NOVITA'
 
oliviero 
ponte di pino
HOMEPAGE
CERCA NEL SITO
 MATERIALI 
NUOVO TEATRO
TEATRO LINKS
ENCICLOPEDIA PERSONALE
TRAX
L’attore nell’epoca
della sua riproducibilità tecnica
di Oliviero Ponte di Pino
 

Questo testo è stato pubblicato per la prima volta sul Patalogo 18. Annuario dello spettacolo 1997.
In appendice la postilla scritta in occasione della pubblicazione su "Trax", una saggio su Stelarc
e un testo sull'attore scritto per il programma della terza edizione di "Teatri 90" nel 1999.
 

"Compito scherzoso: ritrai te stesso senza specchio, senza le illazioni che ricevesti dalla tua immagine riflessa in uno specchio. Esattamente come ti vedi con l’occhio della mente, senza guardarti".
(Paul Klee, Diari 1898-1918)

"Ti ho chiesto io, creatore, dal fango
Di farmi uomo? Ti ho chiesto io
Di trarmi dal buio?".
John Milton, Il Paradiso perduto, posto da Mary Shelley in epigrafe a Frankenstein)

La Supermarionetta "Totempol combina sequenze analogiche filmate e danzate nell’episodio Vancouver di Circumnavigation e sequenze digitali composte utilizzando il programma Life Forms, che permette la creazione di danzatori virtuali. Il punto di partenza è basato sull’ibridazione che nasce da questa alterità e, in maniera ridondante, sul dualismo che costituisce un elemento costante del pensiero amerindio, in particolare della Columbia Britannica; questo dualismo è ispirato da un’apertura all’Altro che si è manifestata fin dai primi contatti con i Bianchi. La possibilità di riprendere scene urbane con veri interpreti e quella di animare dei danzatori virtuali in una scenografia immaginaria introduce nel filmati dei rapporti di movimento da un terreno di scrittura all’altro".
(N+N Corsino, sinopsi di Totempol)

"Nicole e Norbert Corsino, coregrafi marsigliesi, sono impegnati nella modellizzazione dei corpi dei danzatori. Utilizzando il programma Life Forms, messo a punto da Tom Calvert per Merce Cunningham, i Corsino hanno elaborato un sottile vocabolario di movimenti che consente loro di creare coreografie straordinarie. Ciascun danzatore viene rappresentato da un insieme di elementi che ricostruiscono le diverse articolazioni delle sue membra, del torso e del capo. Life Forms permette di raggiungere una precisione tale che, per esempio, è possibile controllare separatamente, una per una, tutte le vertebre (le 7 cervicali, le 12 dorsali, le 5 lombari). I coreografi definiscono i movimenti e poi ne regolano la durata, coordinano i diversi danzatori, ne correggono le traiettorie. E infine posizionano la loro telecamera: la stessa scena può essere osservata di fronte o di profilo, dalle quinte o dalla graticcia.
Vedendo muovere questi "omuncoli" sullo schermo del computer, d’improvviso si intuisce che i Corsino non stanno realizzando l’ennesimo video di danza, ma vogliono risolvere un problema che ossessiona attualmente numerosi artisti: inventare una nuova figurazione del corpo umano. I Corsino non stanno dialogando con i rehisti che filmano spettacoli, neppure con i più abili. Stanno dialogando con Degas, Picasso o Balthus, Rodin o Giacometti".
(Jean-Paul Fargier, "Le Monde", 30 luglio 1994)
 

Con Circumnavigation, video realizzato tra il 1992 e il 1995, i Corsino hanno smesso di realizzare coregrafie per spettacoli veri e propri, e hanno iniziato a lavorare con i danzatori unicamente per il video. Nella fase successiva, con Totempol (1995), utilizzando un software che tiene conto dei vincoli del corpo umano e delle leggi fisiche, hanno rinunciato alla presenza dei danzatori per lavorare unicamente con "danzatori virtuali". La perfezione dei movimenti, che riprendono in parte le coreografie di Circumnavigation, è di stupefacente realismo: da quelle evanescenti figure traspare una naturalezza che a tratti riesce a far dimenticare la loro origine digitale.

