(100) 02/07/06

Abbiamo fatto cent(r)o
L'editoriale di ateatro 100
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and1
 
Il verbale del Comitato Centrale di ateatro
Cascina, Città del Teatro di Cascina, 11 giugno 2006
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and3
 
Qualche appunto sul futuro di ateatro
In vista dell'incontro di Cascina
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and4
 
A Cascina! A Cascina!
Appunti da Metamorfosi Festival 2006
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and6
 
Ritornare al teatro fra memoria e presente
Enzo Moscato al Festival Metamorfosi
di Melanie Gliozzi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and8
 
L’interculturalità del teatro
Una introduzione
di Clara Gebbia

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and10
 
Olivier Bouin e il nuovo corso di Santarcangelo
Una intervista al direttore generale e artistico del festival
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and14
 
Contro la falsa illusione e verso la verità nuda
La rappresentazione nell’opera di Marina Abramović
di Francesca Contini

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and15
 
Le recensioni di ateatro: Fragile del Teatro de Los Andes
Regia di César Brie
di Fernando Marchiori

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and16
 
I dieci anni di Atir
Gli auguri di una zia rompiscatole
di Mimma Gallina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and18
 
L'intelligenza del corpo: la Biennale Danza 2005
Giappone, Cina e altri corpi
di Fernando Marchiori

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and22
 
Il giornale a teatro
Un'esperienza, un esperimento
di Gianluigi Gherzi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and35
 
Diverse abilità in scena a Roma
L'isola che c'è de "I Gulliver"
di Andrea Balzola

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and57
 
L'arte di ri-creare visioni del mondo
Un manifesto all'alba del terzo millennio
di Andrea Balzola per Weltanschauung

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and58
 
Eugenio Allegri direttore della Corte Ospitale di Rubiera
Si comincia con Cipputi
di Ufficio Stampa

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and80
 
Moggi: "To B or not to B?"
La meglio Juventus
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and81
 
I migliori spettacoli di teatro ragazzi della scorsa stagione
Assegnati gli "Eolo Awards"
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and82
 
I Premi Hystrio 2006
Al Teatro Litta di Milano dal 15 al 17 giugno
di Hystrio

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and83
 
La nuova Ecole des Maîtres
Progetto Salmon per Delbono e Latella
di Ufficio stampa

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and84
 
I Premi della Critica teatrale 2005/2006
La cerimonia il 21 settembre a Roma
di Associazione Nazionale dei Critici di Teatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and85
 
In libreria le Vie dei Festival
Tutte le rassegne dell'estate
di Associazione Cadmo

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and87
 
Una rete tra i festival di danza dell'Emilia-Romagna
Nasce Anticorpi
di Comunicato Stampa

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro100.htm#100and88
 

 

Abbiamo fatto cent(r)o
L'editoriale di ateatro 100
di Redazione ateatro

 


Abbiamo fatto cent(r)o!
Così, senza quasi accorgerci, in meno di cinque anni abbiamo inanellato 100 numeri 100 di ateatro. Circa 1400 articoli nel database (dove pesca la mitica ateatropedia),. Più o meno 800 link teatrali. Centinaia di festival con i loro programmi. I forum con le loro fiammate polemiche. Teatro & nuovi media. Le Buone Pratiche (a proposito, stiamo lavorando alla terza edizione...).
ateatro è diventato una importante succursale - qualcuno dice “la più importante”, grazie 1000) del paese di teatro nella rete, assai frequentata da spettatori e studiosi, ampiamente utilizzata nelle università, spulciata con curiosità dagli operatori (amici e nemici) per le news, i pettegolezzi e i retroscena. Insomma, ateatro è da qualche tempo un punto di riferimento per il teatro italiano.
Ora che abbiamo fatto cent(r)o, però, sentiamo la necessità di una riflessione: sul senso di quello che, un po’ confusamente, tra slanci ed entusiasmi, si è fatto in questi anni e soprattutto sulle prospettive future della webzine e del sito. Perché ateatro è cresciuto ed è diventato troppo grande e importante per continuare a funzionare con uno stile così casual, perché può e deve crescere ancora (ma in quali direzioni?).
ateatro è anche un gruppo di persone, con storie ed esperienze diverse, che in questo spazio virtuale sono riuscite a costruire un progetto comune: con qualche idea, un po’ di utopia, qualche principio (non troppo sbandierato), un pizzico di rabbia, la voglia di pensare e di fare.
Così ci siamo visti (a Cascina: e ancora grazie alla Città del Teatro che ci ha ospitato) e abbiamo provato a disegnare il nostro futuro: in ateatro 100 trovate un’ampia sintesi di quello che ci siamo detti e di quello che pensiamo di fare. Naturalmente grazie per ogni ulteriore suggerimento, contributo (anche in euro, non solo belle pensate), rimprovero (che magari non lo facciamo più, visto che siamo in un clima di buoni propositi).
Nel frattempo, mentre mettiamo a fuoco qualche piccola utopia ateatrosa, ci prendiamo una pausa di riflessione.
Ma intanto ateatro 100 è già online, e non si parla solo di noi. Clara Gebbia teorizza l’interculturalità del teatro (e se non sapete cos’è ve lo spiega chiaro chiaro). Francesca Contini ci ha regalato un tassello importante della sua tesi: un’intervista esclusiva con Marina Abramović sulla dimensione teatrale del suo lavoro (perché il teatro non è solo a teatro...). Il neo-direttore Olivier Bouin racconta come ha disegnato il Festival di Santarcangelo. Fernando Marchiori ci racconta la Biennale Danza 2006. Gigi Gherzi sperimenta gli intrecci tra teatro e news. Eccetera eccetera.
Insomma, abbiamo fatto cent(r)o!


 


 

Il verbale del Comitato Centrale di ateatro
Cascina, Città del Teatro di Cascina, 11 giugno 2006
di Oliviero Ponte di Pino

 

Per cominciare, naturalmente, un ringraziamento di cuore ad Alessandro Garzella e Fabrizio Cassanelli che ci hanno ospitato con grande cortesia, mentre era in corso il festival Metamorfosi.
Se posso aggiungere un’annotazione personale, un grazie di cuore anche ai numerosi i membri del CC di ateatro presenti a Cascina: oltre a me e ad Anna Maria Monteverdi (che si è occupata della logistica e ha organizzato il simpatico happy hour di ateatro sabato sera), c’erano Andrea Balzola, Franco D’Ippolito, Concetta D’Angeli, Mimma Gallina, Clara Gebbia, Elena Lamberti.
E’ stato il primo incontro del genere e non mi aspettavo un tale concorso di folla (c’era anche qualche assente giustificato...). E’ stato un grande segno di affetto nei confronti della webzine e del sito, e soprattutto la prova che vogliamo farli crescere ancora - perché proprio di questo dovevamo parlare. Insomma, grazie di cuore agli ateatranti presenti (e anche agli altri...).
Oltretutto era la prima volta che ci vedevamo tutti insieme, io conoscevo tutti, ma non tutti conoscevano tutti. E’ il bello del web, quello di poter fare una rivista in questo modo, ma ogni tanto vale anche la pena di incontrarsi di persona...

Ma di che cosa abbiamo parlato, domenica mattina?
Provo a riassumere per chi c’era e per chi non c’era.

In questi cinque anni ateatro è molto cambiato.
Ho identificato quattro fasi (magari serve anche a qualche studente per le prossime tesi & tesine sul sito...).

1. www.olivieropdp.it
In principio, diciamo nel 1998, è nato un sito personale, www.olivieropdp.it, nel 1998; era anche una sorta di antenato dei blog: non me la sono inventata, un paio d’anni fa su “Affari & Finanza” di “Repubblica” mi hanno definito “blogger storico”...

2. www.ateatro.it
All’inizio del 2001 è nato www.ateatro.it, la webzine che tutti conoscete (per forza, se siete qui a leggere...), con il suo bravo forum e le sue news, la pagina dei link e vari servizi (la locandina, i festival...). Qualcuno l’ha definito un portale: sarebbe stato bello, ma non abbiamo mai avuto le forze (e le risorse) per creare un vero portale (anche se stiamo svolgendo molte delle sue funzioni). www.olivieropdp.it era un’impresa solitaria, mentre ben presto www.ateatro.it ha raccolto un gruppo di collaboratori assai variegato, ma di grande valore e generosità (a cominciare da Anna Maria Monteverdi, che compare nella testata). In breve, è diventata un punto di riferimento per il mondo del teatro italiano, consultato da amici e avversari.

3. Le Buone Pratiche
Terza puntata, su sollecitazione di Mimma Gallina e Franco D’Ippolito, www.ateatro.it si è fatto promotore a partire dal 2004 di una iniziativa come le Buone Pratiche. Partendo dalla rete, insomma, siamo ripiombati nel mondo reale, e con un impatto decisamente notevole (tanto è vero che abbiamo replicato nel 2005 e replicheremo in questo 2006).

4. ateatropedia
Quarta fase: nel 2005 l’archivio online. Nel corso di questi anni abbiamo pubblicato sulla webzine quasi 1500 articoli, saggi, interviste, eccetera. Insomma, abbiamo costruito il database al quale attinge la poderosa ateatropedia (alla quale si abbeverano - e ce ne siamo accorti - operatori, studenti e studiosi).

5. E adesso, che fare?
In questi anni, abbiamo raggiunto diversi obiettivi.
Abbiamo dimostrato che è possibile creare un sito di teatro bello, indipendente, autorevole e utile.
Abbiamo dimostrato che è possibile fare una cultura del teatro viva e appassionata.
Abbiamo esplorato diversi filoni con una profondità e un’ampiezza inedite nel nostro paese (e non solo: mica sono tanti i siti belli come il nostro, anche all’estero): tra tutti, il rapporto tra il teatro e nuovi media, in particolare grazie al lavoro di Anna Maria; e l’economia e l’organizzazione della cultura e dello spettacolo, appoggiandoci all’esperienza e alla produttività di Mimma.
Siamo riusciti a muoverci tra diversi ambiti - operatori, critica militante, accademia, ricerca, politica e pubblica amministrazione - mantenendo la nostra specificità e creando una rete tra queste diverse esperienze.

Oggi per ateatro si incrociano due problemi. Il primo riguarda la possibile evoluzione di questa appassionante avventura, anche partendo dai suoi limiti e difetti (ebbene sì, lo ammettiamo: non siamo ancora perfetti, anche se siamo senz’altro i migliori). Il secondo è di ordine personale: per me la gestione del sito è diventata troppo gravosa in termini di tempo, impegno e fatica.
In sostanza - come già annunciato nella webzine - con il numero 100 (con questo numero) ateatro prova a reinventarsi. Le strade possibili erano due.
La prima, un gestione al minimo dettata da ragioni di sopravvivenza, lasciando inalterate le caratteristiche del sito: uno spazio aperto, senza una struttura formale, né economica né organizzativa. Questo avrebbe comportato una sospensione della webzine, con un arricchimento (seppur meno rapido) del database e un maggiore impegno da parte di tutti nei forum per le questioni di attualità. Avrebbe potuto ovviamente trattarsi di una pausa di riflessione, in attesa di raccogliere le idee e rilanciare il progetto.
La seconda - che è inevitabile, visto l’entusiasmo con cui ci siamo ritrovato a Cascina - consiste invece in un rilancio dell’iniziativa, su nuove basi e con nuove linee di sviluppo. Ovviamente per rilanciare ateatro sono necessari alcuni investimenti; premessa indispensabile è però quella di creare una struttura in grado di procurarli e gestirli, questi finanziamenti.
Ovviamente nel nostro primo incontro è stato possibile individuare solo alcune linee generali e qualche possibile sviluppo, in attesa di rilanciare la discussione via mail.
Provo a schematizzare.

FASE 1. Studio di fattibilità.
La forma giuridica di ateatro.
Finora non ha forma: oggi ateatro è in pratica solo un dominio registrato. Si tratta di verificare le possibili forme che può prendere il nostro gruppo (Associazione Culturale, Cooperativa, Circolo Arci, eccetera), tenendo ovviamente conto di tutti gli altri elementi in gioco.
Il software e la grafica. Finora la struttura informatica del sito è stata totalmente autoprodotta e autogestita, utilizzando freeware e shareware. Per rilanciare e ampliare il sito (al di là del fascino che può avere l’aspetto scrauso) è necessario partire da questo versante, mantenendo le caratteristiche che hanno fatto la fortuna del sito: economicità, facilità d’uso, flessibilità; e se possibile diventando meno rigido per quanto riguarda la gestione quotidiana (inserimento materiali, impaginazione, creazione numero webzine, gestione mailing list).
Fund raising. Sappiamo tutti che non è facile, soprattutto oggi, reperire risorse nell’ambito della cultura e dello spettacolo. Ancora più difficile reperire risorse salvaguardando la propria autonomia e indipendenza (una delle grandi doti di ateatro). Abbiamo scartato alcune ipotesi (accesso a pagamento, pubblicità a pagamento per teatri e festival), ne stiamo esaminando altre (abbonamenti, pubblicità, sponsor, fondi europei, partnership di vario genere).
Business plan. Partendo da queste informazioni, saremo in grado di valutare che strada imboccare. Ovviamente sarà necessario trovare qualche collaboratore (modestamente retribuito) per realizzare il software, gestire il sito e il fund raising.
Stiamo anche valutando altre possibilità di sviluppo: aprire ad altri giovani collaboratori, incrementare le recensioni, aprire nuove sezioni (per esempio una dedicata ai rapporti tra teatro e pedagogia)...

FASE 2. Linee di sviluppo.
Per quanto riguarda il sito, al di là di quanto accennato sopra (e alla possibilità di accedere alla ateatropedia attraverso iscrizione e password, fermo restando che l’accesso resterà gratuito), le possibili linee di sviluppo riguardano prima di tutto un incremento della multimedialità (anche se questo comporterà poi un problema di produzione - appunto - di contenuti multimediali).
Una volta attiva una struttura, una delle funzioni di cui ateatro potrà farsi meglio carico, in un momento in cui le tradizionali forme di rappresentanza del teatro paiono inadeguate, è quello di luogo d’incontro e di elaborazione di proposte di politica culturale.
Resta da approfondire la possibilità per ateatro di farsi in prima persona promotore di iniziative (festival, rassegne, convegni, corsi, seminari, consulenze, eccetera), eventualmente in collaborazione con altre realtà italiane e straniere.

Insomma, questo è il numero 100 di ateatro e per ora qui siamo arrivati. Se avete qualche idea, naturalmente, ve ne saremo grati.

Per quanto mi riguarda, sono molto contento che ateatro possa diventare un patrimonio comune e condiviso. E che possa continuare a crescere.
So che imboccando un percorso di questo genere saranno necessari alcuni compromessi (e sarà necessario fare anche scelte difficili). Ma per me è fondamentale che alcune delle caratteristiche di questa esperienza - indipendenza e autonomia, leggerezza e libertà di immaginare e di fare - vengano rigorosamente salvaguardate. Credo che sia questo il principio che ci deve guidare. Altrimenti ateatro rischia di diventare noioso...


 


 

Qualche appunto sul futuro di ateatro
In vista dell'incontro di Cascina
di Oliviero Ponte di Pino

 

Una premessa
Non sono affatto scontento di ateatro. Anzi. Ne sono assai fiero. ateatro è ricco (ricco dentro, intendo), bello, vitale. E’ un esempio di informazione e cultura democratica e autogestita (forse addirittura un esempio di controinformazione....). E’ una delle poche novità del teatro italiano (e della cultura teatrale) di questi anni.
E’ un sito bello e autorevole. Lo leggono amici e nemici, insomma più o meno tutti all’interno nel piccolo mondo del teatro. E’ diventato un punto di riferimento per organizzatori e operatori. E’ una risorsa utilizzata da studenti e studiosi, ma anche dai normali spettatori. I forum sono frequentati e vivaci. Siamo del tutto liberi e indipendenti. Eccetera eccetera. Bravi bravi.
Insomma, ateatro è un piccolo miracolo, grazie allo sforzo di tutti noi. In particolare a quello di Anna Maria Monteverdi per tnm (e non solo). E a quello di Mimma Gallina e Franco D’Ippolito per le Buone Pratiche. Due direzioni di sviluppo che io non sarei stato nemmeno in grado di immaginare e che fanno parte dell’anima del sito.

Insomma...
Mi sembra che ateatro sia il meglio di quello che possiamo fare nelle attuali condizioni (ed è molto meglio di quello che fanno altri, con risorse assai maggiori delle nostre, come ci viene ampiamente riconosciuto).
A questo punto potremmo tranquillamente andare avanti in questo modo.
Usciamo con regolare irregolarità, scateniamo feroci polemiche, la ateatropedia si arricchisce con una rapidità sorprendente di materiali di notevole livello. Siamo orgogliosi di noi stessi e del nostro lavoro (anche se un po’ mi rompo le scatole, a tenere in piedi tutta questa baracca, e mi vengono in mente altre cose da fare).

Detto questo...
Dopo qualche anno, dopo aver raggiunto una serie di obiettivi - sostanzialmente uno: un sito di teatro bello, utile e libero - mi sono chiesto (e ci stiamo chiedendo) quale può essere lo sviluppo della nostra webzine. Se possiamo e dobbiamo andare avanti in questo modo, o se possiamo immaginare per la nostra creatura un futuro diverso (e di migliore), preservando ovviamente le qualità - e i valori -.di ateatro.
Va precisato che in questi cinque anni il sito è cambiato di continuo: la rete si è evoluta e il sito si è arricchito di nuove funzionalità e nuove aree di intervento.
Si tratta a questo punto di immaginare altre possibili evoluzioni della nostra allegra impresa.


ALCUNI NODI DA SCIOGLIERE

1. Le risorse umane
ateatro
ha finora contato su una serie di validissimi collaboratori, ma con una struttura in qualche modo verticistica. C’è una sorta di direttore (ir)responsabile (e per la sezione tnm una responsabile) che funge da punto di riferimento per i diversi collaboratori. I contributi arrivano da sempre in maniera spontanea (per non dire casuale), spesso imprevedibile (e spesso sono piacevoli sorprese). Finora tutto questo ha funzionato molto bene.
Però forse potrebbe funzionare meglio. E’ sufficiente la mia mail che annuncia che il nuovo numero è in preparazione? E’ possibile ipotizzare una struttura redazionale diversa?


2. Le risorse finanziarie
Finora ateatro è cresciuto e vive tuttora senza un euro (o meglio, ci spendo qualcosa, ma sono spiccioli; e nessuno incassa un euro, né perché ci scrive né per altri motivi, tipo pubblicità, sponsor, fornitura di servizi eccetera).
Con questa non-struttura ateatro non può - neppure se glielo offrono - incassare un euro.
La povertà ha anche i suoi pregi: nessuno ci paga e questo ci garantisce la più totale e assoluta indipendenza. La nostra autorevolezza nasce anche da questa indipendenza: siamo percepiti come una entità assolutamente autonoma da qualunque potere (economico, teatrale, politico, mediatico, accademico). Anche nell’organizzazione delle Buone Pratiche, abbiamo cercato di preservare in tutti i modi questa assoluta libertà e autonomia.
A questo punto possiamo pensare di dare al nostro sito una qualche struttura amministrativo-economica (legandoci magari a qualche realtà già esistente). Questo ci permetterebbe di diventare partner di varie iniziative (o, al limite, di promuoverle): penso a partnership di vario genere con festival, convegni, attività editoriali, università, teatri...
Questo ci permetterebbe di essere più incisivi nel panorama culturale (creando alleanze), e magari di ricavare qualche soldo da investire nel sito: sia nel software (a cominciare dall’impaginazione) sia nel pagamento dei collaboratori. E magari anche nella realizzazione del Meglio di ateatro vol. 2 (il primo volume è stato da noi autofinanziato).
Tuttavia questo rischia di incrinare la nostra libertà e indipendenza editoriale, e ci mette in concorrenza con le altre realtà del teatro per la distribuzione di risorse assai scarse (come ben sappiamo...).
Insomma, è possibile trasformare ateatro in una piccola istituzione, mantenendo una totale autonomia? E come?

3. Le risorse informatiche
E’ un problema prima di tutto tecnico, e dunque un po’ noioso, ma è da sempre centrale nella diffusione della cultura - ed è ancora più determinante nell’era di internet.
Finora la struttura software del sito è stata totalmente progettate e realizzata da me. Il che ha vantaggi e svantaggi.
I vantaggi: costo zero; totale controllo della struttura informatica e dei contenuti; grande flessibilità; facilità e rapidità d’uso.
Gli svantaggi: la grafica “casalinga”; qualche problema tecnico di troppo; l’intero peso della gestione del sito su una sola persona.

4. Le risorse multimediali
Uno dei più evidenti sviluppi della rete è la crescente possibilità di diffondere contenuti multimediali (audio e video). Ne abbiamo parlato fin troppo, in tnm.
Con l’attuale struttura del sito (sia dal punto di vista delle risorse umane sia dal punto di vista delle risorse informatiche) ateatro non è assolutamente in grado di svilupparsi in questa direzione (così come in direzione di un aumento dell’interattività).

5. La risorse del sito
O meglio, la tutela della proprietà intellettuale (ovvero del copyright).
Uno degli obiettivi del sito è ovviamente diffondere la cultura del teatro. Per certi aspetti la stiamo diffondendo fin troppo bene, nel senso che sono numerosi quelli che - grazie al copiancolla - si appropriano del nostro lavoro senza citarlo eccetera.
E’ ovviamente possibile cercare di controllare maggiormente questa diffusione: per esempio chiedendo agli utenti di registrarsi, o addirittura chiedendo una fee per ogni pezzo scaricato. Questo implica una diversa struttura sia informatica sia economica del sito (con relativi investimenti).

6. Le risorse giovanili
Periodicamente ricevo mail di giovani che vogliono collaborare ad ateatro.
Personalmente non sono in grado di farmi carico di giovani collaboratori da seguire e formare. Tuttavia mi rendo conto che una rete di giovani collaboratori sparsi sul territorio potrebbe essere per ateatro una grande risorsa.
E’ ovviamente possibile creare un’area (o una sezione del sito) riservata a nuovi contributi. Ma è necessario un responsabile (un tutor) per questi aspiranti collaboratori.


 


 

A Cascina! A Cascina!
Appunti da Metamorfosi Festival 2006
di Redazione ateatro

 

Il Politeama-Città del Teatro di Cascina (Pisa) diretto da Alessandro Garzella è da sempre un luogo architettonicamente un po’ inquietante: tetti che sembrano la caffettiera Bialetti sopra un’alta struttura di cemento rosso che ospita a mo’ di labirinto tre sale teatrali, auditorium, centro studi (diretto da Fabrizio Cassanelli), aule multimediali.



Persino un hangar trasformato in spazio espositivo e performativo e diventato lo scorso settembre percorso da sogno per lo spettacolo anderseniano di Vargas prodotto proprio dalla Città del Teatro. Presto ci sarà anche un campus universitario con camere/studio disposte su cinque piani accessibili da una suggestiva scala esterna che arriva fino alla torretta da cui, guardando oltre i mobilifici e le Gran Stalle, si gode il panorama della Valdera. Non passa inosservato, lo spigoloso edificio teatrale sotto i monti pisani, ed è entrato ormai a fare parte del paesaggio “tipico” di questa zona, collocata tra il parco termale di Uliveto e di San Giuliano, e Pontedera.

