(29) 15.02.02

L'EDITORIALE

Da una decina di giorni i Forum di "ateatro" offrono un nuovo servizio: La locandina di Paolo Maier è un’agenda giornaliera di spettacoli in diverse città italiane. Contemporaneamente sono stati risistemate anche le pagine di accesso ai Forum e ai Teatrolinks. La locandina di Paolo Maier è per ora >>>
 

INDICE

Walter Valeri parla della messinscena dell'Enrico IV di Pirandello da parte dell'American Repertory Theatre - in tempo di guerra.
Poi i materiali di lavoro (e il programma) dell'incontro The Next Thing, quali confini per la ricerca? organizzato dal Kinkaleri in programma a Scandicci - Teatro Studio il 2 marzo 2002 nell'ambito della rassegna Short Connection:
- Il disoperamento del mondo di René Denizot;
- Due vie verso il successo: il fallimento gaio e quello eroico di Bazon Brock;
- Teatro: la libertà di non esistere di Cristina Ventrucci (pubblicato originariamente su "Lo Straniero");
- "Lo spettacolo è finito, gente. Circolare" (L'istituzionalizzazione dell'arte e la vita segreta dell'underground) di Philip Monk;
- e da L'Alchimie du Verbe tra Arthur Rimbaud e Fanny & Alexander di Luigi de Angelis (con un mail di risposta di Oliviero Ponte di Pino).
 
Non manca neppure la scheda su Italian Landscapes, un progetto di Xing.
 
Infine, nel nuovo strarikko numero di teatro & nuovi media a cura di amm, il saggio di Luigi Colagreco sul Fregoligraph, dove si suggerisce che il grande trasformista, oltre che profeta del cinematografo, abbia anche anticipato Camera astratta. E poi Silvana Vassallo su Deep in the wood, l'installazione di Thierry de Mey alla Biennale di Venezia, e alcune info su Orgia di Pasolini in versione ipertekno alla Colline di Parigi.
Inzomma, un'orgia di info & novità & riflessioni &...

NEWS

(ma intanto andate a cercarle anche nei forum...)
 
Libri & libri
Intanto è uscito il quarto dei volumi dedicati dalla Ubulibri al teatro di Heiner Muller, Germania 3. Spettri sull'uomo, a cura di Peter Kammerer, introduzione di Jean Jordheuil.
E' l'ultima pièce dello scrittore tedesco, tratta di Stalin, di Hitler e della battaglia di Stalingrado, della morte di Brecht e della morte di Stalin. Sono 104 pagine e costano 16 euro.

In Spettacoli e immaginario teatrale nel Medioevo (Bulzoni, Roma, 291 pp. + numerose tavole in b/n, 23,24 euro) Sandra Pietrini esplora l'immaginario teatrale dell'epoca meno teatrale della storia dell'Occidente.
Perché nei "secoli bui" non c'erano solo giullari e sacre rappresentazioni. Esisteva anche uno spettacolo fantasticato, ricostruito dall'immaginazione, reinventato attraverso i documenti. La memoria teatrale dell'età classica veniva tramandata attraverso i glossari e i commenti degli autori cristiani (che peraltro tendevano a condannarlo). Gli eruditi (come nel celebre racconto che Jorge Luis Borges aveva dedicato a Isidoro di Siviglia) cercavano di immaginarselo, e magari di dipingelo o disegnarlo. Le rovine degli antichi edifici suggerivano altri sogni di un teatro passato...

Infine, Feltrinelli ha ripubblicato Shakesperae nostro contemporaneo di Jan Kott, lo studioso polacco (ma da tempo emigrato negli USA) scomparso pochi giorni fa: uno dei saggi sul teatro più influenti e discussi degli ultimi decenni. Kosta 9,50 euro.

Chioma a Roma
 

 
Arriva al Furio Camillo lo spettacolo del Teatro della Valdoca, regia di Cesare Ronconi, testi di Mariangela Gualtieri, lancinante protagonista Gabriella Rusticali. Altre info nella "Locandina di Paolo Maier".
 
AHA: Activism-Hacking-Artivism a Roma
Il giorno 8 febbraio presso il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell'Università di Roma "La Sapienza" si è inaugurata la mostra AHA:Activism-Hacking-Artvism curata da Tatiana Bazzichelli. I concetti principali di AHA, making art doing multimedia sono Activism = attivismo politico, Hacking = attivismo tecnologico, Artivism = attivismo artistico. La mostra AHA evidenzia un percorso collettivo, frutto di un movimento che dai primi anni ottanta si batte per un uso indipendente e autogestito dei media (video, computer, radio e testi scritti) e che oggi più che mai, sta dimostrando di essere una valida alternativa all'informazione ufficiale.
AHA nasce come riflessione dopo le manifestazioni di luglio contro il vertice del G8 di Genova: territorio non unicamente di duri scontri, repressione e violenza, come la maggioranza dei media ha evidenziato, ma anche importante esperienza per chi costruisce informazione dal basso, attraverso telecamere amatoriali, siti internet di movimento, circuiti di radio indipendenti.
Ma AHA è anche riflessione sulla sperimentazione artistica che fa uso del digitale, che, nelle sue più vitali manifestazioni, incarna necessariamente l'attitudine all'uso critico e autogestito dei media. Non più opere ma processi, non più originalità ma riproducibilità, non più rappresentazione di un unico genio ma azione collettiva, esempio di una progettualità creativa che, inserita in un museo, ne apre le porte e le mura.
Il progetto AHA vuole dare forma a un network all'interno del MLAC, integrando video, rete, radio e testi scritti. Un network composto da gruppi indipendenti e singoli attivisti che agiscono nell'ambito mediatico, tecnologico e artistico.
Per citarne alcuni: il collettivo Isole Nella Rete, Indymedia Italia, Radio GAP, Strano Network, Tactical Media Crew, Candida TV, Netstrike.it, AvANa.net, Autistici/Inventati, copyDOWN, Dyne.org, tutto il movimento hacker italiano, gli artisti e attivisti Giacomo Verde, Tommaso Tozzi, i GMM (Giovanotti Mondani Meccanici), Massimo Contrasto, Federico Bucalossi, Claudio Parrini, Ferry Byte, Arclele, Mariano Equizzi (in coproduzione con Luca Liggio e la INTERACT), la compagnia teatrale Neguvon e le storiche riviste Decoder e Neural.
Tatiana Bazzichelli sociologa della comunicazione, progettista multimediale e organizzatrice di eventi/workshop sull'arte digitale, si impegna da tempo nel portare avanti un concetto di arte come pratica reale all'interno del collettivo AvANa.net e in collaborazione con il gruppo Strano Network.
La mostra, che durerà dall'8 febbraio sino al 1 marzo, fa parte della serie espositiva "Laboratorio" proposta nell'ambito del Dottorato di Ricerca "Arte di Confine" e dei relativi corsi sperimentali di Stage/Master in Cura Critica ed Installazione Museale, voluti dal direttore del Museo, Simonetta Lux, e realizzati del curatore del MLAC Domenico Scudero.
Orari di apertura: lunedì - venerdì 10 - 20. Info : mslab@uniroma1.it tel.fax 06 4991 0365.
 
Bando Riccione TTV 2002
Vi ricordo che è aperto il bando per il Concorso Italia per l'edizione 2K+2 della rassegna di Riccione, in programma dal 30 maggio al 2 giugno (ATTENZIONE: il bando si chiude il 2 marzo 2002). Il bando (modulocompreso) lo trovate nel forum delle segnalazioni e ovviamente nel sito della manifestazione (dove trovate anche le anticipazioni sull'edizione 2K+2...).
 
Teatri dello sport
"Teatri 90 progetti ha messo in cantiere un nuovo progetto: per ora lo chiamiamo "I Teatri dello Sport" è ha il suo centro nel far incontrare sport e spettacolo, oltre la tv, naturalmente, e oltre gli episodi sporadici di spettacoli sullo sport. Il progetto sta prendendo forma proprio in queste settimane e dovrebbe essere realizzato nel prossimo maggio a Milano. Se andrà bene pensiamo di farne un appuntamento annuale e nazionale, con il coinvolgimento di altre città italiane.
Il cuore del progetto è nella realizzazione di una serie di spettacoli, possibilmente da testi inediti o commissionati per l'occasione, su diverse discipline sportive. I testi devono però ritrarre lo sport senza trascurare il nostro presente, osservadolo da diversi punti di vista e considerandone la molteplicità di aspetti: dalla società alla politica, dai sentimenti all¹arte, dai conflitti alla leggerezza. Gli spettacoli andranno in scena ciascuno nel proprio specifico impianto sportivo. A oggi pensiamo di coinvolgere lo Stadio Meazza, l¹Arena, la piscina Cozzi, un campo di atletica, il Vigorelli, con annessa palestra per la boxe, e altre suggestive location sportive.
Vi invitiamo a contribuire al progetto inviandoci i vostri testi, segnalandoci spettacoli in lavorazione, suggerendoci idee, dandoci consigli.
Lo potete fare nei modi che più vi aggradano:
- per telefono: chiamando Teatri90progetti, 02.48102248, 02.48531854, oppure Antonio Calbi al 335.5474705 o Marina Morello al 339.6052945;
- per fax: 02.48531854;
- per e-mail: teatri90@libero.it, oppure ancalbi@libero.it;
- per posta: Teatri90progetti, via Boccaccio 16, 20123 Milano.
Abbiamo tempi molto molto stretti, così vi preghiamo di contattarci prima possibile.
Ringraziandovi sin da ora per la vostra preziosa collaborazione vi auguriamo un Atletico 2002.
Teatri90staff"
 
Due concorsi

Per cause accidentali che è troppo lungo spiegare, mi ritrovo coinvolto in due simpatici concorsi.
Il primo, Subway letteratura. I juke-box letterari, lo organizza il Settore Giovani del Comune di Milano ed è riservato a scrittori under 35: dovranno scrivere un racconto breve, indicando titolo, genere ("thriller", "storia d'amore", "racconto per bambini", ma sono ammesse etichette più fantasiose) e numero di fermate di metropolitana presumibilmente necessarie a completare la lettura. Tra i racconti pervenuti, ne verranno scelti 12 che saranno diffusi gratuitamente in un congruo numero di copie nelle stazioni della Metropolitana Milanese attraverso una serie di Juke-box letterari (appena ho la foto la metto sul sito). Il bando lo trovate sul sito del Comune di Milano Settore Giovani. Ah, dimenticavo, i vostri capolavori devono arrivare entro il 20 febbraio 2002.
Il secondo concorso è invece rivolto a drammaturghi grandi e piccini. Si chiama Vicini sconosciuti e lo organizzano a Graz, che nel 2003 sarà Capitale Europea della Cultura. La giuria, composta da Carlo Bruni, Onofrio Cutaia, Elio De Capitani, Cristina Ventrucci e da me sceglierà tre testi inediti e mai rappresentati; i tre testi verranno tradotti in tedesco e uno di essi verrà rappresentato a Graz in prima mondiale nel corso del 2003. Il bando ufficiale lo trovate in questo sito nel forum sulla drammaturgia italiana; i testi devono arrivare a Graz entro il 31 marzo 2002.
 