Gli immateriali interpreti di Totempol sembrano l’ultima incarnazione di un fantasma che da tempo ossessiona i teatranti: la marionetta, o meglio la Supermarionetta, in grado di eseguire alla perfezione i movimenti ideati dal regista, e destinata a soppiantare l’attore "umano". Il sogno di Kleist e Craig, il definitivo matrimonio tra la bellezza del corpo umano e la perfezione dei movimenti della macchina, sta finalmente per realizzarsi, anche se con una tecnica e in una forma imprevedibili.

L’esperimento dei Corsino non è un caso isolato, la deriva verso l’interprete elettronico non interessa solo la danza. Qualche anno fa c’è stata l’apparizione anticipatrice di Max Headroom, protagonista tutto elettronico di una serie di telefilm vagamente fantascientifici. Senza trascurare le genealogie dei personaggi dei videogame, in grado di obbedire ai comandi del programmatore-regista e del giocatore-regista, o l’intrusione nel reale della travolgente Jessica Rabbitt.

Ma queste erano solo rozze anticipazioni, che per troppi aspetti non possono competere con una controparte umana. Dopo una serie di esercitazioni con animali più o meno pericolosi o preistorici (più facili da programmare di un homo sapiens), gli sviluppi più recenti della "showbusiness technology" sembrano ora voler affrontare la sfida con decisione.

Al cinema, l’attore Brandon Lee, ucciso sul set del Corvo da una pistola che avrebbe dovuto essere caricata a salve, è stato miracolosamente "resuscitato" da una serie di effetti speciali elettronici nelle sequenze che mancavano al completamento del film. C’è chi sta cercando di far rivivere Marilyn, chi ricostruisce la voce di John Lennon per "resuscitare" i Beatles, chi sta cercando di far cantare nuovamente Maria Callas (magari correggendo qualche sua debolezza vocale).

E’ curioso che ad ispirare i desideri di questi primi "registi virtuali" siano spesso dei morti, divi chiamati a una resurrezione involontaria. Ma è già allo studio una seconda generazione di "attori virtuali": quelli che assommeranno le caratteristiche migliori delle star attualmente in circolazione, per dar vita all’attore e all’attrice ideali, virtuali e definitivi. Capaci di sedurre il pubblico del villaggio globale. E soprattutto pronti a eseguire docilmente, alla perfezione, tutti gli ordini del regista. Senza problemi di cachet o di controfigure, senza mai far le bizze sul set: bastano la pazienza dei programmatori e l’efficacia del software. Inoltre l’attore elettronico si adatta meglio di quello tradizionale agli scenari rozzamente fiabeschi della realtà virtuale, ed è quindi più adatto alle esigenze dell’interattività. Quando si aprono prospettive come queste, a che cosa può servire un attore in carne e ossa?

Di fronte a queste straordinarie potenzialità, val forse la pena di ricordare l’ambigua maledizione lanciata da Platone contro l’attore – inteso come perfetto imitatore. Delineando lo stato perfetto della Repubblica e affrontando il problema, giunge a questa conclusione:

"Se nel nostro stato giungesse un uomo capace per la sua sapienza di assumere ogni forma e di fare ogni imitazione, e volesse prodursi in pubblico con i suoi poemi, noi lo riveriremmo come un essere sacro, meraviglioso e incantevole; ma gli diremmo che nel nostro stato non c’è e non è lecito che ci sia un simile uomo; e lo manderemmo in un altro stato con il capo cosparso di profumi e incoronato di lana" (La Repubblica, III, 398). Totempol non è un video particolarmente "bello" né eccessivamente innovativo. E’ realizzato in un morbido bianco e nero, anche perché le sagome dei danzatori sono – per ora – monocrome. Aldilà della maestria tecnica e dell’effetto verità, il video dei Corsino trasmette una sensazione di freddezza, di lontananza vagamente poetica. I movimenti dei burattini-ballerini sono perfetti, fin troppo. Seducono con la loro lenta morbidezza. Ma soprattutto questi esili scheletri luminosi trasmettono allo spettatore una sorta di malinconia. Come se a muoversi su quello sfondo astrattamente grigio fosse in realtà la traccia di qualcosa che si è perduto per sempre. Osservandone le evoluzioni si insinua una sensazione di perdita. Non sembra certo l’esplosione gioiosa di una nuova forma d’arte o di vita, la liberazione tanto attesa dai vincoli del reale. Piuttosto, Totempol affonda nella nostalgia. "Abbiamo abbandonato la materia
è un istante
un breve istante
l’istante più breve
e siamo morti
Il segno d’una smorfia è rimasto
null’altro
Il moto d’una mano
L’espressione sbigottita
null’altro
Per tutta la vita fingiamo
un qualcosa
che nessuno capisce
Però percorriamo questa strada
non un’altra
quest’unica strada
finché moriamo
e per tutta la vita non sappiamo
se è matematica
o se è arte drammatica
(alla signora)
E’ la follia signora mia".
(Thomas Bernhard, Minetti)
Il carisma "Un mio amico era un vecchio attore polacco, molto molto grande. La struttura di ciò che faceva era una struttura estremamente precisa e premeditata, in ogni dettaglio era realmente premeditata, ed era anche premeditato come questa agiva sullo spettatore. Si potrebbe dire che era una gran maestro di forme, della composizione; non è mai partito, quando lavorava, dal processo organico, ha sempre cominciato dalla struttura, ha lavorato alla struttura dettaglio dopo dettaglio, con molto senso al tempo stesso dell’umorismo e dell’ironia di fronte all’essere umano, e anche di fronte a se stesso, ma è sempre stata una costruzione estremamente premeditata. Un giorno ho notato che durante lo spettacolo che egli faceva, si è presentato un fenomeno luminoso. Tutto era come ogni altro giorno, ma c’era questa libertà, come se la sua partitura si sviluppasse in un grande spazio e se ci fosse dentro lui stesso qualcosa di luminoso che usciva, qualcosa di estremamente calmo; si può dire che il suo viso, i suoi occhi piuttosto erano diventato quasi trasparenti. Allora sono andato un altro giorno ancora, la stessa cosa, un altro giorno ancora, la stessa cosa. Gli ho telefonato, gli ho proposto un appuntamento e gli ho domandato semplicemente: "Che cosa succede?" e lui replica: "Chi gliel’ha detto?" e io gli ho risposto: "Nessuno me l’ha detto, è per questo che chiedo, ma io vedo". Ed egli dice che il medico l’ha informato che il suo stato del cuore è talmente cattivo che se continua a recitare può in ogni momento morire sulla scena. Allora gli ho domandato: "Qual è ora la differenza, quando Lei entra in scena?" ed egli ha detto: "Sai, la reazione del pubblico mi è diventata quasi indifferente". E’ diventato disinteressato".
(Jerzy Grotowski, Tecniche originarie dell’attore, traduzioni a cura di Luisa Tinti, testi non riveduti dall’autore, 24/3/1982)   "Fa parte della rappresentazione di se stesso che ha l’attore, il dominio su come mettere le dita, come stare con i gomiti, come apparire, la consapevolezza e il controllo dell’apparizione, il dominio del proprio corpo in tutte le espressioni dei propri arti, la consapevolezza di rappresentare qualche cosa di irripetibile che ha a che fare con il proprio nome e cognome. E’ proprio questo che crea attorno a loro una sorta di fosforescenza che poi riesce a mantenersi anche nella vita, non solo sul palcoscenico. Io poi di mestiere faccio il domatore di questo tipo di creature, ma devo dire che ancora adesso per me conservano quel carisma, e quella specie di alone che li rende affascinanti sul palcoscenico e sullo schermo. Hanno tutti quanti, specialmente se sono al centro di proiezioni così a lungo portate e indossate, un qualcosa che li rende diversi".
(Federico Fellini, Il mestiere di regista. Intervista con Rita Cirio, 1994)
Nell’epoca del divismo televisivo, degli applausi che scattano all’accendersi di una lampadina o risuonano freddi da qualche nastro preregistrato, chissà se da qualche attore lampeggerà ancora quest’aura fosforescente... Secondo Fellini, solo il lungo contatto con il pubblico, le serate con la platea mezza vuota e il pubblico distratto, le impennate guittesche, i mille imprevisti, gli entusiasmi e gli applausi degli spettatori, potevano alla fine sedimentare, miracolosamente, quell’alone irripetibile.

Questo carisma riverbera ancora, in forme magari grottesche e distorte, in certi memorabili personaggi di Thomas Bernhard: nel Teatrante, con la sua guitteria megalomane e sfrangiata, e – come abbiamo visto – in Minetti, incarnazione suprema del Grande Attore da Vecchio. Anzi, in questo caso il testo bernhardiano non è altro che il sedimento, la formalizzazione, del fascino del grande attore.

