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L’attore nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
di Oliviero Ponte di Pino
Parte 2
 

1. Il corpo
(con frammenti da una conversazione con Sandro Lombardi)

"E’ a voi che mi rivolgo perché voi siete questa "unità" del mio lavoro: l’ALTRO (...)
IL CORPO HA UN RUOLO FONDAMENTALE NEL "NOI" (...)
SE APRO IL MIO "CORPO" AFFINCHÉ VOI POSSIATE GUARDARCI IL MIO SANGUE, E’ PER AMORE VOSTRO: L’ALTRO.
P.S. Ecco perché tengo alla presenza alle mie azioni".
(Gina Pane, Lettera a uno/a sconosciuto/a, "ArTitudes", n. 15/17, ottobre-dicembre 1974)
L’esperienza della body art può rappresentare uno dei possibili "gradi zero" della presenza dell’attore. Da un lato, al termine di un percorso minimalista di purificazione e astrazione, tende a ridurla ai minimi termini: la pura compresenza di artista e pubblico - fino a livelli di intimità quasi "osceni". Spesso le performance della body art hanno rotto uno dei vincoli fondamentali della finzione teatrale: quelle della reversibilità della finzione scenica (le ferite che si infliggeva Gina Pane, il sangue degli animali sacrificati da Nitsch erano "veri").

Dall’altro la body art identifica il corpo del performer-attore con l’opera d’arte, imponendogli una diversa consapevolezza di sé e del proprio ruolo. Non più subordinato a altre dimensioni spettacolari, elemento fondante e imprescindibile del rapporto tra l’artista e il pubblico.

In diverse occasioni, il lavoro del Carrozzone e dei Magazzini, e dunque anche quello di Sandro Lombardi, ha sfiorato il percorso della body art.

Vorrei tornare a una fase del lavoro del Carrozzone-Magazzini, e della tua formazione d’attore: il rapporto con la body art. Come ci siete arrivati?

Eravamo entrati in contatto con un gruppo di artisti di Poesia Visiva grazie ai quali tra l’altro ottenemmo la Galleria Techne per presentare Morte di Francesco, uno dei nostri primi lavori. Fu tramite Pier Luigi Tazzi, un critico militante molto legato a quelle esperienze e che poi entrò a far parte del Carrozzone dal 1977 al 1981, che cominciammo a seguire da vicino gli sviluppi delle tendenze più avanzate. C’erano in quel momento esperienze che abbattevano tutti gli steccati: il quadro usciva dalla cornice, da tutte le possibili cornici, ed esplodeva l’esperienza della performance. Per noi era estremamente interessante perché si trattava del corpo che si mette in scena. Le performance della scuola viennese in determinate gallerie, Hermann Nitsch con il suo "Teatro delle Orge e dei Misteri", Urs Luethi con i suoi travestitismi, Arnulf Rainer, Gina Pane che si cospargeva di vermi... Tutto questo costituiva l’allargamento di esperienze che avevamo già cominciato a metabolizzare sulla base del nostro lavoro, dell’osservazione, dello studio o della pratica diretta.

Quello che ci colpiva in quelle performance era l’estremizzazione della presenza reale dell’attore con il proprio corpo: la performer che come Gina Pane si taglia le vene dice l’ultima parola, la più estrema. Nel momento in cui tu ti rappresenti, fingi - ma nello stesso tempo fai qualcosa di reale e di concreto.

Quindi, per quanto riguarda il lavoro sul corpo, la performance radicalizza l’esperienza del Living Theatre o di Grotowski, e cambia anche la prospettiva.

L’allarga e conferma questa necessità di non chiudersi, di non credere di aver trovato la risposta definitiva. La risposta definitiva non la trovi: trovi delle risposte parziali e devi sempre stare con gli occhi aperti su quello che accade intorno a te.

In quegli anni a contare non è tanto l’opera ma il gesto, soprattutto nel momento in cui l’artista stesso si pone come opera d’arte. L’idea di considerare il proprio corpo un’opera d’arte viene forse più difficilmente a chi ragiona nella prospettiva del teatro.

Ed è anche curioso che l’idea dell’opera che diventa meno importante, a favore del progetto o del procedimento o del concetto, trovasse un’assonanza con l’idea barbiana (ma non solo) che lo spettacolo fosse meno importante del procedimento attraverso il quale ci arrivavi. Quest’idea resta molto affascinante: lo spettacolo è solamente una tappa, una fase, in cui chiudi per un momento, dentro una provvisoria cornice, il risultato di un processo di ricerca, di un percorso di lavoro, di un progetto in corso, e lo mostri. Perché va necessariamente mostrato a qualcuno.

Il lavoro che facevate all’epoca poteva perciò essere inscritto, oltre che nell’ambito del teatro, in quello delle arti visive. E dunque anche il lavoro dell’attore non era semplicemente quello dell’interprete...

No, consisteva anche nel capire, per esempio, perché e soprattutto come Joseph Beuys fosse riuscito a realizzare la celebre performance del coyote, quando era rimasto chiuso per non so più quanto tempo dentro una gabbia con un coyote, vivendo con lui, mangiando come lui eccetera. Si faceva strada in me anche un’idea assai allargata dell’attore: l’immagine di Beuys, quando si presentava con il suo cappello sformato, il bastone impugnato dal sotto, un triangolo appeso al gilet e una coperta di lana militare nell’altra mano, resta per me l’immagine di un grande attore, e mi riporta sempre alla mente l’immagine altrettanto inquietante di Bernhard Minetti nel Faust di Grüber... Ora, porre attenzione al lavoro di Beuys e di altri artisti che lavoravano in quelle zone di frontiera, per me era importante anche dal punto di vista della formazione tecnica: a quel punto, non è più soltanto il problema di impostare la voce o dominare il corpo, ma anche quello, più profondo, di come affrontare delle situazioni estreme. Tutto questo naturalmente non avveniva seguendo un disegno programmato, ma seguendo l’istinto... (...)