Poesia: Lombardi-Pasolini e Paolini-Calzavara in CD
Ma ancora non li avete sentiti, i due CD pubblicati da Garzanti Libri? Marco Paolini interpreta Marco Calzavara e Sandro Lombardi interpreta Pier Paolo Pasolini. Intanto potete ascoltare due brani in anteprima: Marco Paolini interpreta l'irresistibile Can, Sandro Lombardi la struggente Supplica a mia madre.
Per altre info, leggete l'intervista sul progetto di "Alice" a Oliviero Ponte di Pino, oppure visitate la pagina del sito Garzanti dedicate al progetto. Potete richiedere i due cofanetti subito subito da internetbookshop: Paolini-Calzavara (prezzo di copertina 27.000 lire) & Lombardi-Pasolini (prezzo di copertina 25.000 lire).

 

L'EDITORIALE

Da una decina di giorni i Forum di "ateatro" offrono un nuovo servizio:
La locandina di Paolo Maier è un’agenda giornaliera di spettacoli in diverse città italiane. Contemporaneamente sono stati risistemate anche le pagine di accesso ai Forum e ai Teatrolinks.
La locandina di Paolo Maier è per ora in fase sperimentale (anche x quanto riguarda il software fai-da-te) e ovviamente per Paolo (millegrazie!) non è possibile censire tutti gli spettacoli che fanno ridere e piangere il Belpaese. Tuttavia per i visitatori è molto semplice aggiungere ulteriori segnalazioni e commenti: basta cliccare sul giorno e poi su “Rispondi a questo messaggio. Ai Forum sono state aggiunte alcune indicazioni pratiche, per i meno esperti. Per quanto riguarda i siti teatrali censiti nella pagina dei Teatrolinks, sono già oltre 300: se qualcuno ha voglia di controllare se funzionano tutti, se sono necessari aggiornamenti eccetera, è il benvenuto e avrà la gratitudine di tutti i frequentatori del sito.
In questo numero molto spazio viene dedicato all’incontro curato dai Kinkaleri ai primi di marzo a Scandicci. Oggi più che mai è necessario aprire spazi di riflessione e discussione pubblica. Non è negli acquari delle burocrazie ministeriali e corporative che il teatro italiano può crescere e cercare una propria identità. E neppure (solo) nelle chiacchiere tra amici che sanno tutto l’uno dell’altro, sempre in bilico tra autopromozione & depressione, tra il mugugno e la rivendicazione della propria integrità artistica & morale. Servono invece spazi d’incontro, scambi di esperienze, e magari - chissà - momenti di proposta. (A proposito, nel Forum sul teatro di guerra trovate le riflessioni di Ronconi & altri sulla funzione & necessità del teatro oggi...)
Tutto questo diventa ancora più urgente perché, come già annunciato da autorevoli esponenti del governo e del ministero, le risorse destinate al teatro di prosa sono destinate a diminuire. Al solito, in una prima fase la lotta per accaparrarsele (& salvare la pelle, con varie dosi di opportunismo & trattativa privata) si farà ancora più dura. Tra l’altro sono già state annunciate nuove proposte di legge sullo spettacolo, sulle quali sarà il caso di riflettere. E a quel punto dovrà prevalere il senso forte della propria esperienza e del proprio agire artistico, e su questo dovranno scattare le solidarietà e un’azione di autentica politica culturale.
Il nodo fondamentale, ieri come oggi, è il ruolo del teatro pubblico, sul quale è fondato ormai l’intero sistema delle sovvenzioni. L’alternativa - e se ne sono accorti già in molti - è l’autosufficienza, chiudere ogni rapporto organico con le istituzioni, limitandosi a eventuali collaborazioni su singoli progetti. Certo, per rifondare il nostro teatro pubblico è necessaria un’ampia riflessione, che deve partire dall’involuzione degli Stabili a partire dagli anni Sessanta e dovrà tener conto dei numerosi errori della sinistra istituzionale nel settore teatrale. Certo, questo è un nodo che una sinistra priva di memoria non pare in grado di sciogliere... Certo, la società italiana in questi anni è molto cambiata... Certo, il teatro di regia non è l’unica pratica legittima... Certo, questo è un momento particolarmente difficile... Certo, negli ultimi anni i primi responsabili delle difficoltà del nostro teatro pubblico sono le parrocchie e parrocchiette della sinistra (vedi Martone a Roma, Castri-Vacis a Torino, e speriamo che la stessa cosa non accada a Massimo Paganelli a Prato... Certo, certo...
Ma è davvero il caso di dichiarare definitivamente chiusa - peggio, di lasciar chiudere o snaturare - l’esperienza più importante e innovativa delle scene italiane del dopoguerra? E se sì, che cosa resta, al di là dello spontaneismo e della buona volontà (e del teatro privato paratelevisivo)? Su quali basi sarà possibile dare forma e credibilità al nostro sistema teatrale?



Enrico IV nel labirinto della guerra
Il testo di Pirandello in scena a Cambridge (USA)
di Walter Valeri