"Il peggior nemico dell’attore
è il suo pubblico
Quando lo sa
si esalta nella sua arte
Ogni istante l’attore deve dirsi
ora il pubblico s’avventa sulla scena
E’ in questo stato che deve recitare
contro il pubblico
contro i diritti umani capisci
Per tutta la vita
ho recitato contro il pubblico
per conservare la tensione
per non essere infiacchito
Mio padre l’illusionista
è stato il mio maestro
il mio unico maestro capisci
il più spietato".
(Thomas Bernhard, Minetti)
A depositare questa patina misteriosa, e probabilmente indefinibile, è il lungo rapporto con un pubblico ogni sera diverso – raffinato o ingenuo, entusiasta o crudele. E’ l’abitudine allo sguardo dello spettatore, Bestia Oscura dai mille occhi, da sedurre o da affrontare come un nemico. Nel momento in cui l’incontro perde la forza dell’impatto diretto tra due vite, l’attore perde irrimediabilmente un elemento segreto ma fondamentale della sua arte.
 

Una definizione dell’attore

La sensazione è che oggi, qualunque cosa sia un attore, la sua stessa essenza stia cambiando. L’attacco viene, come abbiamo visto, da due versanti: da un lato la realizzabilità di una Supermarionetta elettronica; dall’altro la trasformazione del rapporto con il pubblico, un rapporto che le nuove teconologie della comunicazione hanno profondamente mutato.

Già, ma che cosa è un attore? Né una SuperMarionetta né una LumpenMarionetta, è ovvio. Ma allora: che cosa è un attore, che un attore virtuale non potrà mai essere?

Per rispondere a queste domande, può essere utile ricorrere a una variante del test di Turing per l’intelligenza artificiale, reso celebre da Philip Dick e da Blade Runner. Per esempio, potremmo chiederci: guardando un filmato con un attore reale e un attore virtuale, che cosa differenzia queste due macchine per produrre segni e indurre emozioni? Quali caratteristiche possiede il primo che il secondo non potrà mai avere? Quali compiti può svolgere l’uno che all’altro sono preclusi? Insomma, che cosa, nella presenza dell’attore, non può essere ridotto a effetto speciale?

(Naturalmente bisogna presumere che i problemi tecnici più grossolani - quelli che riguardano l’apparenza fisica e permettono di distinguerli alla prima occhiata - siano stati risolti; ma è solo questione di tempo: di chip più veloci e di algoritmi di compressione più efficaci. Inoltre, in attesa dell’avvento degli ologrammi tridimensionali in movimento, disponiamo attualmente solo di immagini a due dimensioni: ma bisogna tener presente che una credibile rappresentazione bidimensionale ne presuppone una tridimensionale.)

Possiamo per esempio partire dalla formazione dell’attore. Da quando - circa un secolo fa - hanno iniziato a definirsi, i metodi di formazione dell’attore puntano in primo luogo sulla acquisizione di una serie di tecniche: gestuali (mimo, danza, acrobatica, biomeccanica, scherma, arti marziali eccetera) e vocali (dizione, canto eccetera). Queste pratiche, per usare la terminologia di Eugenio Barba, "servivano a trasformare il corpo-mente quotidiano dell’attore in un corpo-mente scenico".

In un attore virtuale, queste tecniche non sarebbero altro che sottoprogrammi da implementare quando necessario. Lo stesso accadrebbe per stili e tecniche particolari, come per esempio il kathakali indiano o il no giapponese, la danza classica o la tecnica Graham: data una certa struttura corporea dell’attore, una determinata angolazione delle articolazioni, alcune posture, gesti, movimenti - faticosamente acquisiti con il lungo training tradizionale - verrebbero automaticamente rinforzati e favoriti dai programmatori, ottenendo gli effetti desiderati.

In questa prospettiva (e nella prospettiva del creatore-regista dello spettacolo), l’attore virtuale surclassa il suo collega in carne e ossa: più versatile, in grado di eseguire con assoluta precisione le istruzioni e di ripetere all’infinito la sua perfetta interpretazione. Per quanto riguarda il regista, si tratterebbe di mettere a punto, secondo un procedimento di prove e correzioni, le espressioni, le posture, i gesti in grado di esprimere nella maniera più efficace contenuti ed emozioni, garantendosi nel contempo una ferrea coerenza al proprio disegno spettacolare.

E’ possibile esplorare un’altra variante del test di Turing: partire da alcune definizioni di attore per verificare se sono compatibili o meno, applicabili o meno a un attore virtuale, e vedere dunque se esiste una differenza con il suo collega in carne e ossa; se nell’essenza dell’attore ci sono elementi irriducibili alla perfetta funzionalità della Supermarionetta.

