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L’attore nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
di Oliviero Ponte di Pino
Parte 4
 

Una postilla forse inutile (1998)

Tra i molti affascinanti problemi legati alla natura e alla storia del teatro, quelli sull’attore sono tra i più profondi e inquietanti. Sono un autentico mistero che riguarda la nostra natura di esseri umani.

Qualche anno fa, nel teatro italiano ha cominciato ad affermarsi e ad emergere una nuova generazione di attori di notevole talento. Non appartenevano a nessuna scuola ed erano cresciuti artisticamente in un contesto particolare, quello del teatro degli anni Settanta, e i gruppi e le compagnie in cui si erano formati ed avevano iniziato a lavorare in genere svilivano o addirittura rifiutavano l’uso della parola sulla scena, privilegiando l’immagine o il gesto (per non parlare di un musicista come Moni Ovadia). Tuttavia nel corso degli anni, attraverso personali percorsi di formazione (e soprattutto autoformazione), questi attori hanno via via acquisito una serie di tecniche, fino a presentarsi come autori-attori completi, in grado di reinventare la loro professione, con risultati straordinari.

Proprio negli stessi anni, grazie allo sviluppo di computer sempre più potenti e di software sempre più sofisticati, la creazione di un attore virtuale stava compiendo passi da gigante. O meglio - visto che gli "attori virtuali" sono sempre esistiti, nella forma di pupazzi, burattini, marionette - stava iniziando una sorta di rivoluzione, di cui si potevano intravedere i possibili sbocchi. Anche questa evoluzione sembrava interrogare la natura profonda dell’attore, risvegliando fantasmi antichissimi: quello della marionetta, appunto (o meglio, quello dello supermarionetta che ha ispirato alcuni tra i massimi teorici dello spettacolo); ma anche quello del doppio, del fantasma.

L’autoformazione di una nuova generazione d’attori-autori dai molti talenti, che continuavano a lavorare in teatro – e cioè di fronte a un pubblico "vivo". L’affermarsi – almeno in prospettiva – di un nuovo tipo d’attore virtuale, generato, plasmato e agito al computer. Ho provato a sovrapporre le due prospettive, in una chiave volutamente semplificatrice ed estrema: che cos’ha l’attore umano che l’attore virtuale non può e non potrà mai avere?

Posta in questi termini, la questione ha un’impostazione forzata, e forse uno sbocco obbligato. Da un lato sembra mettere in secondo piano quello che è forse il vero problema, e che è anche il punto di partenza di tutta l’estetica cyberpunk: le contaminazioni tra il "corpo" e la "macchina". Si tratta – per inciso – di un altro problema che il teatro conosce da sempre, attraverso l’uso della maschera, e che in tempi recenti ha trovato affascinanti declinazioni in performer come Marce.lì Antunez Roca e Stelarc (vedi il pezzo in appendice). Dall’altro – forse proprio a causa di questo partito preso – un’impostazione del genere tende a sospingere la riflessione verso una discussione sull’umanesimo, e in sostanza verso una poetica del soggetto. Da rimpiangere nostalgicamente o recuperare – oppure da rifiutare in blocco come residuo del passato. O magari da reinventare, per cercare e creare nuove declinazioni e contaminazioni, e per definire nuovi statuti della soggettività.

Ecco, per certi aspetti è forse questo il problema centrale di questi anni postmoderni – anche fuori dal teatro. Per quanto riguarda invece questo mezzo di comunicazione e d’espressione così antico e pre-moderno, posso solo sperare che le parole che ho rubato nel corso di queste interviste possano servire ad aprire qualche spiraglio sul mistero dell’attore.



La maschera cyber
Stelarc

Qualunque cosa pensiate del vostro corpo, Stelarc è già oltre. È rimasto sospeso per ore, nudo, sopra le onde del Pacifico. Appeso a decine di uncini che gli trapassavano la pelle, si è fatto sollevare a 40 metri d’altezza da una gru. Dopo essersi fatto cucire la bocca con ago e filo da un chirurgo, è rimasto schiacciato tra due assi di legno per tre giorni (sui sette in progetto). Ha pensato di usare la forza del proprio respiro per produrre energia (rinunciando quando ha scoperto che per caricare una pila avrebbe dovuto respirare con forza per almeno un secolo). Si è infilato nell’esofago una scultura mobile e luminosa, in grado di aprirsi a comando, e ha trasmesso in video la performance nel proprio stomaco.