Avete iniziato a lavorare nelle gallerie d’arte prima che nei teatri. Questo implica un certo atteggiamento: da un lato il performer è quasi protetto dalla sacralità che viene data all’opera d’arte, ma c’è una sensazione di rischio molto forte, perché un contatto fisico, diretto tra l’attore e lo spettatore.

Una delle prime cose con il pubblico l’ho fatta qui a Milano, forse nel ’71. Era in una galleria d’arte, una performace di Ketty La Rocca, un’artista fiorentina che operava in quell’ambito un po’ indistinto tra la body art, l’arte concettuale eccetera... Stava facendo un lavoro sulle mani, e aveva bisogno di alcuni attori, di alcune presenze fisiche: nel buio più assoluto venivano messi in scena solo dei rapporti di mani. Stavo lì con un partner e del nostro corpo non si vedeva nient’altro: solo le mani. Il pubblico era vicinissimo, a una ventina di centimetri. Esperienze come questa sono state importantissime: in una situazione del genere devi avere un tale controllo e un tale rapporto di vicinanza da non far passare troppo al pubblico. Devi essere più presente, e insieme devi ritirarti in un nucleo profondo di te stesso.

In quella situazione, sentivi anche il rischio che ci potesse essere una violazione dei tuo io?

Certo. Il palcoscenico tradizionale ti protegge perché ti mette dentro a una cornice. Ti isola e ti protegge. Invece in questi inizi ero proprio fuori cornice.

Dunque ha dovuto imparare in qualche misura a "tirarti dentro".

Sì, mentre tutto il lavoro fatto prima - e credo che sia il lavoro che si fa in qualsiasi scuola, alternativa o non alternativa, istituzionale o non ufficiale - era proprio quello di tirar fuori la propria interiorità, di esprimersi. Il giovane aspirante attore ha una sua interiorità e deve imparare a oggettivarla, oltre che a tirarla fuori. Non si tratta solo di liberare un’energia o una presunta spontaneità. E’ anche questione di tirar fuori delle energie scomposte per cercare di dar loro una forma, delle direttive. Per me la prima fase era stata tutta in uscita, poi c’è stata questa fase legata alla performance, che mira invece al controllo più assoluto.

Non sempre, perché se è vero che c’erano delle performance estremamente codificate, dove non era possibile sgarrare di un secondo o di un millimetro, ce n’erano invece altre basate su situazioni totalmente aperte all’improvvisazione, libere...

...dove si trattava di mettere in scena la sregolatezza assoluta, certo. Si andava dal gioco delle mani di Ketty La Rocca alle esperienze della scuola viennese, che peraltro in alcuni nostri spettacoli abbiamo fatto riecheggiare.

Dal punto di vista dell’attore, questo doppio binario tra estrema codificazione e massima libertà, che cosa implica?

Provoca una dialettica estremamente feconda anche se lacerante. In quel periodo, siamo nella seconda metà degli anni Settanta, cominciava a diversificarsi la risposta individuale all’interno della compagnia. Cominciava a essere chiaro che ciascuno di noi andava più volentieri in una direzione piuttosto che nell’altra; quindi si stavano creando delle tensioni, fortunatamente mai negative. Per esempio, Marion D’Amburgo tendeva più a mettersi in gioco, fino all’estremo. Come dire: "Mi preparo con la massima cura. Tecnicamente, faccio tutta una serie di esercizi, di preparazioni, uno studio che dura anni, per arrivare al punto in cui programmaticamente spazzo via tutto, dimentico tutto e mi metto in gioco facendo un salto nell’abisso, nel vuoto". Nel ’76 a Cosenza, con Presagi del vampiro, ci fu la scelta di riproporre una variante di determinate performance di Gina Pane o dei viennesi: era una scelta estrema, che non era legata solamente a un atteggiamento concettuale ma anche a delle sensazioni fisiche, a una certa preparazione... Io non mi sentivo in grado di reggere una cosa del genere.

Su questa strada, dopo Gina Pane che si taglia le vene, il passo successivo consiste nel tagliarsi il braccio o spararsi in testa. Il rischio è quello di imboccare un vicolo cieco.

E infatti c’è stato chi, come Schwartzkogler, è morto nel corso di una performance.

Tu eri più sul versante dell’uso sulla scena di quello che era stato fatto in precedenza, e della ripetibilità dell’evento.

Per quanto riguarda l’arte dell’attore, credo che tutte le culture del mondo abbiano in comune lo stesso problema: l’equilibrio e il dosaggio tra l’elemento razionale e quello irrazionale, tra l’elemento emotivo e il controllo culturale. Io cerco di mettere in moto tutta una serie di meccanismi emotivi, ma con il controllo continuo di una razionalità. Mi viene in mente una frase di Talma, il grande attore tragico francese: "Avere il cuore caldo e la mente fredda"... Che significa agire e nello stesso tempo (non so esprimermi in altro modo) guardarsi agire. Mi viene anche in mente quello che dice Zeami: "Muovere la mente di dieci decimi, muovere il corpo di sette decimi", emozionarsi ma rimanere nella sintesi espressiva un po’ al di sotto della totalità, padroneggiare con l’equilibrio della mente il movimento espressivo del corpo e della recitazione. Edipus è dimostrazione di questo, nel senso che solo una partitura precisata fino all’impossibile, ti può permettere la libertà dell’emozione nel momento in cui agisci e contemporaneamente il controllo dell’emozione agita. Lì dovevo addirittura affrontare il problema linguistico: imparare a pronunciare e a capire la lingua degli "scarozzanti" di Testori. Mi era indispensabile una precisione quasi ossessiva. Se però tutta questa precisione - questa razionalità - non scatena degli elementi emotivi, resta fine a sé stessa. E poi c’è il pericolo contrario, quando si lavora sull’emotivo: l’emotività va tenuta sotto controllo, altrimenti in scena presenta dei pericoli. E’ quello che abbiamo cominciato a imparare con i nostri primi spettacoli.

