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L’arte dell'attore
Conversazione con Sandro Lombardi
a cura di Oliviero Ponte di Pino

Un frammento di questa conversazione è stato pubblicato sul Patalogo 18.
Copyright Oliviero Ponte di Pino, 1995, 1999.
 
 
 

Partendo dalle origini del Carrozzone e della tua storia d’attore, troviamo il desiderio di fare teatro da parte di un gruppo di studenti di un liceo di Arezzo.

Veramente, sento di dover fare un passo indietro. Per lungo tempo ho creduto anch’io che la radice più antica del mio desiderio di fare teatro fosse riposta in quegli anni liceali, nel momento del mio incontro con quelle persone con cui poi avrei concretamente iniziato un gioco che, a poco a poco, sarebbe diventato una cosa seria - passione e ricerca -, poi una professione e infine una dimensione che adesso si identifica con tutta la mia vita. Recentemente, tuttavia, mi sono reso conto che vi sono degli inizi più antichi, che si può andare molto più indietro... Se penso alla mia prima idea del teatro, non posso fare a meno di riandare al tempo della mia infanzia, in Casentino. E alla memoria di mia madre che a Poppi, dove vivevamo, mi indicava uno sterro a ridosso delle mura dicendomi: "Vedi, lì c’era il teatro...". Oltre le mura, la vista spazia sull’alta valle dell’Arno, che si stende placida fino ai monti della Verna e di Camaldoli. Passavamo sotto l’arco della porta di levante e uscivamo lungo la strada che costeggiava le mura (e che alla mia fantasia di adolescente suggerivano immagini leopardiane) lasciandoci indietro i brutti edifici delle scuole, diretti a casa. Sarà accaduto una qualche volta che, evocati dal ricordo di quel teatro scomparso, affiorassero alla memoria di mia madre fantasmi e ricordi... Lei amava Rossini, Verdi, Puccini... D’altronde, quando era nata, suo padre, che aveva appena visto a Firenze l’opera di Puccini, l’aveva chiamata Tosca. Io facevo domande e lei mi raccontava di opere, di Carri di Tespi, di attori, di balli, di feste, di comici affamati... Mi facevo sempre ripetere la storia di un attore che prendeva camera nell’albergo dei miei nonni e che passava le giornate a letto per non sentire il morso della fame e a cui mia madre, impietosita, portava di nascosto del cibo. C’era poi il racconto dei bombardamenti che durante la guerra avevano colpito e distrutto il teatro e il rammarico per la sua perdita. Al suo posto c’è adesso un ufficio postale e nessuno ha mai sentito l’esigenza né il desiderio di ricostruirlo. Forse risiede in questa omissione la ragione di un disagio e di un malessere che non posso fare a meno di provare verso il mio luogo natale, indipendentemente dall’amore e della nostalgia che per altri versi gli porto.

Curiosamente è un punto di partenza epico, nel senso letterale del termine: tua mamma che ti racconta quello che succedeva in un teatro inesistente...

E anche neorealista, per altri aspetti... La realtà è, comunque, che fin dall’inizio ho vissuto il teatro come assenza: la mia prima idea del teatro è legata a un mondo meraviglioso (anche se affamato) ma totalmente assente, e perciò fantastico, nel senso di suscettibile a tutte le immaginazioni e fantasie. Credo che questo fantasticare il teatro, questo immaginarlo in un modo del tutto staccato dalla realtà, per tutta una serie di motivi e coincidenze biografiche, abbia continuato ad avere un peso importante in quella che sarebbe poi stata la mia esperienza adulta del teatro.

Intanto passano gli anni...

...e arriva il momento del liceo, che io ho fatto ad Arezzo, a una trentina di chilometri da casa. Vi arrivavo ogni giorno in treno. Il viaggio prendeva un’ora all’andata e una al ritorno. Arezzo era allora città chiusa e provinciale, ancorché bellissima; determinò per me uno stacco molto forte. Il teatro della città era intitolato a Francesco Petrarca, come del resto il liceo, che era proprio dietro l’angolo. C’era poi la chiesa di San Francesco, che completava una sorta di triangolo ideale. E dentro la chiesa, immersi nel silenzio, affioravano sulle pareti del coro i bellissimi affreschi con la Leggenda della Vera Croce. Il teatro però era chiuso da anni, e lo sarebbe restato ancora a lungo: continuava quindi nella mia vita l’esperienza del teatro come assenza e mistero. In compenso ad Arezzo funzionavano tre o quattro cinema, dove al sabato pomeriggio mi capitò di vedere alcuni film che ancora la memoria conserva sotto il segno delle esperienze rivelatrici e aurorali. A scuola ero stato inserito d’ufficio nella sezione E, riservata agli studenti pendolari e palesemente di seconda classe. Le erano destinati gli insegnanti giovani, quelli di passaggio, quelli considerati bizzarri e strani. E questo, paradossalmente, ebbe un suo aspetto positivo, aprendo un margine di libertà in quel contesto di discontinuità e a volte di vera e propria mediocrità. Ebbi così la fortuna di avere alcuni maestri la cui singolarità, che li rendeva forse imbarazzanti agli occhi delle autorità scolastiche borghesi e conformiste, era invece segno di curiosità, intelligenza e apertura. L’insegnante di lettere si chiamava Simonetta De Marinis, veniva da Firenze; era etruscologa di formazione e aveva pubblicato uno studio sulla tipologia del banchetto funebre. Coltivava una passione per la letteratura drammatica antica, in particolare per i tragici greci, e ci spingeva moltissimo a leggere la tragedia antica: ben presto le sue ore di lezione divennero interminabili discussioni, analisi e interpretazioni dei testi drammatici. Tra i compagni di classe, uno dei più partecipi a queste "lezioni aperte" era Federico Tiezzi. Io ero molto timido: tacevo e ascoltavo... Il teatro ha cominciato così a poco a poco a entrare nella mia vita, uscendo dalle nebbie e dai fantasmi dell’assenza per farsi realtà concreta, anche se per il momento ancora solo sulle pagine dei libri, come letteratura drammatica. In ogni caso, realtà. C’era poi il professor Tullio Mogno, incaricato di storia dell’arte, un uomo davvero singolare, bizzarro fino ai limiti dell’ipocondria, laureato in filosofia e cultore della poesia del Novecento. Solo alcuni anni dopo la fine del liceo ho scoperto che aveva intrattenuto sin dal 1932 un lungo epistolario con Umberto Saba nel quale, a detta dello stesso Saba, rivelava una intuizione straordinaria della sua poesia... Il professor Mogno cercava di farci ritrovare in ogni grande opera d’arte l’ombra lontana della armonica perfezione del suo gatto Gigino. Attraverso questa metafora gattesca, tendeva a insegnarci la storia dell’arte in termini estremamente moderni di astratto formalismo, senza peraltro trascurare l’aspetto concretamente "realistico" della tradizione pittorica italiana da Giotto a Caravaggio, secondo la categoria longhiana della "pittura della realtà". Adorava Giorgione e la pittura di luce, impazziva per Botticelli e Donatello, andava in estasi per la "giginosa" perfezione del Duomo di Pisa, dei templi di Paestum e degli edifici di Leon Battista Alberti... Camminava sempre assorto per i corridoi seicenteschi del liceo, tutto arroccato nella sua altezza, un po’ ingobbito, il volto come nascosto dietro una maschera di baffi e occhiali scuri, sempre severo e distante. Non serviva salutarlo, non avrebbe comunque risposto...

Ma nella tua "vocazione teatrale "non c’è stata solo la scuola, immagino.

Uscendo da scuola, ogni giorno si passava davanti alle porte del Teatro Petrarca, che anno dopo anno restavano inesorabilmente chiuse; mentre erano aperte quelle della chiesa di San Francesco. Piero della Francesca mi entrava a poco a poco nel cuore, e così feci i miei primi viaggi di studio, tra Arezzo e Sansepolcro, Monterchi e Urbino. Lessi il libro bellissimo di Roberto Longhi su Piero e mi colpì l’idea di quel meraviglioso "spettacolo del mondo"... Mi piaceva immaginare Edipi e Medee, Antigoni e Oresti con i costumi sontuosi e superbi della pittura di Piero. Insieme, quella pittura mi si imponeva per la sua astratta regolarità geometrica: architetture e alberi come perfette scenografie di suprema chiarezza spaziale, gruppi di personaggi come gruppi di attori miracolosamente disposti e dislocati nello spazio, e poi l’intensità di quei volti, di quei corpi di contadini, di preti, di mercanti e di banchieri; quelle gote di ciliegia e mela di giovani e ragazze, quei volti eburnei di madri e di bellissime dame; quelle figure sinuose e flessibili di scudieri, di palafrenieri e di cameriere... Cominciavo a farmi del teatro un’idea non più così vaga: in altre parole, cominciavo a definire le strutture portanti del mio gusto e delle mie preferenze. Il cortocircuito fra tragedia greca e Piero della Francesca mi portava a pensare al teatro come a qualcosa di profondamente simbolico e insieme di ritualmente sacrale, qualcosa di astrattamente geometrico, cerimoniale, antinaturalistico, fortemente visivo, ieratico, ritmicamente musicale, al cui interno deflagrasse però la violenza estrema dello scontro delle passioni... E qui dobbiamo tornare al cinema, perché per me la rivelazione del teatro, negli anni in cui ancora non potevo vederne, passa anche attraverso il cinema. Un tacito accordo con mia madre faceva sì che il sabato mattina aggiungesse ai soldini per la merenda qualcosa in più per andare al cinema. Era l’ottobre del 1967, credo, e tutto quello che fino ad allora avevo potuto immaginare del teatro, di colpo me lo trovai di fronte - come per miracolo - realizzato e incarnato nelle immagini arcaiche e frontali, nella prepotente realtà dei volti, nella barbarica sontuosità dei costumi dell’Edipo re pasoliniano. Mai avrei potuto immaginare che il testo di Sofocle si potesse realizzarlo in modo così anticonvenzionale, con dei volti così veri, ambientato in luoghi e con costumi così lontani dalle languide illustrazioni classicheggianti che adornavano mestamente i nostri libri di testo. Tutta la forza tragica del testo veniva fuori in modo mirabile. Mi stupiva la presenza di quei copricapo presi pari pari dagli affreschi di Piero della Francesca e posti su quelle icone straordinarie che erano i volti da idolo pagano di Franco Citti, Carmelo Bene, Alida Valli, Julian Beck, Silvana Mangano... E che emozione, quell’epilogo girato nel Portico della Morte di Bologna, tra gli autobus e le biciclette di un pomeriggio italiano degli anni Sessanta... Che emozione quel prologo che ambientava autobiograficamente negli anni Trenta un rapporto madre-figlio lungo le rive di un fiume costeggiato da lunghi filari di pioppi, in una campagna che pareva quella attorno all’Arno della mia infanzia... Silvana Mangano in quelle sequenze indossava leggeri abiti a fiorellini colorati come quelli di mia madre giovane e aveva nel volto la stessa giottesca dolcezza... Mi si rivelava il mistero del teatro inteso come proiezione di un mito arcaico nella quotidiana tristezza della vita, con i ritmi solenni e geometrici e con i costumi sontuosi e monumentali della pittura rinascimentale... Un mito che si incarnava in corpi e paesaggi di intensa, sensuale, vibrante fisicità... Ma vorrei ancora sottolineare la presenza in quel film di due attori come Julian Beck (nel ruolo di Tiresia) e Carmelo Bene (nel ruolo di Creonte). In un colpo solo mi si rivelavano tre aspetti che sarebbero stati determinanti e centrali nella mia storia d’attore: Pasolini, ossia il teatro di poesia; il Living Theatre, ossia l’identificazione del rinnovamento scenico con le utopie del teatro di gruppo e della rivoluzione non violenta; Carmelo Bene, ossia teoria e pratica della "scrittura scenica" da un lato e anarchica istanza individualista dall’altro. A corollario di questa rivelazione non posso fare a meno di ricordare due film di Federico Fellini che in quegli anni mi facevano impazzire: Toby Dammit e Satyricon, nei quali vi sono alcune strepitose scene di teatro: la "scena della premiazione" nel primo; l’esibizione di Vernacchio e il "numero greco" durante la cenaTrimalchionis nel secondo. Sulla dimensione tutta tragica del Pasolini di Edipo re, Fellini permetteva di stratificare un necessario quoziente di sbracata guitteria. L’idea di una maschera tragicomica, metafisica, lunare, malinconica e tuttavia con venature plebee; la suggestione del clown e del saltimbanco, del guitto e del fantasista, del comico dell’arte e dell’illusionista, del demone e del funambolo...

Quelli sono gli anni in cui si forma il primo nucleo di quello che sarà il Carrozzone.

Iniziò a formarsi un piccolo nucleo di compagni di scuola e di amici coinvolti da Federico Tiezzi attorno a idee, discussioni, fantasie e utopie teatrali. Tiezzi non si limitava alla letteratura e cercava dei possibili modelli di pratica scenica. Sicuramente fu lui a mettermi tra le mani la rivista "Sipario", che in quegli anni era diretta da Franco Quadri. Così potevo continuare a immaginare e fantasticare il teatro, adesso sulla base delle foto e dei resoconti sugli spettacoli pubblicati da "Sipario". Ne ricordo di bellissimi: certe recensioni oppure determinate immagini, come quelle degli attori del Living Theatre, costituirono una fonte struggente di fantasie, tanto più che ad esse si saldava una nascente insoddisfazione per l’ambiente ristretto, chiuso, conformista e intollerante della città. E’ chiaro che, anche attraverso la mediazione di "Sipario", ad attrarci subito maggiormente furono certe esperienze estreme, più che la tradizionale routine degli Stabili, anche se ricordo di essermi incantato a lungo sull’immagine di una Santa Giovanna dei Macelli di Strehler. Giocava certo anche la lontananza, e si delineava tutta una geografia dell’esotismo: Parigi, Wroclaw, New York... Ma come avremmo potuto raggiungere quei luoghi inarrivabili? noi studenti di provincia e senza una lira? Dunque sognavamo: e adesso sognavamo sulle immagini. Non ho visto i vari Faust o Akropolis di Grotowski, né The Brig o Mysteries o Frankenstein del Living, né Lo sguardo del sordo di Wilson, ma solo il fatto d’aver desiderato vederli su quelle foto e su quei resoconti me li ha resi mitici. E forse quelle immagini mi hanno segnato più di tanti spettacoli che poi avrei visto. Per una di quelle associazioni della memoria che col passare del tempo si fanno sempre più indissolubili, se penso alle foto di "Sipario" mi viene in mente un libro che in quegli anni fu una vera e propria Bibbia: Il segreto del Teatro No di Zeami, uno dei primi volumi pubblicati dalla neonata Adelphi. Anch’esso messo in circolo da Federico Tiezzi, aggiunse al quadro della mia idea del teatro un elemento in più: che non consisteva tanto nella apparente ritualità di quella drammaturgia, quanto nella intensa concentrazione lirica dei suoi testi. Quella concentrazione che mi faceva sentire attratto da autori che a loro volta si erano riferiti ai testi di Zeami: per citarne uno, Yeats, autore di quel Purgatorio che, scoprii anni dopo, aveva tanto appassionato il giovane Pasolini a Bologna negli anni Quaranta...

