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Un po’ dopo il piombo
(sul Caso Moro)
di Oliviero Ponte di Pino

Questo testo è stato scritto come presentazione
dello spettacolo Corpo di stato di e con Marco Baliani
(trasmesso in diretta da Raidue il maggio 1998)
e inserito nel programma di sala

Nel 1978 avevo ventun anni, e non permetterò mai a nessuno di dire che è la più bella età della vita. Per accorgermene, non ho avuto bisogno di arrivare fino a Aden, Arabia. Mi sono bastate le strade e le piazze della mia città. Milano, Italia, come avrebbe titolato la televisione.

Era un periodo cupo, angosciato, di una violenza assurda che ti entrava nell’anima. È vero, la violenza e la rivolta possono dare l’ebbrezza, una vertigine di liberazione, ma ormai quell’allegria distruttiva aveva lasciato posto a una rabbia disperata, sorda come il dolore, guizzante come una serpe.

Subito dopo il sequestro di Aldo Moro la sinistra e i sindacati scesero in piazza "per Moro". All’improvviso vidi tutto come da lontano, come se fossi stato risucchiato altrove, a una distanza infinita, e la cosa non mi riguardasse più. Un presagio: "Ecco, è finito tutto". Per un attimo quel vuoto desolato, il deserto delle speranze, è stato attraversato da un lampo sottilissimo di assoluta, purissima ilarità.

Perché? Quando pensavo a quel "tutto" che era appunto finito, pensavo più o meno a quanto di buono e bello potevo aver sperato nell’adolescenza, alla sete di verità e giustizia, agli entusiasmi del cuore e della ragione. Pensavo a quel "noi" nel quale avevo cercato di perdermi, sacrificando la parte più grande possibile del mio "io". Lo slancio che mi aveva, che ci aveva appassionato tutti, a migliaia, a centinaia di migliaia, coinvolto, trascinato, travolto, non aveva più senso. Era stato pervertito, senza che fosse possibile capire come, e da chi. Un’identità collettiva – che poteva essere stata solo un’illusione ottica – stava rovinosamente implodendo. In quei mesi, l’illusione di allargare la coscienza si stava ribaltando nell’istupidimento dell’eroina. La speranza di una qualche redenzione collettiva attraverso la politica si era ridotta alle esecuzioni a sangue freddo, ai rituali della latitanza che ti rendono sempre più simili agli sbirri, ai proclami fatti trovare nei cestini dell’immondizia. Già da tempo avvertivo – pur senza capire – che erano stati imboccati troppi vicoli ciechi, e che per uscirne sarebbe stato necessario percorrerli fino in fondo, e poi attendere a lungo, molto a lungo. Qualcuno ha cercato rifugio in qualche ghetto, per resistere in attesa di tempi migliori.

Ma per me quell’istante di ilarità senza senso era la consapevolezza del disastro alla fine accaduto, forse l’allegria del naufragio. "Ecco, è finito tutto". Parlano solo le armi, la violenza, la forza. E lutti, sofferenze che non si possono risarcire. Il resto, come alla fine di una tragedia, è silenzio.

Avrebbe dovuto essere silenzio. Tuttavia in questi anni i "combattenti" dei due fronti, quelli che occupavano la scena in quei giorni fatali, hanno parlato, eccome. Del "caso Moro" si è continuato a discutere con fragore e scandali, in interminabili processi (tanti che ne abbiamo perso il conto) e scaffali di libri, tra pseudo-verità che sembrano salvacondotti e verità che suonano come ricatti. Per altri – per quelli che non avevano nulla di cui pentirsi – è iniziata una traversata nel silenzio: perché intanto si trattava di andare avanti a vivere, senza più alcun bagaglio. Le utopie – le nostre utopie e i nostri sogni – erano già cadaveri. I corpi, i volti, gli affetti sparivano, morivano. Si allontanavano. Non li ho più visti, gli amici di allora. Il cinismo può essere la lama della salvezza? A quale prezzo? Una generazione – la mia – si autodistruggeva. (Anche questa confessione rischia di essere solo un altro sfogo autolesionistico, una dichiarazione d’impotenza. Potrebbe essere letta come una dichiarazione di duplice colpevolezza per aver condiviso e mai rinnegato molti degli ideali degli assassini di Moro e per non averne saputo impedire la deriva crudele; e per esserci poi rassegnati, con maggiore o minor dignità, a un potere infettato da corruzione, ricatti e stragi – quel Palazzo che i brigatisti stavano grottescamente processando, senza capire o fingendo di non capire.)