Ma questo non è niente rispetto a quello che Stelios Arcadiou sta facendo da qualche anno con il suo "terzo braccio": meccanismo di sorprendente versatilità, appendice snodata e motorizzata in grado di riprodurre con assoluta efficacia le movenze dell’arto umano. Prima del masochismo esibizionista di questo tecnosciamano il cyborg esisteva solo nell’immaginazione degli scrittori di fantascienza e in Robocop. Nelle sue performance (come nella dimostrazione del 16 novembre 1995 all’Atelier Agorà di Milano), Stelarc è il primo vero cyborg, il prototipo dell’ibridazione tra l’homo sapiens e le nuove applicazioni elettroniche e chimiche.

"Nel passato la pelle era uno schermo su cui inscrivere dei segni. Ora è il luogo del collasso del politico e dell’individuo. Il corpo non è più un oggetto ma una struttura. Da oggetto di desiderio (object of desire) è diventato oggetto di riprogettazione (object of re-design)".

Attraverso un sistema di elettrodi e di sensori applicati al proprio corpo, Stelarc può collegarsi - oltre che al proprio arto aggiuntivo - a un computer, a Internet, a uno o più robot, ad altri mutanti come lui. I segnali gli attraversano la pelle in due direzioni. Sensori registrano suoni (elettroencefalogrammi, elettrocardiogrammi, flusso sanguigno eccetera) che opportunamente trattati costruiscono un’avvolgente colonna sonora. E captano le scariche elettriche prodotte dalla flessione, estensione e tensione dei suoi muscoli; trasformate in segnale, queste scariche possono azionare un servomeccanismo (di una protesi artificiale, di un robot, di una telecamera eccetera), passando attraverso computer o microprocessori. In direzione opposta, la pelle di Stelarc è attraversata da scariche elettriche (programmabili con apposito software) che obbligano i suoi muscoli a contrarsi o estendersi. Sono movimenti determinati dall’esterno, involontari (se Stelarc prova a resistere, la scarica aumenta d’intensità), che lo muovono come un burattino. In questo modo - utilizzando conoscenze che erano rimaste finora appannaggio della bioingegneria - si possono creare autentiche coreografie: Stelarc ha già danzato (è già stato danzato) in duetto con un pericoloso braccio meccanico e con un doppio virtuale - i cui movimenti venivano determinati dai suoi gesti e dal computer.

L’artista australiano (cipriota di nascita) non ha familiarità solo con i Queen (il suo braccio meccanico è la star del nuovo videoclip del gruppo). Ripercorrendo il proprio percorso artistico prende le distanze da Artaud e dal corpo senza organi di Deleuze-Guattari e cita Wittgenstein, leggendo il proprio lavoro sul terzo braccio come un’esercitazione sulle Ricerche filosofiche. Stelarc offre la risposta a certe domande del filosofo austriaco sul dolore, sul linguaggio, sui rapporti corpo-mente, io-mondo, gesto-intenzione. Questioni che potevano apparire prive di senso ("Che cosa rimane, quando dal fatto che io alzo il mio braccio tolgo il fatto che il mio braccio si alza?") e che invece si rivelano profetiche. Che cosa significa compiere un gesto senza averne né l’intenzione né la memoria?, si chiedeva Wittgenstein. La soluzione, o la riformulazione della domanda, sta nell’esperienza di Stelarc.

A essere messa in questione da questo intreccio di flussi energetici e informativi che attraversano la pelle è l’intera storia della filosofia occidentale. Spiega Stelarc: dopo la rivoluzione industriale ed elettronica, di fronte alla rapidissima evoluzione culturale e tecnologica, il corpo - cioè l’evoluzione genetica, darwiniana - è assente e obsoleto; e viene invaso e penetrato dalla tecnologia. I critici della nuova frontiera di Internet sottolineano la rimozione del corpo e della sua fisicità implicita dal virtuale. Stelarc lavora su un corpo frattale in trasformazione, che interagisce con una tecnologia frattale. Ibrida il corpo e Internet.

Se cade la barriera tra interno ed esterno del corpo, s’incrina anche il diaframma tra soggetto e oggetto. Il corpo si proietta all’esterno, diventa ambiente sonoro, scenario visivo. All’opposto, viene contaminato e attraversato da energie e da organi che lo agiscono e lo trasformano. Se il movimento del mio corpo può essere determinato da un’intelligenza diffusa su scala planetaria (un impulso dato a Parigi faceva piegare via Internet il braccio di Stelarc in Lussemburgo), la dicotomia tra corpo e mente si svuota di significato. Si verifica la crisi del soggetto di cui Nietzsche è stato il profeta: non è la conseguenza di una dimostrazione filosofica o di una trasformazione storica, bensì l’efficace applicazione di una tecnica. Un semplice trasferimento di elettroni attraverso l’epidermide svuota di senso il concetto di Io.