Aldilà di questi spettacoli "sognati", ci sono anche gli spettacoli effettivamente visti.

Hanno cominciato a capitare anche ad Arezzo alcuni spettacoli che si potevano andare a vedere. Ricordo una Monaca di Monza di Giovanni Testori con la regia di Luchino Visconti, che non mi entusiasmò particolarmente, nonostante desiderassi ardentemente e cercassi di trovare spunti per farmelo piacere: forse non avevo ancora gli strumenti critici per interpretarlo, forse mi accadeva quello che Proust racconta a proposito della sua delusione quando per la prima volta vide recitare la Berma... Non so cosa darei per poter rivedere quello spettacolo, oggi che so quanto abbia contato poi Visconti per la mia formazione e, addirittura direi, per la mia educazione sentimentale oltre che artistica... Film come Rocco e i suoi fratelli vanno oltre la loro natura cinematografica: non so quante volte l’ho visto, con l’attenzione spasmodica a carpire i segreti della recitazione di Katina Paxinou, grande attrice greca di tragedia mai vista a teatro per ovvie ragioni anagrafiche e dunque studiata solo al cinema (oltre che in Rocco, ne ricordo un "numero" mirabile in Mr. Arkadin insieme a Orson Welles... Dello stesso Welles ricordo le sublimi interpretazioni shakespeariane...). Mi parve subito molto bello, invece, in quel deserto teatrale, uno spettacolo di Patrice Chéreau su testo di Pablo Neruda, Splendore e morte di Joaquim Murieta, prodotto dal Piccolo Teatro di Milano nel ’68, credo, e che facendo poi tutto un giro di decentramento, che allora andava di moda, toccò anche il Casentino.

E’ a quel punto che è iniziata la vostra attività teatrale?

No, era già iniziata, con quel piccolo gruppo di compagni del liceo. Eravamo tutti pendolari: io arrivavo con un’ora di treno dal Casentino, a nord di Arezzo, mentre Federico veniva con un altro treno da Lucignano, a sud di Arezzo. Con lo stesso treno venivano anche Vera Bemoccoli e colei che avrebbe poi preso il nome di Marion D’Amburgo. Noi quattro avremmo fondato di lì a poco la nostra prima compagnia, Il Carrozzone. Tra ore di scuola, viaggi e ore da dedicare allo studio, l’unico momento di incontro poteva essere il sabato pomeriggio. Abbiamo cominciato così a riunirci ogni sabato nella ospitale casa di un amico aretino, Mario Cygielman, che poi sarebbe divenuto archeologo... Cominciammo a lavorare attorno a dei testi: A porte chiuse di Jean-Paul Sartre e Finale di partita di Samuel Beckett.

Che parti facevi?

Clov in Finale di partita, dove Federico faceva Hamm, naturalmente. In A porte chiuse, invece, facevo Garcin, mentre Federico si occupava della regia e i personaggi di Estrella e Ines erano interpretati rispettivamente da Vera e da Marion, che ovviamente non si chiamava ancora così. Questi spettacoli non sono mai andati in scena, ma quei pomeriggi di studio divennero il nostro primo vero impatto con il teatro dalla parte di chi il teatro lo fa. Questo avveniva ancor prima che io vedessi il mio primo vero spettacolo. Non avevo dunque alcun riferimento, alcun modello, alcuna prospettiva. Partivamo dal livello culturale che poteva fornire in quegli anni un liceo di provincia, come accennavo, a cui si univano però già dei testi extra-scolastici cui ci faceva approdare una certa inquietudine, una necessità di apertura e di ricerca. C’era poi quel margine di libertà, quel pizzico di sana follia che magari ci faceva ricercare una postura "giginosa" o un ritmo da banchetto funebre. E anche si cominciava a ricercare una lettura "politica" dei testi e delle cose... Uno dei primi libri che ci consigliò Simonetta De Marinis era l’indimenticata Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani...

Siamo in anni non lontani dal ’68...

Immediatamente prima e immediatamente dopo lo scoppio del ’68, che lì arrivò peraltro in ritardo. Ma evidentemente il clima era quello, tutto si legava. Sono quelle strane coincidenze per cui cominci faticosamente a capire che cose che sembrano così lontane tra loro possono avere un filo comune: cominci a intuire che gli affreschi di Piero della Francesca hanno una strana somiglianza con quel certo film di Pasolini, che a sua volta risale a Sofocle, mentre da tutt’altro versante un certo Living Theatre sta facendo una Antigone...

In quegli anni che cosa era diventato per voi il teatro?

Si identificava con un’attività e un impegno legati al vivere civile, al vivere sociale. In quegli anni per noi fare teatro - lo percepivamo oscuramente - era il modo per risolvere in chiave "politica" determinate aspirazioni di carattere estetico... Si respirava un’atmosfera di intensa politicizzazione al cui interno, ahimé, l’amore per la letteratura, la poesia, l’arte, veniva in qualche modo colpevolizzato, sospettato di estetismo, di disimpegno: il teatro costituiva il modo per conciliare questi diversi bisogni. Perché c’era comunque l’idea che con il teatro si potesse anche "cambiare il mondo", oltre che il teatro stesso.... A distanza di vent’anni, abbiamo scoperto che ci è già andata bene se riusciamo ad avere il diritto di portare avanti un modo diverso di concepire il teatro, e di ottenergli un diritto di cittadinanza. E purtroppo non siamo riusciti a cambiare né il mondo né il teatro.

Ma quello che ha fatto il Living e che colpiva voi e un’intera generazione, se non ha fatto la rivoluzione ha certamente influito sul costume, sui comportamenti collettivi...

E’ vero, la mia analisi è troppo negativa. Forse dipende dal senso di angoscia che mi provoca oggi la constatazione dello strapotere televisivo: allora la televisione non aveva tutta questa risonanza e anzi sembrava fosse destinata a un inevitabile declino. E’ proprio in quegli anni che il Living torna in Italia. Riuscimmo a raggiungere Urbino, dove si rappresentava Antigone. E fu veramente un colpo ritrovare tutto quello che si era studiato della tragedia e di Sofocle e di Nietzsche, ma così radicalmente trasformato di segno. Di fronte a noi non c’erano scene classicheggianti, né attori paludati, né costumi storici: c’erano dei ragazzi come noi - naturalmente un po’ diversi, perché loro avevano capelli lunghi, orecchini, jeans fioriti e gilé dai colori più strani, mentre noi eravamo ancora molto perbene, con le nostre camicine, le cravattine, i pantaloncini e ancora senza l’eskimo... Però sentivamo che, indipendentemente dall’aspetto esteriore così diverso, si dibattevano dei problemi comuni, che ci coinvolgevano molto da vicino. Era il 1969, l’ultimo anno di liceo, di cui con ansia attendevamo la fine. Con ansia guardavamo all’università, a Firenze, alla possibilità di fare teatro finalmente per davvero. La scelta era già fatta, insomma, anche se forse non ancora del tutto consapevolmente. Tra l’altro si erano già fatti degli spettacoli con montaggi di vari autori: Pasolini, Ginsberg, Pound, magari contaminandoli con Dante, Cavalcanti, Jacopone... E poi, come un segno del destino, ecco, inatteso, folgorante, da tuffo al cuore, l’incontro casuale... Doveva essere il giorno dopo il viaggio a Urbino per l’Antigone ed ero entrato in San Francesco con sottobraccio, tra i libri di scuola, il mio Longhi e le poesie pasoliniane della Religione del mio tempo. Stavo preparando per il professor Mogno una relazioncina su Piero della Francesca e con che sorpresa, leggendo Longhi, avevo trovato citati nella "Fortuna storica" del pittore, gli interventi poetici di D’Annunzio e Pasolini... Entriamo nel coro e ci appare la sagoma inconfondibile di Julian Beck. Restammo ad osservarlo in silenzio. Federico mi fece notare come gli si adattavano i versi con cui Pasolini descrive un giovane operaio che guarda gli affreschi: "Fa qualche passo, alzando il mento, / ma come se una mano gli calcasse / in basso il capo. E in quell’ingenuo / e stento gesto, resta fermo, ammesso / tra queste pareti, in questa luce....". Poi, più giù: "E sulle volte / ardenti sopra la penombra in cui stanato / si muove, lancia sospetti sguardi / di animale...", e ancora: "ma di lì già l’occhio cala, / sperduto, altrove...".

Quando ti presentavi le prime volte di fronte ad un pubblico, come ti sentivi?

Ero molto timido a quell’età ma, curiosamente, al momento di entrare in scena non avevo problemi particolari. Ero stato messo in guardia sul fatto che rischiavo di bruciarmi il rapporto con il teatro con un’uscita prematura o con un’esperienza insoddisfacente o frustrante, pericolosa... E invece con una certa incoscienza avevo preferito buttarmi senza troppi scrupoli... Questo è tipico di molti attori, che sono timidissimi nella vita privata mentre sul palcoscenico - cioè là dove dovrebbero scattare proprio tutte le timidezze e le paure anche per chi non è timido nella vita privata - invece si superano.

Si trattava di letture oppure...

Solo inizialmente erano semplici letture, ma c’era già a livello della scelta dei testi il gusto per quel tipo di contaminazioni tuttora operante al fondo delle nostre scelte: ancor oggi ci piace passare da Dante a Pasolini, da Manzoni a Testori, a Müller... Ci è sempre piaciuto ritrovare nei classici una parola vibrante di trasgressione... Ma ben presto Federico sentì l’esigenza di formalizzare in modo preciso anche l’elemento spettacolare. Ricordo un Discorso sulla guerra, messo su in un teatrino di Lucignano nell’autunno del ’68 o del ’69, dove c’erano già elementi di scenografia, di costumi, di attrezzerie sceniche, di musiche e di effetti di luce... Ricordo una Parabola dei Figli Disobbedienti al Teatro Dante di Ponte a Poppi, assai segnata dalla visione del Porcile di Pasolini, un Cantico dei Commedianti Colpevoli, nello stesso teatro, in cui gli attori entravano in scena citando ciascuno rispettivamente un qualche personaggio beckettiano. Ricordo anche le tormentate prove di uno spettacolo sul tema della libertà che poi abortì. Siamo nel passaggio difficile tra l’ultimo anno di liceo, la maturità e l’arrivo a Firenze; passaggio accompagnato e travagliato da crisi, rotture, incomprensioni e poi di nuovo ritrovamenti, entusiasmi, progetti, fughe, innamoramenti, paure, speranze, voglia di divertirsi anche... A Firenze avremmo ripreso in mano i brandelli di quello spettacolo, accorgendoci che qualcosa era cambiato: c’era stata come una metabolizzazione e tutto quanto prima era rigido, farraginoso e inconclusivo, adesso cominciava a filar via liscio. A posteriori mi rendo conto di ciò che era avvenuto: il salto dal piano dei contenuti a quello del linguaggio. Ne sarebbe poi uscito Morte di Francesco, che presentammo a Firenze in una galleria d’arte nella primavera del 1971.

Qual era la preparazione degli attori, per questi spettacoli aretini?

A suo modo coscienziosa ed estremamente selettiva nel trovarsi i punti di riferimento. Che per necessità erano tutti libreschi. Quando abbiamo iniziato a incontrarci nei pomeriggi di sabato, mi sembra fosse già uscito Per un teatro povero di Jerzy Grotowski. L’attenzione su quel libro era stata richiamata da un articolo su "Sipario" in cui si sosteneva - ricordo ancora - la maggiore capacità di coinvolgimento di una forma teatrale che apparentemente esclude il pubblico. "Coinvolgimento" era allora parola magica e la discussione verteva appunto sui metodi per ottenerlo: i due poli erano la provocazione diretta del Living e all’opposto la cerimonia rituale del teatro povero. La nostra preparazione attorale cominciò proprio così, provando a mettere insieme gli esercizi consigliati da Grotowski e quelli del Living. Si partiva dai libri, dunque: oltre a quello di Grotowski c’era quello di Barba, Alla ricerca del teatro perduto, e quello di Pierre Biner sul Living Theatre, dove veniva descritta tutta una serie di metodi di concentrazione. Mettevamo insieme cose diverse cercando di selezionarle. Poi, di testo in testo, si arrivò alle azioni fisiche di Stanislavskij, all’allenamento biodinamico di Mejerchol’d, a Vachtangov, agli esercizi ritmici di Dullin, a Copeau... Si cercava anche molto di scoprire tecniche e pratiche di tradizioni teatrali extraeuropee, principalmente giapponesi.

Per recitare Dante e Ginsberg, non so quale possa essere l’utilità di Stanislavskij o Grotowski.