Per leggere la versione integrale di questa intervista.
 

2. Uomo, Dio, Animale
(con frammenti da una conversazione con Romeo Castellucci
della Societas Raffaello Sanzio)

"Chiamate quest’ultima la regione A della personalità, se ci tenete, e l’altra regione B. In tal caso la regione B è, si comprende, la parte maggiore di ciascuno di noi, essendo un ricettacolo di tutto ciò che è latente in noi ed il serbatotio di ogni cosa che trascorre non avvertita o non osservata. Essa contiene per esempio cose come tutti i nostri ricordi momentaneamente inattivi, ed ospita le sorgenti di tutte le nostre passioni, impulsi, preferenze, pregiudizi di oscura motivazione. Le nostre intuizioni, ipotesi, fantasie, superstizioni, persuasioni, convinzioni, ed in generale tutte le nostre operazioni non razionali, ne derivano. Essa è la sorgente dei nostri sogni, ed evidentemente essi possono ritornarvi. Nascono in essa tutte le esperienze mistiche che possiamo avere, ed i nostri automatismo sensori o motori; la nostra vita nella condizione ipnotica od "ipnoide", se siamo soggetti a condizioni simili; i nostri deliri, le nostre idee fisse e gli accidenti isterici, se siamo soggetti isterici; le nostre condizioni supranormali, se ve ne sono o se siamo soggetti telepatici. Essa è pure la fonte principale di molto di ciò che alimenta la nostra religione".

(William James, Le varie forme della coscienza religiosa)


Nell’Orestea della Societas Raffaello Sanzio agiscono alcune presenze che è assai difficile far rientare nella definizione corrente di attore. Come se una mancanza o un eccesso rispetto a questa definizione d’attore (o meglio, una differenza che crea un surplus di energia) potessero restituire verità ed efficacia all’atto teatrale. Esplorando un’intera gamma di possibilità (dai pupazzetti meccanici che costituiscono il Coro dei vecchi argivi agli animali, dalla Clitennestra obesa all’Apollo privo di braccia), questa Orestea può essere letta come un’esplorazione dei confini e dei limiti dell’essenza dell’attore: si tratta di presenze che tendono a sfuggire a ogni schema di riproducibilità, che puntano verso il caos, l’imprevedibile, il mistero.

Probabilmente la scelta più clamorosa di questa Orestea è quella di affidare la parte di Agamennone a un ragazzo down, Loris Comandini.

E’ una cosa a cui pensavo da molto, non è una semplice trovata scenica. La presenza di Loris in qualche modo mi attraversa. E’ contemporaneamente il segno dell’innocenza e il segno della monarchia, del sangue blu: non c’è niente che incarni meglio il senso magistrale del monarca del fatto di essere in qualche modo irraggiungibile. Ma Agamennone è anche la vittima perfetta, designata. Quindi nella semplice presenza di Loris è contenuto questo essere insieme invincibile e vittima perfetta.

In una discussa installazione-performance alla Biennale di Venezia, un artista come Gino De Dominicis aveva fatto un’operazione che potrebbe ricordare questa, esponendo come opera d’arte un ragazzo down.

Ci sono senz’altro molte differenze. L’unica coincidenza è quella formale. Ma inserita nel nostro lavoro, una scelta di questo genere fa precipitare questa presenza nel mondo della fiaba, cioè in quella che mi sembra una possibile risoluzione del mito - se mai ci dovesse essere una risoluzione. Anche la presenza dei Conigli che impersonano il Coro va nella stessa direzione, come quella degli altri attori che sono in prima istanza presenze fisiche, corporali.

Ti riferisci per esempio all’attore che incarna Apollo.

Come si sa, Apollo interviene nelle Eumenidi in difesa di Oreste. L’attore che lavora con noi e che incarna Apollo è privo di braccia. Si presenta proprio come una scultura greca a cui sono state spezzate le braccia. E’ l’idea che abbiamo del corpo classico, l’immagine di Apollo che abbiamo nella memoria: un corpo perfetto, assolutamente perfetto, che proprio per questo incarna perfettamente l’idea divina. Una statua. Un personaggio divino. In effetti quando entra in scena Apollo, quando è il momento suo, c’è questo senso di divinità molto forte.

Per tornare al rapporto con le arti visive, la vostra Cassandra, nuda e urlante, oppressa da pareti di vetro che ne distorcono il corpo, richiama certi quadri di Bacon.

In effetti Bacon è stato un riferimento per quell’immagine. Bacon era ossessionato dal tema dell’Orestea. Nello spettacolo c’è questo corpo rinchiuso in una specie di teca, che può ricordare gli esseri che sono contenuti in barattoli sotto formalina, questi oggetti da laboratorio. Questo corpo viene negato, viene costretto, appunto perché Cassandra è una voce - la voce profetica, l’unica voce che dice la verità in tutta l’Orestea.

Clitennestra, l’immagine della maternità archetipica, che nelle note di regia viene legata a Moby Dick, è una donna grassa e nuda al centro del palcoscenico, inondata da una pioggia di sangue. Qui il riferimento sembrano essere le performance "orgiastiche" di Hermann Nitsch...

Forse, anche se io prendo le distanze da questa citazione, perché il problema è molto diverso. Prima di tutto qui c’è la finzione del sangue, mentre là c’è sangue vero - è un elemento che non mi interessa quello dell’uso del sangue vero, degli animali squartati.