Come molti artisti in questi decenni, Stelarc è un pioniere. Nell’ambiente protetto della performance, nell’ambito ristretto dell’estetica, esplora tecniche che in breve verranno fatte proprie dall’industria dell’infotainment. Forse diventerà una pop star (vedi il clip dei Queen), come Laurie Anderson. Per ora, sta occupando territori che diventeranno di dominio comune per chi ha meno di 15 anni. Quello che ci mostra è affascinante e terribile. Irresistibile come il futuro. Ci spiega che "il post-umano non sarà solo il cyborg ma corpi virtuali autonomi e intelligenti" perché ha già danzato con una di queste creature. Se sogna una pelle in grado di respirare e di metabolizzare il nutrimento dall’atmosfera, "come le piante ma con maggior efficienza", è per liberare il proprio corpo dall’apparato respiratorio e digerente. Per poi riempirlo con organi artificiali, con nuove funzioni. Già Trans-umano.



 


Improvvisazioni sul tema dell’attore
(dal catalogo di "Teatri Novanta", terza edizione, 1999)

Riassunto delle puntate precedenti. Tra le altre cose, le prime due edizioni di “Teatri 90” mi hanno imposto, attraverso l’emergere di nuove realtà, una serie di ipotesi sul concetto di gruppo (cfr. “Per una microfisica del teatro”, Teatri 90 festival. La scena ardita dei nuovi gruppi, catalogo a cura di Antonio Calbi, 1998). E poi, attraverso l’enfasi sul processo di comunicazione, mi hanno suggerito una riflessione sul ruolo del pubblico, e sul “lavoro” dello spettatore (cfr. Edipo, tragedia dei sensi e Sognando Masoch, “il manifesto”, 28 febbraio e 6 marzo 1998). Ma, come ha scritto Renata Molinari (cui è dedicato questo testo), “qui siamo di fronte a una regia che organizza il movimento (e le postazioni) degli spettatori per determinare la visione dell’attore … ogni volta che si sposta la prospettiva dello spettatore dal fuoco del quadro visivo dello spettacolo, l’accento si sposta dalla scena all’attore, dall’insieme al particolare, dalla linea al punto, dallo sviluppo alla simultaneità” (Alla ricerca di un altro sguardo, “Art’ò” numero 0, aprile 1988). Rispondendo a questa sollecitazione, ho raccolto alcune frettolose intuizioni frettolose sul lavoro dell’attore.