Infatti, però era importante avere una base su cui cominciare a edificare se non altro quel minimo di sicurezza in sé per poter andare in scena senza eccessivi problemi. D’altra parte questi autori iniziavano a un tipo di training principalmente corporeo, o comunque legato ad una vocalità pre-testuale. Allora io ricorrevo a una mia tradizione di recitar poesia cui fin da ragazzo mi piaceva esercitarmi. La memorizzazione del testo poetico, ad esempio, cui avevo cominciato ad applicarmi prestissimo, era il primo passo per l’appropriazione di testi che amavo particolarmente. Poi veniva la loro recitazione ad alta voce. In ogni caso, pur se in maniera molto rudimentale, molto adolescenziale se vuoi, già ci rendevamo conto che al fondo di tecniche e pratiche e consigli molto diversi restava qualcosa di comune: la ricerca di una verità, il desiderio dell’attore di rendere vero quello che sta facendo. Riuscimmo a ottenere una chiesa sconsacrata ad Arezzo, e lì abbiamo lavorato e preparato gli spettacoli. Sulla base del materiale accumulato attraverso la pratica degli esercizi che via via ci adattavamo alle nostre esigenze e al nostro gusto, elaboravamo delle improvvisazioni tematiche spesso riferite a casi di cronaca quotidiana, altre volte a situazioni mitologiche. Ho letto recentemente una intervista a Carmelo Bene, molto bella, in cui alla richiesta di dare dei consigli ai giovani che vogliono fare teatro, lui risponde che la giovinezza è fatta per "studiare molto, bere, fare l’amore e marinare la scuola". Tutto questo accadeva in quell’ultimo anno di liceo, in cui, a parte il resto, appunto si studiava molto, ma proprio quasi in odio e in contrasto con la scuola e i suoi programmi ufficiali: anche questo credo sia stato un aspetto legato al ’68 e a quell’atmosfera. Come legato a quel clima era il desiderio di fuga che in quell’ultimo anno di liceo in cui molto più frequente si faceva il nostro impegno di esercizio, di lavoro, di incontri, di studio e di prove, stava diventando ossessivo. E finalmente arrivò il momento in cui si poteva fuggire, abbandonare quella cittadina bellissima ma chiusa e pettegola, provinciale e bigotta... Si poneva un problema: cosa si fa? Che strada si prende per poter continuare a fare teatro?

A Roma c’era l’Accademia. Che cosa vi spinse a non iscrivervi a una scuola di teatro tradizionale?

Provavo fin da allora una forte antipatia per l’Accademia. Erano anni in cui tutto quanto anche lontanamente ricordava l’idea del potere e dell’autorità mi appariva da rifiutare. In particolar modo riguardo al teatro, che coincideva per noi con l’idea stessa della libertà, il concetto di Accademia appariva in qualche modo un controsenso. Un’altra ragione è che, al fondo, mi rendevo conto che - dati il mio carattere, la mia formazione, i miei orientamenti culturali, i gusti, le scelte, le passioni estetiche e le visioni del mondo - all’Accademia mi sarei trovato malissimo e non avevo nessuna intenzione di rischiare di uscirne male, magari bruciato oppure indirizzato a un tipo di recitazione che francamente non mi piaceva e non mi interessava, o che magari mi poteva anche piacere ma comunque non mi interessava come modello. Perché va anche aggiunto che, malgrado certe preferenze precise per un determinato tipo di teatro, una volta arrivati a Firenze eravamo talmente avidi di teatro che andavamo a vederne di ogni tipo. E non avevamo nessun problema a trovare bellissimi anche spettacoli legati a certa tradizione. Mi tornano in mente come bellissimi certi spettacoli visti in quegli anni: un Nerone è morto di Trionfo con Franco Branciaroli e Wanda Osiris, un’Aminta di Cobelli, un’Anitra selvatica di Bergman, un Kleist di Peter Stein, Il principe di Homburg: andai a rivederlo per tutte e quattro le repliche, tanto mi aveva colpito, e ogni volta ero commosso da tanta bellezza e arrivai a spingermi fino al camerino di Bruno Ganz. Poi ricordo uno straordinario Faust-Marlowe-Burlesque, ancora di Trionfo, con l’accoppiata Branciaroli-Bene... Però quel teatro mi appariva inavvicinabile; non so perché, ma mi sembrava più facile avvicinarmi ad altre esperienze. E così si andava a Verona per vedere il kathakali o a Venezia per la Biennale del teatro giapponese, per Il sogno di una notte di mezza estate di Brook e per l’Orestea di Ronconi. A Spoleto mi ritrovai seduto accanto a Moravia, che di tanto in tanto si appisolava, a vedere una Medea di Serban recitata in greco... A Venezia si videro spettacolo incredibili non solo di No e di Kyogen ma anche di kabuki. E si seguirono con grande interesse i lavori, i seminari, le dimostrazioni, le proiezioni. L’idea della necessità di una perfetta fusione nell’attore tra voce ed espressione del corpo trovava nella teoria e nella pratica del kabuki la più splendida delle realizzazioni. E si approdava fatalmente a un’area di teatro in cui trovare non solo bellissimi spettacoli ma soprattutto i termini di una pratica in cui potersi riconoscere. In un’ala di Palazzo Pitti era attivo il minuscolo teatrino del Rondò di Bacco, con le sue costellazioni affrescate sulla volta, dove passarono in quegli anni gli indimenticabili spettacoli di Leo e Perla (’O zappatore, Sudd, King Lacreme Lear Napulitane, Avita murì), e Pirandello, chi? di Memé Perlini. Poi c’era l’Affratellamento, dove devo aver visto Carlo Quartucci e Carla Tatò con il "Camion", e gli spettacoli di Carlo Cecchi: Il bagno, ’A morte dint’ o lietto ’e don Felice...

Ma il teatro non era il tuo unico amore, il tuo interesse esclusivo.

Ero arrivato a Firenze avendo maturato negli anni aretini questi due grandi amori: il teatro e la storia dell’arte. Nei progetti c’era il teatro, però intuivo che la mia passione per la storia dell’arte non era conclusa, che aveva bisogno di consumarsi, e che se non l’avessi fatto allora, non l’avrei fatto più. Mentre invece per il teatro mi riservavo - ci riservavamo - un tempo più lungo, il tempo infinito quale è o quale ti sembra la vita quando hai diciott’anni. In seguito mi sono chiesto spesso perché non ho seguito i corsi di storia del teatro. E’ che avevo scelto di crearmi delle finestre in aree diverse. Per cui studiavo una cosa e contemporaneamente, fuori dalla scuola, per conto mio ne studiavo un’altra. E’ lì che nasce, per quanto riguarda il teatro, anche il bisogno di far diventare sempre più concreto e diretto quanto prima conoscevo solo dai libri. Allora, quando a Firenze capitava un’occasione di apprendimento, non ce la lasciavamo sfuggire (la prima fu uno stage di espressione corporea tenuto al Rondò di Bacco da Yves Lebréton, che arrivava in Italia con l’aura di aver lavorato con Eugenio Barba...). Lo spettacolo che poi Lebréton presentò a Firenze fu peraltro assai deludente. C’era in quegli anni spesso un equivoco che portava ad assimilare al lavoro sul corpo di tradizione grotowskiana o livinghiana, anche esperienze di mimo di un tipo che non mi interessava granché. Poi, tra la maturità e prima dell’università ci fu il rituale viaggio a Parigi. E una sera, camminando pigramente nell’oscurità di un lungosenna, ci sentimmo rivolgere la parola in italiano: "Siete italiani? Cosa fate? Perché non venite a trovarci, stiamo lavorando, facciamo teatro con Peter Schumann...". Così abbiamo passato due settimane in questo posto dove una sezione distaccata del Bread & Puppet abitava, provava, costruiva costumi, oggetti di scena e pupazzi e insomma metteva su uno spettacolo di cui ho dimenticato il titolo, uno spettacolo bellissimo che è stato l’antecedente diretto del nostro primo lavoro ufficiale: La donna stanca incontra il sole, che è molto segnato da questa esperienza. Eravamo a Parigi, giovani, senza soldi, e ci siamo trovati questa possibilità. La formazione dell’attore andava avanti così, in maniera estremamente avventurosa...

...un po’ casuale...

Ma a posteriori in questa casualità io trovo un filo, che evidentemente non risiede in una ghirlanda di esperienze, ma nel modo in cui le vivevamo. Riassumendo: i libri e gli esercizi di Grotowski, filiati da quelli di Stanislavskij e mischiati con quelli di Julian Beck che erano diversi, profondamente diversi ma avevano degli elementi in comune. L’incontro con Peter Schumann e il Bread & Puppet Theater. I vari seminari e stage più o meno interessanti a cui la memoria poi attribuisce maggiore o minore importanza, eccetera. E poi un paio di esperienze veramente forti - indipendentemente dalla strada che abbiamo poi presa e dal tipo di lavoro - a distanza di pochi mesi, intorno al ’73-74. La prima fu un seminario con Eugenio Barba che seguii nell’estate del 1973 in Puglia, la seconda fu la partecipazione di tutto il nostro gruppo ad uno spettacolo di Robert Wilson, a Roma. Comincia con queste esperienze una formazione concreta sui problemi del corpo e della voce. Fu sin dall’inizio una formazione composita, anche perché non mi volevo identificare totalmente con nessuna di queste esperienze, ma prendere da ciascuna quello che più mi serviva. Per Barba ricordo che arrivò una lettera di invito per un solo componente di un certo numero di gruppi; e per una serie di motivi andai io. Pochi mesi dopo Robert Wilson a Roma stava facendo uno spettacolo per la grande mostra di "Contemporanea", nel parcheggio di Villa Borghese Era il 1974. Lo spettacolo si chiamava A Mad Man, A Mad Giant, A Mad Dog, A Made Urge, A Made Face. Girava la voce che Wilson avesse bisogno di giovani attori disposti a fare questo lavoro senza essere remunerati, se non in cambio di un tetto e di un piatto caldo: ma c’era la possibilità di lavorare con lui per qualche giorno. Rispetto alla estrema complicazione di fare un allenamento partendo da esercizi desunti dai libri, il contatto diretto fu illuminante. Insomma cominciavo a capire come tutto fosse in realtà più semplice e nello stesso tempo più difficile. Il passaggio dall’astratto al concreto, dalla teoria alla pratica, illumina con estrema chiarezza i termini dei problemi e dunque mostra quanto è lunga la strada per raggiungere quella semplicità. In altre parole, facendone esperienza diretta, si capisce il senso profondo di ciò che ci si era affannati a decrittare dai libri: solo nel momento in cui, con la guida di un maestro, se ne fa l’esperienza con il corpo e non solo con la ragione. Naturalmente, è in contrapposizione alla razionalità e non alla mente che parlo di corpo, intendendo con questo termine l’unità psico-fisica di corpo e mente.

Queste informazioni sulle persone da contattare, sugli spettacoli da vedere, sui libri da leggere, dove le trovavate?

Per gli spettacoli, in primo luogo da "Sipario", che era una rivista molto bella in quegli anni. E poi mi è sempre piaciuto passare ore nelle librerie, a frugare nei reparti specializzati... Così, di libro in libro, di spettacolo in spettacolo, il cerchio si allargava, e ci si cominciava a muovere.

Ma in concreto, come siete entrati in contatto con il Bread & Puppet o Wilson?

Il Bread & Puppet è stato davvero un caso... Invece di Barba e Wilson eravamo informati... Su Wilson avevamo letto, proprio su "Sipario", alcuni articoli memorabili di Franco Quadri (La 24 ore di Robert Wilson, in "Sipario", n. 320, gennaio 1973 e Da Bob Wilson come K. al castello in "Sipario", n. 324, maggio 1973).

Però non avevate mai visto un suo spettacolo.

No. Ancora una volta, ritorna questo teatro immaginato...

Gli artisti che con cui hai lavorato, le esperienze che hai citato, sono molto diversi tra loro. Siamo in una fase molto particolare della storia del teatro, perché ciascuno dei maestri che hai nominato s’è fatto artefice di un’idea di teatro molto personale e completamente diversa da quella di tutti gli altri. Nella tua formazione, questo eclettismo l’hai vissuto come un limite o come una ricchezza?

Come una ricchezza. Ma soprattutto non lo vivevo come eclettismo: non era eclettismo. Era piuttosto il bisogno di allargare il più possibile il campo dei riferimenti di formazione. Così mi piaceva cercare quello che univa e non quello che separava il lavoro di questi maestri. Avevano dei punti in comune. E io cercavo le cose in cui credevo e che cominciavo a sbozzare: per esempio la grande importanza del lavoro d’équipe, il gruppo, il fatto che non ci può essere un exploit personale se non tiene conto della globalità dell’espressione, della collaborazione tra attore ed attore. E tutto questo Wilson lo raccomandava né più né meno di Barba. Tuttavia sentivo anche il bisogno di garantirmi uno spazio critico. In tutte queste esperienze c’era qualcosa che non mi sentivo di condividere fino in fondo. O meglio, in tutte trovavo un elemento che mi spingeva a cercare di equilibrare l’una con l’altra, e a tenere il più largo possibile lo spazio dei riferimenti. Era un po’ come nel caso della storia dell’arte: tenere una finestra aperta su un altro mondo. Certo è che le due settimane passate a Carpignano Salentino, per esempio, sono state fondamentali dal punto di vista dell’etica professionale. E’ lì che ho trovato per la prima volta, espresse in un sistema coerente, tutte le idee che fino a quel momento più mi seducevano di una visione del teatro come progetto di rinnovamento interiore e "politico". Forse in quel momento per me era più importante un’etica che non una pratica; era più importante definire il senso profondo da attribuire al teatro come lavoro e insieme ricerca, impegno, viaggio, analisi... La pratica era importante giusto nella misura di una forma di disciplina necessaria prima di tutto in quanto supporto di un discorso etico. In quel momento mi riusciva difficile mettere al primo posto la tecnica; o meglio non riuscivo ad accettare l’identificazione totale tra un tipo di allenamento professionale e una dimensione culturale. Sentivo il bisogno di relativizzare il senso di quell’apprendimento. Non riuscivo ad allinearmi con altri che - diciamo - si calavano completamente sotto l’ombrello del maestro. Mi pareva di vedere in ciò un atteggiamento di chiusura che mi spaventava: era come un rifiuto a diventare adulti o peggio un desiderio di seguire ciecamente le tracce di un Maestro... Non so... Io non ero completamente lì, qualcosa mi tratteneva: quell’adesione che comportava il rifiuto di tutto il resto, e la mitizzazione di quella sorta di universo parallelo che diventava il "gruppo di lavoro"... sentivo di non poterlo condividere.

Questa è però una critica che riguarda un atteggiamento culturale e psicologico. Mi interessava anche sapere se questa riserva coinvolgeva anche il tuo lavoro d’attore, sul corpo.

No, naturalmente no. Anzi, dal punto di vista dell’apprendimento professionale, del lavoro sul corpo, sulla voce, ma anche sulla propria interiorità come controllo consapevole delle proprie emozioni e delle proprie azioni-reazioni, il lavoro fatto in Salento è stato per me estremamente importante; altrettanto importante della dimensione etica di cui parlavo prima. Stavo solo cercando di spiegare in che senso, nonostante ciò, io non riuscissi a condividere l’atteggiamento culturalmente passivo in cui molti lo vivevano e che per me era un limite non accettabile. C’era insomma, pur nella radicalità estrema di quella esperienza, un aspetto positivamente formativo, che poteva essere assorbito per poi aprirsi ad eventuali altre esperienze con cui sommarsi, arricchirsi e integrarsi. Questo, in conclusione, è l’insegnamento maggiore che ne ho tratto. Ho preferito invece tenermi distaccato da quelle esperienze che esigevano un totale rifiuto di tutto quello che era diverso, di tutto quanto non rientrava in determinate coordinate culturali.