Mentre nell’Orestea appaiono diversi animali...

Nel primo tempo ci sono due cavalli neri, che passano sul fondo della scena, quasi invisibili, dietro Cassandra. Sono i cavalli del carro che l’accompagna. Si sente più che altro il rumore degli zoccoli.

Per il pubblico è una presenza quasi inavvertibile. Perché la ritieni necessaria?

Sono sensazioni che non hanno una giustificazione. Sono due cavalli che ci portiamo in tournée e che vivono sulla scena un paio di secondi, non di più. E’ un problema di respiro. Sono due secondi molto potenti: in quei due secondi c’è la pura comunicazione della presenza dell’animale. Questo è un altro elemento fondamentale, proprio perché viene giocata ancora una volta la carta della fiaba dove gli animali convivono con gli umani, e dove anche gli animali hanno la parola.

Nella seconda tragedia, Le Coefore, ci sono due asini bianchi. Parrebbero quasi i due cavalli precipitati in una dimensione di miniatura. Sono due asini albini, anche la scena nel frattempo è diventata completamente bianca, tutta piena di polvere, fino a creare quasi un paesaggio lunare: idealmente Le Coefore sono proiettate sulla luna.

Nella tragedia conclusiva c’è un’altra scelta molto forte. Se all’inizio il Coro dei vecchi argivi era composto da coniglietti meccanici, ora quello delle Erinni-Eumenidi è composto da vere scimmie.

Sono delle scimmie che convivono con gli attori. Rappresentano le Furie, le Erinni che inseguono il matricida Oreste e lo inducono alla follia. Il proscenio a questo punto è stato completamente chiuso da un sipario e c’è soltanto un’apertura che stringe come un diaframma tutta la vicenda in un grande buco. Le Eumenidi si svolge dietro questa apparizione tonda, che è una sorta di lanterna magica dove le figure appaiono e scompaiono come per magia, sempre e comunque filtrate attraverso la visione delle scimmie-Erinni, che occupano lo stesso spazio nel quale si trova Oreste, incalzato dal fantasma di Clitennestra e poi avvicinato da Apollo e alla fine da Atena, che risolve la vicenda.

Questa insistenza sull’elemento animale negli spettacoli della Societas Raffaello Sanzio è anche un contrappeso alla presenza dell’attore?

Probabilmente è più di un contrappeso. E’ una presenza che spinge l’attore come una minaccia. L’animale è senz’altro più efficace, ha una portata più distruttiva. Rappresenta il disordine necessario alla scena, rappresenta l’ombra dell’attore.

In questo caso, oltretutto, non si tratta di animali domestici come i cavalli o gli asini visti in precedenza, ma di animali selvatici.

Sono animali che non sono affatto addomesticati, sono semplicemente chiamati sulla scena per essere quello che sono. Non sono costretti a fare nulla, proprio perché il loro elemento è quello del disordine. La loro sfera è quella del non-umorismo, quella della lingua piuttosto che quella del linguaggio, quella del verso piuttosto che quella della voce.

Attraverso presenze dalle caratteristiche così variegate, l’Orestea della Raffaello Sanzio, riprende, ricapitola e corregge esperienze precedenti, proprie e altrui. E porta in scena un’intera gamma di percezioni di sé, diversi livelli di soggettività: i pupazzetti meccanici, l’animale selvatico e quello domestico, il mongoloide e il corpo mutilato - oltre naturalmente all’attore "tradizionale". Da un lato ricordando che in quest’ultimo sono sempre compresenti questi diversi gradi di coscienza, e le molteplici stratificazioni dell’inconscio. E questa gradazione implica - nell’ottica di un teatro che vada a ricercare le proprie radici nel rito - la deriva nel naturale e nel soprannaturale, nel "divino" e nel "numinoso".

Invece, per come possiamo immaginarcelo, un attore-computer presenta un curioso paradosso: è insieme totalmente consapevole e totalmente inconsapevole. Da un lato non è altro che un programma: esegue una serie di istruzioni predeterminate; dall’altro, come i sistemi esperti, ha un accesso immediato a tutte le risorse della sua memoria, e a tutti i dati immagazzinati dalla sua esperienza. In altri termini, non può né dimenticare né rimuovere nulla.

Per leggere un'altra conversazione con la Societas Raffaello Sanzio (1988).
 

3. La voce
(con frammenti da una conversazione con Moni Ovadia)

"Che altro? Il fischio è il linguaggio della nostra gente, solo che taluno fischia tutta la vita e non lo sa, qui invece il fischio è liberato dalle catene della vita quotidiana e libera anche noi per qualche tempo. Perciò noi non vorremmo mai fare a meno di simili esibizioni".
(Franz Kafka, Giuseppina la cantante)

"La "grana", è il corpo nella voce che canta, nella mano che scrive, nel membro che esegue. Se percepisco la "grana" di una musica e se attribuisco a questa "grana" un valore teorico (è l’assunzione del testo nell’opera), non posso che rifarmi una nuova tabella di valutazione, certamente individuale, poiché sono deciso ad ascoltare il mio rapporto al corpo di colui o di colei che canta o che suona, e questo rapporto è erotico, ma non "soggettivo" (il "soggetto" psicologico che ascolta non è in me; il piacere che egli desidera non lo rafforza - non lo esprime - ma al contrario lo perde). Questa valutazione si farà senza legge: eliderà la legge della cultura ma anche quella dell’anticultura; svilupperà al di là del soggetto tutto il valore che si nasconde dietro "amo" o "non amo"".
(Roland Barthes, "La grana della voce" in L’ovvio e l’ottuso)

E’ ormai fin troppo facile sintetizzare la voce umana. Ma è anche banale aggiungere che difficilmente un sintetizzatore potrà esaurire le possibilità e le sfumature della voce, il rapporto tra il respiro e le diverse cavità che risuonano nel corpo umano, tra i diversi livelli d’energia dell’emIssione e il loro sostrato emotivo. O, per dirla con Barthes, difficilmente la voce di un calcolatore avrà una propria "grana", e difficilmente la sua lingua avrà un proprio "brusio".