Collaborare come drammaturgo all’allestimento dell’Enrico IV di Pirandello, andato in scena al Loeb Drama Center di Cambridge, in un paese in guerra contro il terrorismo, è stato significativo, forse utile per riscoprire la validità e vitalità dell’opera pirandelliana.
Lo spettacolo prodotto dall’American Repertory Theatre, per l’intensa e scrupolosa regia di Karin Coonrod, l’adattamento di Robert Brustein, è stato replicato con notevole successo per oltre un mese. La scena disegnata da Riccardo Hernandez rappresenta la sala del trono tagliata a metà da un enorme muro d’acciaio, asimmetrica rispetto al pubblico. Al centro un trono anch’esso in acciaio e slanciato verso l’alto, con alle spalle un’enorme croce sospesa, mentre i famosi ritratti dell’imperatore di Germania e Matilde di Toscana, sono sostituiti da due statue a grandezza naturale anch’esse sospese a tre metri d’altezza ai lati del trono.
Molti spettatori sono tornati a vederlo una seconda volta. Nella pagina spettacoli del “New York Times del 18 gennaio, Bruce Weber ha definito questa produzione dell’Enrico IV straordinaria per qualità, interpretazione, temi pirandelliani trasferiti in scena in un linguaggio contemporaneo conciso e diretto. In sostanza si rende omaggio a una lucida capacità di ricucire, attraverso il palcoscenico, in tempi così nebulosi e deliranti, un nesso sicuro e certo col passato storico recente e un capolavoro della letteratura drammatica del XX secolo.
Si sa che in tempi di Guerra la quotidianità, gli elementi che la compongono, cambiano forzatamente la loro natura. Anche i gesti più banali sono intrisi del mito di un’azione armata, che si esalta come gesto decisivo. La logica di Guerra sospende il dibattito e il tempo reale. Non chiede di essere condivisa e non offre ripensamenti. Chiede solo umiliazione e subordinazione. Appartiene alla famiglia totalitaria dell’azione-pensiero. E non fa grande differenza da quale parte dello schieramento ci si trovi. Un’azione che segue la logica delle armi è un’azione armata. Così come il pensiero è armato. Stringendo per primo d’assedio chi nella propria cerchia non s’allinea. Nell’ordine del discorso vengono bandite: la metafora, il simbolo, l’ossimoro, il realismo, l’allegoria, il traslato, etc. Resiste solo l’onomatopea intrisa dello scricchiolio delle ossa e il tonfo del cervello obnubilato. L’odio per il nemico, nottetempo, deve accasarsi con l’assenza della ragione: “Marte non comprende ma impazzisce sono le parole folgoranti di Ulisse nel V canto dell’Odissea.
Ma che ne è del teatro in tempo di Guerra? Come si modifica la sua drammaturgia? E’ una domanda interessante e insidiosa a cui si può dare una risposta storiografica, compilando una lista di drammi da Eschilo al recentissimo Homebody/Kabul di Tony Kushner, oppure citare la sempre valida Storia del teatro drammatico di Silvio D’Amico. Il teatro di Pirandello, in particolare l’Enrico IV, si mostra uno strumento decisamente utile a questo scopo. Com’è noto Enrico IV è una delle poche tragedie di Pirandello, allestita a ridosso della Prima guerra mondiale, scritta lo stesso anno dei Sei personaggi (1921) in risposta all’incomprensione mostrata da gran parte del pubblico e della critica.
Al di là dell’apprezzamento estetico e dei complimenti, per alcuni versi esagerati, il critico del “Times ha centrato le intenzioni evidenziate dalla regia. La macchina del pensiero all’opera è già contenuta interamente nel testo pirandelliano: ridare coscienza critica e consistenza alla visione di un presente rimosso accettando la natura polimorfa della realtà è il motore centrale dell’intera opera di Pirandello. Riflettere criticamente sui meccanismi di fuga della società a lui contemporanea, riproponendone i temi in varianti quasi ossessive; o le angustie di una società intrappolata fra inadeguatezza ed incapacità di dare risposte reali ai problemi etici ed estetici la sua funzione di poeta e scrittore. I conflitti chiaramente intesi nell’intima natura dei personaggi sono visti dall’autore come regressione senza scampo nel mondo virtuale, in una sordità generata dagli eventi che, al meglio, conduce ad un passato esangue ed inesistente; o esistente solo come proiezione irrisolta e lirica del protagonista, in attesa della catastrofe finale.
Un avvertimento, più che un ritratto realistico del mondo, questo Enrico IV di Pirandello, recitato mirabilmente da David Patrick Kelly, un attore atipico, che ha lavorato a lungo con Richard Foreman, e viene da una lunga successive frequentazione del cinema non commerciale, alternato con produzioni teatrali off-Broadway e Broadway. E come tutti gli avvertimenti, anche terribilmente reale e credibile. Metafora di un autentico, crudele e sofferto auto accecamento che, analogamente, si viene consolidando nella società americana, dopo i massacri dell’11 settembre. Dove l’industria culturale, che sforna prodotti notoriamente acefali, è praticamente al sevizio di una doppia forbice che promuove stragi e, allo stesso modo, trasforma in statue di sale i suoi cittadini. Le immagini e notizie della Guerra vengono trattate con gli stessi stilemi della fiction. Ecco dove vive e prolifera l’irrealtà dell’Enrico IV a noi contemporaneo.
Sciogliere questo sale è certo il primo compito, il primo atto di resistenza che, a mio avviso, deve assolvere il teatro in tempo di Guerra. Per non cadere in una sorta di teatro al servizio della guerra; nel momento in cui la dismisura e l’irrazionalità si impongono come forme di patriottismo (o anti-patriottismo - leggi pure anti-americanismo) cieco. Entrambi gli atteggiamenti pescano nel pozzo buio della reazione. Vendono lo stesso prodotto deteriorato, oscurato dell’intelligenza, dimezzato della verità. Si dirà: cose vecchie, atrocità consuete all’inventario del doloroso mondo. Ma questa volta l’universo s’è fatto piccolo: lo spartiacque frangibile.
Proprio rileggendo gran parte della sua opera in occasione di questo Enrico IV, mi è parso di intravedere che Pirandello lavorava alla realizzazione di un teatro ostile al cinismo, all’imprigionamento della verità; e prefigurando un nuovo contratto sociale, più prossimo a un atto di giustizia (anche nel senso di dibattimento giudiziario) finalizzato all’allargamento della società; capace di accoglie l’umanità mutilata dalla rimozione e gli uomini-paria del suo tempo, più che controbattere meramente le convenzioni estetiche e conservatrici ereditate dal XIX secolo o le avanguardie estetizzanti sino all’afasia (letterarie e teatrali) del XX secolo. L’Enrico IV di Pirandello risulta essere un rito culturale, per usare la formula pasoliniana, contro ogni tentazione riduttiva, in aiuto di quanti si sono sentiti o si sentono privati di una visibilità, discriminati, sacrificati nell’altare delle necessità dominanti. Immediatamente comprensibili sotto questo velo opaco steso da una amministrazione ed economia capitalista globalizzante pronta al genocidio pur di rappresentare gli interessi di una aristocrazia economica.
Enrico IV e il modo con cui è scritto, in qualche modo, si oppone alla pressante censura psicologica, ma anche legislativa e deformante, che questa Guerra globale al terrorismo comporta: uno stato di odio latente ma trattenuto appena sotto i limiti della catastrofe. L’Enrico IV ha mostrato l’intera qualità rivoluzionaria dell’opera di Pirandello, intimamente antifascista e antitotalitaria. Biografia a parte, se ne sono accorti a loro tempo i nazisti e fascisti nostrani, che ben presto hanno smesso di leggerlo o metterlo in scena. Per altri versi la stessa società vittoriana inglese, diretta progenitrice di Winston Churchill, ha avuto un suo ‘naturale’ rigetto nei confronti di Pirandello, quando nel 1925, per ordine del Lord Chamberlain, vietò le recite dei Sei personaggi in cerca d’autore in tournée al Teatro d’Arte al New Oxford Theatre di Londra. O meglio, le vietò in lingua inglese: per la scandalosa e sottintesa relazione sessuale fra il padre e la figlia adottiva menzionata nel testo. Inutili le proteste di Pirandello: “Per cominciare, l’azione potenzialmente immorale, nel dramma non succede, e tutta la forza della commedia è usata per condannare tale azione… anche se nella sua potenzialità. La compagnia fu costretta a recitare lo spettacolo in italiano, previa una breve introduzione che ne chiarisse la trama.
Alla resa dei conti, il concetto stesso di teatro per Pirandello può, in breve, essere riassunto nella motivazione dei grandi tragici greci: educare nella libertà la mente dello spettatore e, aggiungerei, dell’attore e del regista. In tempi di Guerra non è cosa da poco. Questa libertà pirandelliana, che approda quasi sempre in forme brucianti di verità, si manifesta con una perfetta macchina retorica, in una sorta di processo pubblico dove, più che un concetto di giustizia, si esalta il rovesciamento del punto di vista confortevole. La dittatoriale unicità e natura dei sentimenti borghesi o piccoloborghesi, quelli più banali e in apparenza innocui (e l’assuefazione alla crudeltà che ne deriva) viene scardinata dall’interno. La trama e i personaggi dell’Enrico IV, conseguente ai fatti narrati, secondo la natura dei personaggi stessi, più che per coerenze esterne imposte dalla logica del perfetto drammaturgo, mostra di rispettare rigorosamente questo mandato. In sostanza Pirandello, specie nell’Enrico IV, più che volerci apparire formalmente ineccepibile, ci ripete, sino alla nausea, con quasi tutta la sua opera, che la ‘realtà’ va sostituita con altrettante realtà legittime e diverse. L’opera, la creazione artistica ha come dovere principale quello di mostrarcele: parallele o contrastanti, conseguenti o precedenti ai fatti. Verità e realtà si scollano irrimediabilmente.
Pirandello non solo crea e scrive un testo attingendo alle risorse formali delle avanguardie del Novecento, ma prefigura ( e quindi crea) un nuovo pubblico, nuovo, nel senso di come ci è dato immaginare sia stato per Euripide. Un pubblico non assuefatto e docile, ma inconsolabile, frammentato nella psicologia dell’uomo che si costruisce secondo la scansione dei secoli, più che dei giorni. “Ma dite un po’, si può stare quieti a pensare che c’è uno che si affanna a persuadere gli altri che voi siete come vi vede lui, a fissarvi nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di voi?, sono le parole del monologo lucidissimo e struggente di Enrico VI. Un’euforica, umoristica visione, dell’individuo che si distacca e non ricalca, non accetta un modello autoritario, che non vede con orrore la ‘legione’ e la ‘moltitudine’ come minaccia anarcoide, mi pare la straordinaria epifania di nuove libertà intrinseche nell’opera di Pirandello. Una scoperta che, dopo le mode e ricette culinarie dei vari pirandellismi, può ancora procurare disagio, disperazione, nausea e ira, nichilismo e senso di infinita vanità del tutto. Oppure risentimento religioso, specie nelle teocrazie monoteistiche che ancora nulla sanno della rivoluzione francese. Intendo chiaramente l’Islam, che non ha ancora vissuto l’esperienza dei lumi, né della riforma e della contro-riforma; così come intendo chiaramente l’universo chiuso di una democrazia consumista e gastro-intestinale; che preferisce precipitare il mondo in un abisso neo-oscurantista tecnologico, piuttosto che rifare i conti con una più equa distribuzione delle risorse che appartengono al mondo e quindi a tutti.


THE NEXT THING, quali confini per la ricerca?

Al Teatro Studio di Scandicci, i Kinkaleri lavorano a un progetto che ci pare interessante, articolato in una serie di spettacoli e in una giornata d'incontro.
Qui di seguito un documento che presenta il senso dell'iniziativa, una serie di materiali preparatori (ai quali vanno aggiunti il saggio di Luigi De Angelis e la risposta di Oliviero Ponte di Pino, pubblicato sulla rivista "Lo Straniero" e su "ateatro") e (in fondo) il programma della rassegna.

