile.
La scena scelta da Ronconi è un supermercato modulare che si trasforma continuamente e scandisce un accelerato orologio della storia economica con una serie di tappe emblematiche spazializzate in ambienti stilizzati e sempre venati di ironia: dai gilardiani “tappeti natura” che rappresentano un Eden coltivato da Adamo ed Eva e severamente controllato dal Creatore, dove poi si aggira una famiglia di primati, avi dell’homo economicus moderno, al libertino salotto settecentesco che emerge dalla botola del passato con geniali avventurieri come John Law (fondatore in Francia della prima banca - “Banque Royale”- che emette carta moneta); alle banche con le loro riserve auree in cui si avvicendano i primi investitori dell’800 sedotti e truffati dalle più assortite imprese speculative, o dove appare Napoleone III sovrano da operetta e fautore del nascente capitalismo moderno. Un capitalismo che viene radiografato da Marx ed entra in cortocircuito con il crollo della borsa di Walll Street del 1929, in un mondo fatto di arene finanziarie e grattacieli da cui si lanciano le vittime dei giochi della finanza. Fino allo sganciamento autocratico del dollaro dall’oro e all’imposizione della moneta americana come moneta universale. Il mondo diventa a stelle e strisce quando i Keynesiani sono sconfitti dai seguaci di Milton Friedman, padre del liberismo (trionfante negli Usa dagli anni Settanta-Ottanta e ancor oggi baluardo dalla destra anglo-europea) consulente di Pinochet e fautore del darwinismo sociale, secondo cui “il capitalismo è quel sistema che rende l’avidità funzionale al benessere della società”. Ruffolo scrive: “Il compromesso socialdemocratico si fondava sulla base ideologica del pensiero keynesiano, favorevole all’intervento pubblico sulla domanda e sulla distribuzione delle risorse. La controffensiva capitalistica respinge nettamente l’interferenza dello Stato nel Mercato, e rimette in onore un idolo che sembrava distrutto: la fede inconcussa nella capacità di autoregolazione di quest’ultimo”. Con il crollo del blocco sovietico e gli Stati Uniti che si affermano non solo come la più forte potenza politica e militare del mondo, ma anche come “Quartier Generale della finanza mondiale”, nasce “una plutocrazia cosmopolitica e apolitica” o per meglio dire “ademocratica” e “amorale” che trascende gli stati nazionali, alleandosi anche con la criminalità organizzata e con le strategie politico-militari più destabilizzanti. In questo contesto l’apparizione dell’euro, che Ronconi tra ironia e speranza immagina incarnarsi in una bambina, diventa possibile alternativa alla supremazia di un unico impero turboeconomico. Anche l’onnipervadente innovazione tecnologica, che Ronconi visualizza come spazio invaso da una sorta di videoinstallazione con colonne di monitor, è permeata da un modello autoreferenziale, sganciato da un progetto etico e cognitivo, che privilegia il consumo sul servizio ed è finalizzato non a liberare - come speravano gli utopisti - gli uomini dal lavoro, ma viceversa a liberare il lavoro (e il profitto) dall’uomo. Alla fine Ruffolo e Ronconi si affidano al buon senso del Demiurgo (icona simbolica di un socratico sapiente) che dice: “- No: non è la tecnica il pericolo. E’ l’uso che se ne fa. E questo è oggetto delle nostre scelte.” E immaginano il Creatore che ritorna a riflettere su quanto accaduto da Adamo ed Eva a oggi, su come l’uomo ha amministrato il pianeta. Un Dio indignato (o sconsolato) che commenta l’oggi con parole, è proprio il caso di dire, “sante”: “- Qualcuno dovrà spiegare perché le risorse destinate a inondare incessantemente il mercato di nuove generazioni di gadgets siano state negate alla cura dell’ambiente, alla sicurezza delle infrastrutture, alla protezione del territorio, alla promozione della cultura.” Ma la conclusione del testo di Ruffolo non si limita al bilancio storico e critico dell’economia, interviene con spirito pragmatico e illuminista sulle prospettive: “alla fine, è compito della politica, non della futurologia, tracciare il percorso (...) E allora, ciò che conta non è prevedere. E’ volere: è decidere. Nel mondo dell’incertezza, l’unica certezza è la nostra volontà.” Uno spettacolo molto “colorato” per la ricchezza quasi pirotecnica delle idee concettuali e sceniche, ambientate dalle vivaci scene modulari di Tiziano Santi (che ha firmato con grande e raffinata perizia tutte le scenografie del Progetto Domani), sonorizzate da una complessa e sapiente regia del suono di Hubert Westkemper, vestite dai costumi straordinari e sorprendenti di Simone Valsecchi e Gianluca Sbicca che hanno utilizzato x tutti gli abiti il materiale sintetico delle confezioni dei prodotti industriali, e agite da un team di affiatatissimi attori, nella maggioranza giovani, molto concentrati e poliedrici nel loro attraversamento di ruoli ed epoche diverse, nella recitazione puramente vocale quanto nella coreografia, talvolta acrobatica, dei movimenti. Uno spettacolo dunque che è davvero, come aveva promesso Ronconi, “una cavalcata”, che scorre veloce, nonostante le sue cinque ore, avvincente nonostante la densità e la complessità dei contenuti, assolutamente teatrale nonostante il carattere saggistico del testo di partenza.
Devo dire che quando mi capitò di leggere il copione, prima di vedere lo spettacolo, non solo fui ammirato dalla limpidezza della scrittura di Ruffolo, ironica, mordace e capace di acutissima sintesi, ma con la curiosità del drammaturgo mi domandai subito come sarebbe stato possibile trasformare quel racconto pur straordinario ma saggistico in una regia teatrale; conoscendo bene le sfide ronconiane non nutrivo molti dubbi sui risultati ma le modalità per arrivarci costituivano un’incognita assai intrigante. E la sorpresa c’è stata: le chiavi registiche sono la polifonia delle voci e il ritmo incalzante dell’azione, segmentare il testo in brevi monologhi, contestualizzare la recitazione in ambienti forti, vivaci, luminosi e articolati e in un’azione quasi sempre corale, ricreare nell’associazione dei monologhi il ritmo del dialogo teatrale, incarnare i concetti nei personaggi citati da Ruffolo e inventarne altri per gli altri segmenti testuali, mantenere alcuni personaggi come filo conduttore e quasi voce narrante dello spettacolo, rendere ciclici i nodi tematici più importanti che ritornano a ondate per ricucire il senso dei frammenti di storia e di testo, in alcuni momenti riprodurre ironicamente il modello della “lezione” di economia, esplicitare sempre ironicamente le citazioni colte (una “lettrice” gira sul palco con un carrello da supermercato pieno dei libri citati da Ruffolo e li estrae sulla relativa battuta nominandoli e mostrandoli ostentatamente al pubblico)...
Dunque la scelta ronconiana dell’”anomalia” drammaturgica, usando testi non teatrali per affrontare una nuova drammaturgia del contemporaneo che, a differenza del cinema, non è adeguatamente rappresentata dalla letteratura teatrale (questo però in larga parte per la grande responsabilità che ha il circuito produttivo italiano nel negare accesso e sperimentazione ai nuovi autori), si dimostra una strategia vincente di spiazzamento del repertorio e della mummificazione delle idee e quindi anche una strategia vincente di riappropriazione teatrale rispetto a quel processo di espropriazione della storia, dell’economia e della cultura che si sta consumando attraverso le demagogie e le mistificazioni mediatiche del nostro opaco presente.
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