Ce n’erano alcune chiuse e altre aperte, per così dire.

Sì, ma spesso nella stessa esperienza si sommavano i due aspetti. Questo credo dipendesse più da come molti dei partecipanti ai vari corsi, seminari, laboratori eccetera, vivevano la dimensione dell’apprendimento. Voglio dire che c’era in giro un enorme bisogno di individuare delle guide, dei maestri cui delegare la propria energia, la propria giovinezza. Molti cercavano in fondo una sorta di mondo parallelo: può essere molto gratificante quando sostituisci al mondo vero un mondo dove ci sono altre leggi, una società con dei doveri e dei diritti. E’ curioso che tutti questi ragazzi in fuga dalla società perché oppressiva e antilibertaria sentissero poi in realtà il bisogno di approdare a situazioni molto strutturate, con criteri, valori, controvalori, precisi doveri, disciplina ferrea... Io, nelle due settimane passate con l’Odin Teatret, soprattutto ho potuto elaborare le coordinate ideali di un’etica del lavoro e apprendere alcuni strumenti tecnici fondamentali: era un lavoro talmente concreto che era inevitabilmente utilissimo. Nel lavoro con Wilson, invece, la libertà con cui potevi utilizzare certe tue caratteristiche, adattandole con un minimo accorgimento al progetto complessivo, mi sembrò molto interessante. Wilson dava indicazioni estremamente semplici ed era meno interessato alla fisicità dell’espressione corporea... Non so... E’ difficile insistere su questo argomento, perché è molto sottile la linea che separa la necessaria adesione incondizionata ad un sistema per potere fruire al meglio delle sue potenzialità formative dall’abdicazione a quel sistema di ogni propria autonomia critica. A me piace, quando faccio un’esperienza, abbandonarmi e farla fino in fondo: so di avere sufficiente distacco per conservare la mia autonomia. E poi è giusto andare fino in fondo a questi aspetti tecnici quando si è molto giovani per appropriarsene e poi un po’ dimenticarsene. Non mi è mai piaciuto il culto della tecnica né la smania di correre a imparare da tutti i possibili maestri...

Gli esercizi che avevi imparato in quelle due settimane, hai continuato a farli anche dopo, con gli altri membri del Carrozzone?

Sì, ma con un salto di qualità. Mentre prima tra i libri, ci si orientava con qualche difficoltà, il contatto diretto con quelle esperienze diverse ma parallele provocò immediatamente una forma di distacco, fornendoci gli strumenti per poter individuare e selezionare gli esercizi a seconda delle nostre specifiche necessità e intenzioni estetiche. Si allargava così la ricerca sui libri: da Stanislavskij siamo passati a Mejerchol’d, facevamo gli esercizi di biomeccanica. I nostri maestri erano tutti legati all’esperienza del rinnovamento teatrale e dell’avanguardia in Russia; perché contemporaneamente si leggeva Majakovskij, c’era sempre la ricerca di un aggancio in termini poetici oltre che fisici e concreti. Mi piaceva approfondire e risalire da un’esperienza all’altra cercando di individuare un filo che le unisse e a sua volta le collegasse a più ampi retroterra culturali. Vachtangov, o forse proprio Mejerchol’d, diceva che la scuola dell’attore si fa in parte studiando le tecniche, in parte passeggiando molto per strada e tenendo gli occhi aperti sullo spettacolo del mondo, sullo spettacolo della vita: "Andatevene in giro, viaggiate, entrate nei musei, interrogate i quadri, interrogate le statue, interrogate la vita che si svolge sotto i vostri occhi". E questo era appunto il nostro grande lavoro in quegli anni. Ma sempre con una sorta di ossessione che è tuttora la mia, di cercare le connessioni, di individuare i legami e le cose che uniscono... C’è un romanzo di Forster che io conto tra i due tre più belli e importanti del Novecento, Casa Howard, a cui l’autore ha posto in epigrafe il motto: "Only connect", "Devi soltanto fare delle connessioni"... Per me il massimo del piacere si dava quando riuscivo a trovare il punto originario comune di certi miei amori.

Come accennavi, all’inizio degli anni Settanta, a Firenze, Il Carrozzone ha iniziato a fare degli spettacoli, delle performance.

L’impatto con Firenze ci fece anche scoprire un aspetto dell’arte contemporanea - e l’incontro fu rivelatore - che ignoravamo. Eravamo entrati in contatto con un gruppo di artisti di Poesia Visiva grazie ai quali tra l’altro ottenemmo la Galleria Techne per presentare Morte di Francesco... Fu tramite Pier Luigi Tazzi, un critico militante molto legato a quelle esperienze e che poi entrò a far parte del Carrozzone dal 1977 al 1981, che cominciammo a seguire da vicino gli sviluppi delle tendenze più avanzate. C’erano in quel momento esperienze che abbattevano tutti gli steccati: il quadro usciva dalla cornice, da tutte le possibili cornici, ed esplodeva l’esperienza della performance. Per noi era estremamente interessante perché si trattava del corpo che si mette in scena. Le performance della scuola viennese in determinate gallerie, Hermann Nitsch con il suo "Teatro delle Orge e dei Misteri", Urs Lüthi con i suoi travestitismi, Arnulf Rainer, Gina Pane che si cospargeva di vermi costituivano l’allargamento di esperienze che avevamo già cominciato a metabolizzare sulla base del nostro lavoro, dell’osservazione, dello studio o della pratica diretta. Quello che ci colpiva in quelle performance era l’estremizzazione della presenza reale dell’attore con il proprio corpo: la performer che come Gina Pane si taglia le vene, dice l’ultima parola, la più estrema. Nel momento in cui tu ti rappresenti, fingi - ma nello stesso tempo fai qualcosa di reale e di concreto.

Quindi, per quanto riguarda il lavoro sul corpo, la performance radicalizza l’esperienza del Living Theatre o di Grotowski, e cambia anche la prospettiva.

L’allarga e conferma questa necessità di non chiudersi, di non credere di aver trovato la risposta definitiva. La risposta definitiva non la trovi: trovi delle risposte parziali e devi sempre stare con gli occhi aperti su quello che accade intorno a te.

In quegli anni a contare non è tanto l’opera ma il gesto, soprattutto nel momento in cui l’artista stesso si pone come opera d’arte. L’idea di considerare il proprio corpo un’opera d’arte viene forse più difficilmente a chi ragiona nella prospettiva del teatro.

Ed è anche curioso che l’idea dell’opera che diventa meno importante, a favore del progetto o del procedimento o del concetto, trovasse un’assonanza con l’idea barbiana (ma non solo) che lo spettacolo fosse meno importante del procedimento attraverso il quale ci arrivavi. Quest’idea resta molto affascinante: lo spettacolo è solamente una tappa, una fase, in cui chiudi per un momento, dentro una provvisoria cornice, il risultato di un processo di ricerca, di un percorso di lavoro, di un progetto in corso, e lo mostri. Perché va necessariamente mostrato a qualcuno.

Il lavoro che facevate all’epoca poteva perciò essere inscritto, oltre che nell’ambito del teatro, in quello delle arti visive. E dunque anche il lavoro dell’attore non era semplicemente quello dell’interprete...

No, consisteva anche nel capire, per esempio, perché e soprattutto come Joseph Beuys fosse riuscito a realizzare la celebre performance del coyote, quando era rimasto chiuso per non so più quanto tempo dentro una gabbia con un coyote, vivendo con lui, mangiando come lui eccetera. Si faceva strada in me anche un’idea assai allargata dell’attore: l’immagine di Beuys nella famosa performance del coyote, quando si presentava con il suo cappello sformato, il bastone impugnato dal sotto, un triangolo appeso al gilet e una coperta di lana militare nell’altra mano, resta per me l’immagine di un grande attore, e mi riporta sempre alla mente l’immagine altrettanto inquietante di Bernhard Minetti nel Faust di Grüber... Ora, porre attenzione al lavoro di Beuys e di altri artisti che lavoravano in quelle zone di frontiera, per me era importante anche dal punto di vista della formazione tecnica: a quel punto, non è più soltanto il problema di impostare la voce o dominare il corpo, ma anche quello, più profondo, di come affrontare delle situazioni estreme. Tutto questo naturalmente non avveniva seguendo un disegno programmato, ma seguendo l’istinto...

...e quello che succedeva in quegli anni.

Se vogliamo trovare un progetto, era solo quello di cui parlavo prima: "Tenete gli occhi aperti, costruitevi una tecnica, anzi mille tecniche, tutte le tecniche possibili, e desumetele dai campi più disparati di formazione possibile. E uscite in strada, entrate nei musei, andate al cinema...".

Hai già citato più volte i tuoi studi di storia dell’arte. Nel tuo lavoro d’attore, che importanza hanno gli storici dell’arte più attenti al teatro e alla rappresentazione, come Francastel o Zorzi?

Relativa. Ha influito di più Roberto Longhi, con la sua riflessione sulla pittura della realtà, che non va certo ridotta a un’opzione per il realismo contro l’astrattismo; era un discorso più profondo, legato a una pittura che avesse l’umiltà e contemporaneamente la straordinaria arroganza di rappresentare il reale, cioè di fare l’operazione più difficile del mondo, astrarre il reale per raffigurarlo. Per anni abbiamo studiato Longhi, la sua rivalutazione delle pitture del nord, delle scuole lombarde, padane, venete, rispetto al toscanocentrismo di certa visione della storia dell’arte. E’ difficile riportare questo lavoro alla formazione dell’attore: ma non sarei mai arrivato a fare Edipus senza avere ben chiara la derivazione longhiana delle scelte di Testori in quegli anni, e il fatto che Testori sia arrivato a usare quella lingua parallelamente al suo lavoro di storico dell’arte, alla sua riscoperta di determinati filoni dell’arte lombarda fino ad allora considerati marginali, come i Sacri Monti, Tanzio da Varallo e Gaudenzio Ferrari. C’è uno straordinario parallelismo con la lingua che parlano i personaggi della "Trilogia degli scarrozzanti", che viene concepita nello stesso nucleo oscuro in cui nascono la rivalutazione e la visione critica di Testori. E accanto a Longhi, mi piace fare il nome di Contini: la sua Antologia della letteratura dell’Italia Unita è per me uno di quei libri a cui sempre si ritorna. Di Contini mi ha sempre affascinato l’amore per lo stile, la passione per il linguaggio uniti però alla straordinaria capacità di individuare sotto stile e linguaggio il cuore palpitante delle cose, il substrato di esperienza di vita necessario a far sì che stile e linguaggio siano realmente raggiungimenti in cui si riassumono esistenze e non soltanto degli esperimenti formali. E accanto al nome di Contini mi piace aggiungere quelli di due altri grandi critici - Giovanni Macchia e Luigi Baldacci - che considero dei punti di riferimento costante. Mi piace questa loro dimensione del critico che non si limita a vivere di luce riflessa rispetto all’autore di cui si occupa.

Ma che rapporto hanno questi maestri con la tua pratica teatrale?

Grazie a queste letture e frequentazioni si è andata gradualmente formando in me nel corso degli anni un’immagine di regista che non limita il suo lavoro "al servizio" del testo e un’immagine di attore che a sua volta non limita la sua visione del teatro entro le coordinate di un regista che - di volta in volta o con continuità - lo dirige. C’entra nella misura di un modello che sfata il pregiudizio che la poesia vada cercata solo nei generi che tradizionalmente le sono deputati come sedi privilegiate... Così, il modello d’attore a cui mi piace far riferimento è, indipendentemente dal suo stile di recitazione, quello che si potrebbe definire attore-autore: quell’attore che non delega totalmente al regista o al nucleo a cui appartiene fino all’ultima scelta culturale, quell’attore la cui impostazione permette di superare la divisione tra l’autore e l’interprete. In altre parole mi rifiuto di credere che Riccardo Muti o Maria Callas o Carmelo Bene siano solo degli interpreti: li considero degli autori a tutti gli effetti, anche se si trovano ad operare entro un margine di creatività necessariamente più ristretto. E’ a questo modello d’attore che mi piace fare riferimento: un modello sicuramente riscontrabile anche nelle generazioni passate ma che negli ultimi vent’anni mi sembra si sia affermato con maggiore consapevolezza del proprio statuto culturale: rileggere oggi il Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini può aiutare a trovare i termini linguistici con cui un attore possa procedere nella consapevolezza di una propria dimensione culturale in via di sviluppo.

Finora abbiamo parlato quasi esclusivamente di quello che è successo "prima" del Carrozzone, prima del teatro...

Siamo arrivati agli anni Settanta. Il teatro non è più l’attività parallela di alcuni studenti ma diventa una professione. A quel punto inizia un’altra fase del lavoro. Tutto quello che avevamo studiato sui libri e messo in pratica tirandolo fuori di lì, quello che avevamo sperimentato con alcuni maestri, tutto questo - rimetabolizzato e sostenuto da un impianto teorico - si traduce in una proposta spettacolare. Immediatamente, e indipendentemente dall’esito di un determinato spettacolo, proprio nell’analisi della tua presenza di attore sulla scena, scopri che certe cose passano e altre non passano. Allora comincia un lavoro che è ancora più difficile da oggettivare, perché è tuttora in corso. L’abc della lingua ce l’hai, ma non si tratta più soltanto del risultato di un compito scolastico fatto più o meno bene.

Entri in rapporto col pubblico.

E di lì comincia il vero lavoro. A quel punto i maestri siamo noi stessi.

Avete iniziato a lavorare nelle gallerie d’arte prima che nei teatri. Questo implica, come abbiamo già visto, un certo atteggiamento: da un lato il performer è quasi protetto dalla sacralità che gli viene data dal fatto di essere un’opera d’arte, ma c’è una sensazione di rischio molto forte, determinata dalla possibilità del contatto fisico, diretto tra l’attore e lo spettatore.