 
All’inizio degli anni novanta e precisamente dal 1990 al 1993, circolava in libreria una rivista dal titolo “Luogo Comune con delle scarne e bellissime copertine.
Questo bimestrale nell’editoriale del primo numero dichiarava "Questa rivista ritiene plausibile, anzi conveniente, una critica radicale ai modi di pensare e delle forme di vita oggi prevalenti. E’ finito il tempo in cui si poteva soltanto limitare il disonore".
Niente di nuovo rispetto alle tante riviste di antagonismo politico e culturale che riverberando dagli anni sessanta giungono ancora oggi fino a noi.
Successivamente precisava "La critica della società fondata sul lavoro salariato deve evitare, però, ogni nenia nostalgica sui movimenti di massa del passato. La rivista si attiene scrupolosamente ai soggetti, alle mentalità, alle forme di vita, ai modi di produrre e comunicare che rappresentano l’esito estremo della modernizzazione e dello sradicamento da qualsivoglia precedente tradizione."
Lo scarto proposto diventava subito interessante; non era il solito dichiararsi “altro dal mondo e dal dominio: questa sua ambizione risultava evidente.
"La rivista é ambiziosa. Non mero contenitore di inquietudini teoriche, né orgoglioso e appartato “dissi e salvai l’anima mia. Suo proposito dichiarato é incidere sul senso comune, contribuendo dunque a modificare la più immediata percezione della realtà sociale. Ad immagini familiari intende sostituire altre immagini che familiari lo possono diventare. Disinteressata a speciali squisitezze, la rivista ha la pretesa di far intravedere, corrodendo gli attuali, altri possibili luoghi comuni. Prendere a proprio oggetto il “senso comune già implica una scelta di merito. In tal modo, infatti, si privilegia l’insieme dei fenomeni nei quali viene vista la totale coincidenza tra produzione e cultura, modelli operativi e immagini dal mondo, tecnologie e tonalità emotive. …Nella situazione che è nostra, il cui sapere e la comunicazione linguistica sono divenuti materia prima dei processi di lavoro, i cosiddetti “fatti dell’esistenza quotidiana si presentano come viluppi teorici; e, rispettivamente, le “idee non rispecchiano lo stato delle cose, ma ne sono una componente."
Un progetto folgorante che cercava di inserirsi tra le pieghe delle cose, un tentativo di costruire un tessuto di pensiero adagiato e confuso nella struttura stessa di una società complessa.
Concludeva in modo meraviglioso "E’ prossimo il momento in cui ricominciare a essere realisti. Ben sapendo che realismo, oggi, significa pensare in modo paradossale ed estremo. Che attenersi ai fatti, richiede un’immaginazione fuor di misura."
La rivista cessò le pubblicazioni nel 1993.
Degli anni novanta sappiamo tutto: il disegno compiuto di una società che ha delegato alla rappresentazione di se stessa tutto il sistema culturale, occludendo gli spazi residui per l’introduzione di nuovi “luoghi comuni.
Ogni modificazione non ha portato a ramificazioni che fossero specchio della complessità dell’esistente, bensì ogni evento è risultato piegato e spiegato nelle regole ferree dello spettacolo integrato. La creazione del gusto.
La sostituzione della realtà con la rappresentazione di essa ha reso possibile soltanto la ripetizione di schemi consolidati dove anche un linguaggio “destrutturante è stato accettato nella sua aurea di novità solo nella possibilità di renderlo parlante e sfruttabile per le stesse lunghezze d’onda.
Anche se per certi versi datata (ulteriore motivo di approfondimento), la citazione di una rivista degli anni novanta è risultata per noi luogo importante di riflessione su ciò che in questi anni abbiamo visto morire: la possibilità di un’esistenza impegnata nella definizione della realtà e di un linguaggio che potesse essere non soltanto rappresentazione.
Il tentativo di aprire una discussione partendo da queste considerazioni nasce da un bisogno di esercitare un pensiero rispetto al presente: ricominciare ad essere realisti, appunto.
Un invito costruttivo che non può prescindere dal legame indissolubile che, nella situazione attuale, pone in stretta relazione la cultura e la comunicazione linguistica, attribuendo ad entrambe un ruolo centralissimo in ogni piega del processo produttivo.
In uno scenario in cui “l’agire comunicativo corrisponde essenzialmente “all’agire produttivo, é possibile ripensare interamente un’idea adeguata di linguaggio? Quali sono i suoi margini di “libertà?
Questo forse coinvolge un ripensamento generale a partire dai tanti problemi che stanno dentro alla nostra tradizione culturale. Se diventa possibile assumere questa domanda con un certo grado di realismo, o comunque di capacità esplicativa, la situazione dell’oggetto da analizzare viene complicata enormemente investendo la totalità delle azioni in stretta relazione con i temi dell’autonomia, dell’originalità e della creatività.
Da questa ipotesi di lettura l’insieme del “senso comune non può non essere attraversato: la fitta rete di convenzioni, formule, formalizzazioni, quell’insieme cioè di modi di un pensiero che si é condensato come patrimonio in movimento sulla base del quale solamente un gesto ulteriore e cosiddetto irripetibile si può innestare.
Proviamo a restringere il campo e guardare più da vicino un sistema come quello delle “politiche culturali che nello stato attuale si è conquistato uno straordinario potere di trazione nel dibattito pubblico e nella diffusione globale degli avvenimenti. Potere conquistato riempiendo il vuoto lasciato dalle mancate parole di chi produce e di chi accoglie, riempito dalle opinioni e dai dibattiti tra operatori culturali che non inseguono l’opera ma la desiderano perennemente accanto a loro e a quel pubblico che tra le proprie occupazioni mantiene anche “l’ora d’aria dell’intrattenimento.
Nella mancata acquisizione di un potere che fosse consapevole e necessario per esistere da parte di produttori e “traghettatori del sistema delle arti sceniche stanno molte delle dinamiche in levare dell’ultimo decennio. Ovvio, tutto segue il corso del tempo, ma crediamo che nessuno si possa permettere una scomparsa della dialettica in questioni delicate come quelle dell’arte e della rappresentazione. Pena l’inutilità totale di ogni fare non concesso al mercato.
Se ci riferiamo ad un ambito teatrale, e più specificamente agli esiti più audaci dell’esperienza contemporanea definiti come “ricerca o “sperimentazione, intese cioè con un fare che trova la propria dimora in quella zona di confine in cui ogni esperienza è intrisa di ambivalenza, risulta evidente il mancato rinnovamento di un sistema che, in relazione alla complessità, ha semplificato il suo sguardo nel tentativo di recuperare un’unità ormai senza senso. Soprattutto gli anni novanta hanno assecondato la deriva pensando che bastassero la messa in atto di formule per la diffusione, delle nascite miracolose, degli eventi, delle ondate successive senza che si affondasse nel profondo la mancanza di spinta ad un rinnovamento degli sguardi e di conseguenza del sistema produttivo.
Un’arte che si pensava aperta, con nessuna identità specifica da difendere o salvaguardare, pronta a riflettere le versioni contrastanti a partire dalle molteplici visioni del mondo, si è scoperta prigioniera di uno spazio chiuso, invalicabile, seppure per certi versi ancora dorato.
La superproduzione di senso e di spettacolo ha neutralizzato in partenza qualsiasi volontà disgregatrice operata all’interno dei linguaggi teatrali e della scena: le piccole intuizioni sono state riassorbite sulla base di un bisogno di aderenza a principi di riconoscibilità.
Le logiche di mercato e le politiche culturali hanno semplificato i processi privilegiando le identità tra l’opinione diffusa e la sua aderente rappresentazione.
Il tutto paradossalmente alla luce dei tanti richiami alla sperimentazione e all’interazione dei linguaggi che vari bandi di finanziamenti pubblici fanno continuamente propri, appellandosi al rinnovamento della forma spettacolare in riferimento alla contemporaneità.
Invece di mancare la scena come progetto e ordine permanente del disordine che permette di allungare lo sguardo, sono mancati i luoghi e le volontà collettive di continuare a tenere aperti i recinti. Sono mancati gli spazi, i luoghi dell’azione, sono mancate le persone, i rischi e le responsabilità, sono mancate le volontà, é mancato il linguaggio ed ogni volta é un ripartire da zero.
E’ necessaria la “ricerca?
Una riflessione indispensabile che nella sua analisi sfugga tanto all’esaltazione generalizzata e consolatoria delle molteplicità, quanto all’identificazione nostalgica delle appartenenze: non cadere nella nostalgia per modelli che furono o nel nuovismo a tutti i costi.
Un’analisi che include una attenta riconsiderazione del concetto di “tradizione inteso come trasferimento di un patrimonio, di un sapere, operato da mediatori che assicurano questo collegamento.
"Il mediatore si situa in una zona intermedia sul bordo; é una figura di confine, abitatore del luogo di passaggio". In questo senso tutta l’arte è continua mediazione: dall’artista all’opera dall’opera allo spettatore, ma anche dall’opera a chi la osserva e dallo spettatore a chi la agisce. "Nella mediazione qualcosa cambia posto, ma noi non sappiamo cos’è: non necessariamente il mediatore possiede ciò che passa di mano".
Il problema del rapporto tra nuovo e tradizione potrebbe essere indagato a partire da una riflessione sull’assenza e sul mancato rinnovamento di testimoni attenti, capaci di proteggere e gestire il trasferimento di conoscenze, che in questi anni ha caratterizzato la più recente esperienza pubblica e culturale in Italia.
Agghindati con il gergo tecnocratico dell’informatica THE NEXT THING, quali confini per la ricerca? vuole essere l’occasione di discussione a partire da queste tracce che sono il risultato di itinerari di sviluppo, incroci di riflessioni e letture a volte forse troppo generiche ma assolutamente non programmate; il tentativo particolare di questa occasione é la riapertura alla possibilità di certe parole.
Occorre quindi un’opera ambiziosa: interrogarsi sulle forme di vita che si delineano, allorché decade l’intero sistema di appartenenze, ruoli, identità.
Riferendoci a quell’area della sperimentazione informatica dove l’oggetto della ricerca rinuncia a qualsiasi tipo di definizione, THE NEXT THING vuole parlare della possibilità, ma soprattutto della necessità di esistenza nella situazione attuale, di un vuoto a perdere, un luogo di confine in cui l’operato artistico possa trovare relazione con ciò che non é immediatamente riconducibile. Un tentativo che a partire dalle esperienze anomale di questi ultimi anni dove il concetto di “messa in scena é andato ben oltre alla sola tradizione teatrale, possa dar forma e voce a partire dalle numerose interpretazioni del presente.
Rinunciare per definizione alla stretta identità tra un pensiero e la sua rappresentazione, impiegare in modo produttivo questa discrepanza per cercare qualcosa che non può essere proposto in partenza.
"Possiamo forse pensare una sorta di appropriazione dell’improprio, cioè un diverso afferramento di ciò che ci è dato in forme che noi non consentiamo e che però, in qualche modo, evidenziano e concentrano una possibilità che può sembrare nuova e preziosa?"
Proponiamo e lanciamo la discussione, coscienti che sia solo l’inizio, interessati a vederla continuare in altri luoghi ed in altri tempi.
 