Moni Ovadia non è un attore, anche se ha recitato in teatro e al cinema, anche se nei suoi spettacoli svolge anche le funzioni di attore e intrattenitore, oltre che di cantante e narratore. Musicista di formazione, poi cantante (ma al di fuori di ogni convenzione), ha progressivamente costruito la propria presenza sulla scena a partire dalla propria vocalità.

Mi incuriosiva sapere come hai vissuto il passaggio da musicista a attore dal punto di vista della voce.

Mi definisco tuttora "un folksinger che fa teatro". Sono molto lontano dal mondo prosodico che caratterizza l’attore. Rimango sempre stupefatto di fronte ai grandi attori. In questi giorni, per esempio, ho la grande ventura di vedere al lavoro Franca Nuti. Per me è un mistero: io uso la voce, ma il modo in cui lei distilla le parole rimane per me un grande mistero, nel quale io non sono ancora riuscito a entrare. Roberto Herlitzka, Massimo De Francovich: quando li sento mi chiedo: "Ma come fa?".

Da un punto di vista tecnico?

Non solo. Mi chiedo come fanno a far diventare emozione, commozione una cosa come la prosodia. Secondo me è difficilissimo. Il recitone degli attori, quando non sono superbravi, è insopportabile. Il confine fra il cacofonico e il sublime è piccolo. Ho amato follemente Carmelo Bene proprio perché ha rotto la prosodia. Non credo che avrei fatto teatro se non avessi visto gli spettacoli di Carmelo Bene, oltre a quelli di Kantor... Sono due fascinazioni diverse, sono tra quei pochissimi punti della mia vita che hanno cambiato il mio modo di pensare: il famoso Ubu Roi di Peter Brook, Apocalypsis cum figuris, forse Einstein on the Beach di Wilson, e Pina Bausch.

Detto questo, il mondo degli attori di prosa mi stupisce e mi affascina. Mi piacerebbe entrarci almeno una volta, guidato da qualcuno che sapesse farmelo fare. Però io appartengo a un’altra forma di teatro: come altri, cerco di ripristinare il teatro musicale. Credo che il teatro sia sempre stato canto e murica, credo che la tragedia greca fosse questo, noi che abbiamo ancora conosciuto il mondo popolare lo capiamo. Alla Vucciria di Palermo, la gente non parla: anche per comunicare canta. La prosodia è il risultato di una progressiva sottrazione al linguaggio: ha eliminato dal modo di esprimersi gli aspetti sporchi, violenti, e però straordinariamente poetici... E’ il risultato di una morale che diventa moralismo: "Non si grida! Non si fa questo, non si fa quest’altro...", e pian piano si arriva al teatro borghese. Nel teatro shakespeariano si sente ancora la forza del linguaggio, anche se spesso con gli attori italiani diventa manieristico; ma gli attori inglesi Shakespeare non lo recitano, lo cantano.

Quindi dal tuo punto di vista la prosa dell’attore è una lingua castrata.

Credo di sì, e per questo mi stupiscono i grandi attori, che trovo magnifici.

Ma perché ti sembrano magnifici? Perché ritrovano il canto o perché all’interno della prosodia...

...in qualche modo ritrovano il canto. Riescono a distillare i moti dell’anima dentro strutture così rigide. E’ molto più facile quello che faccio io, che mi lascio portare dalle emozioni sonore e risalgo all’origine del linguaggio. Sono alla ricerca di una forma di teatro musicale che non è il melodramma, e neanche l’opera contemporanea, ma di una forma dove il canto, il grido, la litania, la liturgia, la monodia trovino uno spazio espressivo. Dybbuk è un po’ questo: si passa dal canto alla parola gridata, alla parola che rompe il corsetto semantico...

Il teatro stanislavskiano ha prodotto risultati clamorosi, ma credo che quella sia solo una delle tante forme di teatro, mentre per decenni e decenni ha dominato il teatro, come se fosse l’unica forma possibile. Questo ha fatto danni spaventosi. Anche se poi, dentro la chiave prosodica del teatro di parola borghese e poi anche del teatro di sperimentazione che si affida alla parola, i grandi ci sono. Per esempio, di fronte al lavoro di Ronconi ti chiedi: "Ma come ha fatto?". Mentre là dove il lavoro non è sorretto da un livello di pensiero così alto...

Forse quello che fa un regista come Ronconi consiste nel prendere quella che definisci "prosodia" per portarla a un punto di rottura dove le violenze, le tensioni di cui parlavi prima riescono a riesplodere.

Siamo alla rottura di una convenzione recitativa.

Possiamo a questo punto fare un passo indietro, verso la ritualità e la liturgia. Verso i canti di sinagoga come fonte di ispirazione del tuo lavoro...

E’ una voce che sfrutta le qualità naturali della voce, non quelle dell’artificio. Esistono alcuni modi fondamentali di cantare. Uno è la cultura belcantista, che nasce a un certo punto della storia dell’umanità e produce risultati di un virtuosismo e di una espressività straordinari. Poi c’è il modo di cantare della musica leggera, che nasce dal belcantismo ma diventa più quotidiano: vedi i cantanti come Eddie Cantor nel cinema americano, con la voce da tenore o da soprani leggeri.

E’ un po’ la storia della canzonetta italiana da Festival di Sanremo.