Teatro e Università
La Scuola Normale Superiore organizza qua i suoi “Concerti”, mentre il Corso di Laurea in Cinema Musica e Teatro diretto da Lorenzo Cuccu e Sandra Lischi ha dislocato in questi spazi lezioni, laboratori pratici e progetti didattici multimediali (tra gli altri il progetto di digitalizzazione di documenti audiovisivi di cinema e teatro). Così ogni spettacolo e annesso approfondimento o incontro con l’artista è affollato da una numerosa schiera di giovani studenti, dottorandi e specializzandi in Discipline dello Spettacolo e in Produzione Multimediale che quest’anno hanno potuto presentare alcune loro produzioni all’interno del >Festival Metamorfosi.

METAMORFOSI
FESTIVAL
Dopo un anno caratterizzato da una fortunata programmazione con Giorgio Barberio Corsetti, Socìetas Raffaello Sanzio, Pippo Delbono, Franco Scaldati e numerosi incontri e convegni su teatro e disagio, psicoanalisi e arte (Trascrivere l’inconscio), rassegne di musica elettronica (Fosfeni), arte digitale (T&T; E-day), serate con Vj e Dj set, la Città del Teatro si è lanciata tra l’8 e il 10 giugno (ma anche con alcune appendici e diramazioni prima e dopo queste date) nella sua più ambiziosa provocazione: quella di un festival teatrale estivo a respiro nazionale dove far confluire incontri, laboratori di scrittura, presentazioni di libri, installazioni video, studi teatrali e spettacoli del teatro “classico” della ricerca e del teatro di narrazione (ma non solo).



Rem & Cap.

Enzo Moscato, Alfonso Santagata, Remondi e Caporossi, Isole comprese, GialloMare Minimal Teatro, Francesco Niccolini, Teatro Stabile della Calabria, Maurizio Maggiani.
Il Festival Metamorfosi si è caratterizzato per la qualità e per la varietà delle proposte, per la vivacità e per l’ottima organizzazione da parte dell’intero staff, e soprattutto per l’affollata presenza di pubblico soprattutto giovane, a tutte le numerose iniziative.



Pezzi d'amore.

Metamorfosi esisteva già da alcuni anni ma quest’estate si è dato un vero restyling con una formula che univa il laboratorio intensivo alla visione di studi per la messa in scena (come Pezzi d’amore a pezzi progetto realizzato da Fabrizio Cassanelli e Letizia Pardi in collaborazione con Francesco Niccolini con gli allievi dei Cantieri Teatrali dell’Università di Siena) e di spettacoli prodotti dalla stessa Città del Teatro come 100% cose di Andersen della giovane ma già affermata compagnia fiorentina del Teatro Sotterraneo; ancora: risultati temporanei di una residenza produttiva (il progetto crossmediale di XLAB) e debutti in prima assoluta, come Volevo dirti, della compagnia siciliana M’Arte diretta da Giuseppe Cutino, già vincitrice del Premio Scenario 2003.



GialloMare Minimal Teatro conferma con il nuovo spettacolo L’ombra della torre (di Renzo Boldrini e Francesco Niccolini con Marco Natalucci) le atmosfere da fiaba, visive e visionarie fatte con quelle tecnologie digitali minimali che lo hanno contraddistinto grazie alla presenza della ormai rodata collaboratrice Ines Cattabriga che disegna in diretta al computer, tracce grafiche e ombre, secondo uno stile ormai consolidato.

TEATRO SOTTERRANEO
Sotterraneo ovvero, sommerso, invisibile, “underground”, un aggettivo che vale per tutto il giovane teatro di ricerca, interrato nelle cantine di oggi, che vanno dai centri sociali alle palestre delle scuole, ma non per questo meno vivace e attivo. Quello che stupisce di questa nuova formazione fiorentina Teatro Sotterraneo è la chiarezza: dell'idea di teatro che hanno in mente (un collettivo senza gerarchie), del teatro che mettono in scena (fatto di improvvisazioni ben piazzate, divertenti, folgoranti), dei testi da utilizzare in libertà (l’ “appropriazione indebilita” da Nanni Balestrini, dai dossier sul carcere, da Indymedia, da Focault ma anche dalla raccolta di comics della Marvel, dai testi del Sub Comandante Marcos). Incursioni nel teatro politico, nella condizione politica del teatro - l'unica condizione possibile oggi. Riciclano frammenti di testi e di materiali scenografici: un ready-made teatrale che centrifuga utopie e scarti di produzione e li allena alla rifunzionalizzazione collettiva. Un lavoro di impasto molto ben concertato. Segnalati con menzione speciale a Scenario 2005 hanno già fatto girare il loro primo spettacolo 11/10 in apnea negli epicentri del teatro di ricerca: da Volterra a Scandicci, a Drodesera, e nelle prestigiose vetrine festivaliere estive. Il corpo del condannato, loro recentissima produzione ha debuttato con successo ad aprile allo Spazio Pim di Milano e ha proseguito il viaggio al Teatro India per il Festival Short Theatre diretto da Fabrizio Arcuri. Intanto si allenano al dibattito sempre verde dell'appropriazione degli spazi per la creatività a Firenze.


Compagnia M’Arte Movimenti d’arte: Volevo dirti
La residenza artistica della compagnia siciliana M’Arte – Movimenti d’arte è stato uno dei punti salienti del Metamorfosi Festival. La compagnia, nata nel 1999, vincitrice del Premio Scenario 2003 con Come campi da arare e di una menzione speciale Enzimi nello stesso anno con Deposito bagagli, al festival lo spettacolo vincitore del Premio Scenario e il debutto del nuovo spettacolo, Volevo dirti. In quest’ultimo quattro donne attendono, sedute nelle loro isole di luce, davanti a una pentola, legate e divise dall’amore per un uomo che le ha sedotte, illuse, e poi tradite. Odio, amore, gelosia, invidia, condensati in flussi di pensieri ossessivi e dialoghi feroci, scanditi dalla partitura ritmica prodotta dal rumore dei ventagli, sfoceranno inevitabilmente nella vendetta collettiva ai danni della ragazza più bella e giovane. Nato da un racconto di Sabrina Petyx, autrice anche della drammaturgia, Volevo dirti ha riscosso un notevole successo di pubblico, grazie soprattutto all’interpretazione di Serena Barone, Ester Cucinotti, Caterina Marcianò e della stessa Sabrina Petyx.

Spaccati in due: altri sguardi
Alla tematica del disagio mentale sono stati dedicati un incontro con la studiosa di videoarte Sandra Lischi che ha proposto significative videocreazioni italiane e internazionali, e uno con il tecnoartista Giacomo Verde che ha realizzato un video in occasione del laboratorio teatrale annuale di Fabrizio Cassanelli e Alessandro Garzella con due pazienti della locale ASL (Marco e Ivano), dal titolo Sintomi e la relativa videoinstallazione locata nell’hangar.



Sintomi.

Dopo una lunga pausa, Giacomo Verde ritorna all’arte video con la sua spregiudicata e impareggiabile creatività low tech. Il fine – un ritratto vero e penetrante dei pazienti psichiatrici immersi per un anno nel laboratorio del “sintomo teatrale” - giustifica un mezzo così invadente come il video. Ma il video può essere anche il gioco, la danza, l’occhio che vede quel dettaglio che si perde e che si ritrova in un montaggio fatto attraverso (di)ssociazioni mentali. Sintomi è un video intriso di problematiche sociali ma per esprimerle ancora una volta Verde sceglie la via della libertà dalle regole imposte dall’arte e dalla regia video e televisiva: tutto quello che sarebbe tecnicamente imperdonabile -lo sfuocato, la camera che fa una brusca virata- qua appartengono quasi naturalmente a un “discorso”, elementare e semplicissimo. E’ la ricerca di una comunicazione vera, di un rapporto diretto e sincero che l’artista video cerca di instaurare grazie alla telecamera attaccandosi letteralmente alla pelle e al volto dei partecipanti in un poetico slancio di adesione incondizionata al loro mondo, creativo a modo loro, standogli addosso, sollecitandoli o prendendoli in giro come in un reciproco e improvvisato gioco psicoanalitico.
La mente umana è imperscrutabile e il dialogo l’unica cura possibile alla sua devianza. Può il teatro attraverso il video farsi interprete di questa innata sua necessità di espressione?

Cosa ci faccio qua? (anna monteverdi)
Ho lavorato per dieci lunghi giorni al progetto multimediale Fattoria degli anormali ideato da Andrea Balzola per XLAB in residenza al piccolo e graziosissimo Teatro Rossini di Pontasserchio gestito dalla Città del Teatro, insieme con tecnici programmatori, artisti e cinque stagisti del Politecnico di Torino.



In una dimensione di avventura abbiamo unito le nostre forze e i nostri modem e abbiamo realizzato un primo prodotto video-trailer per l’incontro pubblico previsto all’interno del Festival e un’installazione. Il nostro progetto è partito dal teatro per poi ricominciare dal fumetto, dal video e tornare allo spettacolo. Per il fumetto abbiamo voluto con noi Onofrio Catacchio, disegnatore di punta della nuova scuola bolognese, illustratore di Wu Ming e di Lucarelli, che per Fattoria ha dato corpo in grafite sequenziale a Emanuela Villagrossi e ha realizzato schizzi per i modellatori 3D guidati da Andrea Brogi.


Màuri Màuri

Maurizio Maggiani è uno scrittore molto famoso, dice, ma anche un egregio narratore. Dice che lo è sempre stato perché la sua scrittura letteraria ha avuto a che fare con le memorie altrui tramandate oralmente. Maggiani è un fotografo e alla Città del Teatro girava con la sua Leica. Dice che mette del suo nelle storie. Nel senso che racconta anche di sé. Se seguite i suoi libri non è difficile riconoscere i suoi luoghi, gli interrazzamenti delle Cinque terre, qualche carrugio della vecchia Genova. Qua al Festival ha parlato, accompagnato da una bottiglia di vino, della fragilità umana, la sua e la nostra, della memoria che si perde come la storia del Pisanino. Della fiducia nella propria immortalità venuta meno dopo che un incidente gli ha deformato una gamba e dopo la malattia del padre, e così ha parlato della bellezza dell’essere fragili e dell’essere diversi. Un momento di grazia, sotto il sole, nelle panche o per terra a seguire composti e in silenzio quello strano racconto misto di cronache familiari e di antiche leggende. A tavola ha raccontato di un’altra fragilità, quella del video. Dice di aver visto le immagini video da lui girate deformarsi a causa del tempo, e perdersi per sempre. Più fragili di così. “Bisogna tramandare oralmente i video!”.
Maurizio Maggiani è un incantatore di anime, un trasmigratore di storie, un traghettatore di sentimenti. Non è teatro questo?

Clip-Istantanee dal festival

Le ali degli angeli di Cocteau nel poeticissimo spettacolo di Moscato Costell’azioni e la voce angelica del bambino che lo affiancava, le scatole umane e i cuori-sassi che scappavano dalle borsette di M’Art in Come campi da arare, la muscle dance di Chiara Pistoia e Andrea Omezzoli in Carne, le lampadine indossate da Santagata brigante, i ragazzi del CMT con la videocamera sempre in mano a tracciare segnali, la mise trés chic di Claudia Zeppi (ufficio produzione), il piacevole affollamento all’incontro sulla critica e sulle politiche dei teatri e dei Festival con Oliviero Ponte di Pino e Paolo Ruffini.
E per finire, le donne di ateatro in trasferta: Mimma Gallina, Concetta D’Angeli, Clara Gebbia, Silvana Vassallo, Elena Lamberti, Anna Monteverdi. Gli uomini di ateatro: Franco D’Ippolito e olivieropdp. Finale con happy hour offerto da ateatro con tutti gli ospiti (tecnici compresi!).


 


 

Ritornare al teatro fra memoria e presente
Enzo Moscato al Festival Metamorfosi
di Melanie Gliozzi

 



La presenza di Enzo Moscato all’interno del festival Metamorfosi 2006 è stata importante in quanto segno della permanenza di alcune radici storiche del nuovo teatro, anche nel continuo movimento e nelle molteplici contaminazioni ed esperienze che contraddistinguono gli ultimi anni della scena italiana. Dall’8 al 10 giugno l’autore attore napoletano ha presentato due spettacoli ( Compleanno e Co’stell’azioni) e ha incontrato un gruppo di giovani attori e studenti, in un breve e intenso seminario dal titolo Autobiografia teatrale: vissuto, scrittura, scena di un drammaturgo.
Non si è trattato di un laboratorio attoriale con esercizi di scrittura o improvvisazioni di alcun tipo, ma per scelta di Moscato, e visto l’alto numero dei partecipanti, l’attenzione si è focalizzata sul pensiero intorno al teatro e al senso che ha avuto nel suo percorso artistico scegliere la scena come coincidenza/progettazione d’immaginario ed esistenziale, per usare una sua espressione. Questa necessità rispecchia la peculiarità della sua ricerca, da più di venti anni insita nel concetto di corpo-pensiero, come ossimorica coincidenza che unisce mondo fenomenico e metafisica, attraverso una sorta di anti-cartesiano viaggio di ritorno all’origine, che per Moscato è la scrittura drammaturgica e la pratica scenica. Moscato ha raccontato il suo teatro come pratica del Profondo, un ritornare verso il proprio Sé e contemporaneamente un nuovo slancio dal Sé all’attualità, in un incessante processo d’Individuazione in bilico fra passato e presente. Proprio in merito a queste premesse, i tre giorni di seminario hanno visto da parte dell’autore il desiderio di realizzare uno scambio, di traghettare l’anima di qualcuno dentro alle immagini del suo mondo teatrale e magari attraverso questo nel mondo di altri. Nodo centrale del percorso è stato focalizzare il teatro come luogo privilegiato di sguardo sul cosmo, ancor più come metafora, sede di tutte le lacerazioni e ricomposizioni in perfetto spirito dionisiaco. Nel flusso del raccontarsi sono emerse le radici di un lavoro artistico legato alla tradizione ma che necessariamente si plasma nel tradimento di essa, seguendo le personalissime vie dello sconfinamento fra l’arte della scena, la storia, la filosofia e la psicanalisi.
La pratica degli sconfinamenti ha permesso a Moscato di attraversare nella sua ormai lunga esperienza teatrale molteplici forme e segni scenico-drammaturgici, d’incontrare e condividere il percorso con importanti figure del teatro italiano come Annibale Ruccello e Antonio Neiwiller, poco ricordati nel panorama contemporaneo, nonostante il grande contributo di cambiamento che hanno dato alla scena. E’stato dunque utile per le nuove generazioni di artisti e studiosi che si affacciano alla comprensione e alla pratica del teatro poter ascoltare e porre domande sulle innumerevoli avventure che Moscato ha condiviso con loro negli anni ottanta, quando sembrava che tutto stesse cambiando e che il teatro potesse offrirsi come soglia rivoluzionaria aperta sulla Realtà. Ma è stata occasione per conoscere meglio anche i suoi ultimi lavori, fra i dilemmi irrisolti della Storia (Sull’ordine e disordine dell’ex macello pubblico sulla rivoluzione partenopea del 1799 e Kinder Traum Seminar sull’Olocausto) e le fascinazioni dell’arte (Passioni-Voci recital su Salvatore Di Giacomo e Sangue e Bellezza sull’opera e vita di Caravaggio).
Nel lungo flusso di coscienza, sotto forma di brain storming, sono entrati inevitabilmente riferimenti ai personaggi e ai segni che costituiscono la lingua contaminata della drammaturgia dell’autore attore napoletano, ma anche alle domande e agli enigmi che costituiscono la linfa misterica dell’arte del teatro, nata secondo Moscato per dare corpo ai fantasmi e spezzare la natura del discorso e delle storie, nella sua danza inarrestabile di differenza e ripetizione.
Penso a questo seminario come alla stesura di una sorta di formulazione di sistema pre-espressivo, che può aprirsi al teatro, è teatro in potenza, senza averne le forme ortodosse. Continuare a interrogare il teatro e la sua storia è comunque fare teatro a tutti gli effetti…
Nel contesto del festival e dell’incontro con Moscato è stato possibile rivedere Compleanno, storico simbolo e forse la più grande testimonianza della sua arte e conoscere Co’stell’azioni, già messo in scena – in versione recitativa corale – tra Natale/Capodanno dell’anno 1995/’96 (allora ispirato dall’installazione in Piazza Plebiscito, a Napoli, dell’incantata montagna di sale di Mimmo Paladino), qui presentato in versione solista, con il doppio fantasmatico del piccolo Giuseppe Affinito. Liberamente ispirato e dedicato, come sottolinea Moscato, ai richiami all’ordine del poetico spettro Jean Cocteau, Co’stell’azioni è, nella forma presentata a Metamorfosi, un reading in cui i morti fanno visita ai vivi (il riferimento è a Visites à Maurice Barrés di Cocteau), ancora un’occasione per Moscato di dare corpo-pensiero alla riflessione che lega intrinsecamente arte e vita, anche attraverso la sua alterità massima: la morte. Il morto visita il vivo, ma non si sa chi sia il morto e chi il vivo;la parola è l’unico tramite di questo scambio di mondi. E’ un incontro di coppie espressive oppositive, velocità e lentezza, luce e buio, silenzio e suono, appartenenti ad universi contigui ma non direttamente comunicanti, perché uniti solo dalla distanza: giacchè fango-sprofondo luminoso siete voi, per noi, distanze, galassia bullicante, opaca, che anela a evaporare e, nell’evaporare, dall’umano scomparire [dal testo di Co’stell’azioni]
E’ un complesso esercizio poetico giocato sul bilico dell’apparizione notturna delle anime vedette, come è la poesia stessa nelle parole di Moscato: sumiglia a nniente, è n’apparenza. L’invito che ci fa a frugarla, investigarla, è ironico, formale di mera cortesia. Come quando ci si reca al cimitero nelle ricorrenze. Con lei bisogna camminare tra le ceneri, oltre il sudario grigio ca strascina […] Il poeta, il poeta, si dice, è come Noi. Visita, invisibile, veloce, mmiezz’’e vive. [dal testo di Co’stell’azioni].
La scarna e pressoché assente scenografia, solo alcune proiezioni di teste disegnate da Mimmo Palladino, sottolineano la volontà di Enzo Moscato di concentrare l’attenzione dello spettatore sulla forza della lingua poetica, sul suo soffio evanescente che rifluisce nel teatro a scompaginare ogni forma di ordine prestabilito.


 


 

L’interculturalità del teatro
Una introduzione
di Clara Gebbia

 

I - Fondamenti teorici dell’intercultura, pedagogia e didattica interculturale

Siamo già dentro la Società planetaria. Un inedito storico, che viene – e verrà sempre di più – a “scalzare” modelli, credenze, abitudini mentali, fedi e “appartenenze” tradizionali. Ciò coinvolgerà tutti in un grande “miscuglio” il quale produrrà, a sua volta, altri modelli, credenze, finora forse del tutto sconosciuti e, fino a ieri, anche impensabili.
Ma in quanto ci affacciamo, ormai, su quel “miscuglio”, in esso e/o da esso possiamo introdurre o ricavare nuovi orizzonti, del pensare, del credere, dell’essere-nel-tempo storico.
Prima di tutto il compito del Dialogo. Poi il principio della Krasis. Infine la regola dell’Apertura. Tre vettori che dobbiamo riconoscere, pensare, incorporare, valorizzare, far propri.
Con difficoltà, anche; ma di necessità, ormai.
L’intercultura come prassi pedagogica è il “varco” per realizzare questa nuova identità – cognitiva, culturale, personale – incardinata, appunto, sul meticciato.
Franco Cambi, “Intercultura: fondamenti pedagogici”