Come spettatore teatrale, resto ogni volta stupito di fronte a un mistero che difficilmente riuscirò a penetrare, e che tuttavia mi affascina in maniera irresistibile: il mistero dell’attore, il fascino della sua presenza, quell’essere lì che va aldilà del semplice esserci e che rimanda ad altre dimensioni dell’esistenza.
Per pigrizia (e per cattiva educazione) siamo abituati a pensare che l’attore (in teatro, ma anche al cinema o all’opera) è colui che interpreta questo o quel personaggio. Tendiamo a valutare la sua performance in base a questa corrispondenza con quello che è in fondo un personaggio letterario. Cercare questa corrispondenza implica un lavoro di indagine del testo e di immedesimazione psicologica, e richiede una serie di tecniche, dato che – è banale sottolinearlo – essere Amleto nella vita reale, nella stanza del Castello di Elsinore è una cosa, ma essere Amleto su un palcoscenico di fronte a un gruppo di persone è tutta un’altra faccenda.
Tuttavia – soprattutto dopo che il cinema ha raffinato i meccanismi del divismo – a questo atteggiamento se n’è da sempre sovrapposto un altro (senza peraltro cancellarlo). Non è più l’attore che si cala in un personaggio, quanto piuttosto la star, iol grande attore conosciuto e riconosciuto da tutti, che trova (o cerca di trovare) una perfetta coincidenza con il ruolo. Ci ricordiamo molti film interpretati da Paul Newman o da Leonardo Di Caprio (e magari anche la trama, e gli altri interpreti), ma ricordiamo con maggior difficoltà i nomi dei personaggi che interpretavano.
Queste due concezioni dell’attore sono apparentemente opposte. La prima presuppone un attore che mette tutta la propria interiorità al servizio del personaggio; al limite, un essere umano assurdamente privo d’identità, e dunque pronto a indossare come un abito nuovo quella dei vari personaggi che interpreta. La caratteristica di quest’attore potrebbe essere il vuoto – un vuoto da riempire ogni volta vampirescamente con l’anima del personaggio, magari con l’aiuto di un regista-demiurgo che gl’insuffla un qualche soffio vitale. La seconda ipotizza invece un attore ideale sempre uguale a se stesso, pieno – anzi, strapieno – del carisma della star, che coincide alla perfezione con tutti i personaggi che si trova a interpretare, sempre identico a se stesso (o all’immagine che i suoi agenti e p.r. gli hanno costruito), tanto dentro che fuori dal set.
Come queste due idee “ingenue” d’attore (due caricature volutamente esasperate) possano convivere nell’immaginario parrebbe un mistero. Tuttavia questi atteggiamenti in apparenza incompatibili hanno un punto in comune: sono fondati entrambi più sull’essere che non sul fare – su quello che l’uomo-attore fa effettivamente sulla scena o sul set, e anche nella vita. Trascurano quella che è l’etimologia del termine “attore” – colui che agisce – per soffermarsi solo su un’apparenza superficiale.
È ovvio, un attore non è mai stato questo: né un manichino cui appendere i personaggi (come vorrebbe una tradizione di ingenuo realismo), né un egocentrico fissato nella propria maschera (come pretenderebbe lo star system). Ma un’estetica ingenuamente “realistica” e “rappresentativa” tende a porsi più o meno consapevolmente nella prospettiva dell’essere. (Unico nel suo genere, il grandissimo Carmelo Bene degli Skaespeare è un attore che disfa: che disfa il teatro e la rappresentazione, e disfa il proprio essere. Per certi aspetti, rappresenta un punto di non ritorno.)
Quando lo statuto della rappresentazione si trova messo in crisi o in discussione per qualche motivo interno e/o esterno al teatro, è probabile che l’accento si sposti – per quanto riguarda l’attore – verso il fare. Il nodo del rapporto Stanislavskij-Mejerchol’d sta probabilmente qui, così come la teorizzazione brechtiana dello straniamento, tutta centrata sulla distanza tra interprete e personaggio. È da qui che partono anche la pratica e la riflessione del nuovo teatro a partire dalla fine degli anni Sessanta. Da un lato con la performance – dove agli attori non si chiede di interpretare alcunché, ma semplicemente di compiere determinate azioni o gesti. Dall’altro, con maggior approfondimento pratico e teorico, nel lavoro di Grotowski – che non a caso, nel momento in cui abbandona abbandona lo spettacolo, rifiuta il termine di “attore” a favore dei più neutri “performer” e poi “doer” che, come l’attore dell’etimologia, è semplicemente “colui che fa, che agisce”.

Quando entra in scena, l’attore porta tutto se stesso, e insieme la consapevolezza di essere in un luogo “altro”. Porta anche quello che da solo (o con i colleghi) ha preparato. Non salta in un cerchio magico dove dimentica quello che è, ma porta con sé la coscienza di una possibile differenza. L’attore non è uno psicotico, e neppure una baccante – anche se può provare momenti di ebbrezza dionisiaca. La consapevolezza della duplice dimensione, del doppio piano della realtà e della finzione non può mai mancare, salvo oltrepassare un limite invisibile e indeterminabile, e trasformare il teatro in qualcos’altro (anche se la possibilità della possessione accompagnerà sempre il teatro come un’ombra).
Questa coscienza del luogo, e del fatto di aver oltrepassato una soglia, si accompagna alla costante consapevolezza dello sguardo altrui – della presenza dello spettatore. A questo sguardo, l’attore dona un corpo, la sua fisicità, la vulnerabilità e la potenza di chi si offre e si impone agli sguardi altrui. È un rapporto di violenza e seduzione che le arti visive di questi anni, dalla body art in poi, hanno ampiamente esplorato, e che il nuovo teatro ha spesso ripreso nel contesto dello spettacolo, aggiungendovi nuovi sigbnificati. Ma vi riverberano anche echi più antichi: l’attore resta sempre, per certi versi, la vittima sacrificale, il capro espiatorio condotto all’altare del teatro. (Come è possibile per l’attore dimenticare la presenza del pubblico? Forse nella danza o nel canto, nella loro possessione…)
Qual corpo ha da mostrare la sua verità, la sua irriducibile singolarità, immediatamente evidente. Sottolineando quest’aspetto, può essere un corpo caratterizzato da un’eclatante – e un tempo sacra – diversità: per la sua perturbante bellezza, o perché segnato fin dalla nascita o sfregiato dalla vita. Da questa differenza nascono insieme la forza e la debolezza della maschera: che è il sigillo inquietante della diversità (e della stretta parentela dell’attore con il regno dei morti), e insieme una tipizzazione, un irrigidimento delle caratteristiche individuali e sociali.
(Di recente sulle scene si sono visti con notevole frequenza – per esempio in molte scelte della Societas Raffaello Sanzio – “non attori” scelti per le loro caratteristiche fisiche. Cioè attori che prima di fingere, o rappresentare, “sono”. Riemerge così una differenza dell’essere, che però si riverbera automaticamente in una differenza del fare: in un altro gesto, che ha tutta la forza della sua peculiarità eccentrica. È soprattutto un’altra presenza – come quella degli animali che il gruppo di Cesena sente la necessità di avere in scena. Come sempre, queste presenze aliene si riverberano sugli altri attori, e alla lunga sull’idea stessa di teatro.)