Per esempio, la Garzantina dello Spettacolo alla voce "attore" dice semplicemente "chi recita, chi interpreta una parte a teatro, al cinema, alla televisione": una definizione da dizionario, generica, e perfettamente adatta anche a un attore virtuale.

Gerardo Guerrieri, nelle prime righe della più ampia e articolata voce redatta per la gloriosa Enciclopedia dello spettacolo, scrive invece: "L’attore è colui che agisce di fronte a un pubblico, sostenendo una parte in uno spettacolo. Il termine deriva etimologicamente da agere, agire, e si riferisce a una finzione non raccontata o descritta, ma rappresentata, in atto, dinanzi agli spettatori (anche indirettamente, attraverso un mezzo meccanico: disco, cinema, radio, televisione)": un’altra definizione che si adatta tanto all’attore virtuale che a quello reale. Prosegue Guerrieri: "L’attore rappresenta l’opera dell’autore (che può essere egli stesso), incarnandone i personaggi davanti a un pubblico. Da un lato, egli compie una sintesi tra il personaggio di fantasia e la sua determinata persona; dall’altro, funge da mediatore fra l’opera d’arte e lo spettatore, nella definitiva unità dello spettacolo".

Anche qui, la sovrapposizione tra attore reale e virtuale è quasi perfetta, sembra esserci un solo elemento discriminante: "la sua determinata persona". La fisicità e la psiche, la storia e la cultura dell’attore.

Prevedibilmente, in una prospettiva semiotica i due modelli d’attore si sovrappongono alla perfezione: "La funzione teatrale primaria dell’attore è la rappresentazione del personaggio" (Elaine Aston e George Savona, Theatre as Sign-System, Routledge, Londra, 1991, p. 125). Anzi, l’intercambiabilità viene addirittura teorizzata:

"Nel contesto teatrale, l’attore è l’agente attraverso il quale il personaggio viene mediato allo spettatore (...) Se in alcune circostanze la funzione dell’attore viene assunta da un "agente" inanimato, per esempio un burattino o le macchine progettate da Oskar Schlemmer, nella sostanza non cambia" (ibid., p. 46). Più curiosa l’impostazione della Cambridge Guide to the Theatre, che alla voce "acting" (quella dedicata all’attore non c’è), annota: "L’impulso di "far credere" (make-believe) e di recitare (play) è comune all’intera umanità. Recitare è insieme fare e fingere di fare. Per l’attore come per lo spettatore, il misterioso potere di ogni rappresentazione (performance) nasce dall’ambigua tensione tra realtà e finzione. Questa ambiguità è presente in tutte le forme di recitazione, comunque le diverse società o individui tentino di risolverla. Nel XX secolo, per esempio, in Occidente numerose teorie sulla recitazione hanno insistito soprattutto sull’integrità del fare, mentre nel XVIII secolo gli europei erano più interessati alla natura autentica della finzione, al suo stile e al suo corretto ruolo nella società". Insomma, il bravo attore non è solo una Supermarionetta. Il suo apporto creativo risiede tanto nella sua malleabilità e versatilità, nel suo bagaglio tecnico e virtuosistico, quanto nella sua viscosità fisica, psicologica e culturale, nelle resistenze che oppone al testo e al lavoro del regista, nella sua irridicibilità a un progetto predeterminato, nelle energie profonde che questa resistenza fa riemergere.

Tutto questo è già stato detto e ripetuto, certamente, in varie forme. Per esempio da Brecht nel suo Breviario di estetica teatrale: "Mai, nemmeno per un attimo, l’attore si trasformi completamente nel suo personaggio: "Non rappresentava re Lear, era Lear" sarebbe un giudizio disatroso".

Ma resta interessante andare a cercare - in alcune esperienze in progress, nella storia professionale e nei percorsi teatrali di alcuni attori - alcuni di questi nuclei di energia, alcune linee di resistenza sulle quali è possibile fondare un rapporto creativo con il regista. Un alfabeto di base, una serie di possibili "gradi zero", sui quali costruire una possibile grammatica.