L’intercultura, intesa come prospettiva di incontro-dialogo tra diverse culture, è ormai necessaria.
La sua necessità è data in primo luogo data configurazione multiculturale che sta assumendo il mondo, che pur attraversato da fondamentalismi, irrigidimenti e chiusure, diventa sempre più miscela di culture, melting-pot dove ogni cosa confluisce e si amalgama, un grande crogiuolo dove razze, culture, tradizioni, idee, religioni, usanze e costumi, cibi e lingue si uniscono inscindibilmente e (auspicabilmente) convivono. In questo nuovo assetto la società si configura variegata come il manto di Arlecchino [M. Serres, Il mantello di Arlecchino. “Il terzo-istruito”: l’educazione dell’età futura, Venezia, Marsilio, 1992], un patch-work reso possibile dagli spostamenti e dall’incontro inedito di persone, cose e informazioni che le migrazioni da un lato, e le nuove tecnologie dall’altro, hanno attuato. Tutto ciò rende reale e urgente il problema di come affrontare la multiculturalità, anche perché essa assume un duplice significato: di minaccia o di opportunità. Di minaccia in quanto ancora ai giorni nostri lo straniero è “barbaròs”, colui che balbetta la lingua dell’in-group, incapace quindi di comprendere e di farsi comprendere, demonizzato, reso capro espiatorio di frustrazioni e violenza repressa.
Tutto ciò ha un” illustre” precedente nel mondo moderno: precisamente nel 1492, data presunta proprio della nascita della Modernità, quando l’incontro della cultura occidentale con una cultura altra, si trasformò, da grandiosa opportunità che era, in uno sterminio per mano della cultura europea etnocentrica, razzista, imperialistica, coloniale, e dominante (non perché più giusta o più vera, ma perché più forte), attraversata dall’idea dell’affermazione dei propri valori attraverso la cancellazione di tutto ciò che fosse diverso.
L’intercultura, invece, si fonda su altri caratteri, opposti a quelli precedentemente enunciati: la differenza come valore, lo sguardo antropologico, il dialogo e l’incontro.
E’una scommessa e una sfida, colta in primo luogo dalla pedagogia che della nuova forma mentis che dall’intercultura deriva deve occuparsi e deve diffondere, a livello sia teorico che pratico.
La differenza, dicevamo, è ciò che contrasta l’identità e l’appartenenza. Considerata fino ad oggi un disvalore e una minaccia all’identità, la differenza in tutte le sue declinazioni, sia essa religiosa, sessuale, etnica, si assume il ruolo di “squadernare” l’universo dei possibili modi di essere dell’umano, di mettere in gioco nuovi modelli, e di rendere quindi possibile il confronto con l’altro, con il diverso. Il suo difficile compito è di contrapporsi all’identità, principio fondante dell’Occidente posto a fondamento logico e metafisico in primo luogo da Aristotele e da tutta la storia della filosofia greca. L’intercultura si propone invece di affermare il pluralismo come ricchezza e valore, sconfiggendo la logica dell’appartenenza, laddove significhi l’identificarsi con una terra e una storia che cristallizzino l’io.
L’idea della sopraffazione, dell’io che si afferma, si riscontra diffuso ai giorni nostri, poiché veicolata dalla televisione in primo luogo: l’affermazione del sé più bruto, non quello delle qualità intellettuali, etiche, relazionali, ma quello della ricchezza sbandierata, del corpo esibito e mercificato, della legge del più forte e del più violento, della parola che vince sull’altra perché urlata, reiterata, dell’immagine onnipresente, capace di sopraffare. E’ in questo caso che si è parlato di “io minimo”, perché solo, chiuso nel suo narcisismo, incapace di comunicare.
Ciò che il reale incontro con l’altro esige, e uno degli aspetti su cui l’intercultura si fonda, è invece la possibilità di un io che si fa tu, che ha la capacita di relativizzarsi, di mettersi in discussione, di porsi come punto di vista tra gli altri, di tacere per ascoltare. E per far ciò l’Io (che, per dirla con Franco Cambi “ha faccia di tu” [F. Cambi, Intercultura, pedagogia, teatro, Roma, Carocci Editore, 2001] deve farsi carico, certo con rischio, della propria identità multipla, non divisa ma plurale, in grado di differenziarsi in io paralleli e di incontrare realmente l’altro: un’io che pone se stesso come problema e non come fondamento alla maniera di Cartesio.
Così facendo, la chiusura dell’“io minimo” unicamente rivolto a sé, può abbandonare lo specchio in cui si rimira e guardare al mondo come una continua avventura di ricostruzione di un sé mobile, che si costruisce in itinere nel dialogo e nell’incontro.
Ciò di cui l’intercultura inoltre si sostanzia, dicevamo, è lo sguardo antropologico dotato della capacità di relativizzare i saperi e le culture. Lo “sguardo da lontano” di Lévi-Strauss (osservare una cultura altra relativizzando la propria), e la figura stessa dell’antropologo che è attento a ciò che è diverso, che partecipa per comprendere e per attuare questa partecipazione si decostruisce, riconoscono nella differenza un principio e un valore. La critica all’etnocentrismo già dal ‘700 aveva dato i suoi frutti ma era rimasta una prospettiva elitaria, da studiosi. Adesso, invece, il sorgere di una nuova forma mentis che faccia dell’incontro e del dialogo con l’altro il suo fondamento e il valore per eccellenza va assimilato, e complice la pedagogia, deve permeare di sé la cultura collettiva.
A proposito del dialogo (o dell’ascolto, che vi è sotteso), Franco Cambi lo pone come una delle 4 categorie dell’ intercultura: quella senza la quale ogni condivisione sarebbe impossibile. Il dialogo è esso stesso un valore, fine e mezzo dell’intercultura, grazie a cui è possibile proiettarsi sulla differenza dell’altro e accogliere la realtà plurale e la varie manifestazioni dell’esistente interiorizzandole, accogliendole come possibili visioni del mondo.
La prospettiva privilegiata che emerge è chiaramente quella etica: lungi dall’essere pura accoglienza tout-court il dialogo trova ancora una volta nel suo farsi e nella reale presenza dell’altro il suo significato. Naturalmente, la categoria-dialogo presuppone la categoria-decostruzione, intesa come una messa in discussione dell’identità in quanto “punto di vista che non esclude altri punti di vista” che non si pone come egemone e assoluta o portatrice di verità.
Altra categoria fondamentale è la tolleranza, da molti definita “cripto-egemonica”poiché presuppone uno sguardo dall’alto, quello di chi tollera a discapito di colui che è tollerato. In realtà, il ruolo di chi tollera e di chi è tollerato è compresente nello stesso individuo, per cui di fatto non c’è uno che “assolutamente tollera” e uno che è “assolutamente tollerato”.
E’ nella compresenza di questi ruoli che ci si “incontra” in una prospettiva “etica”.
La costruzione in comune, categoria legata alla concreta situazione comunitaria a cui è demandata la costruzione di valori etici condivisi e dialettici, rimanda decisamente alla prospettiva pedagogica. Se intesa non solo come “fare insieme”, ma anche come “pensare insieme” racchiude il compito della riflessione su se stessa e della trasmissione della cultura che la comunità deve condividere, pedagogisti e scuola in prima linea, in quanto luogo della trasmissione di saperi per eccellenza.
Dunque l’intercultura si pone quindi come una vera e propria “rivoluzione” antropologica, un mutamento di paradigma rispetto al passato, che rompe con ciò che era considerato fondante, proponendo una nuova visione pluralistica della realtà.
La pedagogia, in quanto scienza della formazione, è la prima tra le scienze umane che stanno lavorando a questo compito, quello di forgiare questa nuova forma mentis. Alla luce di quanto detto, la pedagogia deve nutrirsi di quei fondamenti teorici e filosofici di cui sopra (dell’antropologia culturale, della differenza, dell’incontro e dell’ascolto) e non esser pura pratica o generico accoglimento e fondare la propria riflessione su un'appartenenza capace di rileggersi, di operare revisioni, di ripensare l’identità. La forza delle nuove identità forgiate e forgiatisi in itinere, è proprio la consapevolezza di sapere la diversità, e la sua forza nel poter incontrare realmente il nuovo poiché capace di pensarlo continuamente. Il nuovo paradigma pedagogico non è un semplice impegno educativo, ma un pensiero capace di teorizzare i fini e i mezzi dell’intercultura per dar vita ad una cultura fondata sul meticciato, ibrida, che pure mantenendo gli statuti di base della cultura originaria, la riconnetta ai principi nuovi prodotti dalla globalizzazione.
La scuola è naturalmente per sua stessa costituzione luogo di incontro tra diversi, dove ci si “allena” al dialogo e al pluralismo e alla molteplicità dei punti di vista. E’ uno spazio di confronto dove attuare ancora una volta l’incontro, il dialogo e la costruzione in comune ponendosi reciprocamente in ascolto a prescindere che si appartenga o no alla stessa etnia. Le differenza tra alunno e alunna, tra status sociale degli alunni, tra alunni e docenti, le differenze generazionali (il rapporto con i genitori) fanno si che la scuola sia il terreno dove si possa ”insegnare la democrazia praticandola” [F. Pinto Minerva, Intercultura, Laterza, Roma-Bari 2002]. Più che di accoglienza deve parlarsi di incontro e scambio, in cui la reciprocità ha un valore fondamentale. La scuola è un laboratorio permanente sulla differenza in cui operare il passaggio dal pensiero monolitico (quello che si nutre dell’appartenenza) al pensiero nomade e migrante (quello che vive l’appartenenza come problema, nel suo farsi); il luogo dove la forma mentis dell’intercultura può diventare habitus, cultura condivisa e realizzare l’obiettivo di divenire fucina ed esercizio di democrazia, in cui ampio spazio è dato al dialogo, allo scambio, all’interiorizzazione di idee comuni.
Naturalmente il progetto formativo va ripensato in tal senso: a partire dal contesto scolastico, dai luoghi. Lo spazio stesso deve dichiarare l’apertura, utilizzando lingue diverse nella comunicazione, negli avvisi, non solo per l’utilità che questo comporta, ma per dar visibilità agli alunni immigrati, comunicando le potenzialità creative che l’arrivo di un bambino straniero offre e per comunicare la convinzione che l’eterogenetà è fonte di ricchezza.
Tutte le discipline scolastiche sono chiamate riscrivere i loro curricula in prospettiva interculturale: in primo luogo la lingua. Strumento per l’espressione di sé e comprensione degli altri, può divenire da ostacolo insormontabile a occasione di scambio. Naturalmente per fa ciò occorre il lavoro coordinato dei docenti, che con un atteggiamento volto a incoraggiare anche i minimi progressi dell’alunno immigrato e mai all’intolleranza verso incertezze o lentezze accolgano con giocosità e creatività la presenza dell’alunno straniero, osteggiando, dentro e fuori di sé quei seppure velati o inconsci tentativi di assimilazione e omologazione, facendo dell’eterogeneità una ricchezza e un valore.
La narrazione, sia essa di fiabe (che richiamano sempre la cultura di origine, ma che hanno una capacità di essere condivise da tutti, bambini e adulti), o di racconti biografici o storici dei paesi di provenienza, si presta a divenire una finestra sui mondi di facile comprensione e capace di suscitare grande interesse per il bambino. Ma di questo diremo in seguito.
Per quanto riguarda il curricolo degli studi storico-geografici, è uno degli assi principali del percorso formativo, su cui si fonda la reale possibilità di costituire un pensiero migrante. La presenza di alunni di altri paesi può essere di stimolo a studiare storie e geografie altre nella convinzione che la storia è sempre più storia dell’umanità e non del singolo paese, in cui ogni avvenimento è in profonda connessione con avvenimenti lontani nel tempo ma anche nello spazio.
Così la geografia, da meramente descrittiva, divenga profonda conoscenza del territorio e del mondo, capacità di orientarsi e di adattarsi al cambiamento e spunto di riflessione del rapporto uomo-ambiente e sull’influenza di quest’ultimo sulle culture. Tutto insomma deve mirare alla costituzione di un pensiero mobile, adattabile perché aperto al cambiamento. Storia e geografia vanno quindi ripensati in termini più generali, in cui il soggetto non è il singolo paese, ma l’Umanità, contribuendo a formare nei singoli l’idea di “cittadino del mondo” proposta da Pinto Minerva.
L’insegnamento della religione (o meglio delle religioni) pone, in quest’epoca segnata dai fondamentalismi, dagli scontri a sfondo religioso e dall’intolleranza, una questione delicatissima. In termini interculturali si impone un passaggio da un insegnamento confessionale ad un insegnamento basato sul confronto e il dialogo. Le religioni, per la loro importanza nella costituzione di valori, abitudini di vita, credenze, e di appartenenza in genere, costituiscono un terreno in cui l’incontro e lo scambio possono essere di natura profondissima. Per far ciò, e affinché ciò non alimenti chiusure e irrigidimenti, deve proporsi un insegnamento volto allo scambio e alla convinzione che i propri valori e la propria fede non neghino altre fedi e altri valori, evidenziando come vi siano molti valori comuni a diversi popoli e culture. Naturalmente la questione della modalità dell’insegnamento della religione mette in campo non pochi problemi, posti in primo luogo in Italia dalla Chiesa cattolica. Sono state fatte varie ipotesi: da quella di uno studio storico delle religioni a quella dell’affiancamento all’insegnamento attuale della religione, di laboratori sulle religioni, ma la questione è ancora aperta.


II - Intercultura, pedagogia, teatro

Il teatro appartiene alla sfera del rito, del gioco e della festa ma anche dell’ artigianalità e della comunicazione in ogni senso, coinvolge tutto quel campo che possiamo chiamare genericamente antropologico.
E’strumento di ricerca verso l’io e verso il mondo.
Questo teatro non mira soltanto al prodotto come fase assoluta, ma pone l’attenzione al processo come fase continua di apprendere attraverso il fare e l’immaginare.
Giuliano Scabia, “Teatri delle diversità”


Prendendo come spunto la dichiarazione dell’importanza, secondo Pinto Minerva, del ruolo della narrazione in una prospettiva interculturale, mi fermerei a sottolineare le potenzialità di un mezzo espressivo che sulla narrazione si fonda: il teatro, che è anche una pratica di convivenza democratica e una modalità di conoscenza reciproca. Già utilizzato in alcune (poche) scuole, soprattutto licei classici per i rimandi alla cultura greca e latina, il teatro è a mio parere una pratica educativa che è anche spunto di riflessione teorica sul mondo, costitutivamente interculturale.
Esso può dispiegare le proprie potenzialità non solo nell’istituzione scuola e in età scolare ma anche come strumento educativo in età adulta e nei più diversi contesti. Il teatro, che nella forma della narrazione trova le sue radici nelle tradizioni di ogni paese, è una di quelle forme dell’appartenenza che ben si presta ad essere messa in campo nel gioco dell’incontro tra culture.
Ma come far dialogare filosoficamente i poli dell’intercultura, della pedagogia e del teatro?
Se “l’intercultura come prassi pedagogica è il varco” [Ibidem ] per la realizzare la nuova identità meticcia, i percorsi di cui la pedagogia può servirsi sono molti.
Uno dei possibili è certamente il teatro.
Naturalmente mi riferisco a certo tipo di teatro, quello che in seno alla questione semiotica (vedi ateatro) abbiamo definito “teatro laboratoriale”, in contrapposizione ad un teatro che definiamo “ermeneutico” o “di prova” in cui colmare la distanza tra testo scritto e messa in scena è quasi uno svilimento del testo, con un ruolo “debole” assegnato alla prassi e un ruolo “forte”assegnato alla drammaturgia. [C. Gebbia, La specificità del segno teatrale Una questione di gatti, ateatro 81.26]
Il teatro laboratoriale si pone invece come sistema integrato di segni di varia natura, dati dalle sovrapposizioni di piani differenti, ma non ordinati gerarchicamente: quella che abbiamo chiamato “iridescenza del segno”.
I nessi tra pedagogia e teatro, comunque, sono evidenti.
Scrive Cambi: “La pedagogia, è disciplina che si colloca tra teoria e prassi, in quanto sapere ma progettuale”; e ancora: “disciplina di frontiera posta al limite di questa frontiera dei saperi, là dove si impastano nella pratica e dove si raccordano nell’umano che li sostiene”. [Ibidem ]
Peculiarità simili possono essere rinvenute nel teatro: incapace di essere pura teoria, o letteratura, ha in sé costitutivamente la dimensione del fare, la presenza del corpo, lo sguardo dell’Altro.
E se la pedagogia “possiede almeno una prassi: quella educativa, per modificare la realtà”[Ibidem], così il teatro (quello laboratoriale) ha proprio nel laboratorio la sua prassi: luogo di incontro reale, capace di render conto della complessità delle relazioni, incontro tra volti, incontro tra culture, frattalica fucina di fucine.

Osservando diversi metodi laboratoriali [Ricerca personale condotta partecipando/osservando i laboratori di: Carlo Cecchi e l’ attenzione al problema recitativo dell’ “intonarsi” gli uni agli altri, Marco Baliani, narratore, Claudio Collovà, con la “vivificazione delle immagini pittoriche” e con il lavoro con i ragazzi della Comunità Filtro del Carcere Minorile Malaspina di Palermo, Michele Perriera alla scuola di teatro Teatès di Palermo, con particolare riferimento all’etica del lavoro teatrale, Maria Claudia Massari del “Corpus Rompus” di Siena, Armando Punzo e la “Compagnia della Fortezza” con il lavoro ventennale con i detenuti del carcere di Volterra] possiamo rinvenire una consonanza alle categorie del teatro laboratoriale e quelle dell’intercultura enunciate da Cambi a cui possiamo infatti associare, per macrodefinizioni, una fase del lavoro laboratoriale:

alla decostruzione/la creazione del gruppo:
La figura del regista partecipante fa sì che esso non agisca da occhio neutro-esterno rispetto alla costruzione dello spettacolo ma piuttosto da uno dei punti di vista dal cui incrocio si genera il significato di quanto si sta costruendo insieme e senza una progettualità forte a monte del lavoro laboratoriale. Ciò comporta una preliminare attenzione alle dinamiche di conoscenza reciproca del gruppo piuttosto che agli esiti estetici finali.

• al dialogo/l’ascolto:
Sulla base della costruzione del gruppo sopra accennata si ha poi una sorta di restituzione della propria individualità da cui viene però esclusa la fissità del ruolo attore-spettatore. Il metodo laboratoriale prevede il vedere e l’osservare oltre che il fare, come momento di pari importanza.

• alla tolleranza/la fiducia:
Attraverso una serie di esercizi laboratoriali viene costruita una fiducia fisica ed emotiva nell’altro. Ognuno diviene depositario della incolumità e dell’intimità degli altri.

• costruzione in comune/la maschera
La maschera, intesa come tappa del processo in cui il materiale prodotto diventa autenticamente “teatro”, proprio per la sua generazione ibrida e comunitaria racchiude in sé il percorso pedagogico ed estetico e segnala la necessaria indiscernibilità dei due aspetti. Se la maschera è autenticamente teatrale, nel senso delle categorie laboratoriali sopra descritte, essa è il prodotto di un incontro etico, tra individui, in cui si genera l’estetico.

Da quanto detto emerge una profonda affinità tra il percorso etico-estetico-pedagogico sopra proposto e la faziana “logica della compossibilità”, su cui Giambalvo basa la reale possibilità di un mondo condiviso [E. Giambalvo, L'uno/i molti, l'io/l'altro, l'identico/il diverso/il differente e la logica della compossibilità, Palermo, Edizioni della Fondazione Nazionale "V. Fazio-Allmayer", 1997]. In tale percorso infatti la formazione di singoli è affidata alla collaborazione che si instaura all’interno del gruppo, il teatro così sembra divenire il luogo privilegiato per l’ “attuare e promuovere la formazione umana come educazione al pluralismo, al riconoscimento e al rispetto dell’alterità, o della diversità-differenza, dei singoli individui e delle varie culture” [Ibidem ].
Se concepiamo come auspicabile un universo di compossibili il teatro appare il laboratorio per eccellenza in cui sperimentare in piccolo ma concretamente le dinamiche interazionali, estetiche e concrete che possano inverare la progettualità pedagogica.
La maschera, obiettivo del percorso laboratoriale teatrale, rinvia a quella categoria di singolo relazionale e compossibile in cui sembra essere racchiusa la possibilità di una nuova identità costruita su un reale pluralismo che accoglie come contributo imprescendibile la storia dei singoli senza decidere preventivamente un punto di vista privilegiato.
Il teatro così inteso è inoltre un “laboratorio di democrazia”, naturalmente quando non si fondi sul narcisistico e compulsivo bisogno di esibizione e di plauso.
In tale percorso infatti la formazione di singoli è affidata alla collaborazione che si instaura all’interno del gruppo. Il teatro così sembra divenire il luogo privilegiato per promuovere e attuare la formazione come educazione al pluralismo, al riconoscimento e al rispetto dell’alterità.
La Differenza emerge quindi come valore del processo di costruzione del significato in una dimensione dialogica in cui la disponibilità all’ascolto si connota come autentica apertura al punto di vista dell’altro; viene in tal modo meno una identità forte legata a prospettive egemoniche e ad un soggetto fisso nel proprio solispismo o al narcisismo comune a tanti presunti “artisti”.
Da quanto detto emerge una profonda affinità tra il percorso teatrale e la reale possibilità di un mondo condiviso posta come obiettivo dall’ Intercultura, proponendosi non soltanto come pratica ma come attività “che ripensa il mondo” in termini di “compossibilità” [Ibidem ], prendendo così parte a quella auspicata “rivoluzione antropologica” che l’Intercultura, attraverso la pedagogia in primo luogo, ha il compito di innescare, risignificando il concetto di bellezza come qualcosa non da contemplare, ma da condividere in quanto cittadini del mondo e membri dell’Umanità.


 


 

Olivier Bouin e il nuovo corso di Santarcangelo
Una intervista al direttore generale e artistico del festival
di Redazione ateatro

 



Olivier Bouin.

Quali sono le maggiori differenze tra la realtà italiana e quella francese nell’ambito del nuovo teatro? Quali elementi della realtà francese cerca di innestare in Italia? E quali sono gli aspetti della realtà italiana che dovremmo esportare oltralpe?

E’ difficile sintetizzare una situazione complessa e articolata, non credo ci siano profonde differenze perché ormai la creazione artistica si muove verso una direzione transdisciplinare e la tendenza generale è di unire diversi linguaggi ed esperienze sceniche. Forse si può dire che in Italia il teatro ha osato una sperimentazione maggiore, molti gruppi degli anni ’90 si sono spesso liberati dal dominio del testo per avvicinarsi ad esplorare linguaggi vicini al cinema, alla videoarte sottolineando l’importanza dell’immagine mentre in Francia si è rimasti più legati al testo e alle grandi scenografie, rese possibili anche da una maggiore disponibilità economica. Al di là del teatro, due discipline importanti hanno conosciuto in Francia uno sviluppo particolare: la danza contemporanea e il nuovo circo.
La differenza maggiore tra Francia e Italia si trova proprio nel diverso sostegno economico da parte degli enti pubblici, decisamente più consistente in Francia e strutturato secondo una scansione pluriennale. Sottolineo in particolare questo aspetto perché è assolutamente fondamentale per gli opertori e per gli artisti. Agli operatori dà la possibilità di programmare in anticipo, di costruire progetti artistici pluriennali o di sviluppare collaborazioni internazionali di rilievo. Agli artisti permette di avere maggiore stabilità, di costituire compagnie ben strutturate, di avere un punto fisso per l’organizzazione e per la creazione di possibili collaborazioni. In Italia purtroppo operatori e comagnie sono costretti a re-inventare ogni anno tutto, salvo qualche situazione eccezionale, sostenuta da una Regione e/o una Provincia particolarmente generose o da un sostegno economico "privato" significativo.
Ovviamente non possiamo decidere direttamente del futuro della politica culturale del nuovo governo, ma spero che darà una vera spinta allo spettacolo dal vivo. Mi sembra che l'incertezza economica e la fragilità organizzativa ci costringano ad inventare modelli nuovi. Numerose compagnie italiane degli anni '90 sono state molto brave ad adattarsi alla mancanza di risorse, gli operatori forse di meno... La grande reattività e "plasticità" delle strutture delle compagnie italiane potrebbero essere studiate dalle compagnie francesi. Comunque oggi l'Italia è arrivata ad un punto di non ritorno e senza un impegno forte della parte politica non potrà più andare avanti...



Attentati alla vita di lei di Accademia degli Artefatti.

Lei è stato scelto come direttore del Festival di Santarcangelo attraverso un concorso di idee. Ai candidati invitati era stato chiesto un progetto artistico. Qual era il suo progetto, quello poi risultato vincente?

Fin dall'inizio ho puntato sull'articolazione di tre cose fondamentali: il valore dei linguaggi contemporanei nella loro diversità, l'importanza della mediazione nella relazione con lo spettatore e il territorio, la necessità di gestire al meglio le risorse presenti e future. Sul primo punto, mi sembra importante rendere conto della diversità delle espressioni contemporanee e soprattutto della soppressione dei confini inutili tra diverse discipline artistiche. Da questo punto di vista, c'è una certa continuità con le utlime programmazioni del festival e quindi il nuovo sottotitolo "International festival of the Arts" prende atto di un cambiamento in realtà già in corso. Ritengo la mediazione un elemento cruciale del “sistema festival” che vorrei impostare a Santarcangelo. Vorrei sviluppare un dialogo e un legame particolare con il pubblico locale e con il territorio, senza snaturare la linea programmatica del festival che rimane fortamente legata alle espressioni artistiche contemporanee e internazionali. Per me un festival è un medium che deve attivare tutte le possibilità di mediazione. Quindi già da quest'anno abbiamo voluto impostare alcuni tasselli importanti: un libro in collaborazione con Fandango Libri dal titolo Santarcangelo 06. Scritti sulla contemporaneità, che raccoglie interventi di alcuni degli artisti della 36^ edizione e di studiosi e critici per una riflessione sul senso della contemporaneità; un luogo, il disimpegno- spazio lounge, uno spazio, fisico e di pensiero, che mette a disposizione del pubblico libri, riviste, DVD, CD, video, giornali, documenti e occasioni d’incontro con artisti, critici e scrittori, aperto già prima dell’inizio del festival; una festa d'apertura organizzata con le altre associazioni del territorio che si chiamerà “Una notte a Santarcangelo”; un catalogo con molte immagini e un linguaggio volutamente più accessibile ad un pubblico ampio. Dobbiamo assolutamente uscire della nostra marginalità per ricreare un interesse verso i linguaggi contemporanei non solo in un pubblico di addetti ai lavori...
Per poter lanciare nuove iniziative in un contesto economico molto degradato, abbiamo provato ad "ottimizzare" la nostra organizzazione e trovato qualche aiuto esterno. Una gestione rigorosissima è fondamentale per uscire "par le haut" da questa situazione impossibile.



Neon. Ambienti sottopassione di Umpalumpa ProdAction.

Uno degli aspetti controversi della procedura di selezione riguardava la richiesta di indicare possibili ulteriori fonti di finanziamento della manifestazione. Come avete affrontato e risolto il problema? E qual è il budget dell’edizione 2006? Ci sono sponsor istituzionali?


Non abbiamo risolto il problema! L'edizione 2006 ha sofferto molto di una situazione economica poco sana. Ha avuto un 15% in meno di risorse che diventa complessivamente un 20% se consideriamo il fatto che i costi vivi delle spese organizzative sono notevolmente aumentati. Stiamo lavorando per sistemare questo problema nell'arco dei prossimi tre anni. Abbiamo impostato un piano di collaborazioni a 360 gradi per diversificare le entrate e cosi garantire l'indipendenza del festival. Abbiamo moltiplicato di tre volte le risorse provenienti da aziende private. Si puo fare molto di più ma questa collabroazione richiede fiducia e quindi tempo. Abbiamo già quasi pronto il cartellone per il 2007 per poter lanciare collaborazioni da subito.