Ma la musica leggera cambia quando incontra quel grande fenomeno che è la musica nera. La vocalità di Zucchero Fornaciari, o prima quella di Lucio Battisti, che secondo me è il grande genio innovatore della canzone italiana, quella di Dalla, eccetera, viene dai rocker, che a loro volta vengono dal blues nero. La voce nera è una voce etnica, di naturalità. Questo è l’altro grande mainstream.

Tuttavia la voce nera ha una naturalità diversa dalla voce "naturale" di un bianco.

Nella musica etnica è presente uno spettro variegatissimo di espressività vocali, ma c’è un elemento comune: tutte le forme di musica etnica non nascono da un’esigenza estetica, ma diventano estetiche a partire da un’esigenza espressiva. Quando le contadine bulgare cantano, non si peritano di rendere edulcorato, bello, aggraziato il loro canto. Cantano proprio il loro sentimento della vita, delle cose.

Cantano per sé...

Per sé e per la comunità a cui appartengono. E’ questo canto che mi ispira. Naturalmente ho dentro di me alcune matrici precise: sono nato in Bulgaria, ho sentito i miei parenti cantare le canzoni bulgare; sono un ebreo sefardita e quindi mi appartiene la cultura greco-levantina. Tuttavia la mia voce si esprime in maniera naturale. Infatti canto le canzoni yiddish in maniera molto anomala. Chi viene da quel mondo le canta in maniera diversa. E questo, mi diceva un amico che è nato in Polonia, "ti rende affascinante, perché altrimenti rischieresti il quadretto chagalliano". Molti le cantano con leziosità, io le canto sempre con molta violenza, con molta energia. Anche rispetto alla melopea sinagogale, io non canto come i grandi cantori, che in fondo volevano essere dei Caruso, erano ispirati dal belcanto.

E come sei andato a recuperare questa espressività più arcaica?

Il canto sinagogale viene da Oriente. Questa è una delle ragioni dell’odio antiebraico: gli ebrei sono sempre stati un pezzo di Oriente nell’Occidente, anche se poi, con la riforma dell’ortodossia tedesca, hanno cercato di attenuare questa diversità. Dunque l’ebreo ha un elemento che viene dal deserto, da Oriente; e anche il canto sinagogale ce l’ha, in maniera molto forte. Quando ho ascoltato i grandi cantori sono quasi impazzito dal piacere, perché vedevo questa torsione da Occidente verso Oriente con estrema chiarezza: sentivi il belcantismo che però faceva questi melomi orientali arabeggianti. Di lì sono andato a ritroso e mi sono detto: "Ma perché non provo a cantare anch’io?".

Ero ha bloccato, perché non ho una voce impostata, non posso fare il cantore. Allora ho provato pian piano con la tecnica naturale del canto popolare per terze imparato da Leydi e dalla Mantovani. Del resto il canto delle contadine, certi canti dell’alta Italia, non sono molto dissimili dai canti delle contadine russe, per esempio. Giovanna Daffini cantava con la vocalità lacerante, acutissima, tipica del mondo popolare: è la vocalità femminile che libera se stessa nelle proprie asperità, non solo nelle leziosità.

Tutto questo mi ha nutrito e ora cerco di reinterpretarlo. Di recente mi hanno convinto a fare dei seminari sulla voce. Ero molto restio, perché insegnare è una responsabilità pesante. Però poi ho capito che qualcosa potevo dare e ricevere, e magari uscire dai limiti imposti dalla cultura che ci viene ammannita.

In uno di questi seminari mi è accaduto un fenomeno molto curioso. Generalmente lavoro su un suono o due, non di più, perché cerco la vocalità interiore, l’apertura dei risuonatori: cose che uno non sa e che può scoprire solo come le ho scoperte io, facendole. C’era un attore che emetteva un suono belante, brutto, sgradevole. Siccome credo che alle cose ci si arrivi volendo bene alle persone con cui si lavora, non gli ho fatto alcuna critica. Gli ho semplicemente detto: "Ti ho chiesto di muoverti su un suono, di emettere un suono: perché picchi costantemente contro quel muro? Guarda, io non ti avevo detto l’altezza della nota, non ti ho detto se la voce deve essere di gola, o di testa, puoi fare come vuoi...". E gliel’ho buttata lì: "Ma tu sai che anche gli uomini possono cantare in falsetto?", e ho accennato due cosine in falsetto, spiegandogli: "Abbiamo delle vocine che si possono spostare dietro la testa". Allora lui ha cominciato a fare qualche tentativo, finché ha preso un falsetto. E’ successo il finimondo. Era uno che in falsetto faceva delle cose miracolose, non solo di una qualità eccelsa, ma di una potenza fuori misura. Non avevo mai sentito una cosa del genere. Di recente mi ha detto: "Non so cosa farne, perché questa cosa mi ha cambiato la vita". A trentatré anni ha scoperto di avere questa cosa. Nessuno gli aveva mai neanche accennato a una possibilità del genere.

Muovendomi da un lato empiricamente, dall’altro attraverso la mozione del sentimento e dell’anima, cerco di scoprire la voce, di passare dalla voce a una gestualità che faccia parte di questa voce. La voce è la prima istanza con la quale noi ci esprimiamo. Di recente ho fatto una riflessione curiosa. Ho lavorato due mesi in casa di due amici che avevano appena avuto una bambina e ho sentito l’evoluzione sonora dei suoi vagiti. Be’, tutti fotografano i loro bambini, ma nessuno li registra. Mentre crescono, i bambini esprimono se stessi attraverso i suoni, ed è una modificazione continua, di ora in ora, di sonno in sonno, di veglia in veglia. Credo che la voce sia una delle istanze primarie e che sia possibile partire dal suono e dalla vocalità per trovare anche espressività e gesti. E di lì costruire una teatralità che non parte dal senso logico-formale ma da un senso più interiore. E ciascuno deve costruirlo con le proprie forme.