Una delle prime cose con il pubblico l’ho fatta qui a Milano, forse nel ’71. Era in una galleria d’arte, una performace di Ketty La Rocca, un’artista fiorentina che operava in quell’ambito un po’ indistinto tra la body art, l’arte concettuale eccetera... Stava facendo un lavoro sulle mani, e aveva bisogno di alcuni attori, di alcune presenze fisiche: nel buio più assoluto venivano messi in scena solo dei rapporti di mani. Stavo lì con un partner e del nostro corpo non si vedeva nient’altro: solo le mani. Il pubblico era vicinissimo, a una ventina di centimetri. Esperienze come questa sono state importantissime: in una situazione del genere devi avere un tale controllo e un tale rapporto di vicinanza da non far passare troppo al pubblico. Devi essere più presente, e insieme devi ritirarti in un nucleo profondo di te stesso.

In quella situazione, sentivi anche il rischio che ci potesse essere una violazione dei tuo io?

Certo. Il palcoscenico tradizionale ti protegge perché ti mette dentro a una cornice. Ti isola e ti protegge. Invece in questi inizi ero proprio fuori cornice.

Dunque ha dovuto imparare in qualche misura a "tirarti dentro".

Sì, mentre tutto il lavoro fatto prima - e credo che sia il lavoro che si fa in qualsiasi scuola, alternativa o non alternativa, istituzionale o non ufficiale - era proprio quello di tirar fuori la propria interiorità, di esprimersi. Il giovane aspirante attore ha una sua interiorità e deve imparare a oggettivarla, oltre che a tirarla fuori. Non si tratta solo di liberare un’energia o una presunta spontaneità. E’ anche questione di tirar fuori delle energie scomposte per cercare di dar loro una forma, delle direttive. Per me la prima fase era stata tutta in uscita, poi c’è stata questa esperienza legata alla performance, che mira invece al controllo più assoluto.

Non sempre, perché se è vero che c’erano delle performance estremamente codificate, dove non era possibile sgarrare di un secondo o di un millimetro, ce n’erano invece altre basate su situazioni totalmente aperte all’improvvisazione, libere...

...dove si trattava di mettere in scena la sregolatezza assoluta, certo. Si andava dal gioco delle mani di Ketty La Rocca alle esperienze della scuola viennese, che peraltro in alcuni nostri spettacoli abbiamo fatto riecheggiare.

Dal punto di vista dell’attore questo doppio binario tra estrema codificazione e massima libertà, che cosa implica?

Provoca una dialettica estremamente feconda anche se lacerante. In quel periodo - siamo a metà degli anni Settanta - cominciava a diversificarsi la risposta individuale all’interno della compagnia. Cominciava a essere chiaro che ciascuno di noi andava più volentieri in una direzione piuttosto che nell’altra; quindi si stavano creando delle tensioni, fortunatamente mai negative. Per esempio, Marion D’Amburgo tendeva più a mettersi in gioco, fino all’estremo. Come dire: "Mi preparo con la massima cura. Tecnicamente, faccio tutta una serie di esercizi, di preparazioni, uno studio che dura anni, per arrivare al punto in cui programmaticamente spazzo via tutto, dimentico tutto e mi metto in gioco facendo un salto nell’abisso, nel vuoto". Nel ’76 a Cosenza, con Presagi del vampiro, ci fu la scelta di riproporre una variante di determinate performance di Gina Pane o dei viennesi: una scelta estrema, che non era legata solamente a un atteggiamento concettuale ma anche a delle sensazioni fisiche, a una certa preparazione... Io non mi sentivo in grado di reggere una cosa del genere.

Su questa strada, dopo Gina Pane che si taglia le vene, il passo successivo consiste nel tagliarsi il braccio o spararsi in testa. Il rischio è quello di imboccare un vicolo cieco.

E infatti c’è stato chi, come Schwartzkogler, è morto nel corso di una performance.

Tu eri più sul versante dell’uso sulla scena di quello che era stato fatto in precedenza, e della ripetibilità dell’evento.

Per quanto riguarda l’arte dell’attore, credo che tutte le culture del mondo abbiano in comune lo stesso problema: l’equilibrio e il dosaggio tra l’elemento razionale e quello irrazionale, tra l’elemento emotivo e il controllo culturale. Io cerco di mettere in moto tutta una serie di meccanismi emotivi, ma con il controllo continuo di una razionalità. Mi viene in mente una frase di Talma, il grande attore tragico francese: "Avere il cuore caldo e la mente fredda", che significa agire e nello stesso tempo (non so esprimermi in altro modo) guardarsi agire. Mi viene anche in mente quello che dice Zeami: "Muovere la mente di dieci decimi, muovere il corpo di sette decimi", emozionarsi ma rimanere nella sintesi espressiva un po’ al di sotto della totalità, padroneggiare con l’equilibrio della mente il movimento espressivo del corpo e della recitazione. Edipus è dimostrazione di questo, nel senso che solo una partitura precisata fino all’impossibile, ti può permettere la libertà dell’emozione nel momento in cui agisci e contemporaneamente il controllo dell’emozione agita. Lì dovevo addirittura affrontare il problema linguistico: imparare a pronunciare e a capire la lingua degli "scarrozzanti" di Testori. Mi era indispensabile una precisione quasi ossessiva. Se però tutta questa precisione - questa razionalità - non scatena degli elementi emotivi, resta fine a se stessa. E poi c’è il pericolo contrario, quando si lavora sull’emotivo: l’emotività va tenuta sotto controllo, altrimenti in scena presenta dei pericoli. E’ quello che abbiamo cominciato a imparare con i nostri primi spettacoli.

All’inizio lavoravate molto su improvvisazioni?

Moltissimo, fin degli anni aretini. Avevamo a disposizione solo un pomeriggio, sei-sette ore, non di più. Facevamo una mezz’ora di riscaldamento, poi due o tre ore di esercizi. Era Federico che componeva un pacchetto di lavoro, con grande precisione, e poi ci spiegava: "Oggi facciamo questi tre esercizi desunti dal libro di Grotowski e poi ci aggiungiamo un esercizio di biomeccanica che viene da Mejerchol’d". Alla fine c’erano le improvvisazioni, che partivano da una suggestione legata a Beckett o Eschilo, o magari dalla notizia di un quotidiano, da un fatto di cronaca nera. Su questo versante, rivelatore fu per me il lavoro sulle improvvisazioni che vidi fare a Carpignano dall’Odin. Noi dividevamo il lavoro in due fasi estremamente diverse, la prima rigorosamente legata a delle partiture, proprio degli esercizi, pura tecnica, e poi l’improvvisazione come liberazione di tutto l’inconscio, di tutto l’irrazionale...

Ritorna in un’altra situazione il metodo che il Carrozzone avrebbe poi teorizzato come "analitico-patologico-esistenziale".

Ma queste improvvisazioni restavano sempre un po’ frustranti, nel senso che non raggiungevo mai una totale liberazione e nello stesso tempo non sentivo un arricchimento, se non dei barlumi. Del lavoro di Barba sull’improvvisazione mi parve estremamente interessante l’attenzione posta al "dopo". Anche nel suo caso l’improvvisazione si dava come libera espressione di interiorità che si basa su strumenti tecnici preventivamente allenati. Barba dava un tema a un attore, cosa che nel nostro piccolo facevamo anche noi; e come noi questo attore costruiva l’improvvisazione utilizzando il lessico, la lingua metaforica gestuale e vocale che aveva elaborato negli esercizi. Ma la cosa diversa, veramente impressionante e difficilissima era un’altra: mentre l’attore faceva la sua improvvisazione, gli altri non solo dovevano guardarlo con estrema attenzione, ma dovevano prendere appunti - i più analitici, i più precisi possibile - su quello che veniva fatto. Il problema che Barba metteva in gioco era la capacità per l’attore che improvvisava di ricostruire in seguito nei minimi particolari la sua stessa improvvisazione. Cosa estremamente lenta, difficile, faticosa e scoraggiante in cui era di vitale importanza la collaborazione di tutti gli altri componenti del gruppo. Ad essi spettava osservare con estrema attenzione l’improvvisazione, prendendo appunti anche, per poi aiutare l’improvvisatore a ricostruirla. Perché l’improvvisazione abbia un senso, diceva Barba, perché serva effettivamente a qualcosa, l’attore deve essere in grado di ricostruirla: deve memorizzarla e ripeterla esattamente identica. Era un lavoro massacrante, innanzitutto per ricostruire l’improvvisazione, perché quando la fai non ti ricordi assolutamente niente; dunque gli altri, quelli che ti hanno visto, ti danno una mano: "Hai cominciato facendo così". Ma in quel momento capisci che, nel momento stesso in cui viene ricostruita, l’improvvisazione perde molto di quello che era legato all’emotività, all’inconscio e all’irrazionalità; quasi automaticamente, la ripetizione filtra tutti questi aspetti attraverso una griglia di rappresentabilità. Mi parve di capire che questo sforzo costituisse un esercizio assai importante sul filo del raggiungimento di un equilibrio tra emozione e razionalità, tra impulso e tecnica, tra percorso individuale e lavoro di gruppo... In quegli anni c’era chi teorizzava su questo aspetto, non solo in ambito teatrale. Mi ricordo per esempio il catalogo di Documenta, che alcuni amici mi portarono da Kassel nel ’72, e che guardai molto: mi aveva particolarmente colpito la sezione dedicata alle mitologie individuali, anche perché era un’idea molto legata a quello che succede in un’improvvisazione, dove fai passare delle cose estremamente personali, intimamente legate alla tua vita. E Barba ammoniva: "Attenzione, perché le cose personali vanno poi tradotte in una lingua comprensibile al pubblico". In quegli anni ero molto combattuto: la ragione e il buon senso mi dicevano che questo era l’atteggiamento giusto, ma sentivo anche la sirena di un déréglement, in cui cedere, abbandonarsi alla mitologia individuale...

Al flusso dell’inconscio...

Allora, in tutta la prima parte degli anni Ottanta, il problema del nostro lavoro è stato questo: come non censurare il proprio bisogno, il proprio desiderio di lavorare su una mitologia individuale, e nello stesso tempo fare in modo che questa mitologia individuale potesse arrivare al pubblico.

Che diventi un linguaggio...

Un linguaggio e una cultura. Senza cadere nella sottocultura, perché il rischio è sempre quello, quando ti muovi su una dimensione estremamente personale: quello di creare un idioletto.

E questo non è solo un problema individuale, dell’attore che improvvisa, ma è anche il problema del gruppo, nel momento in cui costruisce un suo linguaggio e una sua identità.

Ed era anche il problema di un’intera area, perché in quegli anni noi del Carrozzone non eravamo soli. Ma a un certo punto ci siamo resi conto che stava succedendo proprio questo.

Che stavate creando una lingua piena di senso per voi...

...e per un’intera area, ma solo per quella...

...mentre all’esterno questa lingua risultava completamente opaca.

Intraducibile, o meglio straniera. Quest’area era un microcosmo di attori, di gruppi, di spettatori, di critici, di sostenitori e di altri operatori artistici (architetti, disegnatori, poeti, musicisti, eccetera), ma era un universo chiuso.

E si arriva così alla stagione della post-avanguardia, che voleva recuperare all’interno del lavoro teatrale le tematiche della metropoli e del post-moderno. E’ il momento dell’uscita dal circuito relativamente protetto delle gallerie d’arte e del teatro di ricerca, la fase del confronto diretto con la realtà contemporanea. A questo punto, siete veramente sulle strade o nei panorami urbani, nelle discoteche. Ed emerge anche un certo tipo di gestualità.

Che non è più quella di prima ma che si nutre di quella. Il paesaggio metropolitano non significa solamente un’adesione a determinati elementi scenici, significa anche che l’attore deve fare un percorso per trasformare quest’adesione in tecnica.

Come è entrato in circolo questo aspetto, come ve ne siete appropriati? Quest’attenzione alla metropoli faceva già parte delle vostre vite o c’è stato bisogno di fare uno sforzo per portare questa dimensione all’interno degli spettacoli?

Di fronte al rischio di chiusura di cui parlavamo, c’era l’esigenza di aprire il più possibile, e questo implicava che non ci fossero più pregiudiziali: paradossalmente, lo slogan pubblicitario poteva avere lo stesso peso di un verso altissimo di poesia. Oltretutto non eravamo più nel ’68: era il ’77, c’era il terrorismo, la situazione era molto diversa. L’assunzione del paesaggio metropolitano implicava la rinuncia a qualsiasi protezione, a qualsiasi ombrello, aveva il senso di mettersi letteralmente sulla strada. E questo ha avuto un suo riflesso anche nelle tecniche che praticavamo.

C’erano dei gesti che prima erano per così dire off limits, censurati o non presi in considerazione, che a un certo punto sono rientrati in gioco?

C’era stata una semplificazione di tutta la terminologia, e quindi non ci piaceva più chiamarle né improvvisazione né training né allenamento né studi...

Ma avevate dei modelli?

C’era sempre questo processo quasi onnivoro, in cui i modelli li trovavamo da tutte le parti. In quel momento il modello che entra ad arricchire e a complicare il discorso è quello della nuova danza americana e soprattutto tedesca. In quel periodo in Italia si è scoperta Pina Bausch. Anni prima avremmo certamente provato a carpire qualcosa più da vicino, senza limitarci a vedere i suoi spettacoli. Ma a quel punto, con una decina d’anni di lavoro alle spalle, avevamo acquisito la capacità di mutuare velocemente dagli spettacoli che vedevamo quello che poteva esserci utile. Il fatto di poter ritrovare in un’esperienza lontanissima dalla nostra determinati risultati, che in qualche modo sembravano rimettere sul piatto tutti gli ingredienti che avevano nutrito un’idea del teatro, una pratica del teatro, la ricerca di alcuni maestri, il desiderio di lavorare con loro, era una conferma di grandissimo valore. Gli stessi ingredienti sui quali avevamo lavorato per anni venivano manipolati con una ricetta diversa, e il risultato era straordinario: gli spettacoli di Pina Bausch furono una folgorazione.

Avete mai fatto dei seminari o chiamato a lavorare con voi dei coreografi per acquisire dei dati tecnici di cui sentivate la mancanza?