Borges + Goya di Rodrigo Garcia (foto di S. Dominguez).

Quali compiti ha assegnato al condirettore del festival Paolo Ruffini? Come vi siete divisi le competenze?

Sono molto contento che Paolo abbia accettato subito la mia proposta di lavorare insieme. Porta con sè uno sguardo critico molto informato e preciso sulla creazione italiana nei settori del teatro e della danza. E ha condiviso con me le linee guida del percorso che Santarcangelo deve compiere nelle prossime edizioni: apertura internazionale, transdiscplinarieta, coproduzione delle giovani compagnie italiane, mediazione e accessibilità dei contenuti presentati, collegialità. Quest’ultimo punto ci permette di lavorare insieme senza concorrenza inutile ma con grande apertura e curiosita reciproca. Un attegiamento del genere tra di noi è il primo passo verso una condivisione del nuovo progretto per Santarcangelo che proponiamo insieme.



Visita Guiada di Claudia Dias (foto di Patricia Almeida).

Quali sono i punti di forza di questa edizione del Festival? In quali direzioni avete puntato nella messa a punto del programma?

Abbiamo cercato di dar vita ad un festival che fa dialogare le diverse esperienze della danza (Claudia Dias, Catherine Diverrès, Claudia Triozzi, MK, Kinkaleri, Silvia Rampelli, Roberto Castello), e della drammaturgia contemporanea, intesa nella sua complessa articolazione scenica (Accademia degli Artefatti, Alessandro Berti, Stefano Massini, Forced Entertainment, Rodrigo Garcia). Ma soprattutto abbiamo sottolineato l’esigenza di ripensare al concetto di “spettacolo contemporaneo” come ad un segno che amplifica e moltiplica i significati guardando l’esistente della creazione senza prediligere un’area di riferimento.



Crescita XII della Socìetas Raffaello Sanzio.

Santarcangelo è da sempre una vetrina delle ultime novità della scena italiana. Quali sono i giovani gruppi emergenti che lancerete quest’anno? Come avete monitorato il nuovo? E quali sono stati i criteri di scelta?

Abbiamo lavorato cercando di creare sinergie con realtà e progetti che si muovono in questo contesto, individuando figure che rappresentassero una riflessione ulteriore del fare scenico soprattutto nell’ambito di una giovane generazione, come Nanou, Vincenzo Carta, Luca Nava, Maurizio Camilli, Umpalumpa prodAction, conosciuti dal vivo anche grazie ad alcune occasioni (Progetto Moving, che vede coinvolti Fabbrica Europa e Cango di Virgilio Sieni, il Premio Tuttoteatro.com-Dante Cappelletti e il progetto Anticorpi di Monica Francia e Selina Bassini).



Exquisite pain di Forced Entertainment.

Una delle vostre direzioni di lavoro, a un primo esame del programma, riguarda la contaminazione tra il teatro e altre forme artistiche che hanno una dimensione performativa, dalla danza alle arti visive. Qual è la motivazione teorica di questa scelta?

Crediamo che oggi sia necessario fotografare l’esistente, ciò che trasforma e rielabora dal punto di vista della creazione scenica i presupposti stessi del teatro, della danza, delle arti visive, ci interessa insomma indagare come si sposta (e se si sposta) il confine dei linguaggi verso la riformulazione di un’idea dello “spettacolo contemporaneo” multiplo e stratificato. Anche per questo il festival vuole diventare espressione d’arte in senso pieno, non solo teatro o danza, ma momento di elaborazione oltre la pratica: in questa direzione si colloca la pubblicazione con Fandango Libri.



Ccelera di Maurizio Camilli.

Uno dei nodi problematici del Festival di Santarcangelo è da sempre il rapporto – diciamo così – tra il teatro e la piazza, tra l’anima colta e sperimentale e quella popolare (che qualcuno vorrebbe addirittura turistica). Come avete affrontato il problema? Che farete in piazza Ganganelli? Ci sarà ancora il tendone del Circo Inferno Cabaret?

Abbiamo pensato di inaugurare il festival con uno spettacolo/racconto di Pippo Delbono in piazza Ganganelli, gratuito e rivolto a tutto il pubblico di Santarcangelo. Vuole anche essere un momento di festa che celebra i vent’anni di Pippo, infatti il sottotitolo dell’evento recita “da Santarcangelo a Santarcangelo”. In effetti apriremo con un festa vera e propria, una sorta di “notte bianca”, l’8 luglio, che vedrà per tutta la notte accadere a Santarcagelo diverse cose, da letture a performance, installazioni e piccoli accadimenti di teatro e danza. Quest’anno non ci sarà il Circo Inferno ma ci sarà, invece, come dicevo prima, il disimpegno/spazio lounge, un luogo del festival (l’ex teatrino della Colleggiata) dove incontrare artisti e pubblico, creato per dibattiti, ricerche video e librarie, adibito a presentazioni dei libri, incontri con le compagnie e momenti di approfondimento, aperto tutto il giorno.


 


 

Contro la falsa illusione e verso la verità nuda
La rappresentazione nell’opera di Marina Abramović
di Francesca Contini

 



Ho incontrato Marina Abramović il 10 settembre 2005, due giorni prima del mio compleanno, e mi sembrava già un bel regalo. La sorpresa è stata ancora più grande quando mi sono trovata davanti a una bellissima donna di quasi sessant’anni che io avevo immaginato forte e volitiva e che, invece, appariva ora ai miei occhi smisuratamente gentile e, a tratti, addirittura fragile.
L’incontro ha avuto luogo in un tiepido pomeriggio di fine estate nel cortile della Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento, ente organizzatore del Premio Internazionale della Performance presso la Centrale di Fies, già sede dell’interessante Drodesera Festival. Marina, madrina simbolica e membro della giuria che la sera stessa avrebbe assegnato i premi agli artisti che avevano presentato i propri progetti nel corso del mese e mezzo precedente, mi concedeva un paio delle sue poche ore libere prima degli impegni presi per la manifestazione. Il nostro colloquio non è stato disturbato da nessuna interruzione, nemmeno da una banalissima chiamata al cellulare della super impegnata Marina. Questo mi è sembrato uno splendido corollario al già appetitoso regalo.
Avevo chiesto all’artista di poterle fare un’intervista per la mia tesi dal titolo Teatro e performance: intersezione di linguaggi nell’opera di Marina Abramović. Mi premeva rivolgerle alcune domande direttamente per chiarire con quale criterio i linguaggi del teatro e della performance fossero stati utilizzati all’interno del suo percorso artistico. La carriera di Abramović, quasi esclusivamente dedicata alla performance e coronata da successo sin dal 1997 quando le fu assegnato il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia per il suo Balkan Baroque, è infatti caratterizzata, da un certo punto in avanti, da un progressivo avvicinamento al teatro in relazione ad alcuni suoi interessanti lavori come Work Relation (1978), Positive Zero (1983), Delusional (1994) e il work in progress The Biography (dal 1992 in poi).
Avevo letto alcune dichiarazioni di Abramović e mi sembrava che l’artista mantenesse chiaramente separati i due linguaggi con l’intento di avvalersene per finalità diverse. Le differenze che l’artista sentiva tra i due ambiti possono essere così riassunte:
• nel teatro la pratica dell’attore e gli strumenti che egli usa sono finalizzati alla finzione / nella performance l’artista non finge e tutto ciò che utilizza mantiene la sua accezione reale
• nello spettacolo teatrale la struttura del copione è predefinita e non può essere modificata / nella performance l’andamento dell’azione non è prefissato, come anche il finale
• il teatro prevede che l’attore provi prima di andare in scena e, quando si mostra al pubblico, l’andamento della pièce è a lui nota mentre al pubblico è sconosciuta / l’artista non “prova” la performance e, nel momento in cui la realizza, questa mantiene la sua caratteristica di novità sia per l’agente che per il pubblico.
• nel teatro l’attore ripete più volte lo stesso spettacolo / la performance non ha repliche

Mi sembrava sempre più chiaro, però, che in queste dichiarazioni Marina Abramović si riferisse a un teatro convenzionale e “classico”, ancora fortemente legato alla ripetizione di un testo; una forma teatrale già messa in discussione da Artaud, personaggio nodale per lo sviluppo di tutta l’arte contemporanea. Se quello che viene rifiutato è la finzione sulla scena, mi sentivo di poter avanzare l’osservazione che anche molta parte del teatro contemporaneo ha lavorato per estromettere la finzione dal palco, riuscendo, in alcuni casi, a farlo molto bene e basta ricordare, per esempio, gli incredibili risultati raggiunti da Jerzy Grotowski e dal suo gruppo di lavoro. Anche la componente autobiografica, caratteristica fondante della body art e della performance, ha mutato l’approccio al lavoro di molti attori e registi contemporanei che non hanno più voluto mostrare la realtà dell’essere-attore nettamente distinta e separata da quella dell’essere-spettatore. Essa è, invece, perfettamente compresa nel qui e ora della rappresentazione. In presenza di queste caratteristiche mi sembrava che l’esperienza poetica e fisica che il teatro può generare fosse, a sua volta, unica e irripetibile, come quella evocata dalla performance. In questa condizione estrema della rappresentazione, ruoli e funzioni sono risucchiati all’interno di uno “stare comune” aperto alle variazioni emotive ed energetiche apportate da ogni singolo vivente che si inserisce nell’ambiente dove si svolge l’azione.
Il dubbio che l’artista jugoslava avesse rivalutato la natura del teatro al punto di utilizzarne alcuni codici, non ultimo quello della ripetizione, mi ha spinta ad incontrarla e a porle alcune domande.


Intervista a Marina Abramović, 10 settembre 2005


Francesca Contini: Qual è la ragione per cui hai deciso di usare il teatro per mostrare alcuni tuoi lavori come Positive Zero, Delusional e The Biography?

Marina Abramović
: Vedi, negli anni ’70 io odiavo davvero il teatro, come molti artisti performer, perché noi desideravamo veramente fare qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, che non fosse il teatro. Il teatro per noi era avvelenato, era l’idea di qualcosa di classico, della ripetizione del testo, (come Shakespeare sai...), dell’esagerazione degli attori, delle attrici che stavano sul palco e raccontavano queste storie in un modo totalmente falso, l’amare era falso, il piangere era falso. Era come avere solo l’idea di questo contenitore vuoto e qualche falsa illusione a proposito della vita. I performer avevano davvero un contatto molto più diretto con il pubblico. Noi non sapevamo mai quando sarebbe finito, conoscevamo l’idea di base ma non la provavamo. Noi non sapevamo quando sarebbe finito e non sapevamo se l’idea avrebbe funzionato, perché non provavamo mai e non provavamo mai a causa delle difficoltà fisiche della pièce. Se tu dovevi tagliarti, non potevi farti il taglio prima che il pubblico arrivasse, per prova, dovevi farlo solo quando ce l’avevi di fronte. Così c’era anche l’idea della performance in diretta relazione con qualcosa della vita reale perché generalmente ogni artista performer era occupato con la propria storia, con fatti biografici che voleva esprimere in forma di performance. La cosa più importante a proposito della performance era che quegli artisti volevano davvero usare il corpo come linguaggio, come una specie di oggetto-soggetto, usare le parole al posto della pittura, al posto di fare sculture o disegni.



Marina Abramovic e Ulay, Relations In Space.

Nella performance art arrivarono persone da aree differenti. Arrivarono dalla letteratura per fare performance e così usavano molto il linguaggio nel lavoro, oppure arrivavano dalla danza, così usavano maggiormente il movimento, oppure arrivarono dal cinema ed erano maggiormente coinvolti con il video, o arrivarono dal teatro ma volevano tentare di allontanarsi dal teatro per costruire azioni più semplici, oppure arrivarono dall’arte visuale ma lavorarono tantissimo con materiali grezzi di diverso tipo che avevano a che fare con il corpo. Usarono il sangue come pittura, come materiale da disegno, e cose di quel tipo, costruendo composizioni nello spazio con elementi diversi, con il corpo che era una parte di esse ma anche della vita di ogni giorno.



Marina Abramovic e Ulay, Imponderabilia.

E, ad un certo punto, io che ero con Ulay, desideravo fare un pezzo teatrale. Avevo l’idea di rappresentare un tipo di esperienza che avevamo avuto vivendo con gli aborigeni e con i monaci tibetani e c’era un festival olandese, un grande festival teatrale in Olanda, che ci diede la possibilità. Perché non usate il teatro e fate qualcosa? Questo fu l’errore più grande. Io penso che Positive Zero, dal mio punto di vista, sia il peggior lavoro che ho realizzato nella mia vita. Qualche volta si fanno errori perché dagli errori si impara. Ero molto interessata ai tarocchi, le carte dei tarocchi, il loro significato. Così presi quest’idea dei tarocchi e chiesi ad alcune persone che avevano una vita normale, che non erano mai state su un palcoscenico, di lavorare con i tarocchi. E chiesi ai monaci tibetani e agli aborigeni di venire a fare i suoni, la musica, e poi noi illustrammo la musica con immagini. Lavorammo duramente su questo pezzo dato che non avevamo mai avuto un’educazione teatrale e non conoscevamo nulla rispetto allo stare sul palco, a proposito delle luci, a proposito della composizione, a proposito del tempismo in teatro. Tentammo una sorta di unione tra le nostre povere conoscenze e gli elementi della performance. Penso che il risultato fosse un disastro. Non ho mai mostrato Positive Zero in nessun posto e davvero tutt’ora odio questa piece. Nel mezzo della rappresentazione mi sentii male, avevo la febbre a 40°. Mi sentivo come quando fai qualcosa di sbagliato e non ti puoi fermare, perché il teatro contiene centinaia di persone, (era pieno), le persone avevano pagato così tu dovevi fare qualcosa, e sai che stai sbagliando, e stavo male. Così questa è la mia esperienza con Positive Zero. Delusional è stata una storia molto diversa. Delusional era la storia con la quale in realtà già cominciai a lavorare per The Biography. Con essa comincia il lavoro con Charles Atlas. Charles Atlas è un arista visuale ma anche una persona che fa video sulla danza e mi chiese di realizzare, nell’89, un mio ritratto: solo quattro minuti per la televisione spagnola. Lo incontrai per la prima volta nella mia vita ed era una persona completamente differente da me. Veniva da quella sorta di generazione punk e gay, dei night club, cose molto estreme. Era un artista interessante ma era anche un frequentatore dei night club... Io sono molto diversa e tutto quello che stavo facendo era davvero barocco, sopra le righe, con molti elementi. Quando c’incontrammo gli raccontai il mio approccio alla biografia, quattro versioni diverse, e lui disse: “Perché non le fai tutte?” e facemmo quattro cose diverse, quattro minuti ma che continuavano ad essere molto minimali. Così lui fece un lavoro estremamente minimale e io un lavoro estremamente barocco con lui, ma la combinazione era davvero interessante. Ero molto interessata a lavorare con qualcuno che fosse così diverso. Cominciammo a parlare dell’idea di fare un’altra pièce teatrale per Delusional nella quale avremmo usato i topi come elementi. Quello non era solo teatro normale, era qualcosa di diverso. L’idea era di creare dei capitoli: madre, padre e topi. Tre elementi. Provammo e rappresentammo il lavoro e fu così strano, così diverso da tutto quello che avevo fatto prima. Leigh Bowery creò i costumi per la pièce, come quello per la Regina dei Topi. Il pubblico urlava in coro quando i topi correvano fuori e io ero calma. Pièce stupefacente. Mi ricordo che davvero io mi fidavo della sua visione così dissi: “Va bene, dimmi cosa devo fare che lo farò”. E finì in un modo… In un altro disastro. Mi ricordo che dopo la prima Rebecca Horn, una mia amica artista, venne da me nel camerino e mi disse, dopo aver visto la pièce: “Cosa ne hai fatto di te?”. Era un’altra cosa, però, diversa da Positive Zero. In Positive Zero ho fatto qualcosa di veramente non buono, in Delusional penso di aver rischiato molto, e sono contenta di questa esperienza che, per me, è stata una buona esperienza. Qualche volta i risultati possono non essere dei migliori ma il processo del fare è stato importante per me, l’ho amato molto.



E poi The Biography è la piece che assolutamente mi piacerebbe fare fino alla fine della mia vita perché è la rappresentazione del mio lavoro, della mia vita nel luogo teatrale ma con elementi di performance. E finalmente penso di aver trovato il giusto bilanciamento ora, posso farlo davvero perché il teatro non è più così puro come prima, ci sono così tanti elementi di performance in teatro che ora posso accettare il teatro dal punto di vista della performance.

F.C.
: Quali differenze senti tra il linguaggio teatrale e quello della performance? E quali sono le similitudini?

M.A.
: All’inizio il linguaggio teatrale era molto, molto differente ma ora non è più così. Penso che con il lavoro di artisti come Jan Fabre, Pina Bausch, o dei più giovani, nelle scene dei danzatori performer, qualcosa sia veramente cambiato, come anche per i Raffaello Sanzio. Penso che non ci sia più una così netta distinzione, penso che la performance influenzi enormemente il teatro. Quando ho replicato ora The Biography ad Avignone ero davvero sorpresa del grande successo di questa pièce perché ero comunque all’interno di un festival teatrale e ho detto: “Questo non è teatro, e davvero uno strano processo di combinazioni”. E poi ho chiesto al direttore teatrale: “Perché pensi che ci sia un tale successo?”. Lui mi ha risposto: “Naturalmente è un successo perché per vent’anni noi abbiamo portato elementi della performance nel teatro ed ora vediamo il materiale originale, questo è il motivo”.

F.C.
: Che differenza c’è nella tua condizione emotiva e di concentrazione prima di fare una performance e prima di fare un’azione maggiormente organizzata, anche con delle prove?

M.A.
: Devo dire che non c’è differenza per me. Se lavoro in un contesto teatrale, o sto facendo una performance, o anche se sto facendo una lettura, ho gli stessi problemi emozionali.



Marina Abramovic, Balkan Baroque.

I problemi cominciano il giorno prima. Nervosismo incredibile, davvero come un’irrequietezza nello stomaco, ansia, e il bagno prima di cominciare ogni performance. Anche durante le prove dicono: “Dov’è Marina?”, “È in bagno!”. Perché è solo un modo per riempire il tempo. Io sento paura come se fossi nel mezzo di una scena ma questo poi non succede, è solo una cosa psicologica e io penso che questo nervosismo, in qualche modo, mi porta alla concentrazione. Penso che sarei in maggior panico se non mi sentissi nervosa prima. Ma nel momento in cui vado di fronte al pubblico sia che si tratti di teatro, o performance, o lettura, c’è come un altro stato mentale che percepisco sempre. Il momento in cui il pubblico mi vede ed entra nello spazio della performance mi rende davvero calma. E io sono là, sotto controllo. Ma prima di questo è un inferno. Ho parlato con altri performer, anche con attori e provano la stessa cosa, c’è sempre questo tipo di problema. È molto interessante un articolo che ho letto su Laurence Olivier, un grande attore shakespeariano, e una volta disse, dopo vent’anni che recitava Shakespeare (vent’anni!), che lui aveva una specie di febbre da palco patologica e così lui saliva sul palco e nel mezzo della frase si dimenticava e non c’era modo di concentrarsi. Così il suo impresario per risolvere la cosa metteva, in ogni sua recita, tutti i suoi amici seduti in prima fila così che tutte le volte che lui aveva problemi con il testo, poteva guardare gli amici, riconoscerli, ritrovare confidenza per continuare il ruolo. Io credo che sia incredibile il fatto che possa accadere tutte le volte, imprevedibilmente. Così non c’è nessun tipo di preparazione, è qualcosa con cui devi davvero convivere.

F.C.
: Quali sono, secondo te, i maggiori ostacoli che un artista può incontrare nell’agire una buona performance? E quali quelli che può trovare un attore?

M.A.
: Io penso che il maggiore ostacolo, l’ostacolo degli ostacoli è solo se tu non sei abbastanza sicuro del tuo lavoro in quel momento. Se non sei abbastanza sicuro che il lavoro sia buono, se non sei sicuro che quello che stai facendo sia la cosa giusta. Questo penso che sia il maggior ostacolo. Perché allora, se tu sai che qualcosa è sbagliato, non ci sei al 100%. Io dico sempre ai miei studenti: “Dovete sapere che il pubblico è come un cane, percepisce l’insicurezza. Loro sentono quando tu hai paura, sentono quando non sei sicuro di te stesso e perdono la concentrazione”. Così questo è il maggiore ostacolo, quando non sei sicuro di te stesso e sai che sarebbe meglio smettere.

F.C.: Qual è il significato, all’interno della tua carriera artistica, di concetti come “rischio”, “esibizionismo”, “concentrazione” e “training”?

M.A.: Io penso di non avere esibizionismo. Ci sono così tanti critici, specialmente all’inizio del lavoro dei performer negli anni ’70, che criticano l’idea di esibizionismo nel lavoro dei performer, e il masochismo o il sadismo o qualsiasi cosa non conoscano ma, vedi, io non posso sapere per gli altri artisti, posso dire per me stessa, che quella non è la ragione per cui faccio performance, non è la ragione dell’esibizionismo o di correre rischi. Il mio lavoro è davvero sull’esplorazione delle differenti aree della conoscenza e delle emozioni umane. Abbiamo così paura del dolore. Mostrando il dolore di fronte al pubblico che guarda io mi libero dalla paura del dolore e tento anche di liberare il pubblico dalla paura del suo proprio dolore.



Marina Abramovic, Thomas Lips.

Questa è l’idea. Io penso che un artista debba creare un lavoro che elevi lo spirito delle altre persone e che dia coscienza, e penso che se sto mostrando diverse emozioni di fronte a te come performer, e davvero attraverso queste emozioni, tu sei il mio specchio e lo faccio per me ma lo sto facendo anche per te. Training... io non faccio training, sono la peggior contraddizione della mia vita. Mangio molto, non mangio per niente. È solo quando faccio i workshop che mi alleno davvero sulla concentrazione, sulla forza di volontà, sull’affrontare le difficoltà sul palcoscenico. Questo faccio con i miei studenti e con me stessa ma perché l’artista performer possa essere, in realtà, in una sorta stato fisico e mentale buoni. Questo è importante, che tu possa assumere questo tipo di rischi e sforzi per il corpo. Ma per il resto, davvero non penso che l'esibizionismo ci sia all'interno dei miei progetti.

F.C.
: Che differenza senti tra il lavorare da sola, con un partner o in gruppo?

M.A.
: C'è un'enorme differenza. Enorme. Molta, molta differenza. Ho lavorato da sola nella prima parte della mia vita e pensavo che avrei fatto sempre più performance finché arrivai al punto, nel '75, che stavo spingendo il mio corpo fisico così in là che il prossimo gradino sarebbe stato morire. Non sapevo dove andare e davvero ci fu un angelo che arrivò a me dal cielo sotto forma di Ulay che mi diede l'opportunità di lavorare insieme. Così potei creare questo Relation Work dove realmente due artisti mettevano due idee in una. Questo, dal mio punto di vista, è più forte che lavorare da sola perché ci sono più possibilità, c'è più energia, in tutto c'è qualcosa in più ma, sai, all'interno della nostra relazione arrivarono i problemi e io non volevo accettare il fallimento. Per tre anni, durante la nostra relazione, pretendevo che ogni cosa andasse bene ma niente andava bene perché non potevo dire al mondo: “la nostra relazione non è un lavoro e non sta andando al meglio perché dobbiamo capire che nulla è per sempre e non si può fissare qualcosa per sempre”. Così c’è stato un momento, una specie di costellazione del nostro lavoro, della nostra vita e della nostra energia per cui per dodici anni questi aspetti sono avanzati insieme, poi non lavoravano più bene e io ho dovuto accettarlo nel corso degli anni. Accettarlo.