Che altro porta con sé l’attore, quando varca quella soglia? Che cosa gli consente di compiere quel passo, e gli dà l’autorità e la forza per occupare quello spazio, per tenere vita l’attenzione dello spettatore?
In primo luogo una serie di tecniche e di abilità (fisiche, vocali, nell’uso di attrezzi o oggetti, acrobatiche, di combattimento…). Una certa pedagogia “moderna” suppone ingenuamente che l’attore migliore sia quello in grado di padroneggiare queste varie tecniche, e dunque di ricoprire il maggior numero di funzioni all’interno di qualsiasi progetto registico o drammaturgico. (Dove si avverte l’eco utopica dell’attore “completo”, in grado di recitare, cantare, ballare, nonché acrobata e spadaccino, prestidigitatore e cavallerizzo. Insomma, preparato per quell’opera d’arte totale che è il musical...) In quest’ottica la pedagogia teatrale sarebbe una sorta di allenamento, analogo a quello degli atleti e degli sportivi, che li rende capaci di prestazioni superiori alla media.
Qui, in effetti, non c’è alcuna media da superare. C’è una differenza da conquistare. La prima e fondamentale funzione a cui devono rispondere queste tecniche è quella di costruire una presenza in grado di reggere l’alterità della scena e lo sguardo dello spettatore. Queste tecniche devono contribuire in primo luogo a creare una differenza, uno scarto immediatamente percepibile. Nel teorizzare la sua “antropologia teatrale” e nell’esplorare le tecniche del corpo delle diverse tradizioni dello spettacolo occidentale e orientale, Eugenio Barba ha individuato  nelle diverse posture il “segreto” dell’attore: che è insieme un diverso equilibrio (o meglio uno squilibrio dinamico) e di conseguenza un diverso livello di energia.
In secondo luogo queste tecniche forniscono uno strumento di autoconoscenza. Prima di essere occasione di comunicazione (o, al peggio, di esibizione), il teatro del Novecento, da Stanislavskij in poi, presuppone un percorso di auto-consapevolezza. È un’esperienza che trasforma, che sposta il centro dell’io, che scava nel profondo, nel rapporto interpersonale, a volte nel trascendente (ovunque li si voglia cercare). Spesso è un percorso che trova nelle azioni fisiche – nella materialità del lavoro sul proprio corpo e sui propri sensi, sulla percezione del tempo e dello spazio – la molla che apre a esperienze inedite, non prevedibili in uno schema riduzionista o meccanicista. (È a questo che punto il dualismo mente-corpo implicito nella moderna tradizione occidentale si trova spesso scardinato.)

Alla base di tutto questo lavoro specificanmnte volto a esplorare e affinare la personalità dell’attore, c’è ovviamente il suo vissuto: l’insieme di esperienze, sensibilità, culture, rapporti che lo hanno formato come essere umano, come individuo. Anche questo vissuto – questo modo di “essere” – si riverbera ovviamente nel “fare” sulla scena. Sia per quanto riguarda la pura e semplice presenza, sia per quanto riguarda l’apporto creativo all’elaborazione dello spettacolo. (Due esempi per tutti, l’energia della Compagnia della Fortezza e la scelta interetnica di Albe-Ravenna Teatro, dove le motivazioni di carattere sociologico e politico incontrano una necessità espressiva, e ritrovano la qualità e la necessità di un gesto che troppo spesso la routine teatrale ha perduto. Anche in questo caso, c’è dunque una ricaduta sull’idea stessa di teatro, nella quale il vissuto dell’attore assume inevitabilmente un altro peso e un diverso ruolo).