È così che ci siamo trovati ad abitare quel deserto, a farne la nostra casa. Come talismano, una verità muta, che non era quella delle sentenze e dei misteri, dei torbidi dossier, ma quella – insieme – della biografia e della storia. Ce la saremmo portata dentro per sempre.

Tornare a quegli anni, per chi li ha vissuti, vuol dire riaprire vecchie ferite, parlare di sé prima della cronaca, o della storia. Vuol dire ridurre la politica a un vissuto personale. Vuol dire parlare, prima di tutto, di sé, del proprio "romanzo di formazione" doloroso e incompiuto. (È quello che mi viene istintivo quando ho iniziato a pensare a quel periodo della mia vita: aggiungere un mio racconto a quelli di Marco, raccontare la mia storia, il mio punto di vista, per quanto parziale, discutibile, per qualcuno forse offensivo.)

Siamo stati temprati nel piombo, nella sua opaca pesantezza, nella sua riluttante malleabilità. Metallo tossico e povero, il piombo fonde a una temperatura piuttosto bassa: molto di quello che vi era incastonato si è bruciato, o volatilizzato. Noi siamo le scorie. Poi sono venuti i "dorati anni Ottanta", televisivi e senza pensiero, ricchi eppure corrotti (si portavano dentro tutto quel sangue nero). Molte di quelle scorie si sono ricoperte di una patina luccicante.

C’è disagio a raccontare quelle storie. Un po’ perché fa ancora male, e perché c’è la paura di non essere capiti: da chi li ha visti ma non li ha vissuti, e anche dai più giovani, perché magari sognano che possa essere stato un tempo di entusiasmo, ribellione e felicità. Non c’è stato niente di eroico o di romantico. Neanche la miseria di essere sopravvissuti, neanche la soddisfazione meschina di poter ripensare, la notte, a tutto questo. Ai morti, alle vittime, a chi marcisce in galera, a chi ha tradito l’amico…

Perché raccontarla, allora, questa verità così dolorosa, che ha l’odore della morte?

Forse perché in quelle vicende c’è un segreto – il nostro segreto, le cicatrici che ci portiamo dentro, quelle che ci hanno fatto diventare quello che siamo, con le nostre durezze, debolezze, cautele, sensibilità. I pudori di chi era stato gioiosamente sguaiato e che poi ha faticato per ritrovare le parole. È stata una vicenda atroce. Il tentativo di dar forma alla nostra ribellione e alle nostre speranze si era trasformato in un incubo. Che cosa c’è di romantico in questo? È il nocciolo di una tragedia, uno di quei momenti d’orrore che la memoria non può accettare, e che cerca di relegare tra i brutti sogni, magari inventandosi un’altra realtà – facendo slittare in un altrove la geografia dell’utopia. (In Italia un’intera generazione teatrale è nata "un po’ dopo il piombo", dai Magazzini – "troppo giovani per il ’68, troppo vecchi per il ’77" – alla Gaia Scienza, dalla Raffaello Sanzio a Santagata e Morganti, da Marco Paolini a Marco Baliani, dal Teatro dell’Elfo a Paolo Rossi, e mi ci metterei anch’io: si trattava insieme di esorcizzare quell’incubo e trovare una via d’uscita, e al tempo stesso preservare una qualche fedeltà a se stessi e alle proprie esperienze.)

Allora, raccontare oggi quello che hanno significato le settimane del sequestro Moro vuol dire farsi violenza per riaffermare la propria dignità, regolare un conto aperto con noi stessi. Di fronte a una parte della nostra vita, ci siamo trovati soli – soli con quello che si chiama coscienza. Si è trattato, in quelle settimane, di capire i nostri stessi gesti e atteggiamenti, pesare frasi che fino ad allora ci sembravano naturali, "innocenti".

Ecco, questa solitudine è stata per molti una compagna fedele. E forse il motivo più vero per rompere il silenzio è scoprirsi, a un certo punto, insieme figli e padri (magari figli ribelli e padri mancati). A quel punto i conti non è più possibile farli da soli. A quel punto quella vicenda privata e personale deve tornare a essere pubblica. È per questo che ora, forse, il delitto Moro – il culmine delle infami tragedie civili dell’Italia del dopoguerra – può diventare teatro.

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