Materiali di lavoro

Il disoperamento del mondo
di René Denizot

 
Nel disoperamento di un mondo deflagrato, che cos’è un’opera d’arte contemporanea?
Nasce, il problema, dalla situazione presente, ed esso stesso vi è in gioco. Nulla lo rappresenta. Esso lavora il presente come annullamento del tempo. Esso situa l’opera d’arte nella breccia in cui il suo avvento resta sospeso alla prova del disoperamento.
Il disoperamento è all’opera. Ma l’opera del disoperamento fa venire meno la perennità delle opere d’arte, interrompe la continuità della loro rappresentazione, spezza il loro quadro di riferimento, infrange la loro immagine e schiude, all’insaputa, la vacanza del presente, alla stregua di un incidente della storia ove viene alla luce il problema stesso dell’opera contemporanea.
Anacronisticamente, lo spettacolo continua come se niente fosse - Documenta, Biennale di Venezia…- come se l’arte e la cultura dovessero salvare le apparenze di un mondo che non esiste più.
La messa è finita. D’altronde, non è più questione di Salvezza. La salvaguardia di immagini che si riproducono da sole, quasi si giustificassero nella verifica della loro vacuità, è, per l’attrazione esercitata da nuove tecniche, l’espressione meccanica del disoperamento. Ma ne è l’espressione nichilista, il rigetto cieco dell’opera contemporanea, il ritiro nella fatalità della disoccupazione tecnica.
Il problema dell’opera d’arte è senza rifugio. E’ senza fondo. E’ il problema sorto dalla breccia temporale del disoperamento. E’ il problema aperto e muto sulle labbra del tempo. Esso sorprende il mondo al di fuori delle sue rappresentazioni, sul limite occidentale della sua storia, sulla soglia impensata delle metamorfosi che lo attraversano qui ed ora, e il cui gioco travalica, come distanti costellazioni, le figure tutelari della verità, la loro certezza filosofica e il loro fondamento metafisico.
Non è più questione di sottomettere l’opera alla domanda dell’essere, ché essa è opera del tempo che squarcia la storia, la prova del disoperamento che la abbandona alla partita del presente, ad una messa in gioco che la espone direttamente al gioco stesso del mondo. La possibilità di creare delle opere non appartiene a nessuno. Essa appartiene al mondo. E’ contemporanea alla deflagrazione di quel sistema di forze geopolitiche che sorreggeva la rappresentazione di una unità dialettica, in un medesimo quadro estetico, in un medesimo scenario ideologico ove la storia del mondo, secondo regole accademiche, svolgeva il protocollo ontologico e la declinazione di un atto univoco. Il teatro del mondo non è più un allegoria. Da Platone a Hegel, il mondo è giunto alla finzione che lo espone al disoperamento dei propri artifici. Non semplicemente disorientato, esso perde contemporaneamente il suo Oriente e il suo Occidente. Si affranca dai vincoli. Non è più un destino. il mondo è entrato nel tempo del mondo. Non è più l’universo chiuso di una realtà sostanziale, bensì il gioco illimitato dell’azione del disoperamento, l’esplosione di un presente frammentario e multiplo. E’ il mondo venuto meno e fratturato dal tempo che lo mette in gioco. E’ il mondo che apre e chiude il problema dell’opera.
Il mondo è all’opera, e l’opera è al mondo, stante una contemporaneità che non possiede altro orizzonte se non il momento e il luogo di fratture ed effrazioni in cui il presente dell’opera è un presente del mondo, mutuo abbandono al disopramento che libera il tempo del mondo, alla violenza dell’evento discriminante l’avvento di un opera che non può essere un presente datato ma lo schiudersi qui e ora, sulla soglia critica dell’apparizione e della scomparsa, di una mondializzazione del tempo.
La contemporaneità è questa metamorfosi del tempo dell’opera in opera stessa del tempo.
Così i Date paintings di On Kawara: pur dipinti di cronologie, essi non sono l’esposizione ridondante di una immagine del tempo fissata in una serie di quadri datati. Fra la datazione dei quadri e il presente della pittura vi sono la frattura del giorno e l’effrazione di un tempo espositivo, che lasciano vedere e leggere qui e ora, e frammentariamente - secondo il gioco metodico degli artifici -, l’evento che apre e chiude l’attuarsi del momento e del luogo dell’apparizione e della dis-apparizione, ciò che rende possibile intendere, sulla soglia dell’apparire, la pittura come porzione del tempo e come pratica del mondo.
Il mondo è in gioco nella pittura, non già come lo vorrebbe la storia del quadro che serba l’immagine di una rappresentazione datata e mai disperata, bensì come il presente visivo di una pratica pittorica che, alla prova del disoperamento, la espone la gioco del mondo.
La dimora dell’opera d’arte è la soglia, veicolo del presente che schiude la storia come un corpo vivo nell’incontro con un altro corpo. Ed è, la soglia, il luogo di una alienazione senza perdita, di un altrove senza alibi, di una alterità che qui e ora genera degli inizi senza che la memoria sia vana e il tempo lettera morta, bloccato nelle pietre dei monumenti, nelle rovine degli edifici, nel deserto degli antichi centri e delle città nuove.
Non c’è niente da inventare, salvo la contemporaneità. La partita del presente va giocata come si lanciano i dati. Aver luogo in ciò che è dato. Nel corpo degli edifici, nel corpo dei testi, nei segni erratici e nelle relazioni che innervano la città, essere afferrati dallo scaglionamento dei luoghi, e cogliere ancora nel disoperameto la vacanza dello spazio e del tempo, come in concedo dall’essere la spiaggia del presente, là dove si gioca di nuovo la rappresentazione di un inizio. E l’opera ha qui il suo abbrivio e il suo slancio.
La fine dell’arte non è più una fine. Piuttosto, è la condizione dell’opera contemporanea, necessaria al cospetto del disoperamento che libera il tempo della storia e attualizza i mezzi dei quali l’opera dispone. Nulla predetermina ciò che l’opera deve essere. Non gli elementi di cui si compone, né la sua messa in opera. E’ l’opera stessa, semmai, che si arrischia ad apparire là dove non ha luogo d’essere, opera di esposizione. La contemporaneità dell’opera si commisura alla potenza dell’esposizione che la pone fuori di sé. Nel gioco calibrato degli artifici, essa è la rottura di una morte inventata e l’irruzione di una alterità non figurabile. Ciò che opera dentro l’opera, è l’avvento di un mondo senza epoche.
 
Due vie verso il successo: il fallimento gaio e quello eroico
di Bazon Brock

 
Tutti gli scienziati hanno imparato da Karl Popper a lavorare con successo pur incappando nel fallimento. Popper ha chiamato questo procedimento degno di nota falsificazione: uno scienziato formula delle ipotesi il cui senso si manifesta solo quando non si riesce a confutarlo. Nel campo delle scienze naturali gli esperimenti rappresentano il modo migliore di alterare le ipotesi. Quando l’esperimento fallisce si capisce che l’ipotesi è inutilizzabile. Ma per concepire gli esperimenti sono necessarie delle ipotesi. Come possono le ipotesi essere confutate dagli esperimenti se è solo attraverso di esse che gli esperimenti divengono possibili? Gli studiosi di scienze naturali usano esperimenti e ipotesi per costruire una logica (per lo più matematicamente formulata che renda possibile prevedere la discrepanza tra premesse ipotetiche e risultati sperimentali. La falsificazione mira a valutare le discrepanze e a valersene. Il fallimento come forma di riuscita è diventata sotto diversi punti di vista una tematica fondamentale dell’arte contemporanea. Salta agli occhi il fatto che al giorno d’oggi viene sottolineato il carattere sperimentale degli artisti. Attraverso i concetti di “sperimentale e di “arte sperimentale si cerca sempre di fare apparire come interessanti le opere artistiche quando esse rendono evidente la discrepanza tra le aspettative nei confronti dell’artista e l’arte. Da un centinaio d’anni tali discrepanze vengono disapprovate da una parte del pubblico che le considera degenerazione. Le campagne condotte contro le arti degenerate mirano a far considerare riuscite solo quelle opere che coincidono con un concetto prestabilito.
Gli artisti vogliono però confutare questo concetto dell’arte per mezzo della sperimentazione. Conglobano esperimenti e concetti artistici ipotetici per creare una logica che permetta di comprendere il significato dell’operato artistico mettendolo in rapporto con ciò che è sconosciuto, incommensurabile e impossibile da dominare. La riuscita del lavoro dell’artista moderno corrisponde al fallimento della verifica, effettuate in base alle regole accademiche, del concetto artistico prestabilito dalle opere; poiché non è l’artista individuale che attraverso la sua opera può confermare un’estetica che impone delle norme o una teoria artistica.
Nessuno come l’artista ha in questo secolo posto in maniera così radicale la sgradevole domanda: “E’ arte questa?. E occupandosi di tale questione gli artisti sono giunti al punto di dubitare di aver creato vere e proprie opere d’arte. Poiché un’opera che segue le norme sarebbe solo l’illustrazione di un ipotetico costrutto artistico esistente anche al di là dell’opera concreta.
Gli artisti non hanno motivato la necessità della sperimentazione con lo scopo di falsificare le concezioni artistiche dominanti. Hanno scoperto che una discrepanza generale tra il concetto astratto e la sua rappresentazione oggettiva è chiaramente inevitabile, perché per gli uomini è impossibile creare un’identità tra opinione e concetto, tra contenuto e forma, tra coscienza e comunicazione (a prescindere dalla chiarezza della matematica). Hanno imparato a impiegare in modo produttivo la non identità tra concetto artistico e opera d’arte utilizzando la discrepanza per creare qualcosa di nuovo che non si può concepire ipoteticamente. Essere innovativo significava dunque rinunciare fin dal principio alla forzosa identità fra i concetti artistici normativi e la loro corrispondenza nell’opera d’arte. E il fallimento delle opere è diventata la premessa necessaria per l’avvento di temi nuovi finora sconosciuti. Questo procedimento ha acquistato per gli artisti una dimensione esistenziale giacché chi si compromette con il nuovo e con lo sperimentale non è né riconoscibile né accettabile nel suo tradizionale ruolo di artista. Gli artisti sono stati sospinti sempre più lontano sulla via della radicalità della sperimentazione da stigmatizzazioni sociali latenti. Sono stati costretti ad accettare condizioni di vita estreme. Per sopportarle hanno condotto vite tendenzialmente spericolate. Il consumo di droghe di tutti i tipi si è ripercosso sullo stato d’animo dello sperimentatore che spesso si comporta in un modo così singolare d’essere giudicato dal pubblico non solo eccentrico, ma addirittura psicopatologico. Gli artisti hanno percepito il fallimento della propria esistenza borghese sempre più come presupposto della loro capacità della loro sperimentazione radicale. Sotto questo punto di vista essi manifestano delle caratteristiche che li accomunano a certe personalità deviate - terroristi, criminali, profeti - : un esempio fra tutti, Hitler, che sempre sottolineava il fatto di aver patito la fame l’allontanamento, la devastazione spirituale: il fallimento giustificava il suo “radicalismo, e su questa radicalità egli basò l’eroismo dell’azione, quella attitudine artistica dell’eroe che si afferma principalmente nel fallimento radicale. Falsificò, dunque, il vecchio mondo europeo con le sue idee religiose, sociali e artistiche; e “Crepuscolo degli Dei è la locuzione utilizzata per definire questa strategia del fallimento eroico fin da quando Wagner la coniò. Fu così che, con il proprio fallimento, Hitler si convinse di aver cambiato il mondo nella maniera più radicale.
Oggi, a maggior ragione, l’eroismo del fallimento viene detto “fondamentalismo estetico e non ha perso nulla del suo fascino. Wagner e Nietzsche, protagonisti del fallimento gaio ed eroico, nel frattempo non interessano più solamente artisti, politici, scienziati e altre categorie salvatori del mondo. Da lungo tempo le subculture giovanili hanno utilizzato la gloria del fallimento per giustificare sé stesse. Un’intera generazione sembra vivere con il presentimento del proprio futuro fallimento - scientifico, ecologico, sociale. Gli hooligans, gli abitanti dei ghetti, i mafiosi fanno propria la radicalità, come fecero Wagner e Hitler. A loro non interessa più la creazione artistica; sperimentano in modo totale e si confrontano apparentemente senza nessuna paura con elementi sconosciuti ed indomabili quali la natura e la società. Non sono interessati alle attitudini di artisti e politici poiché essi stessi rappresentano queste attitudini. Sono eroici con serenità postmoderna. La paura ridente, il cinico menefreghismo fanno da sfondo alla loro esperienza quotidiana anche quando cercano in modo scientificamente giustificato di falsificare sé stessi.
Ciò che prima era riservato solo ai costruttori di bombe atomiche, ai santi suicidi e agli impetuosi artisti nichilisti è ora diventato accessibile a tutti. La filosofia del fallimento come forma di perfezionamento è divenuta patrimonio comune. Che successo - da assimilare all’illuminismo.
E gli illuministi sapevano che una sola cosa li avrebbe potuti confutare: il proprio successo.