Naturalmente non credo che questo sia un must. Peter Brook, che adoro per il suo straordinario umorismo e la sua intelligenza, dice: "Ci sono mille modi per fare teatro. Però bisogna credere al proprio come se fosse l’unico possibile". Io accolgo con molta semplicità questa indicazione che trovo straordinaria. Vedo artisti che lavorano con un criterio totalmente diverso dal mio e ne riconosco la grandezza. Ma il mio punto di partenza è questo.

Che funzione ha il multilinguismo nel tuo lavoro?

Mi trovo con certe lingue e non con altre. In Italia, è risaputo, abbiamo dei dialetti straordinari, mentre non abbiamo una lingua felice per il teatro, perché in italiano l’accento tonico cade quasi sempre nella stessa posizione, è una lingua che non ha finali consonanti e una gamma di suoni poco estesa: ci mancano le gutturali, le aspirate, certe le nasali, le sibilanti sono solo la "s" e "z", mentre il greco e l’inglese hanno la theta, il "th". E’ per questo che la poesia non è traducibile: perché il suono è inscindibile dal senso. Una lingua che cerca di usare la musicalità che appartiene a un’altra lingua è goffa: se canto in greco il canto melismatico, la lingua porta questa sonorità dentro di sé; se cerco di cantarlo in italiano diventa buffo, come probabilmente acccadrebbe se cercassi di cantare l’opera lirica in greco. Ogni lingua ha la sua musicalità. Per le mie radici, sono affine a certe musicalità balcaniche, ispaniche e levantine: al greco dunque, e anche all’arabo; ho studiato l’ebraico, l’ho sentito parlare quand’ero in fasce. Tutta questa musicalità linguistica mi serve a sostenere la mia vocalità. L’insieme di suono della parola e suono della voce crea una gamma di possibilità infinite, una tavolozza con cui dipingo il mio teatro.

Il multilingusimo serve dunque in primo luogo ad ampliare la tua tavolozza.

E a renderla coerente, cioè a restituire alla parola il suo significato pieno, che è sonoro-logico-formale-semantico-storico. L’aspetto sonoro è stato mortificato soprattutto con le lingue meno diffuse. L’unica lingua per cui abbiamo un rispetto sonoro è l’inglese. C’è chi viene a vedere Dybbuk e mi chiede: "Perché non mi fai capire i testi?", e io rispondo: "Ma perché tu ascolti delle canzoni inglesi di cui capisci a malapena un quarto delle parole?". E’ l’ossequio alla lingua imperiale. Ma io come posso esprimere il dolore di quella gente se non con la loro lingua? Con la lingua che è stata uccisa insieme a loro! Allora usare lo yiddish significa restituire una dignità complessiva alla lingua: il significato, la cosiddetta comprensione, è solo una piccola parte della parola.

Lo yiddish è, per l’appunto, una lingua particolare: utilizzandola, si tratta di dare (o ridare) voce a un popolo che non c’è più, a un popolo di morti.

Lo yiddish è una lingua molto curiosa. E’ lingua di esuli, per definizione: muta a seconda dei paesi. In Lituania era diverso che in Polonia. Riflette una condizione così incredibilmente ebraica, quella di chi è ebreo nella testa. Ha mantenuto la struttura germanica, ma è stata modificata nei paesi in cui gli ebrei sono stati espulsi e perseguitati. E’ una lingua ubiqua: è al tempo stesso una lingua germanica ed è l’antitesi della lingua germanica. Vive ancora, lo yiddish, in piccoli ambiti...

In una delle preghiere principali ebraiche si dice: "Benedetto sei tu, Signore, che resusciti i morti". Ma che cosa vuol dire resuscitare i morti? Senza fermarmi alla visione letterale dei morti che si rialzano e camminano, io sostengo che questo significhi affermare la vita al di là del puro dato biologico. Attraverso il suono, la cultura, la memoria, tu resusciti quei morti: continuano in te e nelle generazioni a venire, e allora il progetto di libertà, il progetto spirituale continua. Se abbandoni diventi complice, ancorché apparentemente indiretto e involontario, di quello che è stato fatto.

Credo che l’umanità abbia due o tre cammini paralleli. Uno di essi è il grande cammino verso l’ethos. Un cammino minoritario, vessato, percosso, umiliato: ma ci sono degli uomini - uomini, non santi - che sono passati lungo questo cammino. Finché teniamo in piedi questa ipotesi, vale la pena che l’umanità sopravviva; se questa ipotesi cade, allora è meglio che tutta questa roba sprofondi nel cesso, perché non vale la pena. L’uomo fa talmente schifo, senza quello che lo rende sublime: l’ethos, la poesia, il canto, la pietas, la capacità di nutrire rispetto per un animale e per le sue sofferenze...

Questo cammino cerco di farlo all’interno della cultura che conosco e che pratico, utilizzando lo yiddish, proprio perché è una lingua di esuli. E quella di esule è la mia condizione: io mi sento così italiano, così milanese, così ebreo, che non so mai dove sto. Sono sempre qui e da un’altra parte, è una ubiquità mentale. A Mara Cantoni che gli chiedeva "Ma adesso dove abiti?", l’impresario Andreas Andermann ha risposto: "Vengo da Tokyo e vado a San Francisco". Io sto spesso a Milano ma la mia testa è sempre altrove, alla ricerca di questo vagabondaggio. Lo yiddish corrisponde al fatto che io sono un sopravvissuto, come tutti gli ebrei europei. Usarla è una vittoria, nel senso più alto del termine, per quanto sangue sia costato. E’ la vittoria, non perché sconfiggi un nemico ma perché affermi la vita. E poi con lo yiddish, lingua di movimento, attraverso le lingue, mi muovo, e il mio canto si muove insieme a me. E’ un canto in cammino, un insieme di spirituale e fisico-esistenziale che vanno insieme.