No, era un rapporto più legato alla capacità di metaforizzazione della nuova danza, che aboliva tutta una serie di elementi esteriori legati al balletto per fare una ricerca in profondità sull’essenza del danzatore, una riflessione sull’idea stessa di danza. Il nostro desiderio era analogo: vediamo se riusciamo a costruire un attore diverso dall’attore tradizionale, così come il danzatore di Pina Bausch è diverso dal danzatore tradizionale, restando però profondamente danzatore. Quindi non ci serviva la pratica concreta con il coreografo o con il danzatore. In quanto attori, noi non volevamo diventare danzatori. Ma in quel momento la nuova danza sintetizzava una serie di aspirazioni e di interessi, mostrava la possibilità di lavorare sul linguaggio della danza come a noi piaceva si lavorasse partendo dal linguaggio dell’attore. In altre parole, era come se Pina Bausch fosse riuscita a compiere nel campo della danza, portandola fino alle estreme conseguenze, quella operazione di apertura e allargamento dei linguaggi che portava a realizzare un teatro che era e non era danza, che era e non era teatro, che era tutto e non era niente, che stava fuori dalle cornici ma contemporaneamente riusciva anche a riproporre le stesse cornici. Insomma era un’adesione culturale più che formativa in senso tecnico: Pina Bausch in quel momento era parte di una fase particolarmente felice e interessante della cultura tedesca: in questo senso conservo nel cuore come non meno importante la lezione del cinema di Fassbinder... Quando a Monaco nel 1980 Hanna Schygulla partecipò a una nostra performance intitolata Verso lo zero, o quando l’anno successivo a Colonia Fassbinder venne a girare alcune scene di due nostri spettacoli, Ebdòmero e Crollo nervoso, per il suo Theater in trance, fu di nuovo uno di quei momenti miracolosi in cui ti senti parte stessa di una connessione! E d’altronde credo che, da un certo punto in poi, è vano per un attore continuare a intignarsi nella ricerca di apprendimenti tecnici. E che sia più utile e formativo assorbire le "good vibrations" - per citare una canzone degli anni Sessanta dei Beach Boys - che emanano determinati personaggi straordinari.

Ricapitolando, nella storia del Carrozzone e nella tua evoluzione personale d’attore, per quanto riguarda l’educazione del corpo (perché fino a questo momento è di questo che si parla, la parola entrerà in gioco solo successivamente) abbiamo una progressione di scatti, di aperture: il primo viene dall’esperienza del training, che allena il corpo e gli dà un certo tipo di consapevolezza; un diverso tipo di consapevolezza e una tensione verso il limite viene dall’incontro con i performer; lo scatto successivo viene dall’incontro con il teatro-danza...

Torniamo un momento al ’70-71. Mi capitò di vedere uno spettacolo di un grande regista: uno spettacolo rivelatore, bellissimo e con attori molto bravi. Eppure non mi piaceva, non funzionava. Non riuscivo a capire perché, ma alla fine trovai la risposta: era una recita tirata via, alcuni attori non ci credevano, magari il regista era lontano, era domenica pomeriggio e del pubblico non gliene importava gran che. Per me fu illuminante e paralizzante: mi sembrava proprio il peggio che potesse succedere a un attore e a una compagnia. Fare uno spettacolo brutto, capita a tutti, non è la fine del mondo; ma avere la possibilità di produrre uno spettacolo come si deve, con denari, costumi e scene belli, con una buona regia - e buttarlo via in questo modo, mi sembrava la cosa peggiore. Allora, per reazione, provavo un’attrazione immediata per le esperienze e le situazioni in cui sentivo che al primo posto c’era invece proprio il credere profondamente in quello che fai. D’altra parte c’era naturalmente il pericolo di certe intransigenze o estremismi giovanili, che portano a considerare il teatro una missione quasi mistica e religiosa, mentre in realtà il teatro è solo un lavoro: ed è in quanto lavoro che esso deve trovare la propria dignità artistica. Però tutto sommato resta il fatto che le cose o le fai per bene o altrimenti puoi lasciar perdere...

Credo che tu ti riferissi a questo atteggiamento nei confronti del lavoro dell’attore quando, a proposito dell’Odin Teatret, accennavi all’etica del teatro.

Sì, mentre in quello spettacolo vedevi che ciascuno andava per conto suo, che un attore non rispettava l’altro... E in me nasceva un disagio profondo.

La differenza è tra il crederci e il non crederci. Anche se per un attore è difficile darsi tutte le sere la motivazione sufficiente. Forse quella sera c’era stata una replica molle...

Può capitare a tutti la sera con un calo di energia, la replica in cui ti senti depresso. Ma la replica in cui cinicamente te ne strafotti di tutto, quella non mi capita, o perlomeno cerco di evitarla. Credo che un’intera fetta del nostro teatro abbia combattuto e stia ancora combattendo contro un atteggiamento di quel tipo. Forse è per questo che imposto la mia performance scenica, sempre, su di una griglia matematica estremamente rigida: se il cuore, quella sera, vuole fuggirsene via dal palcoscenico, sarà la struttura che ho codificato a imbrigliarlo con la sua precisione e a riportarlo indietro. Per me allora era importante individuare anche dei "compagni di strada" un po’ più vicini, meno esotici. A portata di mano c’erano anche dei modelli che mi piacevano molto e che mi attraevano.

Hai già citato, proprio all’inizio, Carmelo Bene.

Indubbiamente, anche se Carmelo Bene restava un maestro impossibile, apparteneva a quella costellazione mitica: l’avevo visto al cinema da ragazzino, in Edipo re, e restava tutto sommato lontano, come Peter Stein. Con tutto che, a volte, certi maestri impossibili o lontani contano più di quelli vicini; ma allora in questo senso Carmelo Bene conta come Maria Callas o Totò o Chaplin. Sono una cosa diversa: qui si entra nel campo delle icone, delle grandi maschere teatrali attraverso cui ogni attore può e deve costruirsi una sua area di riferimento... Ma c’erano persone più vicine, direi quasi dei modelli di lavoro d’attore o con l’attore: a Firenze nei primi anni Settanta vidi anche Gabriella Bartolomei o Paolo Poli, Laura Betti o Lilla Brignone, negli spettacoli di Castri, con le scene di Maurizio Balò... Peccato che la mia timidezza di allora mi abbia impedito di avvicinarli. Ma non mi impedì di andare a incontrare Luigi Dallapiccola o Sylvano Bussotti, forse perché trattandosi di musicisti mi sembrava possibile e legittimo fare quell’operazione di apprendimento in campi paralleli che andavo perseguendo anche sul piano universitario frequentando i corsi e successivamente laureandomi in storia dell’arte. A questa dimensione appartiene anche il connettersi con alcuni pittori come Boetti e Schifano... Ricordo ancora ciò che mi disse Dallapiccola: è solo entro i margini di una prigionia che puoi trovare una vera libertà. Credo dipendano da quell’incontro gran parte delle mie riflessioni successive: la scoperta, per esempio, che il palcoscenico all’italiana sia, nella sua rigida codificazione, lo spazio della più assoluta libertà espressiva, basta usarlo definendone vettori energetici che non siano quelli tradizionali o dell’abitudine storica. Così è per il lavoro dell’attore: basta rovesciare e rovesciarsi... e naturalmente "solo fare delle connessioni". Mi ha aiutato molto in tal senso l’idea di Gordon Craig dello "spazio emotivo".

Una domanda che ti avrei fatto era proprio questa: perché hai lavorato sempre e solo con il Carrozzone-Magazzini, e con un regista che era sempre Federico Tiezzi?

Non saprei.

All’epoca c’erano schieramenti molto più netti e forse molti registi, di fronte agli spettacoli del Carrozzone, non riuscivano a immaginare quale tipo d’attore sarebbe diventato Sandro Lombardi.

In effetti ho cominciato a concepire il mio lavoro dentro il teatro in maniera specificamente attoriale molto prima che il mondo esterno se ne potesse rendere conto. Avevamo un approccio, un modo di mostrarci al pubblico nel fare gli spettacoli che probabilmente esibiva un modo d’essere attore che risultava inassimilabile in esperienze altre dalla nostra. Sono venticinque anni che lavoriamo, se contiamo anche gli anni dell’apprendistato giovanile. Ma ne sono passati appena dieci dall’uscita dalla fase dalle mitologie individuali. E sono state numerose le tappe attraverso le quali abbiamo periodicamente, ciclicamente sentito il bisogno di uscire dall’idioletto, perché ogni volta che vedevi il mondo chiudersi e aprivi una finestra o una porta, rischiavi di infilarti in un corridoio, di chiuderti in un vicolo cieco, e quindi bisognava nuovamente sfondare i muri, aprire porte e uscire. Anche l’impatto con l’orizzonte metropolitano, proprio nel momento in cui sembrava più aperto perché era condiviso da una quantità di gruppi, di persone, rischiava di ridursi a un cliché, a una moda, diventava una chiusura. C’era anche un altro rischio, che portava per certi aspetti nella direzione opposta all’estremizzazione della body art: alla fine quest’apertura rischiava di annullare la differenza tra quello che si faceva nell’ambito del lavoro teatrale e il mondo esterno. Rischiava di portare a un annullamento della capacità critica e dello specifico artistico. A quel punto Federico Tiezzi disse: "Non capisco perché dobbiamo continuare a nutrire i nostri spettacoli di letture, di poesia, di letteratura, di testi, senza riversare tutto questo sulla scena". Era come se ci fossimo creati una prigione con le nostre stesse mani: lavoravamo su Pasolini, su Genet eccetera, però al momento di fare lo spettacolo tutto questo restava solo nel retroterra sul quale avevi fatto l’improvvisazione - neanche dietro le quinte, solo nella base emotiva e culturale dello spettacolo. Allora ci siamo detti: "Va be’, ma allora, questa parola, diciamola, parliamola". E’ lì che nasce l’idea di teatro di poesia.

Al pubblico di tutto quel lavoro preparatorio non arrivava nulla?

Rischiava di non arrivare nulla.

Immagino però che quando avete deciso di usare la parola non solo come slogan o come materiale, si sia posto un problema gigantesco per l’attore.

Federico è capace di queste scelte improvvise e spiazzanti, che fanno parte del fascino di lavorare con lui, perché arrivano quando meno te le aspetti. Infatti il problema della parola me lo sono posto solo con Genet a Tangeri. Prima, in Crollo nervoso per esempio, per l’attore il sonoro era solo slogan, ritmo, pulsione, pulsazione, musica...

E per affrontare Crollo nervoso il training precedente si era rivelato sufficiente?

Era più che sufficiente. Poi, nel momento in cui ci siamo trovati di fronte alla parola nel suo senso più pieno, ci sono state due fasi: nella prima l’approccio era ancora mediato dalla mitologia individuale, nel senso che era Federico Tiezzi a oggettivarla nel testo; questa fase comprende la trilogia, Genet a Tangeri, Ritratto dell’attore da giovane e Vita immaginaria di Paolo Uccello.

In precedenza però già Sulla strada partiva da un vero e proprio testo.

Per me eravamo ancora nella fase di Punto di rottura e Crollo nervoso. In Sulla strada la parola restava materiale sonoro, e il nostro training era più che sufficiente. Nel momento in cui è arrivata la parola vera e propria, a cominciare dai tre testi di Federico, si è posto il problema. E io sono risalito semplicemente e molto naturalmente alle indicazioni semplici, elementari che Federico stesso ci dava nella fase embrionale, arcaica della nostra formazione, quando leggevamo delle parole alte. Ero già stato di fronte a un pubblico a leggere Dante o Jacopone da Todi o Ginsberg o Pasolini, e mi sono rifatto a norme semplicissime, mutuate dagli anni in cui studiavo la metrica latina o greca. Fin da allora avevo molto chiaro il fatto che prima di tutto un testo bisogna leggerlo per come è stato scritto. Questo è particolarmente vero per un testo poetico, che mette in campo due piani ben diversi: quello che si dice e il modo in cui lo si dice. C’è una famosissima frase di Valéry: "La poesia è un’esitazione prolungata tra il senso e il suono". Soprattutto se studi gli autori classici (Eschilo, Sofocle, Euripide, Terenzio, Menandro, Seneca eccetera), tutto questo l’hai ben chiaro: ti rendi conto che la tragicità di quello che ti comunica la Medea di Seneca passa certamente per quello che accade a quella signora che uccide i suoi figli; ma passa soprattutto attraverso una situazione metrica martellante dall’inizio alla fine, attraverso la scelta di alcuni metri particolarmente cupi, ossessivi, perché Seneca non sceglie l’esametro ma il senario giambico, un metro molto duro. Dunque mi era molto chiaro che di fronte a un testo poetico la prima scelta da fare è quella ritmica: e proprio lì è cominciato il lavoro sul teatro di poesia, un approccio alla parola che parte dai ritmi quasi biologici che certi versi hanno e comunicano. In quegli anni c’era tutto un lato in ombra, del nostro lavoro, che poi si è rivelato utilissimo: abbiamo fatto dozzine e dozzine di letture, là dove non era possibile portare uno spettacolo vero e proprio, perché tecnicamente o economicamente o organizzativamente non si poteva fare. Così mi sono macinato Pascoli, Dante, Manzoni, Pasolini, Saba, Luzi, eccetera. Ho recitato anche dei brani di prosa critica di Roberto Longhi... Poi è stato sufficiente tradurre nello spettacolo tutte quelle esperienze.

In quegli anni, tra i Settanta e gli Ottanta, c’è stato un vero e proprio boom in Italia, quasi una moda, delle letture di poesia fatte dagli stessi poeti.

O anche da attori. Carmelo Bene faceva cose sublimi.

Questo ha in qualche misura influito sul tipo di lavoro che avete iniziato a fare o era una concomitanza casuale?

Più delle letture dei poeti, ha influito Carmelo Bene che recitava Leopardi o Majakovskij, Hölderlin o Campana.

Che cosa era importante nel modo in cui Bene leggeva i versi?