Il percorso delle prove e della creazione del lavoro, il training nelle sue varie forme offrono a questo substrato tecnico-esistenziale una disciplina di lavoro, un ritmo. È nelle pieghe di questa pratica che l’attore trasforma il proprio ruolo. Non può più essere una funzione passiva di un progetto elaborato altrove, cui rispondere con una serie di tecniche collaudate, ma creatore a pieno titolo del lavoro. (È anche per questo che le varie pedagogie teatrali attraversano una fase di grande difficoltà: da un lato perché la pura e semplice trasmissione delle tecniche appare inadeguata e fuorviante rispetto a queste modalità produttive, dall’altro perché questa figura di attore-autore finisce per cambiare lo statuto della rappresentazione.) Nel lavoro di preparazione dello spettacolo, all’attore non si chiede tanto di calarsi in uno schema preesistente – un personaggio, un testo, un piano di regia, o una partitura gestuale e vocale – quanto di contribuire con un personale apporto creativo. Si tratta piuttosto di attingere al proprio vissuto. (È una riserva in qualche modo limitata, e qui sorge un problema: come evitare di prosciugare la creatività dell’attore? Il corretto rapporto tra l’autobiografia dell’attore e la sua elaborazione spettacolare resta una questione assai delicata.) Nel percorso che porta allo spettacolo si tratta di trasformare un essere (e in quanto tale non ripetibile e non riproducibile) in un fare, e contemporaneamente un vissuto in un linguaggio. Di rendere comunicabile l’esperienza. (E qui esplode un ulteriore problema: con quali tecniche è possibile fissare la verità di un gesto creativo, senza distruggerne la forza? Questa tecnica è probabilmente il segreto di maestri diversissimi come Eugenio Barba, Pina Bausch e Thierry Salmon).

A dare all’attore la forza di occupare lo spazio della scena è dunque una seconda fondamentale asimmetria, che rende possibile lo squilibrio tra la passività dello spettatore e l’azione dell’attore. Quest’ultimo ha infatti “preparato” la propria esibizione. Nei giorni, settimane o mesi di prova, ha accumulato un tempo, una memoria, un progetto. (Sembra banale ripeterlo, ma nell’epoca della diretta a tutti i costi e della spontaneità prefabbricata, del falso evento irripetibile e della ripetibilità meccanica, quella del teatro rappresenta un’eccezione.) Anche in questo caso, l’asimmetria può tendere al riequilibrio, attraverso i più vari meccanismi di coinvolgimento e di improvvisazione con il pubblico. Però deve sempre resistere, pena l’annullamento dello specifico teatrale.

Detto questo (e per tornare al punto di partenza) appare evidente che il rapporto con il personaggio – quando esiste – non è innocente. Non può esserlo. C’è sempre – visibile, percepibile – una distanza da colmare, un percorso da compiere. Per l’attore il personaggio è una sorta di costruzione – e spesso lo spettacolo è la ripetizione rituale di questo processo di progressiva interiorizzazione ed esteriorizzazione, vissuta spesso con sguardo ironico (è una delle chiavi per comprendere lo straniamento brechtiano). La pienezza dell’identificazione è una sorta di patologia, un punto d’arrivo che però tende a deflagrare immediatamente nel culmine tragico, o a cristallizzarsi nella maschera.
Forse questa crepa tra attore e personaggio risulta oggi più facilmente accettabile e “naturale” perché riflette uno scollamento più profondo, che riguarda il nostro modo di essere, il nostro rapporto con il nostro io, tra la realtà dell’io – e le sue varie stratificazioni – e la maschera sociale che indossiamo nelle nostre relazioni. In questo, il teatro può diventare uno spazio in cui cercare e costruire rapporti umani diversi, un terreno di sperimentazione.

Sempre ricordando che l’attore non si esaurisce nel suo rapporto con il personaggio. Può essere, insieme, molte altre cose. Può svolgere molte funzioni che l’“interprete” non contemplava, o non viveva con la stessa intensità. Può essere – per esempio – narratore, guida, sciamano, cantore, maestro, poeta, coscienza civile... Può offrirsi come puro corpo o – come accade in certe pièce di Beckett – pura voce. Per sviluppare la propria potenzialità creativa, deve attingere, di volta in volta, a tutte queste dimensioni dell’umano.
 

Copyright Oliviero Ponte di Pino, 1995,  1999.
 

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