Così la Muraglia Cinese fu la drammatica fine della nostra relazione ma, nello stesso tempo, l’accettazione del mio fallimento, che insieme il lavoro non avrebbe potuto continuare per sempre. E io tornai al mio lavoro. Ma ora, nel mio lavoro, mi concentro sul pubblico e il pubblico diventa sacro per me, le persone. Molte volte, quando faccio performance, dico solo che per me ogni persona nel pubblico è la persona più importante. È più importante di qualsiasi altra cosa. Così, ogni cosa che faccio, la faccio per loro. All’interno della relazione con Ulay, Ulay diventava il mio pubblico. Poi lavorando in un contesto di insegnamento, sai, ho dovuto considerare il gruppo. Anche nell’ultima performance Biography Remix , dovevo lavorare in un gruppo molto allargato, ventidue persone. Questa è un’esperienza molto buona perché devi controllare il tuo ego, devi controllare come non prevaricare le altre persone. Poi devi trovare il dialogo. Davvero devi ridimensionare te stessa allo scopo di poter rendere possibile la collaborazione, devi trovare il giusto equilibrio. Penso che il lavoro di gruppo con altri artisti, per me, sia una buona esperienza per un po’, ma non per un periodo lungo perché ho imparato che niente, per periodi lunghi, può funzionare, e tu sei solo. Sai, procedi sempre gradino dopo gradino, da solo. Così, per questa ragione, l’anno scorso ho lavorato con Jan Fabre su un mio pezzo, insieme, ed è stata una bella esperienza, ma non significa che lavoro in gruppo in ogni caso. Realmente io credo nel lavorare da sola e credo che ci siano momenti nella tua vita in cui lavori in gruppo e momenti in cui hai un partner, ma non come condizione permanente.

F.C.
: Da quando hai cominciato a fare performance fino ad ora hai percepito differenze nelle reazioni degli spettatori? Se si, quante di queste differenze dipendono dal pubblico e quante da te?

M.A.
: Penso che la mia relazione con il pubblico sia cambiata estremamente, davvero tanto, rispetto all’inizio perché penso che, soprattutto nelle ultime performance, sono estremamente consapevole, pura, e credo davvero, (non sto parlando di The Biography o di pièce teatrali ma solo delle performance), credo davvero che il pubblico diventi sempre di più la parte centrale del mio lavoro. Gli spettatori diventano così tanto parte del mio lavoro che senza gli spettatori il mio lavoro non esiste, specialmente in performance come The House with the Ocean View. In questa performance io non faccio nessuna azione se non di routine quotidiana, bere l’acqua, urinare, fare docce, semplicemente stare in piedi e guardare gli spettatori. Così gli spettatori sono la mia vita e questo prima non era così. Avevo oggetti, avevo cose da fare, avevo degli sketch, delle astrazioni. Ora non c’è più astrazione, non più. Ho solo questa idea di essere lì, per gli spettatori che stanno vedendo il progetto, in quel momento e io posso solo svuotare me stessa e quando ciò si realizza, questo diventa realmente la parte centrale del mio lavoro.

F.C.
: E all’inizio non era così?

M.A.
: Non era così. Il pubblico era importante tanto quanto la performance, naturalmente, ma avevo cose da fare. Dovevo camminare bene, truccare i miei occhi, prendermi cura dei topi. Ora ci sono sempre meno cose. Sai, nell’ultima performance è eliminata qualsiasi azione ma lo spettatore è più coinvolto.

F.C.
: Ci sono delle performance che hai fatto nel passato che ti piacerebbe riproporre?

M.A.
: Rifarò dei pezzi al Guggenheim in una mostra intitolata Seven Easy Pieces. Rifarò performance degli anni ’70 di diversi artisti, performance che non ho mai visto. Le rifarò come se fossero degli spartiti. Se puoi rifare un concerto perché non puoi rifare una performance? Di mie performance ne rifarò una e sarà Thomas Lips, ma non è proprio la performance che desidererei rifare.



Marina Abramovic, Rhythm 0.



Marina Abramovic, Rhythm 5.

Quella che mi piacerebbe rifare è Rhythm 0, dove le persone arrivavano e potevano fare qualsiasi cosa con me, anche con una pistola, ma ci sono così tante leggi che nessuno mi dà il permesso di mettere una pistola e un proiettile in un museo. Non c’è modo, non posso farlo. Non siamo negli anni ’70. Erano anni diversi, adesso siamo negli anni del terrorismo e cose di questo tipo.

F.C.: Nel rifare Rhythm 0 metteresti gli stessi oggetti sul tavolo?

M.A.
: Si, gli stessi. Ma non posso farlo, perché nessuno mi dà il permesso. Così farò Thomas Lips che è l’azione più complessa che ho realizzato, con il taglio della stella su me stessa. Rifarò questa performance. Per me è davvero interessante perché non sono più molto interessata al dolore, perché il dolore è qualcosa di cui ho capito il concetto e di cui mi sono liberata, ma voglio farlo per vedere come percepiamo oggi qualcosa di questo tipo.

F.C.
: Hai detto che rifarai alcune performance di altri artisti. Quali sono le implicazioni nel rifare una propria performance o quella di un altro artista?

M.A.
: Darò un concetto di base rifacendo performance di Bruce Nauman, Valie Export, Gina Pane, Joseph Beuys, Vito Acconci, Thomas Lips e una performance nuova.



Queste sono le sette che farò e la ragione è che davvero voglio inagurare l’idea di rifare le performance, se è possibile. Ma se rifai una performance non puoi rifarla così, senza dare credito a nessuno. Devi chiedere il permesso all’artista, devi pagare l’artista per il permesso, come si fa per la musica o per i film, devi conoscere l’idea originale e poi puoi farne una tua interpretazione. Per ora, facendolo al Guggenheim dal 9 al 15 novembre, voglio dare un esempio storico di come si può fare.

F.C.
: Quali artisti teatrali pensi abbiano fatto o facciano una ricerca interessante? Perché?

M.A.
: Voglio citare solo due artisti, anzi tre. Voglio menzionare Robert Wilson, Pina Bausch e Jan Fabre, questi tre. Sono tre molto diversi. Robert Wilson è davvero uno dei pionieri. Una cosa che mi piace di Robert Wilson è come introduce il tempo in teatro. Intendo non il tempo del Kabuki, in Giappone ci sono performance veramente lunghe, ma il tempo del teatro contemporaneo. Ci sono state sue performance di solo due ore, un’ora e mezza, ma Einstein on the Beach o altre performance che ho visto, arrivano a sette ore, otto ore e lui fa del pezzo teatrale una specie di happening. Stirando così il tempo il pubblico ha modo di entrare in questo spazio speciale. Inoltre, il suo modo di usare le immagini, come se fossero molti quadri, e il modo di usare le luci sono davvero molto creativi. Poi Pina Bausch, che adoro. Non l’ho mai incontrata ma penso che sia fantastica perché lei ha realmente capito che la danza può essere qualsiasi cosa, la danza può essere semplicemente stare seduti e fumare, o camminare, o correre nella neve. Lei crea situazioni reali con i danzatori che usando il corpo arrivano a emozioni reali, senza pretenderle dal nulla. Nel modo in cui lavora con i danzatori, è arrivata così incredibilmente vicino alla performance. E poi Jan Fabre, che è come una specie di artista rinascimentale moderno che fa opera, fa danza, fa arte, fa proprie esibizioni di performance senza paura di fallire. Quello che mi piace di Jan Fabre è discontinuo perché può realizzare un pezzo davvero molto brutto come un pezzo grandioso. Quello che lui fa è quello che fai se rischi davvero, perché non ti senti mai di ripetere le stesse esperienze per fare contento il pubblico. Fabre spinge sempre gli spettatori più lontano possibile nella sua ricerca e non è disturbato dal fatto che l'80% del pubblico lasci la sala e l'altro 20% rimanga. Se sei un giovane artista questa cosa è terribile. Non sai cosa fare. No, lui sente sempre che sta facendo la cosa giusta e questo tipo di coraggio, questo tipo di bisogno incredibile di rischiare e andare sempre verso territori sconosciuti, è qualcosa di veramente speciale. Questo è il motivo per cui mi piace.

F.C.
: E la Societas Raffaello Sanzio? Cosa pensi del loro lavoro?

M.A.
: I Raffaello Sanzio… Mi piacciono, mi piace il modo in cui usano il linguaggio. Ho qualche problema quando usano il video perché non penso che sia così necessario. Ho visto il loro ultimo lavoro, adesso, ad Avignone. Era molto difficile per me capire. C'erano elementi belli, che mi piacevano, e allo stesso tempo provo sempre qualche tipo di disturbo, come se non riuscissi a capire fino in fondo. Tutti questi lavori di Pina Bausch, di Wilson, dei Raffaello Sanzio o di Jan Fabre, li guardo sempre con un'attitudine di montaggio. Io toglierei, taglierei, farei questo. Ma io non sono loro, perché io sono sempre per la riduzione e alcuni di loro mettono molto di più di quanto farei io.



Marina Abramovic, The Pin Up Dance.


 


 

Le recensioni di ateatro: Fragile del Teatro de Los Andes
Regia di César Brie
di Fernando Marchiori

 

Per tre mesi in tournée in Italia dopo alcuni festival internazionali, Fragile del Teatro de los Andes, regia e drammaturgia di César Brie, si ispira al primo capitolo di Nascita e morte di una massaia di Paola Masino. Un libro con una storia curiosa – censurato dal fascismo, riscritto poco prima della guerra, pubblicato negli anni Cinquanta e finalmente scoperto solo con la riedizione negli anni Ottanta – dal quale César Brie e Maria Teresa Dal Pero hanno tratto l’idea iniziale, quella di una ragazzina che non vuole diventare grande e si rifugia in un baule. Unico elemento scenografico materialmente al centro dello spazio vuoto – il resto sono oggetti d’uso, nastro adesivo e architettura di luci – il baule diventa il mondo di Lucia (la Dal Pero), la sua evasione e la sua prigione, antro buio dove urla la sua protesta e subisce il castigo, luogo della rivolta adolescenziale e del rifiuto parentale, scatola di bambola ipertrofica e cassa armonica per i suoi duetti con il nonno (Lucas Achirico). Una figura solo apparentemente secondaria, quest’ultima, che si carica invece il peso secolare dell’ingiustizia quando porta sulle sue spalle il baule legato con le cinghie al modo dei facchini paceñi, quegli aparapítas che attraversano indefessi e straccioni le strade della capitale e le pagine dei racconti di Jaime Sáenz. È lui – il suo fantasma – che apre il lungo funerale dell’infanzia, cui Lucia infine rinuncia “per vigliaccheria”.
Spettacolo raffinato, intimo fino alla commozione, divertente fino al grottesco, Fragile insinua una sottile inquietudine nello spettatore a mano a mano che questi scopre una parte di sé reagente in modo autonomo a ciò che accade in scena. Se di fronte a Lucia un adolescente può immedesimarsi, un adulto può prendere paura: di se stesso. Fin dalla prima scena, quando la protagonista, come uscendo da un quadro di Velásquez, perimetra la scena vestita di un lucido abito di carta bianca e trascina con una corda il vassoio sul quale un grande cuore di gelatina rossa palpita ad ogni strattone e sobbalzo della bambolona. A metà tra fumetto e melodramma, Lucia lo apostrofa sulle note di Monteverdi: “Sei pesante, questo vuoto che mi porto dentro è pesante”. Poi lo scuote, lo spezza, lo addenta, si strappa di dosso il vestito, lo straccia nel parossismo di una crisi che la porterà a ficcarsi nel baule come un pupazzo nel suo teatrino (c’è anche uno spioncino che si apre nella porta chiusa, a rinforzare la suggestione del teatro nel teatro).
Mentre i genitori (Alice Guimaraes e Daniel Aguirre) credono il cibo risolva tutto – matasse di tagliatelle crude vengono frantumate nei pugni chiusi e disseminate a terra – Lucia sente che crescere significa tradire la propria essenza, mutare natura, e dalla sua postazione resistenziale guarda le cose in un altro modo – quello dell’animismo incompreso e della rivolta senza speranza – compie i suoi viaggi fantastici, rievoca i giorni di scuola, mette in discussione la religione, proietta sul paesaggio il suo stato d’animo in un cosmocentrismo infelice. Così alle prime mestruazioni associerà il tramonto “e siccome le faceva male tutto il corpo, pensava che anche al cielo succedesse la stessa cosa”.
Grande prova d’attrice, la parte della Dal Pero si arricchisce nel contrasto tra l’età del personaggio e quella dell’interprete, sorprende ogni volta che la prima affiora sulla seconda, o la seconda copre la prima, o coincidono, dialogano, divergono. Ogni volta interrogandoci: quanto ci siamo dimenticati di noi?


 


 

I dieci anni di Atir
Gli auguri di una zia rompiscatole
di Mimma Gallina

 

Cara Atir,

dieci anni! Succede a noi zie rompiscatole e un po’ sempre uguali se stesse, di accorgerci che il tempo passa quando ci si rende conto che i nipotini sono cresciuti. E tu: “Come sei cresciuta!”, bruciando le tappe dell’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza che il nostro sistema teatrale - come la nostra società - tende invece a dilatare, procrastinando la vita adulta, o saltando - delle vita - intere fasi.
Eppure sembra ieri l’inizio - a scuola ma già “gruppo” e alla fine di un bel triennio, con maestri veri e agitazioni permanenti - con quello scoppio di energia che era (ed è rimasto per anni), Romeo e Giulietta. Forse il termine energia, il più ricorrente agli esordi, ti ha un po’ perseguitato, ti sembrava riduttivo. Ma era quella l’impronta di partenza, assieme all’entusiasmo e, appunto, alla giovinezza.
Ma dietro, e dentro, c’era già molto altro.
C’era la volontà di fare un percorso assieme di personalità tutte a loro modo precise e forti ma determinate ad essere collettivo, e quindi tutte determinanti nella complessità delle dinamiche di gruppo: Arianna, Fausto, Mapi, Maria, Mattia, Nadia, Sandra, più tardi Michela e Stefano (mi piace nominarvi uno a uno: un gruppo di ragazzi belli - nella vostra trascuratezza un po’ démodé - e di belle persone) così diversi eppure capaci di costruire un nucleo legato e solido, burrascoso - certo - come tutti i nuclei vivi, intorno a cui hanno potuto ruotare apporti esterni-interni significativi, numerosi e liberi, trasformando negli anni il collettivo potenzialmente chiuso in un una sorta di famiglia allargata.
E c’era e c’è il punto di riferimento riconosciuto, Serena, senza cui l’avventura non sarebbe partita. E certo non avrebbe potuto proseguire se la sua leadership non fosse stata continuamente riconfermata.
Dietro la timidezza e l’allegra serietà, Serena brillava di intelligenza e sprizzava carisma già a vent’anni, senza (voler o poter) nascondere le incertezze dell’età, che trasparivano anche “fisicamente”, nella chioma di folti, ricci e lunghi capelli rossi, ad esempio, eccessiva, come eccessiva sarebbe stata la fase successiva, con zazzera cortissima (quasi una esternazione ancora un po’ adolescenziale della ricerca della propria complessità e delle proprie contraddizioni).Ma c’era altro ancora.
C’erano in te, cara Atir, e sono rimaste, forti motivazioni ideali che intenerivano noi vecchie zie sessantottine, e che dieci anni fa erano, in un gruppo giovane, un’eccezione: non si era ancora affermata - a parte Paolini - la generazione dei narratori “impegnati” e i tuoi coetanei di “teatri Novanta” sembravano attratti da forme meno “convenzionali” delle tue (la loro formazione dl resto non era “accademica”), ma molto spesso (non sempre certo) povere di senso (secondo me).
C’era in te invece la voglia di interrogarsi a trecentosessanta gradi sul mondo, sul passato recente, da “giovani” e da “cittadini”. Da questi interrogativi è nato il “ciclo” degli spettacoli sulla storia del presente (da Come un cammello al 68 all’89), ma anche un modo particolare di affrontare i “classici” e questo atteggiamento ha determinato molto del vostro stile, un “gioco epico” che ricorre come marchio di fabbrica anche nelle Baccanti, in Lear, nelle Troiane. Non basta l’impegno a fare teatro, soprattutto a fare del buon teatro, certo, ma senza convinzioni, come senza tecnica e senza idee, non credo che si possa creare uno stile.
Il tuo si è modellato anche attraverso la volontà e la capacità di elaborare l’esperienza scolastica in un legame stretto ma autonomo coi maestri: penso in particolare a come hai saputo cogliere il meglio del metodo e dello “stile Vacis”, emancipandoti ed evitando il rischio della “maniera Vacis”.

E l’emancipazione è iniziata molto presto.
Fra tutti i tuoi spettacoli, le Baccanti è a mio parere il primo del tutto originale, e quello che forse mi è più caro. (anche perchè ho in qualche misura contribuito alla sua genesi). Io mi occupavo allora di Mittelfest e in quell’anno (il ’97? il ’98?) intendevamo dedicare un spazio all’Albania. Tu Atir (Serena e gli altri) cercavi per Baccanti una “Tebe percorsa da gravi malanni” e così Serena si aggregò - un po’ da un giorno all’altro mi sembra - a un mio viaggio a Tirana.
Tirana era Tebe (i classici vivono in funzione del presente): e in quel viaggio fu letta sede di prove e debutto e si imbarcarono nel progetto le ragazze della locale Accademia d’Arte Drammatica.
In quell’occasione io ti aiutai a trovare una coproduzione: si trattava dell’Olimpico di Vicenza, anche se lo spettacolo si fece in una discoteca (e approdò a Mittelfest l’anno successivo), quell’anno diretto da Glauco Mauri. E’significativo che la ricerca di sbocchi organizzativi da parte tua sia sempre stata disponibile alla “trasversalità”: avere motivazioni ideali non significa, anzi, dividere il sistema teatrale in buoni o cattivi, vecchi e giovani, in ricerca avanzata e convenzione. Questo forse non ti ha giovato dal punto di vista di una collocazione precisa fra le aree del sistema, e di un’immediata ricaduta critica (ma non devi soffrire troppo se quel tale o talaltro critico ci ha messo sette o otto anni per venire a vederti), ma è stata positiva sul piano della libertà e del consolidamento economico-organizzativo.
Negli ultimi anni abbiamo lavorato assieme per altri “progetti speciali”, tutti molto importanti per me, forse un po’ meno per te, che, pur nella disponibilità a recepire proposte, hai comprensibilmente sempre considerato prioritari, sul piano organizzativa e ideale, i progetti “interni”. In due casi è stato in rapporto al Festival Castel dei Mondi (nel periodo in cui lo dirigevo assieme a Pamela Villoresi) e a quello spazio strepitoso che è Castel del Monte: si trattava di “interpretare” l’anima del luogo. Ammetto, cara Atir, cara Serena, di avervi un po’ “usato”: ma ne sono dati due “eventi”, il Gran torneo delle religioni e Beati quelli che (ispirato alle Beatitudini evangeliche), carichi della spiritualità laica che volevamo, e che non credo sarebbe stato facile trovare in altri gruppi. Ma voi, spero almeno, avete a vostra volta fatto un ulteriore passo avanti attraverso quelle esperienze, perchè progettare su temi “dati” (e “interpretare” spazi dati), e coordinare apporti esterni di diverse discipline (come è stato per le Beatitudini), non è certo poco creativo.
Anche quando si è trattato di giocare un po’ con i generi (o anche di giocare tout court), ho pensato in primo luogo a te (a te Atir e a te Serena). E’stato l’anno scorso, a Pergine, con Cose turche, un pastiche rossiniano lirico/teatrale fra Italiana in Algeri e Turco in Italia: bisogna un po’ reinventare anche il modo di fare lirica e avere il coraggi di avventurarsi fra le discipline.
Così, esperienza dopo esperienza, spettacolo per spettacolo, hai affinato un tuo metodo, fra laboratori, periodi di prova rigorosi, tournée intense, qualche rapporto internazionale, sei cresciuta (e quasi quasi oggi potremmo dire che esiste - per i colleghi più giovani per cui costituisci un punto di riferimento prestigioso- una “maniera Sinigaglia”), hai saputo favorire - o hai accettato - le opportunità esterne per i singoli (per tutti mi sembra: ciascuno in rapporto ai suoi specifici talenti).
Ora forse ti senti troppo matura per permetterti di sbagliare, ma in fondo sei ancora troppo giovane per non avere attenuanti. Quindi prendi la tua età con leggerezza. Non sarà facile, ma profetizzo un grande futuro, individuale e collettivo.
Ciò non toglie che, da vecchia zia, vorrei ancora un po’ sgridavi e proteggervi.

(4 giugno 2006)


 


 

L'intelligenza del corpo: la Biennale Danza 2005
Giappone, Cina e altri corpi
di Fernando Marchiori

 

La Biennale Danza di Ismael Ivo, riconfermato alla direzione del festival veneziano anche per il prossimo anno, continua a indagare le possibilità di espressione del corpo come meccanismo di conoscenze e competenze, come intelligenza “differente”. Le contraddizioni nelle quali si dibatte, letteralmente, il corpo umano oggi, vengono esplorate attraverso la sonda ipersensibile del corpo-mente danzante. Dopo il corpo attaccato e all’attacco (Body attack era il titolo dell’anno scorso), un corpo che guarda e ascolta il proprio interno, che danza l’interiorità e le interiora, le viscere e la spiritualità, la malattia e la vecchiaia, le secrezioni, il sesso e il gender. E per farlo va sotto la pelle (UnderSkin) nei modi più diversi.



In D.D.D, per esempio, il giapponese Takao Kawaguchi, del collettivo Kyoto Dumb Type, tende muscoli e tendini in torsioni inquietanti sopra un tavolino quadrato, seguendo il battito cardiaco amplificato del musicista Fuyuki Yamakawa, che ritma la performance ai bordi di uno spazio scenico pensato come un ring. Capelli lunghissimi e tratti androgini, Yamakawa annuncia i rounds, gratta la chitarra elettrica distorta, spiega agli spettatori con l’ausilio di una lavagna luminosa il funzionamento del cuore umano, canta alla maniera mongola con suggestivi vocalizzi diplofonici khoomei, calcola il numero di battiti cardiaci che la sua speranza di vita gli potrebbe concedere.



In Chi è devoto della compagnia Almatanz, coreografia e regia di Adriana Borriello, i corpi dei danzatori ritrovano invece, in una memoria gestuale continuamente interrotta e scomposta, i gruppi scultorei delle Pietà popolari del Sud o l’isteria delle Madonne pagane. Determinante il rapporto con la musica di Francesco De Melis, che dopo l’iniziale Bella ciao delle mondine cantata da Giovanna Marini passa a mescolanze di voci di strada, chitarre barocche, arie orientali, orapronobis e tarantelle. Una commistione non sempre felice caratterizzante anche i movimenti dei danzatori, che accennano a invocazioni, esorcismi, lamentazioni rituali, strisciano verso una madonna in trono, destrutturano genuflessioni, contrizioni e gesticolazioni “devote”, con qualche bel passaggio corale per quanto la dichiarata “trasfigurazione della matrice antica” risulti spesso solo esteriore.