Rispettava la lingua poetica. Sembrava che facesse grandi trasgressioni ma in realtà rispettava i ritmi, sapeva riconoscere un endecasillabo da un settenario o da un ottonario, e quindi li leggeva come tali, mettendoci poi dentro tutta la sua carica, tutta la sua personalità creatrice. Perché di questo si tratta: di arrivare finalmente a considerare "autore" non solo il drammaturgo o, al massimo, il regista, mentre attori, cantanti o danzatori sono al massimo gratificati dell’epiteto di essere dei "grandi interpreti". Maria Callas che canta Medea o Norma, Violetta o Tosca non è solo un interprete, come non è solo un interprete Riccardo Muti o Wolfgang Sawallisch. Mi auguro che si arrivi prima o poi a superare questo pregiudizio. D’altronde anche l’attività del regista è stata solo da pochi decenni affrancata dalla dimensione di interprete dell’autore. E’ un retaggio di una impostazione idealistica dell’estetica che, nonostante tutto, è stata ereditata anche in ambito marxista o strutturalista. Non vedo perché il lavoro dell’attore debba essere considerato meno creativo di quello dello scrittore o quello del cantante meno di quello del compositore. Si tratta solo di avere degli spazi di manovra sempre più ristretti, sempre più condizionati, ma non per questo la libertà espressiva che all’interno di quei limiti l’attore può trovare, deve essere considerata qualitativamente inferiore o di lega meno pura. Tornando al verso, ad esempio il nostro lavoro quinquennale su Dante si è mosso su questa linea: trovare l’individualità, il modo assolutamente individuale di dire quei versi, rispettandoli. E’ chiaro che non basta rispettare gli accenti: diventerebbe tutto molto monotono, sempre uguale. Allora è necessario trovare dentro il verso gli elementi poetici, cioè i mattoni con cui si costruisce la poesia, aldilà dell’idea poetica. Perché quest’idea poetica s’invera attraverso delle concretezze, che sono gli strumenti della poesia: le allitterazioni, gli enjambement, le dissonanze di ritmo piuttosto che le consonanze; allora si tratta di scendere il più profondamente possibile nel testo poetico. Anche in questo caso ci sono due percorsi possibili. Prendiamo per esempio Dante, il canto del Conte Ugolino, che è uno dei più tragici dell’Inferno, dei più drammatici, dei più estremi. Quello che vi si racconta può spingere l’attore ad adottare dei ritmi, delle intonazioni, delle inflessioni che rendano giustizia di questa tragicità, con un’immedesimazione di tipo psicologico con il personaggio. Però si può partire anche da un altro punto di vista: cominci a scoprire che quel canto, rispetto ad altri, ha una prevalenza di gruppi consonantici estremamente stridenti, che ha un’insistita metaforizzazione sui cani: si parla continuamente di bestie che latrano, del fatto che Ugolino nel sogno si sentisse straziare il fianco dai cani eccetera. Poi ricordi anche che Ugolino si trova in una posizione particolare, che ha il cranio completamente bloccato dai ghiacci, e quindi ti chiedi come possa parlare. Allora capisci che puoi arrivare a un risultato analogo, o addirittura migliore, se percorri queste due strade parallelamente e poi fondi i due risultati, senza mai dimenticare gli elementi concreti con cui l’autore crea quel senso di angoscia. Se ti cali nel personaggio solo dal punto di vista psicologico, la tua interpretazione resta l’ombra di un’ombra. Rischi di non avere fiato, perché non ti è chiaro come ci sei arrivato. Invece devi scoprire come ci è arrivato l’autore, e cercare di seguire un percorso analogo. Questa idea dell’analogo riprende quella di Longhi. Aveva questa ossessione della traduzione. Che cosa gli piaceva in Piero della Francesca, in Caravaggio, nei seicentisti lombardi-padani? Gli piaceva quella capacità di tradurre il mondo ricreandolo attraverso un sistema di segni, di linguaggio, di lessico, di valori: un sistema autonomo e tuttavia completo. E che cosa faceva Longhi per raccontarci tutto questo? Un’operazione analoga alla traduzione: basta leggere come Longhi descrive Caravaggio o Piero della Francesca. E’ un’operazione in cui lui, a sua volta, ricrea con la lingua quello che quei pittori avevano creato con la pittura della realtà. Alcune descrizioni di Longhi sono di una bellezza che eguaglia quella del quadro che descrivono. Nel lavoro dell’attore, se ti limiti a esprimere la parte psicologica senza compiere quest’operazione di traduzione, rischi di cadere in tutta una serie di cliché. Anche se ovviamente questa analisi del testo va fatta senza dimenticare l’aspetto psicologico.

Altrimenti l’interpretazione diventa meccanica.

Cadi nella meccanicità, in un automatismo, in una serie di rigidità, di vincoli. Non è che per recitare il canto di Ugolino bisogna abbaiare dall’inizio alla fine!

In questo tipo di lettura vengono in ogni caso messi in gioco diversi elementi. E’ una specie di scavo geologico: ci sono elementi ritmici e di colore vocalico e consonantico, ci sono elementi legati alle metafore utilizzate nel testo, e ci sono elementi che riguardano la postura del personaggio o della voce che sta parlando in quel momento. E dunque ogni operazione di lettura diventa automaticamente un’interpretazione critica.

Questo vale per Dante come per qualsiasi altro testo. Lo stesso procedimento l’ho utilizzato per Come è, quando mi sono trovato di fronte al testo di Beckett. Vivaddio in Beckett non c’è psicologia, non esiste il personaggio: solo una voce che parla. Ma da qualche parte bisogna cominciare: e allora, dove’è questa voce? E si comincia a intuire che è nel fango, e quindi sarà una voce di un certo tipo. Si intuisce che è immersa nell’oscurità, che ci sono solo dei barlumi, non si capisce chi sono i suoi vicini... E comincia a prendere forma questa metafora straordinaria, dantesca: non a caso la visione beckettiana, in quel periodo, è profondamente segnata da Dante.

Torniamo a Genet a Tangeri. All’inizio del secondo tempo dello spettacolo, entravi in scena e recitavi Pour en finir avec le jugement de Dieu di Antonin Artaud: un brano basato evidentemente sulla registrazione radiofonica dello stesso Artaud, della sua voce inconfondibile, che tu riprendevi con straordinario mimetismo. Per un attore dev’essere stato un esercizio formidabile.

Nella trilogia citavamo alcuni maestri impossibili, e tra di essi c’era per l’appunto Artaud. Per quanto riguarda la mia esperienza d’attore, sento con grande intensità la seduzione di un lavoro estremamente umile e banale, che potrebbe essere l’equivalente di quando ci facevano studiare le poesie a memoria, da bambini: è bellissimo, anche se non capisci cosa vogliono dire, le memorizzi così come sono e creano tutto un mondo. Ecco, periodicamente avverto il bisogno un po’ infantile di fare questo lavoro di mimesi assoluta. Ho semplicemente provato a imitare quel nastro registrato. E’ un lavoro in cui entrano in gioco tutte le tecniche. Utilizzi quello che sai già fare; e quello che non sai, cerchi una strada per arrivarci. Non è molto diverso da quello che ho fatto nella prima fase del lavoro su Edipus. Era un lavoro molto concreto, pratico: pronunciare una lingua che non era la mia, pronunciare una lingua di poesia, perché quella di Testori è una lingua di poesia. Non è un dialetto, ci tengo a sottolinearlo: è una lingua di invenzione che si proietta e trae le sue radici in un dialetto. Nella prima fase ho semplicemente sgombrato il campo da tutti i problemi di carattere psicologico, estetico, storico, da tutte le possibili scelte di regia. Come un bambino che manda a memoria una poesia, ho semplicemente dovuto imparare una lingua.

Nel caso di Artaud non si trattava solo di mandare a memoria un testo ma di calarsi nel corpo che quel testo ha pronunciato: un corpo che ha una storia assoluta, profondissima e irripetibile. Solo Artaud, probabilmente, avrebbe potuto sopravvivere a tutte quelle sofferenze fisiche e psichiche, fino al momento in cui ha pronunciato quel testo.

Certo, io non posso affermare di aver ripercorso su di me, sul mio corpo, quella storia. Ma è vero che in certi casi si tratta di calarsi dentro un corpo... E’ il linguaggio che ti viene in aiuto a quel punto: per me attore si apriva solo la possibilità di "comprendere" fino in fondo un testo, quel testo; laddove comprendere non significa solamente capire con la mente ma rivivere con tutto l’insieme psicofisico del proprio essere. Il linguaggio diventa allora il luogo geometrico dove si incontrano due esperienze: quella dell’autore, che appunto affiora sul linguaggio da tutta la profondità del suo vissuto, e quella dell’attore che, attraverso la decodificazione del linguaggio da un lato si avvicina a comprendere l’esperienza dell’autore e che dall’altro, per mimesi, è condotto a ricercare in sé, nella propria esperienza esistenziale, nella memoria del proprio corpo, schegge d’esperienza almeno in parte assimilabili a quella, unica e irripetibile, dell’autore. Inteso in questo senso, si potrebbe forse anche recuperare il vecchio concetto di "immedesimazione", non ti pare?

Lavorando su quel brano, hai capito qualcosa in più di Artaud?

E’ un piano di comprensione diverso, più profondo. Nel momento in cui si pone il problema di come dire un testo, un verso, una battuta, di come far sì che il senso profondo di quel testo arrivi per tuo tramite a chi ti sta a sentire, si apre la necessità di attingere ad una verità; non si può barare con se stessi. E’ solo allora che un attore capisce definitivamente un testo: perché lo vive, perché lo deve vivere. Questo accade soprattutto con la poesia: più è alta più senti la differenza; ma accade comunque, con qualsiasi tipo di testo. Mettersi di fronte a un testo, e pretendere di stabilire razionalmente un determinato lavoro su un gruppo di versi o su alcune battute, conduce in genere a un punto in cui non è più sufficiente un approccio razionale. Mi è difficile spiegare quello che succede: ma so che devo avere la pazienza di aspettare che qualcosa, dentro, lavori un po’ per conto suo, indipendentemente da ciò che si intende e si desidera fare. E’ qui che il bagaglio globale di un attore fornisce alla parte inconsapevole un materiale sul quale lavorare. Però - ripeto - si arriva a un momento oltre il quale non si va. Io non ho parole per descrivere questo processo, o forse non ne trovo nei limiti della razionalità. E’ una zona di attesa e di silenzio in cui, in sostanza, si aspetta che arrivi una sorta di illuminazione. Non passivamente, certo: si tratta di un’attesa attiva, di un atteggiamento di estrema ricettività. In altre parole, non si tratta di aspettare che l’ispirazione ti cada nel piatto, ma di favorirne l’arrivo sollecitandola, macerandola, mettendola continuamente in moto, provando a cercarla nei luoghi, nelle situazioni e nelle dimensioni più strane, più particolari. E qui resta evidente come il bagaglio culturale che un attore si costruisce e si porta appresso non costituisce solo un optional in più alla sua figura professionale, quanto la base consapevole su cui far interagire le proprie risorse inconsce. Qui bisogna stare molto attenti perché ci possono essere delle scorciatoie pericolose. Stuzzicare la parte più profonda di noi, anche andando per esempio a risvegliare determinate zone di dolore e di sofferenza per poter ottenere una risposta emotiva, può essere pericoloso.

In che senso?

A differenza degli altri artisti che hanno i loro strumenti - lo scrittore le parole, il pittore i colori - l’attore usa se stesso: il proprio corpo. Ma il corpo non è fatto soltanto di ossa, di carne, di sangue, di energie: è una psiche, è la memoria biografica dell’attore, e quindi è la sua vita, è il suo attraversamento del mondo, sono i suoi amori, le sue infelicità, i suoi dolori, le sue sofferenze.

E allora perché non tirarle fuori nel momento in cui sarebbero necessarie?

Certo che bisogna tirarle fuori, ma fino a un certo limite, o meglio si può andare anche molto a fondo ma stando bene attenti a farlo seguendo una strada appropriata. E’ evidente che l’attore deve proprio allenarsi a scendere dentro di sé, a conoscersi il più a fondo possibile, a trovare il modo di aprire un varco entro la sua psiche per attingere ad una sua profonda verità da comunicare successivamente al pubblico. Ma deve farlo seguendo delle precise tappe lungo questa sorta di percorso di conoscenza. Ci vuole l’umiltà di affidarsi o a una guida oppure al proprio senso dei limiti per evitare la seduzione della scorciatoia. E’ difficile spiegarlo. E’ come se ci fosse una corrispondenza, stretta e un po’ misteriosa - che ogni attore impara prima o poi a conoscere e a sperimentare su di sé - tra la psiche e l’apparato fonatorio. L’apparato fonatorio ha uno spettro di note che vanno da quelle alte e anche altissime (la voce di testa, il falsetto) e all’estremo opposto delle note basse, profonde, e che possono andare sempre più in profondità. Tecnicamente si impara ad utilizzarle con maggiore o minore abilità. Fin qui nessun problema. Ma a volte mi è capitato di accorgermi che per ottenere certi effetti mi stavo spingendo troppo nel profondo. La cartina di tornasole che mi faceva la spia di questa operazione errata era proprio la voce che a quel punto mi veniva fuori: esiste una zona molto profonda della voce che puoi toccare e tirar fuori, un po’ bruttina, un po’ sporca, che ti avverte che stai rimestando troppo nel profondo. O meglio, significa che per arrivare in quella zona, non ho compiuto i passi psicologici giustamente graduali ma ho imboccato delle scorciatoie... Insomma, la cosa non mi è del tutto chiara, ma percepisco qualcosa di torbido e allora mi affido al mio istinto che mi dice che si tratta di una zona in cui preferisco non spingermi...

Simmetricamente, andando verso l’alto, succede la stessa cosa?

Andando in alto, c’è un punto oltre il quale non puoi andare, per limiti fisici. Ma in alto non c’è questa zona d’ombra: c’è semplicemente un punto in cui, se vai ancora più su, non ti sente più nessuno.

Per cui si tratta di un limite oggettivo. Mentre andando verso il basso, il limite te lo poni tu stesso.

Anche andando verso il basso, ci sarà un limite oggettivo: più di tanto non vai giù. Ma prima c’è una zona in cui sento che la voce è troppo sporca. Per banale che possa sembrare, l’analogia è questa: nel rimestare in zone profonde della psiche, preferisco comunque fermarmi a un certo punto. Al di sotto, c’è evidentemente un’ulteriore profondità: ma scendendo ancora, diventa un’analisi del profondo, non è più una professione. E sul palcoscenico, per avere un rapporto dialetticamente maturo e lucidamente laico con il teatro - anche se la mia concezione del teatro è tutta intrisa di sacralità, di religiosità - non è legittimo andare a toccare zone troppo profonde. Non sarebbe corretto nei confronti dell’attore, e nemmeno nei confronti del pubblico. Abbiamo già visto, con la body art, dove possa portare questo atteggiamento.

Di questo parlavamo, quando dicevi che Marion D’Amburgo portava al limite estremo la presenza dell’attore.