Che rapporto c’è tra il controllo razionale e la tua espressività vocale?

E’ una condizione di malessere costante. Ogni volta che salgo sul palco soffro, perché gli anni passano e la mia voce non mi sostiene come prima. Però tutto quello che ho trovato, l’ho trovato nel malessere. Ogni volta che non mi usciva la voce da una parte, scoprivo che avevo dei risuonatori da un’altra parte. Nelle mie lezioni invito tutti a questo travaglio, che può essere solo personale, che non può essere tramandato, perché ogni individuo vale per se stesso. Dico spesso che mi considero ancora un comunista perché non sono disposto a farmi sfruttare e non mi interessa sfruttare il prossimo; c’è chi mi dice "Questo fa di te un perfetto liberale". Ognuno la prenda come vuole, però io credo, anche nel teatro, che ciascuno debba trovare il proprio cammino, perché solo con una società di individui in cui ognuno è un universo ricco possiamo avere una società di uomini uguali. Più gli uomini sono diversi più avremo una società di uomini uguali. Per creare una società equa, secondo me, il problema non è abolire gli sfruttatori, ma abolire la gente disposta a farsi sfruttare.

In che modo ti ascolti mentre canti?

Faccio molta fatica a descriverlo, ma è proprio come se quando comincio a cantare o a gridare, io cominciassi a combattere contro me stesso. C’è una parte di me che resiste e l’altra che spinge, è una specie di torsione dialettica violenta, spesso ai limiti della disperazione, che porta al movimento.

Ma qual è la parte che resiste e quella che spinge?

Io, come tutti, appartengo alla generazione che ha dentro di se il predatore, e il predatore chiede sangue. A quarantanove anni posso concedermi la possibilità di essere riconosciuto e di riconoscere me stesso. Ci sono forze che mi tirano verso l’interno. C’è la forza della stanchezza, quella forza nientificante, anche nel modo di cantare. Questa è una delle cose che credo che abbia commosso chi mi sente cantare, perché è sempre un travaglio, una gestazione che si verifica ogni sera contro qualcosa che non vuole. Anche la presenza in scena è dolorosa, faticosa, ma il piacere è immenso.

Ma che cos’è che vuole e che cos’è che non vuole dentro di te?

E’ apparentemente banale, ma sono le due pulsioni che si affrontano. Ho una componente molto forte di tanatofilia: qualcosa che, per la storia dei miei genitori, per le mie radici, per quello da cui vengo, mi dice continuamente: "Molla!". C’è una straordinaria storiella ebraica che entrerà nel prossimo spettacolo. Un tizio sta per suicidarsi buttandosi da un ponte. Arriva un rabbino che lo prende e comincia a dirgli: "Ma che cosa fai? Ma perché?". "Non ne posso più, non posso sopportare questa vita, lasciami stare. Non la posso sopportare, mi capisci?". "Va bene", risponde il rabbino, "io posso anche capire. Però se tu ti butti, devo buttarmi anch’io dietro a te per salvarti, e io non so nuotare. Cerca di capire! Io ho cinque figli, ho una comunità di cui occuparmi. Non farlo! Vuoi avere sulla coscienza una cosa del genere? Allora, fai così, fai una mitzva [il precetto della buona fede]: tornatene a casa tua e lì, nel confort e nella tranquillità della tua casa, impiccati".

Ecco, questa storiella mi piace molto: c’è un’istanza di vita che riconosce l’istanza di morte, è una lotta continua. Questo mio amico rabbino dice sempre "lotta continua". Curioso, è l’unico a cui senti dirlo, oggi: "Tu devi combattere!".

Tra tutti i libri della Bibbia, quello che amo di più è il libro di Giobbe: l’uomo è riuscito male, c’è qualcosa che non funziona, la grande sfida è di farcela da zoppi. Cioè noi siamo bestialmente zoppi e pretendiamo di far le Olimpiadi dello Spirito... Il canto è proprio la torsione di questi due elementi.

Io dico sempre che nel mondo ebraico il canto è il modo di provocare il divino. Con quei canti così pazzeschi, il cantore dice: "Vieni giù perché qua ne abbiamo pieni i coglioni, o perlomeno facci capire, fatti vivo!". Perché nell’ebraismo - ed è per questo che il canto sinagogale mi interessa - la chiamata di correità di Dio è prevista. Esiste una storiella chassidica che in cui si racconta che tre rabbini processarono Dio. E come fecero? Come si fa a processare Dio? Ma, dice la storiella, Dio è dovunque: per cui i tre rabbini chiusero la porta della stanza. E dopo tre giorni e tre notti il verdetto fu: "Colpevole". Perché Dio non protegge l’orfano e la vedova, perché l’uomo è troppo debole per resistere al male. Il canto ebraico secondo me rappresenta molto bene questa continua familiarità con Dio, ma anche questa continua denuncia di Dio: è l’insieme delle due cose. Scopo finale è la vita. Che la vita continui. Ma io sento che la vita continua a prezzo di uno sforzo enorme, a prezzo di un livello di consapevolezza micidiale, quello che i buddisti chiamano "illuminazione". Ci sono quelli che ripetono sempre: "Ma che problema c’è?". Io trovo che ogni gesto, ogni decisione sia problematica. Sono arrivato a fare Dybbuk completamente afono, molti mi hanno consigliato: "Risparmiati", ma non posso, e le corde vocali mi partono tutte le sere. Vivo un grande travaglio: quando non potrò più cantare, cosa faro? Allora mi conforto pensando a Joe Cocker, che è la dimostrazione di come si canta senza voce. E’ ormai totalmente afono, e lo considero il più grande cantante...

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Copyright Oliviero Ponte di Pino, 1995,  1999.
 

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