Quick Silver del grande Ko Murobushi, uno dei più famosi artisti di butoh, va dentro il corpo come in un paese straniero, lo esplora nei suoi equilibri, nei rapporti con lo spazio esterno in continua mutazione, nel dialogo e nello scontro con la forza di gravità. Il corpo nudo (eccetto il perizoma) di questo danzatore delle tenebre è completamente dipinto d’argento. E, come sempre nel butoh, sembra cercare il punto in cui l’inizio della vita e la sua fine convergono, “qualcosa a cui reggersi mentre si collassa, qualcosa per andare al collasso mentre si è in piedi”. Sembra che prima di tutto si tratti di vivere un “essere semplicemente posati là”, e poi si cerchi di non rifiutare il sorgere del movimento, il disporsi delle membra, l’energia tutta interiore dell’argento vivo. Nel silenzio assoluto, quest’essere vivente impiega venti minuti per tirarsi su da terra rivelando a uno a uno i muscoli e le ossa, disassemblando il corpo, schiacciandolo. Dilata gli arti in modo impressionante, si trascina a terra inventando i modi meno “naturali” di avanzare. Per esempio facendo leva solo sugli avambracci o compiendo inarcamenti e semirotazioni con il bacino fisso. Il pubblico – sala gremita, moltissimi giovani – è magnetizzato. Segue una danza intestina che si rivela come un segreto. Danzano le ossa sotto la pelle, danzano le articolazioni, gli spasmi, le rughe, danzano le scapole in cima a una schiena disumana, lo sterno luccicante di sudore argentato, le rotule nella conquista della stazione eretta. A turno, Ko Murobushi disattiva una parte del corpo, ne anima un’altra ma in direzione innaturale. Forza il baricentro, cede, riprova. Il corpo si avviluppa in se stesso, si sviluppa, in un abbandono che è governo assoluto del sistema muscolare e nervoso. Il maestro giapponese sembra davvero ospite del proprio corpo. Impressionante il lavoro sulla maschera facciale. Da brividi il fiato “urlato”. Sembra di percepire lo sfregamento delle mucose, il cigolio delle viscere. Fino al capolavoro della verticale che si affloscia lentissimamente, ma che fa pensare alla proiezione accelerata di un’immagine pescata dal rimosso collettivo: il ciclo vitale di un fiore carnoso nel deserto postatomico.


Danza non-danza

Eppure, nonostante la tensione verso una danza come “rinuncia alla danza”, ecco che quest’ultima torna prepotentemente a prendere forma quando vi sono urgenze da esprimere. È il caso dell’Istanbul Dance Theatre di Geyvan McMillen, che a Venezia ha portato Kimlikler e Mahrem, due tempi di un’unica coraggiosa denuncia politica. La prima parte è una interrogazione sull’identità (in turco Kimlikler, appunto): impronte digitali proiettate sul fondale, ingigantite e moltiplicate, e nove danzatori che finiscono col mettersi in fila di profilo, di fronte, come disponendosi a foto segnaletiche, a un confronto all’americana davanti a quei testimoni oculari che sono gli spettatori. Un duello a suon di percussioni apre la seconda parte. Due danzatori nel cono di luce si confrontano, si misurano in virtuosismi, elevazioni, cadute, forse a tracciare il paradigma maschile che vedremo applicato subito dopo sulle ragazze. Le danzatrici portano i pantaloni, ma sono spinte a terra, calpestate, scosse in una danza che esplicita la violenza, l’umiliazione, la sfruttamento della donna. Sono fatte rotolare tra i piedi dei maschi, dimenate tra le loro gambe, trascinate, schiacciate. Ogni accenno di ribellione – volteggi autonomi, scarti, allontanamenti – viene subito represso, schernito. A queste donne per sopravvivere non resta che recitare l’antico ruolo di schiave e concubine: la lavanda dei piedi, la danza del ventre, l’offerta sessuale. Se nasce come denuncia della condizione di sottomissione intellettuale della donna nel mondo islamico, “oscurata e mortificata da un fondamentalismo di ritorno”, lo spettacolo fa riflettere anche in un contesto come quello occidentale di apparente parità di diritti. I puntini proiettati sul fondale diventano lentamente ma inesorabilmente uomini, si avvicinano camminando, squarciano il telo e prendono forma viva nei danzatori che chiuderanno in un lungo velo nero l’altra metà del cielo. Sono uomini che vengono da lontano, che ritornano sempre, come tutti i pregiudizi e le discriminazioni che questi artisti ci invitano a combattere.


Splendori e miserie della world dance

Con il gruppo Accrorap, diretto da Kader Attou, siamo di fronte a una pratica tra le più acclamate di world dance, con molti dei vizi e delle virtù da tempo evidenti anche nelle operazioni di world music, ovvero la freschezza di un’espressione che nasce dal confronto e dal meticciato artistico e insieme l’appiattimento, la perdita d’identità, il procedere per accumulazioni che portano, per eguali e contrarie ragioni, agli opposti del minimalismo estetizzante o del barocchismo.

Les corps étrangers è un lavoro complesso, stratificato, frutto di residenze incrociate in Brasile, Francia, India. Uno spettacolo tecnicamente sbalorditivo, senza sbavature, con una coerografia incalzante, salutato da lunghi applausi alla fine. Eppure la forza gestuale, l’atletismo, il virtuosismo di una delle maggiori formazioni hip hop in circolazione, solo in alcuni casi si amalgamano o si integrano pienamente nell’incontro con la gestualità misurata della tradizione orientale o con quella più scomposta e veemente di una danzatrice brasiliana. Più spesso Bharatanatyam e Capoeira diventano pretesto e decor delle evoluzioni mozzafiato tra rap e breakdance. Ottimo dal punto di vista performativo per l’energia di questi figli delle banlieues, lo spettacolo è discutibile per l’afflato ecumenico e new age che lo ispira. Non una meditata operazione cross-cultural, ma un esempio deteriore di globalizzazione culturale. Un melting pot di consumo, ben sintetizzato nel fondale a pannelli mobili che riproduce come in un polittico il Giudizio universale di Van der Weyden (1451) appesantito da immagini di viaggio, miti d’oggi, divinità orientali e pretestuosi richiami politici (il muro in Cisgiordania).


Dalla Cina con precisione

Ben diverso l’equilibrio fra tradizione e innovazione raggiunto in Oath (Midnight Rain) della cinese Beijing Modern Dance Company.



La coreografa e ballerina Gao Yanjinzi – già apprezzata l’anno scorso a Venezia per un intenso duo con la madre, un confronto generazionale che rappresentava anche la convulsa transizione alla modernità di un intero Paese – torna a interrogarsi sulle trasformazioni culturali in Cina e costruisce il nuovo spettacolo su alcune permanenze filosofiche all’incrocio tra Taoismo, Confucianesimo e Buddismo. Su una rivisitazione di musiche dell’opera tradizionale di Pechino, i danzatori incarnano il continuo alternarsi dei principi opposti e complementari dello Yin e dello Yang: femminile e maschile dialogano e si manifestano anche nella stesso personaggio, come i colori fondamentali dello spettacolo, bianco e nero, perché secondo i principi del Tai Chi “il bianco e il nero non sono assoluti; il nero, portato all’estremo, è bianco; il bianco, portato all’estremo, è nero; nel nero c’è il bianco; nel bianco c’è il nero”. Su questa danza di opposti si sviluppano le cinque figure che si alternano in scena. Cinque storie legate a un nastro rosso che un personaggio velato dello stesso vermiglio tira una alla volta e poi tutte insieme alla fine. Un ballerino avvolto da un velo di tulle blu, che danza con i piedi in aria, lentissimo, e poi avanza nelle strisce di fumo in metamorfosi animali. Una giovane dagli slanci aerei che si muove a mezzo tra la Duncan e il butoh finché il nastro che ruota in aria non le si attorciglia alle gambe impedendole di danzare oltre. Una bambola in costumi tradizionali, un po’ crisalide e un po’ farfalla, i cui passi si perdono a mano a mano che luci e musica diventano inquietanti. Una figura marziale con vessilli sulle spalle e strisce di stoffa che la tengono al centro del palco come una Supermarionetta. Quando si stacca dal mento la lunga barba rossa, sembra vacillare, uscire dalle convenzioni, ma infine cade, si spezza, strappa nastri e bandiere. Infine una splendida danzatrice-insetto che, su un enorme trapezio a un metro da terra, compie evoluzioni dondolando verso la platea, mutando inclinazioni e prospettive, volteggiando in un sogno.
Aldilà dei significati simbolici suggeriti – gli elementi in natura (metallo, acqua, legno, fuoco e terra), le loro rappresentazioni simboliche tradizionali (il fiore, l’uccello, il pesce, gli insetti, l’erba) – non si può che rimanere colpiti dalla consapevolezza corporea di Gao Yanjinzi e dei suoi compagni e dalla loro capacità di “riuso” di elementi della tradizione (nei passi come nella musica, nei costumi, nel trucco, nelle luci) per inventare liberamente storie nuove proprio nel riconoscimento di una radice lontana ma non recisa. È forse l’esempio di un’altra via alla globalizzazione, non subita come omologazione e appiattimento culturale, ma proposta come dialogo tra differenze? Le ovazioni del pubblico rispondevano anche a questo messaggio?


Metronomi e saudade

Esito non previsto di un progetto seminariale con gli anziani della Sadler’s Wells Company of Elders, diretto dalla portoghese Clara Andermatt, Natural porta in scena il corpo senile, i suoi tempi e movimenti differenti, la sua pura presenza, il suo esserci ancora, vivo controsenso al pregiudizio del corpo danzante sempre giovane per forza. Quasi nessuno di questi anziani – dieci donne e cinque uomini, vestiti di scuro e con i capelli argentati – aveva precedenti esperienze di danza. La grazia e la leggerezza con le quali sfiorano i loro limiti, aggirano le loro rigidità, sono il risultato di vite vissute più che di esercizio artistico. Il breve spettacolo prende la forma della confidenza tra vecchi amici attorno a una tavola. Si aprono piccoli quadri danzati, una diagonale di inviti al ballo, una carezza sul viso, un fado alla cui saudade ben s’intonano volteggi e passi incerti, delicati. Finché ciascuno carica un metronomo, lo lascia sul palco e se ne va, scendendo in platea. Nel silenzio, i metronomi smettono uno a uno di ticchettare, finisce il tempo, si spengono le luci. E con un’emozione intensa quanto inattesa termina uno spettacolo fatto di niente, dove non era importante – adesso è chiarissimo – ciò che quelle persone facevano, quanto il fatto che fossero lì. A mostrare il loro passare. A rivelare anche a noi la nostra stessa presenza, la nostra provvisorietà.


 


 

Il giornale a teatro
Un'esperienza, un esperimento
di Gianluigi Gherzi

 

Due giornalisti (Angelo Miotto e Matteo Scanni) e tre attori (Giuseppe Buonofiglio, Gianluigi Gherzi e Swewa Schneider) decidono di portare il giornale a teatro. Il quotidiano. Il quotidiano del giorno in cui si presenta l’evento.
Decidono di aprirlo davanti al pubblico. Di analizzarlo. Di interrogarlo. Di giocarci.

Ogni sera un giornalista ospite (fino ad oggi Piero Colaprico, Giangiacomo Schiavi e Piero Scaramucci) si ritrova in scena. Una sedia in mezzo al palco. Una dimensione da “personaggio”. In diretta, senza copione, senza alcun accordo precedente, reagisce a quello che sta succedendo. Integra, contesta, approfondisce i conflitti e gli eventi che si stanno sviluppando.

Arrivano gli attori. Interpretano uomini e donne le cui storie non sono state mai pubblicate. Protagonisti di “notizie invisibili”. Chiedono, interagiscono coi giornalisti.

L’evento si realizza. Il pubblico riempie per tre sere (24-26 maggio 2006) il Teatro I di Milano. I quotidiani trovano da subito la cosa interessante e ci danno spazio. Alla fine discussioni infinite e piene di passione. Zavattini ci aveva visto giusto.

Perché Zavattini? Perché è lui, in una delle sue visioni, a scrivere: “Bisognerebbe portare il giornale a teatro. E che gli attori siano portatori di notizie.”

Questa cosa mi ha colpito. Perché io sono appassionato di Zavattini. E di giornalismo. Leggo i giornali con avidità, cerco dentro storie e cronache del presente. Forme di narrazione e osservazione della realtà di grande interesse, per me che scrivo. Per una drammaturgia del presente.

Allora mi muovo. Trovo due importanti compagni di strada. Angelo Miotto è una voce storica di Radio Popolare di Milano. Ed è anche musicista e pittore. Uno che quando ti parla di giornalismo lo fa con arte. Matteo Scanni insegna giornalismo in Università Cattolica. E’ un giornalista free-lance. Con la passione delle inchieste. Due delle sue vincono il premio “Ilaria Alpi” per il video giornalismo. Comincia a raccontarmi la sua vita di giornalista. Le sue avventure e le sue scommesse.

Alla fine decidiamo che sì, Zavattini aveva ragione, che leggere il giornale a teatro è una gran bella idea. E che sopratutto è necessario che, d’informazione, si ritorni a parlare in tanti. In un ambito collettivo. Nel tempo del presente. In teatro.

Però ci diamo un anno di studio. Con Angelo preparo una conferenza-spettacolo sul tema delle notizie invisibili. Quelle che spariscono. La facciamo dal vivo, e in diretta a Radio Popolare. Molti, il giorno dopo, telefonano in radio. Interessa. Vogliono creare una rete. Bene.

Con Matteo scrivo una narrazione. Si parla di un cronista che gira per una metropoli. Cerca di catturare vite segrete e il senso dei mutamenti che accadono. Si imbatte in situazioni limite. Scrive inchieste. Comincia una battaglia, al limite anch’essa, per la loro pubblicazione. Anche qui, letture dal vivo e diretta a Radio Popolare. Reazioni buone. E’ ora di affrontare l’ostacolo: portare il giornale a teatro. Come?

Ci troviamo davanti tre grosse questioni:
1) Non ci interessa né fare una conferenza né fare teatro in senso stretto. Scegliamo di cercare insieme un tipo di comunicazione, un territorio espressivo, che non appartiene né a loro, giornalisti, né a me, regista e scrittore di teatro. Scegliamo di andare tutti e tre sul palco, di non fare che loro “scrivano” e poi osservino me che “metto in scena”.

2) Partiamo dalla lettura del quotidiano ma ci troviamo subito davanti alla realtà di tutta l’informazione oggi e del suo rapporto col mondo. Mettiamo a fuoco un asse drammaturgico attorno al tema della “sparizione”. Sparizione delle notizie, che rimangono invisibili. Sparizione d’alcune zone del mondo, di cui l’informazione spesso tace. Sparizione della figura del giornalista come “esploratore di realtà”. Sparizione di tutti noi, perché una cattiva informazione crea un danno grave alla nostra coscienza personale e collettiva.

3) Non ci interessa fare uno spettacolo in senso stretto. Ci interessa un evento da giocare con il pubblico. Decidiamo di lavorare rigorosamente sul quotidiano del giorno in cui è proposto l’evento. Nei giorni di presentazione ci troviamo sommersi dai giornali e dai lanci delle agenzie stampa. Perché le notizie su cui lavorare vanno scelte al momento. Perché bisogna rendersi conto, attraverso l’esame dei lanci d’agenzia, di cosa è diventato notizia e cosa invece no. Decidiamo di invitare ogni giorno di presentazione dell’evento un giornalista diverso. Di chiedergli di venire senza saper nulla di quello che accadrà. Loro accettano.

Ventiquattro maggio. Eccoci davanti al pubblico. Si comincia. Si confrontano i titoli dei maggiori quotidiani. Le notizie che dominano. Ci s’interroga sull’omologazione, evidente nei contenuti e nelle forme. Ci si chiede quali criteri informino la griglia che seleziona le notizie. Ci si trova davanti, nel confronto tra notizie pubblicate e notizie rimaste sulle scrivanie, alle “notizie invisibili”. Cominciano ad arrivare gli attori, con le loro storie di cui nulla si è mai saputo.

Io intanto racconto di Zavattini, delle sue visioni sull’informazione, narro la leggenda delle cinque esse (sesso, sport, soldi, sangue, spettacolo), un video ci porta a “Comizi d’amore”, il film inchiesta di Pasolini.
L’ospite arriva e normalmente ci spiazza. Piero Scaramucci ha sotto il braccio “I poveri sono matti” di Zavattini, e ci trascina in una narrazione epica di grandi pagine e grandi disastri del giornalismo. Piero Colaprico ci va giù duro: “A nessuno interessa la verità, oggi”. Giangiacomo Schiavi, da capo-redattore delle pagine milanesi del Corriere della Sera, ci racconta delle difficoltà di dare spazio alle notizie “strane” e dei giornalisti che non si spostano più dalle scrivanie.

Gli attori incalzano, con le loro vite in cerca di narrazione. I giornalisti cominciano a declinare la parola “sparizione”. Sparizione per sovradosaggio. Per manipolazione. Per spettacolarizzazione. Per retorica. Per omologazione. Per convenzione.

La nozione d’invisibilità attraverso racconti, aneddoti, inserti teatrali, proiezioni, prende forma. Il mondo diventa una cartina che lentamente perde i pezzi. Alla fine nessuna morale e nessuna conclusione. Sedersi di fronte al pubblico. Lasciare la questione aperta.

Di una cosa siamo particolarmente contenti. Di sperimentare una possibile forma di rito civile. Uno spazio della comunicazione che appartenga fino in fondo al presente, nostro e del pubblico, con gli echi delle notizie del giorno ancora nelle orecchie, con noi e il giornalista ospite che ci giochiamo la partita di un incontro non scontato.

Tutto questo è stato possibile grazie alla sensibilità artistica, alla freschezza, alla gentilezza di Renzo Martinelli, Federica Fracassi e di tutti i lavoratori di Teatro I. I posti sono importanti. E Teatro I racconta la forza e la ricchezza possibile nell’aprire e gestire oggi un piccolo teatro nella metropoli-Milano.

Adesso “Errata Corrige-Il giornale a teatro” comincia a viaggiare. Vuole attraversare teatri, aule universitarie, luoghi della società civile. Ci affascina l’idea dei contesti e dei pubblici diversi che affronteremo, dei nuovi ospiti che incontreremo.

E’ nostra intenzione continuare a lavorare su questo tema. Esplorare fino in fondo la forza del rapporto tra giornalismo e teatro. Abbiamo scoperto l’esistenza di una drammaturgia della notizia e dell’informazione. E questo è stato uno straordinario arricchimento reciproco.

Attorno a ”Errata Corrige” si sta creando una fitta rete di contatti. Questo, per noi, è importante. Così, chiudiamo con i nostri recapiti mail.

Gigi Gherzi gianluigigherzi@tiscali.it
Angelo Miotto miotto@radiopopolare.it
Matteo Scanni presenza@unicatt.it
 


 

Diverse abilità in scena a Roma
L'isola che c'è de "I Gulliver"
di Andrea Balzola

 

Il gruppo teatrale “i Gulliver” nasce nell’ambito dei progetti terapeutico-riabilitativi a favore di persone con disagio mentale, dalla collaborazione tra il Centro di Salute Mentale Distretto 12 della ASL Roma C e l’Associazione Culturale “Diverse Abilità” in cui operano professionisti da molti anni impegnati nel settore del teatro integrato. Si tratta, infatti, di un gruppo integrato con attori professionisti che ha già prodotto uno spettacolo dal titolo “I viaggi di Gulliver” (Teatro Cometa Off di Roma nel giugno 2004 e nel maggio 2005) grazie al lavoro svolto nei Laboratori Teatrali Permanenti attivi presso il CSM dal 2000.



Il nostro nuovo lavoro “L’isola che c’è”, con la regia di Alessandra Panelli, scritto da Andrea Balzola, è nato grazie ad una sinergia con il progetto Officina Laurentino e con il Dipartimento XIX del Comune di Roma, all’interno di un progetto di Animazione Territoriale.
L’idea che guida il nostro lavoro, infatti, è quella di un teatro inteso come elemento potenzialmente trasformatore del Sé e della realtà, un luogo dove si sperimentano comportamenti, si accoglie la trasgressione e la diversità, uno strumento conoscitivo del mondo interno ed esterno, in cui l’”oggetto” della conoscenza e della trasformazione non è necessariamente “il paziente psichiatrico” ma tutti coloro che entrano interattivamente nell’esperienza (operatori, sanitari, tecnici, spettatori). Il filo conduttore della nostra ricerca artistica e terapeutica è rappresentato dal tema del viaggio: occasione di uscita dalle proprie abitudini, di esplorazione e di conoscenza di mondi e persone diverse, di confronto con le proprie paure, i limiti e le risorse, un’esperienza psicologica ed esistenziale fondamentale per la formazione individuale e collettiva.
Se il tema di Gulliver era l’uscita e l’allontanamento da casa, la scoperta di altre dimensioni e della loro relatività , questo “viaggio dentro casa” ci offre lo spunto per viaggiare dentro il quartiere, insieme al pubblico, al nostro nuovo Gulliver ed ai suoi “marinai”, esplorando questa realtà etichettata come difficile (sarebbe più giusto definirla complessa) ma così poco conosciuta, cercando uno scambio reale con gli abitanti, con le attività, le potenzialità, le risorse vive e vitali che lo animano.

Teresa Mastroianni - psicologa
Alessandra Panelli - regista


VIDEOVIAGGIO DENTRO CASA

Il progetto artistico L’Isola che c’è. Viaggio dentro casa, che Alessandra Panelli e io abbiamo ideato, si articola in due parti strettamente collegate fra loro: lo spettacolo teatrale e il video. Le riprese video sono state realizzate con lo scopo di esplorare il quartiere Laurentino 38, svelandone luoghi, situazioni e personaggi e raccogliendo spunti per creare la drammaturgia dello spettacolo. Vivendolo dall’interno attraverso le testimonianze delle persone che ci abitano e dei professionisti che ci lavorano, alla ricerca delle risorse umane che vogliono e progettano il riscatto di un quartiere periferico con grandi problemi ma anche con molte potenzialità.
Con un’idea di base: il Laurentino è come un’isola con una strada perimetrale centrale attraversata da ponti, si trattava di percorrere questa “isola” ponte dopo ponte, intrecciando il documento reale con l’interpretazione poetica, la dimensione sociale con quella simbolica. Quindi abbiamo usato un attore come esploratore-guida nel quartiere e gli attori della compagnia integrata Diverse Abilità che hanno interpretato testi originali e citazioni tratte dagli scrittori a cui sono dedicate le vie del quartiere. Ci hanno accompagnato le note ruspanti di un gruppo di musicanti nomadi, la fantasia trasfigurante dei bambini e dei poeti.
Il video, che non ha quindi un carattere esclusivamente documentaristico, costituisce un’opera autonoma rispetto allo spettacolo, ma nello stesso tempo dialoga e si completa con esso.
Dal video sono infatti ricavate alcune sequenze che sono proiettate nello spettacolo e che interagiscono con l’azione scenica, in un’idea di teatro come luogo concreto di integrazione, delle persone e dei linguaggi.