Per trovare una fonte di energia può essere utile far ricorso a una definizione di Jerzy Grotowski. Non propriamente una definizione dell’attore (o del suo predecessore archetipico), piuttosto quella del suo calco, della sua matrice:

"Performer, con la maiuscola, è uomo d’azione. Non è l’uomo che fa la parte di un altro. E’ il danzatore, il prete, il guerriero: è al di fuori dei generi artistici. Il rituale è performance, un’azione compiuta, un atto. Il rituale degenerato è spettacolo. Non voglio scoprire qualcosa di nuovo, ma qualcosa di dimenticato. Una cosa talmente vecchia che tutte le distinzioni tra generi artistici non sono più valide" (Jerzy Grotowski, "Il Performer", in Centro di lavoro di Jerzy Grotowski, Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale, Pontedera, 1987, poi in "Teatro e Storia", n. 4, 1988). Il lavoro dell’attore vive costantemente del precario equilibrio tra l’attore come artista e l’attore come personaggio. L’attore elettronico, la Supermarionetta, è completamente sbilanciato sul secondo versante. Sbilanciarlo completamente sul primo sarebbe un errore altrettanto grossolano. Ma nell’attore come artista, come creatore è più facile trovare alcuni antidoti alla deriva verso la Supermarionetta, alla tendenza ad asservire l’attore a progetti registici che avverte come estranei.

Non è un caso, allora, che uno dei nodi ricorrenti in alcune delle più interessanti e innovative esperienze degli ultimi anni sia proprio questo: come rendere autenticamente creativo (in termini di collaborazione e non di riduzione dell’attore a pura funzione), il rapporto tra regista e attori. Con quali "metodi" - ma è più corretto parlare di "pratiche teatrali" - innescare un meccanismo di scambio e arricchimento reciproco, superando i vincoli di uno schema drammaturgico o registico prestabilito da un lato, e dello sfogo espressivo dall’altro. Perché questi vincoli - dal punto di vista dell’attore - alla lunga rischiano di trasformare in frustranti vicoli ciechi tanto il teatro di regia quanto il metodo di montaggio messo a punto da Eugenio Barba, e naturalmente anche l’approccio "d’autore" che caratterizza le avanguardie.

Allo stesso modo, non è casuale che - in una fase di crisi di identità e di ruolo, se è lecito il bisticcio - molti attori avvertano la tentazione di lavorare da soli (soli sulla scena e/o svincolati dalla presenza di un regista e di un autore): quasi a recuperare, in questa drastica semplificazione, in una situazione laboratoriale, le condizioni per ridefinire se stessi e il proprio lavoro. Con un’avvertenza: la solitudine non può essere una risposta definitiva. Se in determinate circostanze è quasi un passaggio obbligato, un terreno di scoperta, a lungo andare i rischi di isterilimento e di ripetitività prendono il sopravvento. Per tornare alla nostra metafora, il germe di autenticità finisce ben presto per ridursi anche in questo caso a stereotipo marionettistico, buono soprattutto per il piccolo schermo.

"Il teatro nasce proprio come diversità. Credo che sia questa la motivazione che spinge a fare l’attore. Quando non si riesce a essere protagonisti sociali, quando si è completamente comandati, allora si sceglie l’intervento pubblico. Ecco perché si sceglie di fare l’attore e non lo scrittore. Quello dell’attore è un intervento pubblico, in senso sociale e fisico: dire la tua frase, fare la tua cosa". (Leo De Berardinis, "Per un teatro jazz", in Jack Gelber, La Connection, Ubulibri, Milano, 1983)

"Mi scoprivo simile, e allo stesso tempo diverso, dagli esseri umani dei quali leggevo e ascoltavo le conversazioni. Ero un osservatore che simpatizzava con loro e che, in parte, li capiva, ma avevo qualcosa di informe nella mia mente; io non avevo legami con nessuno, non avevo relazioni con nessuno. "Il sentiero per la mia dipartita era aperto", e non c’era nessuno per piangere la mia scomparsa. La mia figura era ripugnante, e la mia statura gigantesca. Cosa significava questo? Chi ero io? Che cosa ero io? Da dove venivo? Dove andavo? Queste domande mi assillavano, ma non sapevo rispondere".
(Mary Shelley, Frankenstein)

Copyright Oliviero Ponte di Pino, 1995,  1999.
TORNA IN TESTA ALLA PAGINA
PARTE 2
PARTE 3
PARTE 4 (APPENDICE)
TRAX
CERCA NEL SITO
 NOVITA'
oliviero
ponte di pino
HOMEPAGE