 
Teatro: la libertà di non esistere
di Cristina Ventrucci

 
La differenza tre giornalismo e letteratura, ci ha detto Wilde, è la seguente: “ Il giornalismo è illeggibile. La letteratura non è letta. Ponendomi a riflettere su certe problematiche della società teatrale contemporanea, sposto di poco il gioco: quale è oggi la differenza tra informazione e critica teatrale? Una prima risposta potrebbe essere: l’informazione non conosce. La critica non è riconosciuta. Per quanto, se nell’aforisma di Wilde l’accusa sembra andare in gran parte al lettore, o al pubblico, qui s’individua invece una malattia intrinseca alla stessa sfera culturale e politica che s’intende indagare. Se l’informazione teatrale proposta dalle testate giornalistiche risponde ai criteri di una ben vestita superficialità, scandagliando solo i falsi segreti del gia noto, facendosi dunque strumento commerciale anziché conoscitivo, la critica stenta a venire allo scoperto. Secondo una problematica che vede la critica ora non essere pubblicata - è noto ormai, purtroppo, la denuncia della cronica mancanza di spazio dato al teatro nelle pagine della stampa nazionale - ora invece non assumersi in pieno il proprio ruolo, quello del rischio, dello sguardo che punta lontano e che scommette, è il teatro, infine, a risultare suo malgrado illeggibile.
Illeggibile è l’informazione-promozione, legata ai lanci di ufficio stampa, spesso ricalcata su di essi, mai autonoma, talvolta poco competente, in preda al gusto e incapace di creare sano interesse. Illeggibile è certa critica che, anche quando trova spazio, non sempre dimostra di aver messo a punto un linguaggio, uno strumento, un genuino motivo di scrivere. Illeggibile è infine il futuro dell’arte se chi è chiamato a occuparsene ha la debolezza di lasciarsi invece sedurre dal passato, l’ansia di affrettarsi a stabilire origini sancire appartenenze. Fatta eccezione del lavoro encomiabile di Rai 3 - che spazia largamente nei territori del teatro tra materiali e collegamenti, tra approfondimento e cronaca con attenzione al nuovo, fino a sperimentare le forme più alte di drammaturgia radiofonica - questi sono gli anni in cui mass media, se adottano la parola “arte è per parlare di un museo, o di un restauro, oppure per inserirla nelle categorie di un nuovo quiz formato americano. Questi sono i decenni in cui della parola “cultura si sono impossessati gli assessori e gli “operatori interinali. Ed è il millennio che non sa più dove siano nascosti gli intellettuali, ovvero “ il sale della terra i cani da guardia della società, i pionieri dell’avvenire, gli ingegneri dell’anima. Lo spazio critico è legato del resto per propria natura alla libera iniziativa dell’auto produzione. Vi sono maestri in questo campo, pochi, pochissimi, grandissimi, che si sono fatti carico di colmare lacune editoriali enormi, di creare spazzi mentali, allargando i confini geografici, drammaturgici, sventrando a ogni appuntamento i dogmi con visionaria ispirazione.
Ci insegnano che fuori dal compromesso si ha il vantaggio della libertà di pensiero. Ma se a questo vantaggio, di tutta risposta da parte della società teatrale, c’è il silenzio, oppure, nella migliore delle ipotesi, lo scontro; se la possibilità di un lavoro comune va interamente a impegnarsi in minuscole corporazioni, in alcuni casi addirittura monologanti, di quale libertà stiamo parlando? Della libertà di non esistere? “Cristallizzatevi e sarete qualcuno è stato detto. In questa odissea preferisco chiamarmi Nessuno, applicare questa “meravigliosa facoltà di opporsi che il senso critico mi offre e che il teatro m’impone.
L’ultimo decennio teatrale ha nutrito speranze. Abbiamo assistito e in qualche modo partecipato al determinarsi di una congiuntura a dir poco favorevole, ovvero a una rinnovata curiosità critica parallela al nascere di una nuova generazione teatrale. Qualcuno nell’osservatorio ha esercitato il coraggio, qualcuno lo esercita costantemente, qualcun altro non avendo tale dote mette in circolo astio personale o diffidenza congenita.
L’ingranaggio del mondo va avanti così, chi produce ruggine, chi con pazienza o imprecando provvede a oliare. Alcuni teatri ed enti hanno risposto con propria intraprendenza alle sollecitazioni della critica, qualche nucleo artistico aveva a sua volta fertilizzato il terreno per la nuova coltura, sono nate altre identità, che l’Europa ha saputo presto ammirare. Il fenomeno è ciclico, ma è proprio con questa ciclicità che si entra in conflitto e anche chi, in tempo di sua vita, ha potuto verificare una generazione, non ha poi saputo accoglierne un’altra. A me piace rileggere le “cronache di un maestro che sollecitava, già negli anni ’70, l’arte dello spettatore a questo andamento, alla necessità di ripartire ogni volta, a spostare sempre l’attenzione e a disporsi in allenamento verso il futuro incombente.

Tutti questi gruppi (e altri ancora in stato d’emergenza) sono rapidamente maturati in virtù di una coesione di fondo e di una sintonia di richiamo, attirando l’attenzione e l’intervento di studiosi, di intellettuali, di artisti, di scrittori e assorbendo intorno a se consensi sempre più ampi e più intensi. Così essi anno potuto sopravvivere a rassegna con particolari definizioni, e a pressioni di politici e di intellettuali desiderosi di appropriarsi di esperienze vitali dal punto di vista comunicativo e di consenso; e in un certo senso hanno messo a tacere o comunque resi innocui critici che ne avevano ostacolato lo sviluppo e anche, magari, ne avevano mondanamente fiancheggiato l’apparizione; legandosi strettamente al loro pubblico, ai loro coetanei, e non solo, e dividendone riferimento culturale, non per bassa mitologia, ma per assedio puro e semplice.
Gli spettacoli, le pratiche di quei gruppi rimandano a molti particolari, autonomi, la loro sfilata dando luogo a un paesaggio italiano e in essi esistendo una difesa della propria origine e un insediarsi al di dentro del lavoro contemporaneo.


Questo scriveva Giuseppe Bartolucci circa vent’anni fa riferendosi a un panorama teatrale che andava dal Beat 72, ai Magazzini e Falso Movimento fino agli “ultimi, allora della Raffaello Sanzio (“e altri ancora in stato d’emergenza).
La stessa biologia artistica individuiamo oggi nel nuovo ciclo di gruppi, che abbraccia Motus come L’impasto, Libera Mente come Teatrino Clandestino, Fanny & Alexander come Accademia degli Artefatti o Egum Teatro o il Laboratorio di Domenico Castaldo. Biologia che anche in questa primavera si compone di una chimica esplosiva, esplora senza cautela i confini del teatro, proponendo in altri campi, con il gesto di chi per allacciare cognizioni filosofica e impatto popolare, codice contemporaneo e disciplina dei maestri, assume in prima persona il senso critico. Ne risulta l’urgenza di ritemprare il rapporto fra artisti e osservatori, stringendo nuovi modi fra teatro e critica, in un idea di teatro che uccide quella di genere e disperde la temporalità.
Il timore è però che, quella che ci aspetta, più che una nuova fase di restaurazione, sia un ingresso nell’oblio: ignoranza è al governo e la Polizia ha ricominciato a picchiare; ignoranza è all’opposizione e gli intellettuali sono rimasti in pochi a denunciare. L’esercizio critico è un lusso che questa società non vuole permettersi, uno specchio in cui non vuole guardarsi. La critica teatrale stessa del resto non è avulsa da segni di pigrizia, o da deliri d’onnipotenza. Il vuoto che viene a crearsi internamente al mondo dell’arte scenica, con ripercussioni su tutto ciò che ad essa è legata - per esempio la vita culturale di un paese, - è un vuoto di relazioni e di confronto teorica, di collegamento fra alto e basso, di forza. Un vuoto di spazio dell’azione, oltre che un vuoto d’ironia. E se esiste ancora, in uno stato di solitudine, una verità della critica, “la nostra società che non vuol nient’altro se non ciò che già possiede, un certo benessere, una certa paura, che bisogno può avere di un linguaggio, cioè del teatro?.

 
“Lo spettacolo è finito, gente. Circolare"
L’istituzionalizzazione dell’arte e la vita segreta dell’underground
di Philip Monk

 
Dal 1960 al 1968, l'altro mondo argentato della soffitta di Warhol sulla 47ma Strada Est, fu il luogo in cui le sottoculture intrecciate degli anni Cinquanta - artistiche, sessuali, talvolta anche criminali - poterono finalmente risalire in superficie e guadagnare lo smagliante glamour dell'eleganza agiata degli anni Sessanta.