 


 

L'arte di ri-creare visioni del mondo
Un manifesto all'alba del terzo millennio
di Andrea Balzola per Weltanschauung

 

Al sorgere del terzo millennio abbiamo guardato il planisfero del mondo e abbiamo immaginato che gli artisti più significativi dell’immagine, della parola e del pensiero di tutto il pianeta ne realizzassero uno nuovo. Ciascuno con il proprio sguardo, la propria voce e il proprio volto. Tanti autoritratti degli artisti, tracce del loro corpo e del loro mondo poetico. Tanti tasselli differenti, singoli e indipendenti, che compongono in uno stesso mosaico una nuova immagine del mondo, ed insieme una grande carta d’identità artistica per il nuovo millennio. Con la speranza che attraverso la conoscenza e il riconoscimento delle identità proprie e altrui, e quindi delle loro differenze, sia possibile trasformare una mappa di conflitti in una mappa di scambi creativi. Non come imperativo ideologico ma come evoluzione culturale e spirituale.
L’arte, nel suo senso più ampio che comprende le arti visive, la poesia, la musica, le arti sceniche e anche l’arte di pensare, cioè la filosofia, quale senso ha oggi nella nostra società globale, mediatica, tecnologica e materialista, dominata dall’economia?
Nelle società antiche l’arte era indissociabile dalla vita e dai valori della comunità, svolgeva il ruolo di simbolizzare le aspirazioni, le paure e l’identità di una popolazione, di trasformarle in memoria collettiva (prima tramite l’oralità e la pittura, poi con la scrittura) e quindi in un patrimonio culturale e immaginario che si trasmetteva, aggiornandosi e innovandosi, di generazione in generazione. L’arte era l’anima creativa, lo specchio simbolico, nel bene e nel male, di una socialità. Una funzione che in qualche misura ha conservato fino al Novecento: agli albori del secolo con le avanguardie artistiche storiche che hanno interpretato le contraddizioni e i traumi della rivoluzione industriale moderna e delle ideologie totalitarie, e negli anni Sessanta quando nuove avanguardie hanno rivitalizzato un’utopia di cambiamento, di maggiore equità e libertà sociali.
Oggi, nel nuovo millennio, il mondo sembra più piccolo, i suoi confini si sono definitivamente aperti, spesso traumaticamente, tramite i conflitti e le migrazioni, oppure tramite l’evoluzione dei trasporti e delle telecomunicazioni, o ancor più attraverso gli scambi commerciali e finanziari. Il villaggio è diventato “globale” (come profetizzava McLuhan), con una positiva miscellanea di etnie, culture e tradizioni, ma anche con un forte e duplice rischio: la perdita delle identità culturali locali o, all’opposto e per reazione, la loro violenta e ideologica radicalizzazione fino al fanatismo nazionalista o pseudoreligioso. Gli interessi economici si sono sempre più coniugati a questi fanatismi, scatenando guerre, terrorismo, finte rivoluzioni, genocidi di massa, con conseguenze disastrose anche per l’ambiente naturale e la qualità della vita delle popolazioni, soprattutto le più povere.
In questo scenario l’arte, nonostante il valore dei singoli talenti, sembra aver perso il suo “mordente” nell’immaginario collettivo, la sua diffusione di massa si limita alle grandi mostre del repertorio classico o novecentesco, la sua contemporaneità è ristretta a un mercato dell’arte sempre più simile al modello degli investimenti in borsa, oppure a un ambito circoscritto di addetti ai lavori, riviste specializzate, a occasioni espositive più commerciali che culturali (come le fiere), anche i tradizionali appuntamenti (come la Biennale di Venezia, Documenta Kassel, etc.) non hanno più l’impatto propositivo e la credibilità del passato, le gallerie private sono deserte e le sovvenzioni pubbliche, con la recessione in atto, sempre più scarse. Oggi hanno un impatto sociale di gran lunga più rilevante la comunicazione pubblicitaria o un qualsiasi evento mediatico, ma né l’una né l’altro hanno la capacità di visione profonda dell’anima dell’uomo e del suo tempo che invece può emergere dalle diverse espressioni artistiche. Anche rispetto alla tecnologia, che domina la nostra esistenza con un’innovazione accelerata e costante, spesso autoreferenziale (la novità fine a stessa), l’arte potrebbe assumere un ruolo molto importante interrogandone il senso, sperimentandone l’uso creativo, intuendo, rivelando e interpretando le trasformazioni esistenziali, antropologiche e culturali, biologiche persino, che essa può produrre, insomma pilotando la tecnologia al di fuori della logica puramente commerciale o militare verso uno sviluppo eticamente consapevole e creativamente innovativo.
Per tutte queste ragioni abbiamo voluto (Artero, Eubel e Pfeiffer e io) proporre a eminenti artisti, poeti e filosofi di tutti i continenti un atto simbolico forte e collettivo: ridisegnare il planisfero del mondo con immagini e parole che partono dalla riflessione su se stessi (l’autoritratto, perché per cambiare il mondo bisogna partire da se stessi), si aprono a una relazione creativa con l’altro (non conflittuale o economica) e complessivamente propongono una visione molteplice e interdipendente del mondo (non totalizzante e unilaterale, perché quest’opera collettiva è fatta mantenendo e valorizzando le identità individuali e culturali) per il nuovo millennio. Una visione insieme ironica, drammatica, riflessiva, sensibile, provocatoria, vitale.... Un’opera collettiva, dove la creatività artistica è segno emblematico di un’alternativa possibile alla logica distruttiva del conflitto, dell’intolleranza, del profitto a ogni costo e della devastazione ecologica. Un atlante utopico del nostro tempo che idealmente abbraccia l’intero pianeta e che vuole restituire all’arte, alle arti, la sua funzione storica di avamposto intuitivo, sensibile, profetico, poliedrico, dinamico e pacifico dell’immaginario collettivo.


TESTO-MANIFESTO DEL 1994, revisionato e aggiornato

All’inizio di ogni millennio gli uomini immaginano un nuovo destino del mondo.
Il mondo si riflette in uno specchio collettivo e vede:
I popoli si mescolano ma non si uniscono. Razzismo, intolleranza religiosa e guerre civili proliferano.
La guerra tecnologica maschera le sue barbarie in una sorta di “wargame” elettronico che tutti possono seguire in diretta televisiva, come i giochi olimpici.
Il pianeta terra è diventato la discarica dell’universo. Il mito dello sviluppo tecnologico, industriale e militare illimitato, l’aumento indiscriminato dei consumi e della popolazione, vampirizza e devasta le risorse naturali, accentua il divario tra paesi ricchi e paesi poveri. Ogni 30 secondi un essere umano muore di fame.
I satelliti fluttuanti nello spazio percepiscono un pianeta blu, ma la sua anima sembra più nera.

L’arte viene da questo mondo, ma genera mondi che non appartengono a nessun luogo.
L’arte è il mondo della visione.
L’opera è una visione del mondo (Weltanschauung).
L’arte è arte delle trasformazioni.

Cerchiamo allora di cambiare l’immagine del mondo attraverso lo sguardo degli artisti,
la voce dei poeti e dei filosofi aperti al dialogo.
Abbiamo affidato al vento la nostra voce perché andasse nei cinque continenti, a domandare:
Qual è il ruolo dell’artista in questo mondo?
L’artista come vede se stesso?
E come vede il mondo all’alba del nuovo millennio?
Quale mondo nuovo può nascere dalle visioni dell’arte e della poesia?

Il mondo è lo specchio dell’uomo.
L’occhio è lo specchio del mondo e la finestra dell’anima.
L’opera è confronto tra sé e il mondo.
L’opera è l’autoritratto dell’artista.
Il volto del mondo e quello dell’artista si sovrappongono.
Ogni viso è un paesaggio. Un continente. Un mondo.

Andrea Balzola per Weltanschauung

CRONOLOGIA aggiornata DEL PROGETTO WELTANSCHAUUNG (da inserire nel volume pubblicato)

1993 - Nasce a Torino il progetto italo-tedesco “Planisfero Weltanschauung - Autoritratto del mondo nel nuovo millennio”, da un’idea dell’art designer Silvio Artero, dello scrittore Andrea Balzola e dell’artista Johannes Pfeiffer. L’idea è presentata al Direttore del Goethe Institut Turin Paul Eubel, che accoglie il progetto, collaborando alla sua definizione e alla sua realizzazione.

1994 - Circa 150 tasselli che compongono il planisfero Weltanschauung sono inviati ad artisti di oltre 50 paesi di tutti i continenti. Le risposte degli artisti arrivano nell’arco di tutto il 1994 e il 1995, fino a raggiungere una novantina di adesioni da più di quaranta paesi. Tra le adesioni ci sono molti nomi notissimi, numerosi emergenti e alcuni provenienti da paesi ai margini del mercato mondiale dell’arte. Viene realizzato un poster che presenta il riempirsi progressivo del planisfera con le immagini inviate dagli artisti.

1995 - La direzione generale dell’Unesco invita gli autori a presentare il progetto alla conferenza internazionale “Art: tolerance and intolerance”, organizzata il 15 dicembre presso la Fondazione Cini di Venezia. In questa occasione il francese Pierre Restany, la russa Swetlana Dscafarowa, l’italiano Paolo Levi, i tedesci Manfred Nagele e Elmar Zorn, l’indiano Sarat Maharaj, aderiscono al progetto come membri del comitato scientifico.

1996 – Su invito di Ibrahim Spahic, direttore del Winter Festival di Sarajevo, gli autori del progetto presentano in anteprima mondiale il planisfero delle opere, non ancora completo, nel museo d’arte moderna della città martire bosniaca, appena uscita dai bombardamenti e ancora sotto stato d’assedio. Andrea Balzola e Johannes Pfeiffer portano di persona e allestiscono il planisfero tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo. I mass media italiani annunciano con rilievo l’evento, intervistando gli autori e gli artisti italiani coinvolti nell’opera collettiva, tra i quali: Gilardi, Paladino, Pistoletto, Rotella, Vedova.
Alla fine di marzo il Ministero degli esteri italiano sceglie il Planisfero Weltanschauung come opera artistica simbolica della Conferenza intergovernativa europea per la Revisione del Trattato di Maastricht, presso la nuova sede del Lingotto di Torino.

1997-2000 – Gli autori e Paul Eubel, nel frattempo nominato Direttore del Goethe Institut del Lussemburgo, progettano e realizzano un book in pochi esemplari con le fotografie delle opere e contattano poeti e intellettuali di tutto il mondo, chiedendo di partecipare all’opera con un intervento autografo.

2001-2005 - Paul Eubel, divenuto Direttore del Goethe Institut di Palermo, continua e completa, con la collaborazione degli altri autori del progetto, il planisfero e il volume ottenendo la partecipazione al progetto di alcune delle più prestigiose figure internazionali nel campo della filosofia, della religione e della poesia. Il planisfero sarà composto con tasselli incorniciati con legno laccato lavorato appositamente a mano in Giappone.


 


 

Eugenio Allegri direttore della Corte Ospitale di Rubiera
Si comincia con Cipputi
di Ufficio Stampa

 

In questi mesi ateatro ha seguito le vicende della Corte Ospitale di Rubiera. Dopo l'allontanamento della precedente direzione (Anna Pozzi e Franco Brambilla), il cda ha deciso di affidare la direzione a Eugenio Allegri. Qui di seguito il comunicato con il progranma per la prossima stagione.
Il nuovo Cda de La Corte Ospitale affida ad Eugenio Allegri, attore, regista e autore teatrale la direzione artistica del centro

Il Consiglio di Amministrazione de La Corte Ospitale, presieduto da Giovanni Montorsi e composto da Annalisa Masselli, per la Provincia di Reggio Emilia, vicepresidente, dal Sindaco di Rubiera Lorena Baccarani, per il Comune di Rubiera, da Elio Canova per la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia e da Lorenzo Calzolari per la Banca Popolare dell’Emilia-Romagna, ha nominato Eugenio Allegri direttore artistico del centro teatrale, affidandogli la carica per due anni a partire dal 1 luglio 2006. Eugenio Allegri succede a Franco Brambilla, primo direttore artistico dell’Associazione La Corte Ospitale, che nel 1989 ha dato avvio al lungimirante progetto dell’amministrazione comunale diretta allora da Anna Pozzi.

Il centro teatrale La Corte Ospitale intende riaffermare il suo ruolo di rilevanza nel panorama nazionale, come punto di riferimento per la realtà teatrale. Tale ruolo si esprime attraverso la realizzazione di un ambizioso progetto artistico, che valorizzi le diverse peculiarità del centro: dall’ospitalità di compagnie e di progetti teatrali di qualità alla produzione di spettacoli, così da stringere un proficuo rapporto di lavoro con i teatri e le realtà produttive italiane. La tipicità de La Corte Ospitale è quella di essere un centro di sperimentazione e ricerca che si qualifica anche attraverso il confronto e il lavoro condiviso con altri artisti, portatori di nuovi linguaggi espressivi. Pertanto, la formazione al teatro, dall’ospitalità di giovani compagnie, alla realizzazione di corsi di formazione, laboratori e stage per attori, sarà un'altra importante linea di lavoro.
Inoltre, si prevede di sviluppare l’attenzione al territorio, con una proposta specifica rivolta in particolare al mondo della scuola e più in generale al complesso della comunità locale, con l’obiettivo di orientare e far crescere la domanda.

Il progetto artistico per la stagione 2006-2007 intende dare ampio spazio alla produzione teatrale, allo scopo anche di utilizzare al meglio i diversi spazi a disposizione della struttura. Oltre alla produzione di spettacoli che prevedono la presenza di Eugenio Allegri come protagonista nel ruolo di attore e regista, verrà dato ampio spazio, attraverso lo scambio e la coproduzione residenziale, a proposte che derivano da altre compagnie rilevanti a livello nazionale, con possibili future ricadute e interazioni sul piano internazionale. Le nuove produzioni verranno proposte al circuito italiano in maniera non indiscriminata, ma mirata e corposa.
Verrà infine dato ampio spazio ai giovani, senza pregiudizi nei confronti di stili, tendenze e campi di ricerca.
La nuova direzione si pone quindi in continuità con la storia del centro, con l’impegno però a delineare nuovi ed originali tratti strettamente connessi alla biografia artistica di Eugenio Allegri.

Stagione teatrale 2006-2007
La prima stagione teatrale del Teatro Herberia firmata da Eugenio Allegri si presenta articolata in tre direzioni: largo spazio offerto alle nuove proposte di artisti e compagnie italiane e straniere di alto livello, con particolare attenzione agli spettacoli che prevedano commistione di linguaggi e tematiche d’attualità (circo-teatro, teatro-musica, pantomima-maschera, teatro-danza), una sezione pur ridotta di classici riproposti dalle giovani compagnie italiane che si richiamano al teatro di parola e l’ospitalità di un grande vecchio del teatro italiano, infine la presenza sul palcoscenico dello stesso direttore artistico de La Corte Ospitale che proporrà il proprio lavoro di attore e di regista. La stagione aprirà con la nuova produzione del Teatro dell’Archivolto, Cipputi – Cronache dal bel Paese, di Francesco Tullio Altan e Giorgio Gallione, con Eugenio Allegri, Simona Guarino, Rosanna Naddeo, Aldo Ottobrino, Giorgio Scaramuzzino, Federico Vanni, regia Giorgio Gallione. Lo spettacolo, pensato per celebrare i 100 anni della CGIL, debutta a fine giugno al Festival di Asti.


Residenze coproduttive
Sono previste nel corso del 2007 due residenze che vedranno La Corte Ospitale anche in veste di coproduttore. La prima, che prenderà avvio già nell’autunno del 2006, riguarderà un nuovo spettacolo di Sosta Palmizi con l’ideazione e la coreografia-regia di Giorgio Rossi, che nasce dalla volontà dell’incontro interdisciplinare, interculturale e intergenerazionale: un ritorno all’eticomica, alla consapevolezza del perché del proprio stare, un lavoro trasversale sull’ego e la relazione con l’altro da sé che accoglierà materie provenienti da arti diverse come la musica, la prosa, la danza, la clownerie. La seconda, che inizierà nel gennaio del 2007, sarà avviata dalla compagnia di teatro ragazzi Instabile Quick di Varese, diretta da Giorgio Putzolu e Rosa Maria Messina e riguarderà la messa in scena di una delle opere di Helga Schneider, ormai famosissima scrittrice tedesca residente a Bologna, che sarà presente nelle fasi di realizzazione della trasposizione teatrale. Entrambi gli spettacoli saranno proposti all’interno della stagione teatrale del Teatro Herberia e di quella di Teatro Ragazzi.

Rigenerazione
È intenzione de La Corte Ospitale puntare decisamente sui giovani artisti che da più parti in Italia stanno sperimentando nuove vie del linguaggio teatrale spesso “disturbato” da interferenze provenienti dagli ambiti delle nuove tecnologie delle conoscenze scientifiche, della nuova filosofia, delle religioni e dell’intercultura. Sono proposte teatrali che possono anche lambire l’ingenuità stilistica, ma che tuttavia sanno interpretare i rapidi cambiamenti della società. L’idea è quella di raggruppare i migliori quattro o cinque spettacoli da proporre in rassegne e festival nazionali.

Laboratorio permanente
La Corte Ospitale intende consolidare ed intensificare la propria vocazione produttiva che rappresenta l’elemento maggiormente significativo di tutta l’attività del centro. Nuove modalità organizzative, risultati artistici non effimeri, investimenti e riscontri economici, proposte tematiche chiare e precise, linee poetiche fortemente riconoscibili saranno i punti di riferimento per la permanenza duratura presso La Corte Ospitale di un gruppo di attori giovani che sotto la direzione di Eugenio Allegri si cimenteranno con le molteplici discipline del teatro con l’obiettivo della realizzazione di uno o più spettacoli: preludio alla costruzione di una nuova compagnia teatrale.

Teatro scuola
La proposta del centro per il 2006-2007 si articola in un cartellone di Teatro Ragazzi in grado di soddisfare le esigenze didattiche delle classi che parteciperanno e di sollecitare la curiosità del pubblico, la realizzazione di attività laboratoriali, momenti di incontro, allestimento di spettacoli che prevedano la partecipazione diretta degli studenti e il coinvolgimento degli insegnanti stimolando l’interdisciplinarietà come punto fondamentale del rapporto tra forma teatrale e didattica scolastica. Partendo poi dalle celebrazioni della Giornata mondiale per i diritti dell’infanzia intendiamo dare il via a un progetto sulla legalità con incontri e spettacoli sul tema.
Verrà articolata anche una proposta riservata alle scuole superiori delle province di Reggio Emilia, Modena e Parma, con il coinvolgimento di docenti universitari del DAMS di Bologna e dell’Università di Modena e Reggio: il progetto nelle sue diverse fasi attraverserà tutto l’anno scolastico.

Famiglie a teatro
Nella continuità di una proposta di una rassegna teatro ragazzi rivolta alle famiglie, si prevedono sei o sette spettacoli da tenersi la domenica pomeriggio presso il Teatro Herberia: classiche trasposizioni teatrali delle opere favolistiche e fiabesche, che per dirla alla Bettelheim “rappresentino in forma fantastica in che cosa consiste il processo del sano sviluppo umano”. Verranno proposte opere di attualità sociale (ad esempio ecologia, rapporti familiari, lotta alle droghe…) dove possa prevalere l’attenzione non consolatoria al “lieto fine”.


 


 

Moggi: "To B or not to B?"
La meglio Juventus
di Redazione ateatro

 

 


 

I migliori spettacoli di teatro ragazzi della scorsa stagione
Assegnati gli "Eolo Awards"
di Redazione ateatro

 

Sono stati assegnati dalla rivista telematica “Eolo” gli "Eolo Awards" per i migliori spettacoli di teatro ragazzi della scorsa stagione
Durante la quindicesima edizione del festival "Una città per gioco " a Vimercate sono stati assegnati gli EOLO AWARDS" i premi che la rivista telematica Eolo assegna ai migliori spettacoli di teatro ragazzi della stagione precedente.
Da una giuria formata da più di trenta operatori è stato premiato come miglior spettacolo Sulla strada della compagnia "Eccentrici Dadarò" per la regia di Fabrizio Visconti e Bruno Stori con Rossella Rapisarda, Salvatore Arena e Davide Visconti.
Il premio per la migliore novità è stato invece assegnato a La storia del gallo Sebastiano della Compagnia Serra Teatro, testo e regia di Marcello Chiarenza , tratto da un testo di Ada Gobetti , mentre miglior spettacolo di teatro di figura è stato decretato Se77e di Gaspare Nasuto della Compagnia "Pulcinella di mare". Il premio è stato dedicato alla memoria di Manuela Fralleone indimenticabile amica del Teatro Ragazzi Italiano.


 


 

I Premi Hystrio 2006
Al Teatro Litta di Milano dal 15 al 17 giugno
di Hystrio

 

PREMIO HYSTRIO alla Vocazione per giovani attori 2006
Milano, Teatro Litta, 15, 16, 17 giugno


«Attori si nasce e io modestamente lo nacqui» diceva Totò.

E quanti altri come lui? In sedici anni di vita il Premio Hystrio alla Vocazione ha dimostrato di essere non soltanto un longevo concorso, ma anche e soprattutto un osservatorio privilegiato delle nuove generazioni di attori, che spesso hanno trovato in questa sede un primo momento di verifica delle loro potenzialità e un’occasione concreta di visibilità davanti a una giuria di alto profilo, composta esclusivamente da addetti ai lavori.

È infatti un piccolo esercito di circa duemila giovani quello che, nel corso di tutti questi anni, si è cimentato sulla ribalta del Premio Hystrio. E possiamo dire con orgoglio che qualche sogno si è trasformato in realtà e nuovi talenti si sono rivelati alla scena italiana.

L’ottava edizione milanese, dopo le due giornate dedicate alle pre-selezioni, si intensificherà con le selezioni finali riservate a giovani attori diplomati o provenienti da scuole e accademie di tutta Italia che si terranno nei giorni 15, 16 e 17 giugno al Teatro Litta di Milano. Un’intensa maratona teatrale che si concluderà, come d’abitudine con una serata-spettacolo in cui, insieme ai due vincitori del concorso nazionale scelti dalla Giuria (uno per la sezione maschile e uno per quella femminile) verranno assegnati ad artisti e istituzioni significative della scena italiana i PREMI HYSTRIO 2006, promossi dall’omonima rivista di teatro e spettacolo.

La Giuria di questa edizione del Premio Hystrio alla Vocazione per giovani attori è composta da: Ugo Ronfani (presidente), Marco Bernardi (regista e direttore del Teatro Stabile di Bolzano), Fabrizio Caleffi (attore, autore, regista), Claudia Cannella (direttore responsabile di Hystrio), Arturo Cirillo (regista e attore), Monica Conti (regista), Nanni Garella (regista), Lorenzo Loris (attore e regista), Sergio Maifredi (regista e vicedirettore del Teatro della Tosse di Genova), Lamberto Puggelli (regista), Serena Sinigaglia (regista), Andrea Taddei (regista).


Le selezioni/audizioni del 15 e 16 giugno al Teatro Litta sono aperte al pubblico con il seguente orario: giovedì e venerdì dalle 9.30 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 18.00, sabato 17 dalle 9.30 alle 13.00.
Le borse di studio per i vincitori hanno un valore di € 1.500 ciascuna.


Per ulteriori informazioni
Hystrio, via Olona 17, 20123 Milano, tel. 02.400.73.256 - fax 02.45.40.94.83
e-mail: hystrio@fastwebnet.it - www.hystrio.it

i PREMI HYSTRIO 2006
Milano, Teatro Litta, sabato 17 giugno ore 19

Per i PREMI HYSTRIO 2006 sono stati selezionati dalla redazione dell’omonimo trimestrale di cultura teatrale artisti e istituzioni dal percorso artistico e culturale consolidato in anni di intensa attività e allo stesso tempo di sicuro interesse per il futuro del teatro italiano. Continua la collaborazione tra Hystrio e la Provincia di Milano che per il quarto anno consecutivo premia il lavoro di una realtà operante sul territorio e il gemellaggio tra la rivista e il festival mantovano Teatro Arlecchino d’Oro. Festival Europeo del teatro di scena e urbano con il Premio Hystrio–Arlecchino d’Oro assegnato quest’anno ad Antonio Albanese. L’attore premiato da Hystrio venerdì 23 giugno terrà un recital tutto suo nel cortile di Palazzo Te a Mantova nell’ambito del festival.
i PREMIATI del 2006

Premio Hystrio all’interpretazione a Patrizia Milani
Si diploma all’Accademia dei Filodrammatici di Milano nel ’73 e nello stesso anno debutta con Orazio Costa, segno di grandi doti artistiche e determinazione per una giovane attrice. Lavora tra gli altri con Bosetti, Guicciardini, Scaparro, Carriglio, Maccarinelli e recentemente con Cristina Pezzoli. Nel 1988 incontra Marco Bernardi, direttore e regista dello Stabile di Bolzano, e con lui inizia una collaborazione artistica che ancora oggi continua senza sosta. Ha già vinto numerosi premi ma la Milani guarda avanti e si prepara insieme a Bonacelli e Simoni alla prossima interpretazione: Danza di morte di Strindberg diretta come sempre da Bernardi.