Io invece a un certo punto mi fermo. Mi impongo un limite che mi ha fatto fermare su tante strade: quella della body art, ma anche quella di certe esperienze di teatro di gruppo, che hanno scelto l’opzione di una ricerca nel profondo a tutti i costi... Questa non è una critica, né un giudizio. Semplicemente, mi fermo un momento prima, perché penso che l’arte sia anche artificio, sia anche gioco, nel senso più alto che vogliamo dare a queste parole. C’è sempre la consapevolezza di impegnarsi il più profondamente possibile, ma c’è un limite. Alcuni lo saltano, ed è capitato anche a me. Il brano di Artaud era uno di quei casi in cui si utilizza una voce che normalmente non si utilizza, o che per lo meno io cerco di non utilizzare. Nell’Edipus - per motivi tecnici, legati a un testo in cui faccio diversi personaggi e quindi ho l’esigenza di differenziare il più possibile le voci - Laio ha una voce profonda, Iocasta invece molto alta. Oltretutto con la pratica di palcoscenico, allenandosi giorno per giorno, la gamma si allarga. Ma a un certo punto mi fermo. Non mi va di toccare sfere che devono, per pudore, rimanere private. Ci sono zone di intimità che non mi va di esibire, per rispetto mio e dello spettatore.

A questo punto nella storia del Magazzini entra in gioco un elemento che abbiamo appena sfiorato: la costruzione del personaggio, di cui il teatro di poesia poteva per certi aspetti fare a meno.

Non è che ne faccia a meno, ma lo esaurisce nell’espressione. Nel lavoro sulla parola non esiste personaggio al di fuori dalla battuta, al di fuori del verso con cui il personaggio si esprime.

E con il personaggio, entra in gioco un aspetto che finora avevamo messo in secondo piano: la psicologia. Su questo versante, come hai iniziato a lavorare?

Parto dall’idea che il personaggio non sia qualcosa di astratto. Leggo il testo, lo rileggo, lo studio, comincio a notare certi aspetti, certe possibilità di interpretazione. Poi c’è la regia, che mi propone un suo disegno, all’interno del quale il lavoro dell’attore ha uno spazio sempre molto piccolo, molto marginale. Ma è proprio questa sua marginalità che mi affascina, perché la libertà dell’attore sta in margini strettissimi. Tornando al personaggio, sento comunque di appartenere a quella categoria di attori che tendono interporre una propria maschera tra sé e il personaggio. In altre parole, non amo l’idea dell’attore che si immedesima totalmente nel personaggio, anche se non mi identifico neanche con chi nega ogni legittimità all’idea di personaggio: diciamo che mi piace l’attore che si tiene sempre presente, più o meno discretamente, accanto al suo personaggio, e che in scena dialoga con esso in una dialettica continua tra i due poli. Per fare ciò, è chiaro che un’idea del personaggio bisogna comunque farsela. Lì un attore corre il suo rischio: deve percorrere una strada molto stretta, avventurarsi lungo quel sentierino che ha al fondo un lumicino, ma in fondo in fondo, a cui affidarsi. Deve restare su un crinale di perfetto equilibrio tra l’uscire da sé e il rimanere contemporaneamente dentro se stesso. Quando si ragiona in termini di psicologia del personaggio, si corre il rischio di costruire un insieme di coordinate che funziona sulla carta, astrattamente. Mentre funziona realmente solo se lo fai passare dentro il tuo corpo. A volte un attore può dire: "Questo personaggio è talmente diverso da me che non posso farlo dentro le coordinate del mio essere attore. Devo uscire da queste coordinate, devo fare uno sforzo ulteriore per conquistare delle coordinate diverse". Apparentemente questo sembra lo scopo di ogni autentico attore, ma non è del tutto vero. Naturalmente l’attore esce sempre da sé, per fare i vari personaggi. Eppure, dopo aver fatto Laio e Iocasta, o Dante o il Padre nel Porcile, e rivedendoli dall’esterno, mi rendo conto che facendoli esco da me, ma nello stesso tempo utilizzo solo ed esclusivamente le mie capacità, non vado a cercarne altre.

Forse il personaggio con cui hai avuto maggiori difficoltà è stato Adelchi...

Non saprei: al tempo delle prove io ero molto convinto di una impostazione da melodramma storico, in linea peraltro con l’inquadramento in chiave gramsciana della regia, che spostava ad esempio l’epoca dei costumi al 1821, anno di scrittura dell’Adelchi. Ci ho riflettuto molto in seguito, e ne ho riparlato anche con Federico. A lui come io facevo Adelchi andava benissimo, ma pensava che avrei potuto fare di più, in particolare sulla linea di un Adelchi tremendamente romantico, visionario e quasi folle nella sua solitudine. Sarà stato un mio sbilanciamento nei confronti di un personaggio-personaggio: forse ho dimenticato la mia necessità di tenermi sempre presente come consapevolezza d’attore accanto al personaggio; forse ho dimenticato troppo me stesso nell’illusione di un approccio in chiave di assoluta comprensibilità storica (a volte si cade nel tranello di credere che il compito primo di un attore sia quello di offrire al pubblico uno spettro di comprensibilità a 360 gradi: chi l’ha detto che un attore deve farsi sempre e solo capire? chi l’ha detto che non debba lasciare margini di mistero e ambiguità?); forse ho cercato di essere un attore diverso da quello che la mia storia d’attore mi porta ad essere.

Secondo me, era il problema di quello spettacolo, aldilà della tua interpretazione: per molti aspetti, per certi condizionamenti produttivi, era uno spettacolo che non corrispondeva alla storia di Federico e dei Magazzini... E invece il personaggio del Padre in Porcile, come l’hai affrontato?

In modo molto felice, libero e sereno, al contrario di Adelchi, nonostante mi ritrovassi a dover fare i conti con un precedente ingombrante: l’interpretazione bellissima che nel film di Pasolini ne aveva data Alberto Lionello. Ma in definitiva la cosa non mi ha creato nessun problema particolare. Mi è stato chiaro fin dall’inizio che io dovevo percorrere una mia strada, diversa e totalmente personale, e così ho fatto, cercando di utilizzare i miei materiali, le mie capacità. Mi sono rifatto al testo e ho scoperto una curiosa abbondanza di tracce in cui Pasolini come indica lo stile in cui il personaggio deve essere recitato: riferimenti continui a Brecht, a Murnau, all’espressionismo... Ho cominciato a seguire questa strada, che a sua volta portava a Schönberg, a Berg, a Freud, a Vienna insomma oltre che alla Berlino espressamente dichiarata nel testo e all’implicita, taciuta ma onnipresente campagna veneto-friulana... Mi ha aiutato molto, come sempre, anche la musica. Il fatto di curare da sempre la scelta dei brani musicali che usiamo negli spettacoli è per me qualcosa di più di una semplice compilazione dei una colonna sonora: è una ricerca che interagisce con il mio stesso lavoro d’attore. La prima chiave vera del personaggio Klotz mi si è rivelata nel momento in cui ho capito che dovevo accompagnarne l’entrata in scena con quelle trascrizioni di Berg, Schönberg e Webern di alcuni celebri valzer di Johann Strauss: quelle trascrizioni stralunate, ubriache, raggelate in una sorta di atroce caricatura... Insomma, io sono consapevole di aver fatto il Padre di Porcile nel miglior modo possibile per me. Nel mio Adelchi invece restava qualcosa di irrisolto, che mi ha lasciato insoddisfatto. Forse, in un contesto che andava in una direzione diversa rispetto al mio modo di affrontare il personaggio in maniera estrema, non ho avuto il coraggio di dissociarmi totalmente dal contesto; forse ho fatto l’errore di cercare di mantenere il piede in due staffe, perché non è possibile cantare totalmente stonati rispetto al coro. Forse è questo che mi rimprovera Federico, e probabilmente ha ragione. Dovevo avere il coraggio di fare il mio Adelchi. Ma spero di avere l’occasione di rifarlo: è un testo che adoro.

Lavorare su un personaggio ti cambia? C’è un qualche tipo di feed-back?

Restano dei piani d’esistenza. Fare l’attore aiuta a scoprire dei modi diversi di valutare la propria interiorità. Tutti gli esseri umani sono portati a ingigantire la loro vita interiore, in particolare gli attori. Un attore lavora continuamente con la sua vita interiore, che quindi può essere molto intensa, anche se magari non ha gli strumenti linguistici per definirla. Ed è certo che quanti più sono gli strumenti linguistici che hai a disposizione per definire la tua vita interiore, tanto meglio puoi arrivare a conoscere te stesso.

Quando parli di strumenti linguistici, a che cosa ti riferisci?

A volte leggi nella cronaca che succedono cose terribili: omicidi in famiglia, madri che uccidono i bambini... Penso che molto di questo accada anche a causa della rozzezza degli strumenti linguistici che queste persone hanno a disposizione per interpretare il mondo. Sapere che esiste il senso di colpa, e quindi saperlo dominare, sapere che determinate fobie e paure sono legate a certi aspetti della psiche conosciuti e indagati dalle scienze, e quindi dominarle, sapere che una pulsione non è un demone che ti prende, ma che puoi valutarla, ecco, tutti questi sono strumenti culturali e linguistici... Nel momento in cui fai l’analisi di un personaggio e che insieme ad altre persone - il regista, i tuoi compagni di lavoro, e anche il critico che ne scrive - fai questo scavo, spacchi il capello in quattro per cercare le sottigliezze e le sfumature del sentimento, e acquisisci anche una serie sempre più grande e raffinata di strumenti linguistici, con i quali puoi definire la vita interiore dei personaggi, ma anche quella delle persone.

Questa è un’analisi del problema in una prospettiva, diciamo così, culturale. Lo stesso discorso potrebbe essere valido anche per chi semplicemente segue il lavoro di preparazione dello spettacolo, le discussioni, le prove, vede lo spettacolo, legge recensioni e saggi critici. Ma per l’attore che si cala nel personaggio, c’è una differenza? c’è qualche elemento in più?

Se sei restato all’esterno, e hai vissuto tutto questo processo da un punto di vista strettamente razionale, hai detto le stesse parole, hai recepito gli stessi concetti, hai capito le stesse cose. Ma non hai fatto il lavoro di trasposizione, di comprensione - per me è la differenza tra capire e comprendere. Razionalmente una cosa può essere chiara, ma poi deve diventare chiara anche dal punto di vista del corpo. E quando dico corpo, intendo corpo e psiche: devo calarla dentro di me, e quello è il tempo delle prove, della maturazione. E’ per questo che ci vogliono almeno cinquanta giorni per fare uno spettacolo, e ce ne vorrebbero di più: più tempo hai e meglio puoi lavorare. In una settimana, un regista è certamente in grado di spiegarti il piano di regia, le sue intenzioni, quello che vuole ottenere, che tipo di carattere vuol dare al personaggio, il disegno globale dello spettacolo. Però poi c’è bisogno di un periodo di maturazione. Ma ancora una volta ci stiamo avvicinando, in questa conversazione, a zone sempre meno razionali. Si arriva a un punto oltre il quale è impossibile spiegare. Si ruota intorno a un nucleo difficilmente definibile. Che cosa succede durante le prove? Non so che cosa succeda dentro di me. Lavorando a un pezzo, continuo a chiedermi se funzionerà, proprio non capisco come potrà venir fuori, e poi improvvisamente un mattino mi sveglio e ho la soluzione pronta. Che cosa è successo? Credo che succeda questo: tutto il nutrimento che razionalmente fornisci al tuo inconscio - lavorando, studiando, provando, imparando a memoria, discutendo parlandone con il regista e con altri, leggendo eccetera - tutto quel nutrimento a un certo punto viene digerito, qualcosa lo metabolizza. Il biscotto che hai mangiato non è più un biscotto, e non è solamente un residuo dal brutto nome, ma è un’energia. Lo digerisci, le scorie si buttano, ne resta un’energia: e lì succede qualcosa. E succede in quell’antinomia e in quell’equilibrio che cercavo di definire quando spiegavo che questo lavoro consiste nella dialettica tra una parte razionale e una parte irrazionale, una parte che puoi definire e una parte che puoi definire sempre meno. E’ vero che con l’andare degli anni e del lavoro puoi spingere sempre più avanti la parte razionale, programmatica, formativa; e, sul piano della psicologia, puoi anche raffinare e sfumare sempre di più i sentimenti. All’inizio sono solo quattro o cinque, come gli elementi: il comico e il tragico, l’amore e la disperazione. Ma poi ci sono tutte le sottigliezze, che anche storicamente differenziano questi sentimenti.

Per arrivare a mettere a punto questo processo di metabolizzazione, le esperienze che hai fatto dai tempi di Arezzo in poi, le varie tecniche e pratiche teatrali con cui sei entrato in contatto, che utilità e che peso hanno avuto? Hanno fatto di te un attore migliore?

Non saprei. Penso che queste esperienze mi sono servite semplicemente per essere come sono. Ogni individuo è diverso dagli altri anche perché ogni vita si costruisce su una serie di percorsi individuali. Insomma, non credo che queste esperienze mi siano servite per essere un attore migliore. Piuttosto, mi identificano, mi differenziano, nel senso che sono diverso dagli altri, così come ciascuno di noi è diverso da tutti agli altri.

E per quanto riguarda gli strumenti tecnici di cui ti sei appropriato nel corso di questi anni?

Penso di aver avuto la fortuna di incontrare prima o dopo nella vita persone e situazioni che mi hanno dato di volta in volta il cibo di cui avevo bisogno. Non essendo stato un percorso istituzionale, penso che questo insieme sia molto singolare. In ogni caso, queste esperienze hanno semplicemente contribuito a fare di me quello che sono, nel bene e nel male. Non darei un giudizio né positivo né negativo. Se ho dei pregi, vengono da questo percorso. Se ho dei difetti - professionali, intendo - vengono da questo percorso. E’ come se uno volesse giudicare sulla validità o meno delle proprie esperienze esistenziali. La vita non rientra in nessuno degli schemi che ci affanniamo a costruire per interpretarla. Ma questi ci servono comunque, per arrivare a capire qualcosa di noi stessi. Tra questi schemi rientrano anche gli strumenti tecnici che, per esigenze professionali, in quanto attore ho via via imparato a conoscere e a dominare. Penso che in essi non si esaurisca il senso del mio essere attore, come nei discorsi che ci facciamo sulla vita si esaurisce il senso della vita. Però resta il fatto che quei discorsi ci aiutano a vivere, e quegli strumenti a lavorare.
 


 
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