Stephen Koch, Stargazer: Andy Warhol's World and His Films.
Nei trent'anni trascorsi dall'apogeo della Factory di Warhol, di tutte le subculture che in essa sono emerse, soltanto quella criminale, con qualche eccezione, non è ancora stata assunta come una celebrazione della differenza dell'arte. Si può però affermare che l'espansione dei confini dell'arte derivi dall'azione di Warhol per rendere il mondo dell'arte sicuro per Andy. E' questo il salutare effetto, secondo Dave Hickey, che Warhol ha avuto sull'arte in particolare e, di conseguenza, sulla cultura in generale. Con il rovesciamento interno-esterno - offrendo un buco della serratura voyeuristico sulla vita reale o fittizia dell'underground - e con quello esterno-interno - adattando i generi hollywoodiani ai contenuti omosessuali - Warhol fu ampiamente in grado di competere con la rappresentazione mediale mainstream, mentre allo stesso tempo ne diventava un soggetto. Ora, l'arte, di nuovo, è la cugina povera della sofisticazione dell'intrattenimento. Un tempo la Factory rese visibile un entourage di "superstar'' emarginate, protettori e checche. Ora la stella dell'arte impallidisce di fronte alle licenze che Warhol si prese a piene mani con l'androginia e il travestitismo delle superstar dello sport e della moda - Dennis Rodman e RuPaul, per citarne due.
E’ verissimo - e mi rivolgo a Stephen Koch -, quanto ha detto della Factory, e cioè che “lo speciale destino di questo luogo era rendere visibile l’underground. Quando quel processo finì, finì anche lo spettacolo. L’unica sorpresa è che ci sia voluto così tanto al mondo dell'arte per rendersi conto che il suo spettacolo è in tutto e per tutto finito, e per comprendere quanto il suo stesso successo abbia contribuito a questa fine. Inoltre, che potere ha oggi l'immagine dell'underground per attirare un giovane, ad esempio, da Topeka nel Kansas e indirizzarlo alla scena artistica, anche per diventare un artista, di fronte a quello di uno spettacolo sostenuto dalla maestria massmediatica della pubblicità e della televisione? E tuttavia, il destinatario diffuso dell'espediente travestitistico di Dennis Rodman rende la sua immagine così accettabile da far scaturire soltanto una reazione incerta e inarticolata - “been there, done that.
“Rendere il mondo dell'arte sicuro per Andy siginificava anche rendere tossiche le immagini di cultura, o piuttosto rendere culturali le immagini tossiche. Forse l'underground ha sempre svolto un ruolo supplementare: quello di affrancare un pubblico distante, anche se soltanto un individuo alla volta, attraverso l'identificazione con le immagini. Anche se ha inizio con l'individuo, questo ruolo sfocia in un effetto sulla società in generale. Il legame dell'arte con i margini, articolato attraverso l’underground, avvia un dialogo che si conclude con la società che rende mainstream l'immagine dell'emarginato (per degli esempi recenti basta pensare all'influenza esercitata dalle immagini di Larry Clark e di Nan Goldin sulla fotografia di moda). Ciò che ha inizio come una celebrazione fatta da artisti viene fagocitato dai media, e spesso finisce col diventare panico sulla stampa (si pensi alla reazione alla campagna pubblicitaria in stile “pornografia adolescenziale" di Calvin Klein del 1995, derivata dalle immagini di Clark). La fascinazione degli artisti per i margini è un segno dell'attrattiva dell'underground. Dopo tutto, l'underground corrisponde a un tema dinamico nella storia americana, il rifiuto della famiglia e la riforma della comunità, messi in atto sulla base di un ideale. Che questo ideale venga oggi espresso nelle subculture, o semplicemente culti, non affievolisce la sua attrattiva - al contrario.
Oggi l'underground è rappresentazione. Se sia o meno un'illusione romantica non ci riguarda in questa sede; diciamo che rappresenta l'idea che ci aveva originariamente attratto verso l'arte contemporanea. Per molti nel mondo dell'arte, tuttavia, la fascinazione iniziale è confluita nella loro successiva adozione di varie modalità critiche nei confronti dell'arte. Purtroppo la ''critica'' è il punto di partenza per gli studenti nelle scuole d'arte di oggi - il che equivale a riconoscere che si è tramutata in un dibattito accademico radicato. Come tutti i dibattiti accademici che giustificano le istituzioni, la “critica istituzionale dell'arte richiede che il suo status venga mantenuto come parte dei beni pubblici.
Benjamin BuchIoh lo chiarisce perfettamente in una elegia pubblicata di recente sulla perdita del privilegio critico. In Artforum aveva preteso dalle istituzioni artistiche “uno spazio critico in deroga, se non in opposizione [sic], all'interno della sfera di potere borghese per “il numero relativamente limitato di posizioni e pratiche artistiche della sua generazione che aveva difeso nel corso degli anni, per non subire altrimenti le “irreversibili conseguenze, una delle quali sarà la suo assenza dal settore. Ritengo che molti troverebbero questo ultimatum, e la “produzione culturale che ne risulterebbe, incoerente con i loro desideri di arte. Ma in fondo siamo tutti afflitti dalle contraddizioni delle nostre posizioni istituzionali e dalle nostre radici radicali. L’insistenza di Buchloh sull’impegno dell'arte solo pubblico e collettivo è in disaccordo con una nozione più attraente, a mio avviso, dell'arte (o dell'underground) come, in primo luogo, “una modalità di discorso privato, un accumulo di occasioni sociali minute e gracili, il prodotto e il legame delle comunità fuggiasche di partecipanti con mentalità simili, come la descrive più generosamente Dave Hickey.
Se lo spettacolo è finito, è possibile che l'underground abbia mantenuto una vita segreta nella rappresentazione? Visto che quella forma di comunità artistica non potrebbe essere né piantata né ricreata all'indomani della sua dissoluzione, l’idea dell'underground doveva essere rivissuta nell'immaginazione, il che significava dover attendere l'arrivo di una nuova generazione che non avesse avuto di essa un'esperienza diretta. E non sorprende che la generazione la cui adolescenza è coincisa con “gli anni Sessanta - gli artisti degli anni Ottanta - abbia replicato a sua volta le dicotomie di quel decennio nel proprio. Già negli anni Sessanta, ai loro reali albori, l'opposizione tra “istituzione e “underground fu rimpiazzata dal successo galleristico della prima espressa nella teatralità machistica del minimalismo e la sua apoditticità “bianco-cubica. Nel frattempo, la teatralità omosessuale che dominava l'underground non sarebbe sopravvissuta alla teatralità stessa del decennio. Il teatro underground dell’autorappresentazione avrebbe necessitato di un ritorno in un'altra forma, di una ripetizione che si sarebbe dovuta considerare, per utilizzare un'espressione ad esso congeniale, ugualmente oltre ogni limite. Negli anni Ottanta, sopportare un riferimento furtivo all'underground avrebbe implicato qualche genere di ri-rappresentazione dei sé all'interno di una strategia di citazioni, un concetto che è stato a lungo messo alla prova, anche se con diversa enfasi, nell'arte dell'appropriazione e nei dibattiti attuali sulla “morte dell'autore. Potrebbe essere questo un modo per caratterizzare l'arte americana degli anni Ottanta: da un lato l'arte citatoria istituzionale del neo-minimalismo, del neo-concettualismo e del neo-geo; dall'altro, un'arte performativa citatoria di foto-artisti come Cindy Sherman e Richard Prince. Così, l'interpretazione delle opere di Sherman e di Prince offerta su basi post-moderniste penderebbe verso una mnemonica underground.
Ma un “immagine da sola può sopportare qualche riferimento all'underground senza diventare la sua effettiva documentazione? E i “ruoli ripetuti sono sufficienti a mantenere un dialogo per lo meno intermittente con l'idea dell'underground? Considerando che l’immagine fotografica è anche una dislocazione di tempo o spazio, una relazione all'idea o all’immagine dell'underground non è anch'essa compartecipe dello stesso duplice distanziamento: nel passato, la distanza spaziale dei suoi non ancora partecipanti; nel presente, la distanza temporale del ricordare chi era troppo giovane per conoscerlo? Le immagini ri-fotografate di Richard Prince, che egli stesso definisce come proiezioni dei suoi desideri, allo stesso modo inducono questo dualismo: ritraendo lo spazio dell'altro (le sue belle ragazze in moto o qualche altro sostituto subculturale per i margini), e suggerendo un altro tempo (poiché spesso si può pensare che le immagini rappresentino un'altra epoca - gli anni Cinquanta, gli anni Sessanta o Settanta - epoche, comunque, che Prince ha attraversato dall'adolescenza in poi).
Tali ricorsi alla memoria, ma non alla nostalgia, allineano giustamente il suo lavoro ad altri scavi nell'adolescenza che ispirano così tanto della successiva arte “giovanile degli ultimi anni Ottanta, come pure l'arte più astratta di quel decennio. Fissando il proprio centro sui suburbs, sulla periferia, la memoria di quel luogo dell'infanzia diventa il contenuto ironico per la citazione formale dell'arte modernista corrispondente del periodo, laddove quest'ultima si considera comprendere, naturalmente, tanto Pillow Tolk quanto Vir Heroicus Sublimis. Già negli anni Sessanta, e da quell'archeologo del futuribile che è sempre stato, Robert Smithson aveva compreso che i suburbi e l'underground erano segretamente accomunati: “Suburbia significa letteralmente città sotto, scrisse in A Museum of Language in the Vicinity of Art. Di conseguenza fu in grado di collassare gli uni e l'altra nella “outdoor immateriality, l'immaterialità dell'aria aperta periferica delle fotografie Sunset Strip di Edward Ruscha e “i pallidi ma sgargianti interni dei film di Andy Warhol. Dalla conclusione entropica degli anni Sessanta, quando i bambini delle periferie attirarono l'attenzione dei media, Smithson previde che la distanza spaziale tra l'underground e le “periferie spettrali, gli spectral suburbs, sarebbe stata obliterata dalle “enormi distanze mentali della storia e del tempo. Quel tempo di riconciliazione e ripresa è qui.
Le periferie, quindi, non esprimono una mancanza che l'underground compensa, ma soltanto la necessaria distanza perché la si desideri. Eppure, con la perdita di quel l'underground originale e la realizzazione che non tornerà, l'arte compensa. Non appena un'immagine underground viene espulsa dall'orbita di interesse dell'arte perché si è fatta troppo visibile, l'arte cerca smaniosamente altri margini, anche quando immagine dopo immagine tutto viene ricondotto al mainstream. L’arte è costretta a cercare i margini in cerchi sempre più ampi o ristretti. In quest'ultimo caso, l'arte si concentra su un posto, cosicché nel tempo, per esempio, i travestiti e transessuali delle fotografie di Nan Goldin sostituiscono le checche dell'underground degli anni Sessanta che prosperavano nel film di Warhol. Oppure, nel primo caso, l'arte ci fa viaggiare verso l'esterno dalla criminalità senza nome della Factory di New York alla sottoclasse criminale bianca white trash del cuore e dei margini dell'America, che dominano in maniera così prominente le opere di Cady Noland, Richard Prince e Larry Clark. Che cosa è rappresentato in queste immagini di emarginati se non famiglie surrogate? Dalle checche di Goldin, alla famiglia Manson di Noland, alle motocicliste di Prince, ai tossici, e ai criminali di bassa lega di Clark nei suoi giorni a Tulsa, agli skateboarders dell'ultimo stile di Clark, il cerchio si chiude sui suburbs. Non sorprende dunque trovare qui la fonte di future identificazioni, nell'una o nell'altra immagine di “criminalità. In nessun luogo è più grande la paura che nel cuore delle periferie americane, paura che il nemico sia all'interno della famiglia e che i ragazzi non siano “a posto. L’emarginato è la ragazza o il ragazzo della porta accanto, pronto a cercare legami di parentela al di là della sua famiglia naturale. Così l'underground rimane un ideale in ciascuna di queste immagini, continuando a serbare il suo intimo legame con i desideri delle periferie.
 