Premio Hystrio alla regia a César Brie
Quest’anno è tornato in Italia insieme al suo Teatro de los Andes con due nuovi attesissimi spettacoli. Il regista argentino è l’icona del teatro sudamericano per il senso politico del suo lavoro, per essere interprete riconosciuto in tutto il mondo delle trasformazioni che questa terra ha vissuto e sta vivendo, per la costante ricerca della bellezza annidata nelle storie più intime, per il personalissimo lavoro teatrale che cerca di coniugare sguardo sulla realtà, ricerca e poesia.

Premio Hystrio alla drammaturgia a Vittorio Franceschi
Attore, autore, poeta e regista non c’è ambito del teatro dove Franceschi in tanti anni di attività non abbia lasciato il segno. Le sue commedie sono state tradotte e interpretate in tutto il mondo, Scacco pazzo ad esempio, il cui primo allestimento fu coprodotto dagli Stabili di Bologna e Trieste e diretto da Nanni Loy nel 1991, è stata rappresentata in Francia, Germania, Svizzera, Polonia, Russia, Scozia e Spagna e tradotta per il cinema. Come ogni anno il Premio Hystrio alla drammaturgia consiste anche e soprattutto nella pubblicazione di un testo del premiato, per il numero di Hystrio di luglio Franceschi ha scelto L’uomo che mangiava i coriandoli del 1996.
www.vittoriofranceschi.com

Premio Hystrio - altre muse a Festival delle colline torinesi
Alla sua undicesima edizione FCT conferma la sua natura di festival di creazione contemporanea davvero europeo. Il suo sguardo rivolto ai territori di confine tra il teatro e l’arte, tra il teatro e la letteratura, tra il teatro e il paesaggio, propone feconde sinergie, ma soprattutto dà spazio a quegli artisti della scena che con passione genuina cercano di rinnovarne i linguaggi. I suoi duraturi rapporti di collaborazione e scambio con le istituzioni ed i gruppi internazionali che operano nella ricerca artistica, si fondano nella convinzione che sia più che mai importante la circolazione estesa delle idee proprio in momenti di particolari divisioni. www.festivaldellecolline.it

Premio Hystrio - Provincia di Milano a Teatro della Cooperativa
Nata alla fine del 2001 ad opera di Renato Sarti l’Associazione Culturale Teatro della Cooperativa ha avviato con successo un progetto di produzione e promozione culturale nel quartiere di Niguarda a Milano. Obiettivi primari l’avvio e sviluppo di una stagione teatrale in una zona periferica e decentrata della città, nonché la creazione di una compagnia stabile di produzione teatrale, con particolare attenzione ai temi del teatro civile e della memoria storica e alla drammaturgia contemporanea. Partendo dalla profonda convinzione che il teatro possa e debba ancora essere inteso come “spazio di pensiero, di scambio, di socialità e politica” e dal tentativo di inserirsi in un piano di riqualificazione più ampio di tutta l’area, il Teatro della Cooperativa si è conquistato in breve tempo spazio e credibilità sul territorio milanese e nazionale offrendo così – a partire da quella periferia troppo spesso dimenticata – un nuovo punto di riferimento culturale per la città.
www.teatrodellacooperativa.it

Premio Hystrio – Arlecchino d’Oro a Antonio Albanese
Da sempre perfetta espressione dell’artista mutevole che reinventa la vita quotidiana, attualizzando nel segno dell’espressione comunicativa le deformazioni individuali e sociali della contemporaneità. Attore straordinario, maschera surreale, mimo naturale, autore innovativo, Antonio Albanese si diploma nel 1991 presso la Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi. Sulla scena, è protagonista di un’ininterrotta serie di opere, tra cui ricordiamo Tre Sorelle di Cechov per la regia di Gabriele Vacis, Caligola di Camus per la regia di Jesus Carlos Martin, Tamburi nella notte di Bertolt Brecht. Di estrema efficacia e grande richiamo di pubblico sono gli spettacoli che Antonio cuce su se stesso, dando voce alla propria polivalenza interpretativa: Uomo, Giù al nord, Non c’è problema e il recente Psicoparty. Numerose le interpretazioni e regie per il grande schermo, Uomo d’acqua dolce, La Fame e la Sete, Il nostro matrimonio è in crisi. Notevole la presenza pirandelliana in Tu ridi dei fratelli Taviani e l’interpretazione di Giordano lo strambo ne La seconda notte di nozze di Pupi Avati.


Durante gli anni hanno vinto il PREMIO HYSTRIO i nomi più importanti del teatro italiano, protagonisti eccellenti della scena teatrale italiana capaci di emozionare il pubblico in ogni occasione, tra gli altri: Alessandro Gassman, Ascanio Celestini, Cristina Pezzoli, Fabrizio Gifuni, Gian Marco Tognazzi, Kim Rossi Stuart, Laura Curino, Lucilla Morlacchi, Maddalena Crippa, Marco Martinelli, Maria Laura Baccarini, Monica Conti, Nanni Garella, Tony Servillo.




Gli artisti e i giovani attori vincitori del concorso alla vocazione riceveranno i premi durante la serata-spettacolo di sabato 17 giugno. L’ingresso è libero con inizio alle 19.00 al Teatro Litta di Milano, conduce Roberto Recchia.

Alle 21,00 proiezione su maxischermo della partita Italia-USA e rinfresco con degustazione di vini dell’Oltrepò pavese offerti dalla tenuta Montelio di Codevilla (Pv).


 


 

La nuova Ecole des Maîtres
Progetto Salmon per Delbono e Latella
di Ufficio stampa

 

Corso internazionale itinerante di perfezionamento teatrale
direzione artistica: Franco Quadri
III edizione: 26 luglio - 8 settembre 2006
maestri: Pippo Delbono e Antonio Latella
partner di progetto
CSS - Teatro stabile di innovazione del FVG (Italia), Centre de Recherche et d’Expérimentation en Pédagogie Artistique - CREPA (CFWB/Belgique), Académie Théâtrale de l'Union (France), Ministério da Cultura - Instituto das Artes (Portugal), Centro Dramático de Aragón - Departamento de Educatión, Cultura y Deporte del Gobierno de Aragón (España)
con la partecipazione di ETI - Ente Teatrale Italiano (Italia), Ministère de la Culture et de la Communication (France), Ministère de la Communauté française – Service général des Arts de la scène (CFWB/Belgique), Commissariat général aux Relations internationales (CFWB/Belgique), Fonds d’Assurance Formation des Activités du Spectacle (France), Conseil régional du Limousin (France), Centro Cultural de Belém (Portugal), Regione Friuli Venezia Giulia (Italia), Comune di Fagagna (Italia), Ayuntamiento de Zaragoza (España)

con il sostegno di Programma Cultura 2000 dell’Unione Europea

Saranno i registi Antonio Latella e Pippo Delbono a guidare la terza edizione del Progetto Thierry Salmon, il corso internazionale itinerante di perfezionamento teatrale diretto da Franco Quadri. Il corso è strutturato su due atelier che si svilupperanno parallelamente ma indipendenti nello stesso periodo, dal 26 luglio al 3 settembre 2006, coinvolgendo ciascuno 15 stagisti rappresentanti di tutti e cinque i Paesi del progetto.

Il Progetto Thierry Salmon è un corso di perfezionamento teatrale che offre un’importante opportunità agli artisti di età compresa fra i ventiquattro e i trentadue anni, formatisi nelle scuole di teatro d’Europa e già attivi come professionisti nella scena internazionale. Promosso da cinque Paesi europei - Belgio, Francia, Italia, Portogallo e Spagna il Progetto si pone l’obiettivo di mettere in relazione giovani attori per dare vita a un’esperienza di lavoro fortemente finalizzata al confronto e allo scambio di competenze, metodi e pratiche della scena. Partendo da testi, lingue e linguaggi artistici differenti, gli atelier a carattere itinerante della durata di quasi due mesi si concluderanno nella sede italiana di Roma. Intitolato alla memoria del regista belga Thierry Salmon, il Progetto prosegue con una formula potenziata l’esperienza pedagogica dell’ Ecole des Maîtres, il corso internazionale di perfezionamento teatrale avviato nel 1990 fra Italia, Francia e Belgio. Dal triennio 2004-2006, il Progetto Thierry Salmon è inserito nell’ambito del Programma Cultura 2000 della Comunità Europea e si è esteso a due nuovi partner europei, la Spagna e il Portogallo.


L’atelier di Pippo Delbono avrà come sedi di lavoro, nella prima sessione, l’Italia , nella sede di Fagagna (Udine), dal 26 luglio al 14 agosto 2006, e proseguirà poi in Belgio, a Liegi dal 16 agosto al 3 settembre 2006.
Antonio Latella condurrà invece il suo corso in Spagna (Saragozza, 26 luglio – 14 agosto 2006) e in Portogallo (Lisbona, 16 agosto – 3 settembre 2006).

La sessione conclusiva del Progetto prenderà corpo nella sede di Roma, dove l’intenso lavoro degli atelier si concentrerà in un fase pubblica e in una di confronto: la dimostrazione dell’atelier di Antonio Latella si terrà il 6 settembre 2006 al Teatro Valle, mentre quella di Pippo Delbono sarà presentata il 7 settembre 2006, al Teatro Quirino; la giornata dell’ 8 settembre sarà interamente dedicata alla discussione finale e al confronto fra i due stage e coinvolgerà collettivamente - al Teatro Valle di Roma - i due maestri e tutti i trenta stagisti.

Antonio Latella - che in questi anni ha firmato molte regie shakespeariane (nel 2001 il suo progetto “Shakespeare e oltre” gli è valso il Premio Ubu) - svilupperà il suo atelier su Pericle di W. Shakespeare. “Pericle - spiega Latella - è un eroe che sotto i piedi non ha quasi mai la terraferma, ma preferisce navigare. Un uomo che sceglie il mare come culla del suo peregrinare alla ricerca di una verità. Più che insegnare agli ospiti di questa nave, spero siano loro a saperla far galleggiare, per permettermi di imparare il più possibile, e forse insieme ad ogni porto, ad ogni imprevisto o tempesta, riusciremo a seppellire una delle tante maschere del nostro quotidiano, riusciremo a ritrovare quella spinta giusta, quell’esigenza che ci ha fatti imbarcare per la prima volta, ed essere viaggiatori tra i rossi sipari, porti del mondo”.

Pippo Delbono ha intitolato il suo atelier La danza del corpo e delle parole. Autore e interprete di un teatro poetico sempre molto vicino alla vita, fatto di vissuti individuali, di vicende e memorie che da sole riempiono la scena, Delbono manterrà anche come pedagogo al Thierry Salmon la modalità con cui nascono i suoi spettacoli. Spettacoli dove “l’attore non interpreta un personaggio ma sviluppa un percorso autonomo di coscienza drammatica sul suo corpo, sui suoi grandi e piccoli gesti, sulla sua possibile forza, sulla sua possibile fragilità; una coscienza sulla sua voce, sulle parole, gridate, sussurrate. Sulle parole silenziose. Sull’immobilità. Sull’incontro. Sulla poesia”.

Saranno selezionati e ammessi ai due atelier, come partecipanti alla terza edizione, in tutto trenta stagisti, sei per ogni Paese aderente al Progetto Thierry Salmon.
La scadenza del bando di ammissione alle selezioni del Progetto Thierry Salmon è fissata per il 16 giugno 2006.

Segreteria Progetto Thierry Salmon: dal lunedì al venerdì, ore 9-13/14 -18 contatto: CSS Teatro stabile di innovazione del FVG _ via Crispi 65 - 33100 UDINE tel 0432 504765 – fax 0432 504448 Sonia Brigandì soniabrigandi@cssudine.it

Coordinamento ufficio stampa e comunicazione:
CSS Teatro stabile di innovazione del FVG,
Fabrizia Maggi (fabriziamaggi@cssudine.it) e Luisa Schiratti (luisaschiratti@cssudine.it) tel.+39.0432.504765/fax+39.0432. 504448

www.projet-thierry-salmon.org

CALENDARIO _ PROGETTO THIERRY SALMON 2006


ATELIER DI PIPPO DELBONO
I sessione Italia (Fagagna, 26 luglio – 14 agosto 2006)
II sessione Belgio (Liegi, 16 agosto – 3 settembre 2006)

ATELIER DI ANTONIO LATELLA
I sessione in Spagna (Saragozza, 26 luglio – 14 agosto 2006)
II sessione Portogallo (Lisbona, 16 agosto – 3 settembre 2006)

DIMOSTRAZIONI FINALE ATELIER ANTONIO LATELLA
Italia
- Roma, Teatro Valle (6 settembre 2006)

DIMOSTRAZIONI FINALE ATELIER PIPPO DELBONO
Italia
- Roma, Teatro Quirino (7 settembre 2006)

FASE DI CONFRONTO FRA I DUE ATELIER
Italia
– Roma, Teatro Valle (8 settembre 2006)

www.projet-thierry-salmon.org


 


 

I Premi della Critica teatrale 2005/2006
La cerimonia il 21 settembre a Roma
di Associazione Nazionale dei Critici di Teatro

 

Sono stati assegnati gli annuali premi promossi dall’Anct (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro) che intendono segnalare gli eventi, le persone, i momenti più significativi che, nel corso della stagione 2005-2006, hanno caratterizzato la vita teatrale nel nostro Paese dal punto di vista spettacolare, ma anche scientifico e organizzativo.
Quest’anno i riconoscimenti sono andati a: La cena de le ceneri di Antonio Latella come spettacolo dell’anno, Elisabetta Pozzi per la sua interpretazione di Ecuba di Euripide nel Ciclo di spettacoli classici a Suracusa, Eros Pagni, splendido interprete di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, Luigi Lo Cascio, per il suo doppio impegno nel Silenzio dei comunisti con la regia di Ronconi e La tana da Kafka di cui ha firmato anche la regia. Premiata per il versante comico anche Paola Cortellesi. Giancarlo Cauteruccio è risultato il miglior regista per il suo Trittico beckettiano messo in scena con Krypton, mentre il Teatrino Giullare è stato premiato per il suo originale Finale di partita beckettiano con pupazzi e scacchiera. Al regista francese Roger Planchon è stato assegnato il premio per il complesso della sua attività, mentre due sono i riconoscimenti ai progetti: Altri percorsi del Teatro Stabile di Bolzano, stagione dedicata alle nuove tendenze del teatro italiano, e Arrevuoto, laboratorio di Marco Martinelli promosso con il Teatro delle Albe dal Teatro Mercadante di Napoli, che ha visto impegnati in una rielaborazione della Pace di Aristofane i ragazzi del disagiato quartiere di Scampia insieme con altri giovani liceali napoletani. La chiusa di Conor McPherson, spettacolo proposto dallo Stabile di Genova con la regia di Valerio Binasco, si è imposto come miglior novità straniera apparsa sui nostri palcoscenici.
In campo universitario riconoscimenti a Luigi Squarzina e a Paolo Puppa. Premiati anche Il Centro per la fotografia dello spettacolo “Occhi di scena”, Michele Perriera e il light designer Gigi Saccomandi. A Giorgio Albertazzi va il premio speciale intitolato alla memoria del grande critico Paolo Emilio Poesio.
La cerimonia della consegna dei Premi è in programma il 21 settembre prossimo al Teatro Argentina di Roma sotto l’egida dello Stabile capitolino.

 


 

In libreria le Vie dei Festival
Tutte le rassegne dell'estate
di Associazione Cadmo

 

Le vie dei Festival 2006
guida ai festival estivi di cinema, teatro, danza e musica
in Italia e in Europa

Sarà per tutta l’estate nelle Librerie Feltrinelli
e nelle principali librerie italiane



la dodicesima edizione di Le vie dei Festival, guida ai festival estivi di cinema, teatro, danza e musica in Italia e in Europa realizzata dall’Associazione CADMO di Roma.


Riporta i programmi di circa 300 festival.
La guida è il frutto di un’accurata ricerca che fornisce - UNICA IN ITALIA - una panoramica esauriente e tutte le informazioni sui festival estivi e sui principali festival autunnali: date, indirizzi, numeri di telefono, siti web, e-mail, schede con note, caratteristiche, nomi e spettacoli di maggiore interesse.
Il libro, di formato tascabile, come nelle scorse edizioni, non vuole essere uno strumento specialistico, ma è indirizzato soprattutto al lettore occasionale, non necessariamente assiduo frequentatore di festival.


Le vie dei Festival 2006
sarà in vendita tra pochi giorni in tutte le Librerie Feltrinelli e nelle principali librerie italiane al prezzo di 7 euro.
Per vendita online: Infoshop Mag6 Via Sante Vincenzi 10a, 42100 Reggio Emilia tel/fax 0522/430307
e-mail: infomag@libero.it; www.infoshopmag6.it

Come sempre questa è solo la prima parte di un progetto più ampio che prevede - con il sostegno dell’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma - la presentazione, tra settembre e ottobre, di quanto di più significativo è emerso dai programmi dei festival estivi. Proposte spesso anticipatrici di nuove tendenze che hanno portato a Roma per la prima volta artisti del calibro di Eimuntas Nekrosius, Alain Platel, William Kentridge, Enrique Vargas, Mauricio Celedon, il Big Art Group di Caden Manson, Amir Reza Koohestani e molti dei nuovi nomi del panorama teatrale italiano.

Per informazioni: Associazione CADMO/LE VIE DEI FESTIVAL - ROMA
tel. 06/3202102 – 3234686; e-mail: info@leviedeifestival.it


 


 

Una rete tra i festival di danza dell'Emilia-Romagna
Nasce Anticorpi
di Comunicato Stampa

 

>ANTICORPI>
tracciati di danza indipendente
Rete Regionale di Rassegne, Festival e Residenze Creative

ANTICORPI - TRACCIATI DI DANZA INDIPENDENTE è una nuova Rete Regionale di Rassegne, Festival e Residenze Creative, creata da alcuni dei più attenti operatori della Regione Emilia-Romagna e coordinata dall’Associazione Cantieri, che mettendo a disposizione i loro “contenitori” e le proprie professionalità artistiche e organizzative, operano nell’intento di coordinare e promuovere giovani gruppi di danza italiani, con particolare attenzione per le compagnie indipendenti del territorio regionale.
Il progetto ha il sostegno dell’Assessorato alla Cultura della Regione Emilia-Romagna, grazie ai finanziamenti relativi al Piano triennale per lo spettacolo.

ANTICORPI si compone di soggetti attivi sul piano della promozione, diffusione, produzione e formazione culturale. Attraverso le loro programmazioni consentono di rilevare le mutazioni in atto nel panorama delle arti sceniche regionali, offrendone un quadro continuamente aggiornato. L’esperienza e i risultati raggiunti dai partners della rete, garantiscono alla Regione Emilia-Romagna una posizione di rilievo nel contesto internazionale e nazionale sui temi della contemporaneità.
I programmatori aderenti alla rete sono attualmente sette e coprono quasi tutto il territorio regionale: in Romagna sono presenti in provincia di Rimini l’Associazione Santarcangelo dei teatri e l’Arboreto con sede a Mondaino, a Ravenna l’Associazione Cantieri, mentre in Emilia hanno aderito l’Associazione Culturale Danza Urbana di Bologna, Tir Danza di Modena, il Teatro Comunale di Ferrara e Europa Teatri di Parma.

ANTICORPI opera mediante una struttura flessibile, leggera ed agevole volta alla costruzione di sinergie di carattere organizzativo tra le realtà pubbliche e private, che la costituiscono. Ciascuna struttura, in forme diverse, contribuisce all’incubazione di nuove personalità artistiche sul territorio regionale, alla formazione di un pubblico giovane e trasversale alle arti contemporanee, al sostegno produttivo di esperienze locali ritenute ormai mature, alla presentazione di esperienze nazionali e internazionali altrimenti assenti dalle scene regionali.

ANTICORPI vuole attivare una progressiva ri-calibrazione delle politiche culturali regionali del settore danza attraverso diverse modalità operative:
- potenziando il fiorente patrimonio produttivo e organizzativo presente in Emilia-Romagna, che si è costruito e definito nell'arco degli ultimi quindici anni, nell’ambito della danza di ricerca e d’autore;
- adottando gli elementi di innovazione e contemporaneità nella gestione del sistema danza, che si sono affermati attraverso la continua ricerca sul campo delle professionalità coinvolte nella rete;
- generando un sistema di relazioni e opportunità all’interno del quale i nuovi talenti emergenti possano tracciare le proprie linee di crescita e costruire strumenti idonei per portare avanti la loro ricerca.

Diversi sono già i progetti individuati dai partners, che saranno riconoscibili e distinguibili attraverso un logo comune, realizzato dalla Agenzia Image - progetti di comunicazione di Ravenna, pensato proprio per dare un segno distintivo e uniforme ai progetti sostenuti, che andranno a costituire un vero e proprio cartellone denominato Tracciati 2006, che attraversa trasversalmente le stagioni e le programmazioni dei diversi partner sostenitori.

TRACCIATI 2006
luglio 2006
Santarcangelo dei teatri, Santarcangelo (Rn)
< Santarcangelo_06 /International festival of the Arts - 36^ edizione >
luglio 2006

Ass.ne Cantieri, Alfonsine (Ra)
< “Festival Lavori in Pelle” vetrina della giovane danza d’autore >
settembre 2006
Ass.ne Culturale Danza Urbana, Bologna
< Danza Urbana -Festival internazionale di danza nei paesaggi urbani >
settembre 2006
Ass.ne Cantieri, Ravenna
< “Ammutinamenti” Festival di danza urbana e d’autore >
settembre 2006
L’arboreto, Mondaino (Rn)
< Residenza Creativa - Teatro Dimora >
settembre 2006
TIR Danza, Modena
< “Cattivi Maestri protagonisti del dubbio” piattaforma espositiva aperta a progetti in fase di elaborazione, presso The House Casa delle Arti a Modena>
ottobre 2006 / marzo 2007
TIR Danza, Modena
< “Confini”, rassegna di progetti interdisciplinari, in residenza presso Officina progetto teatrale >
ottobre 2006

Europa Teatri, Parma
< Danza 2006 >
novembre 2006
Teatro Comunale, Ferrara
< “Prime visioni festival, rassegna di danza contemporanea >
novembre / dicembre 2006
TIR Danza, Modena
Schemaperto” festival di danza contemporanea presso il Teatro Astoria di Fiorano Modenese

Per informazioni sempre aggiornate e dettagliate riguardo le programmazioni previste nel TRACCIATO 2006 è possibile consultare il sito www.anticorpi.org
Per informazioni e programma dettagliato:
tel. 0544 461762
e.mail: coordinamento@anticorpi.org
www.anticorpi.org
 



Appuntamento al prossimo numero.
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