Nei materiali preparatori è stato inserito anche, da ateatro25, L'Alchimie du Verbe tra Arthur Rimbaud e Fanny & Alexander di Luigi de Angelis (con un mail di risposta di Oliviero Ponte di Pino). Nei successivi numeri, vari interventi sul tema (semprekaldo) dei giovani...
 
 
Short Connection
appuntamenti con la scena contemporanea
 

progetto Kinkaleri
in collaborazione con
Teatro Studio di Scandicci
con il sostegno di
Regione Toscana, Istitut Francais de Florence, AFAA - Association Française d’Action Artistique

Short Connection è un progetto che intende creare un momento di approfondimento sullo stato delle arti, e più specificatamente aprire una riflessione sul territorio ibrido della ricerca nel campo delle arti sceniche, alla luce del profondo isolamento culturale del panorama italiano.
La relazione con linguaggi pertinenti alla spettacolarità, al di là delle forme e degli stili in cui questo si concretizza, configura la ricerca come un’area instabile in continuo posizionamento e superamento del limite, della soglia fra linguaggio ed esperienza estetica, tra “teatro e spettacolo. Attraversare linguaggi diversi e combinarli in forme imprevedibili, diventa la prerogativa di un campo d’azione che trova il proprio riferimento nel generico mondo dell’arte, più che nella specifica tradizione del fare teatrale.
Il confronto continuo con qualcosa che non si conosce, con la sua irrapresentabilità, definisce marcatamente la profonda differenza di un’area che storicamente ha sempre abitato la sua natura separata e protetta. La creazione di spettacoli complessi, vere e proprie anomalie teatrali, rende difficile qualsiasi adeguamento a criteri di riconoscibilità, generando un processo in cui la produzione artistica è gravemente penalizzata.
Il continuo rinnovamento della forma scenica trova difficile corrispondenza nella dimensione istituzionale, poco attenta ad accogliere le innumerevoli ed impreviste modificazioni del processo artistico, ma strettamente collegata ad esso ed estremamente condizionante.
Short Connection vuole essere un momento di apertura e confronto con l’esterno, un incontro tra le visioni di chi si rende partecipe dell’esperienza teatrale e quelle di un gruppo che ha deciso di occuparsi di arte. Nessuna volontà di sostituirsi a mestieri altrui ma il tentativo di contribuire ad un dibattito culturale che in Italia nasce e si sviluppa in modo discontinuo.
Raccogliendo l’eredità del Teatro Studio che è sempre stato il luogo degli appuntamenti meno prevedibili per chi a teatro non va solo per distrarsi, il progetto si svilupperà attraverso una giornata studio e una serie di eventi/spettacoli che andranno a mettere in crisi proprio le denominazioni di genere, lanciando una serie di rapporti instabili sulle modalità del fare contemporaneo
La giornata studio raccoglierà le domande e le indicazioni a partire da un discorso che vede la ricerca come corpo sensibile al divenire, capace costantemente di sorprendere, investendo sia la sperimentazione teatrale con le continue connessioni con altre forme artistiche, il rapporto con il pubblico, le forme dell’organizzazione, i percorsi produttivi e le strategie di sopravvivenza. Prendendo a prestito la definizione dal lessico della ricerca informatica, the next thing, quali confini per la ricerca? sembra essere un probabile titolo che racchiuda quel materiale inerte, l’indeterminatezza di un mondo in cui le classificazioni di generi appaiono ormai obsolete. Una serie di domande per aprire o continuare dei discorsi perduti o non rinnovati da una pratica del fare teatro, riflettendo sulle contraddizioni di un “sistema cultura che in Italia ha vissuto più di un ritardo.
Che cosa vuol dire oggi fare ricerca? Cosa vuol dire sostenerla? Che cosa le istituzioni chiedono alla ricerca e cosa chiede la ricerca alle istituzioni? Le dinamiche produttive generali possono essere le stesse in questo ambito? Come concepire il rapporto tra il teatro e la sua critica? Riferimento a nuove oggettività: esiste un modo per artisti, organizzatori, amministratori di procedere nello spazio dell’imprevedibilità?…
All’organizzazione della giornata di studio seguiranno una serie di eventi/spettacoli come luoghi di visioni specifiche. Nella costruzione di questa sezione il “tema, che non è un tema, riguarda strettamente la volontà di affrontare il bisogno di non avere limiti di collocazione, di presentare oggetti nella loro importanza “oggettiva: affrontare il linguaggio nelle sue deviazioni ed evoluzioni, mettendo in relazione schemi di un discorso che cortocircuita e reagisce. All’interno della programmazione del Teatro Studio di Scandicci saranno presentati dei singoli “oggetti accuratamente scelti: non un rapporto con uno o un gruppo di artisti, ma con “cose parlanti nella loro essenza. Il periodo di riferimento per questi eventi sarà il mese di marzo 2002 con appuntamenti diluiti nei primi tre fine settimana del mese.
Short Connection, coincidenza breve dunque, a cui si rinuncia con estrema coerenza di fornire ulteriori definizioni.

PROGRAMMA

sabato 2 marzo
h.10.00/ 18.00:
Giornata studio: The next thing, quali confini per la ricerca?

ore 10.00/13.30: relatori Antonio Caronia, Paolo Ruffini, Andrea Nanni, Cristina Ventrucci, Sivia Fanti, Andrea Lissoni, Fabio Acca, Elisa Vaccarino, Goffredo Fofi; coordinatore: Massimo Marino

ore 15.00/19.00: Discussione

sabato 2 marzo
h.21.30: Metamkine (Francia) Cellule d’intervention METAMKINE

domenica 3 marzo
h.21.30: Jerome Bel (Francia) Nom donné par l’auteur


sabato 9 marzo
h.21.30: Marco Berrettini (Italia/Francia) Freeze/Defreeze

domenica 10 marzo
h.21.30: Pierre Bastien (Francia/Olanda) Mecanium


sabato 16 marzo
h.21.30: Arbus (Italia) Struttura per movimenti improvvisati secondo il protocollo
Olivier Casamayou (Francia) Natyam - Techno animal
Mk (Italia) Mk Ultra

domenica 17 marzo
h.21.00: Luca Sossella editore e Xing presentano il libro Italian Landscapes/Paesaggi Italiani
Kinkaleri (Italia) Ecc.etera
Ogi.no Knauss (Italia) EUR

INFO: Teatro Studio di Scandicci, Via Donizzetti 58, Scandicci - Firenze - tel.055.751853
info: teatrostudio@scandiccicultura.org



a cura di a m m (anna maria monteverdi)

Per questo secondo numero di tnm un po' di storia.
Luigi Colagreco, autore di un' interessante tesi sul rapporto tra teatro e cinema negli spettacoli di Leopoldo Fregoli, ci racconta l'insolito procedimento di inserimento del film all'interno della scena - il "Fregoligraph"- in cui il famoso trasformista, amico dei fratelli Lumière, mostrava, grazie proprio al cinema, i "retroscena", i segreti dei suoi fulminei mascheramenti, ben lontano, ovviamente dalle possibilità della "diretta", spiazzando il pubblico con la velocità di montaggio delle scenette o quadri comici e con il raddoppiamento dell'immagine sulla scena . Come ricorda Valentina Valentini: "La compresenza dell'attore dal vivo e in immagine, l'intersecarsi di vero e falso, di reale e riprodotto, forniva un particolare piacere allo spettatore, intensificando le sue capacità percettive e scoprendo inedite porzioni del reale, fuori dal campo di osservazione abituale"(V. Valentini, Teatro in immagine). Una primordiale Camera astratta? Silvana Vassallo, insegnante di "Video e teatro" all'Accademia di Belle Arti di Macerata ed esperta di arti visive, legge l'installazione video-coreografica di Thierry De Mey Deep in the wood presentata in prima mondiale alla Biennale di Venezia ("Temps d'images", 1-10 febbraio 2002). All'artista belga Riccione TTVV (30 maggio-2 giugno 2002) dedicherà quest'anno un'intera retrospettiva.
Poi la segnalazione di uno spettacolo tecnologico dal sito théatre contemporain.
C'est tout!


Verso la multimedialita?
Gli spettacoli di Leopoldo Fregoli fra teatro e cinema
di Luigi Colagreco

Per leggere il saggio, clicccaquì.


Ballando nella profondità del bosco
Deep in the Wood di Thierry de Mey alla Biennale
di Silvana Vassallo

Ai Giardini della Biennale di Venezia, dal primo al dieci febbraio, è stato possibile vedere l'installazione Deep in the wood, del compositore e regista belga Thierry de Mey. L'evento era inserito nell'ambito della manifestazione Temps d'images, primo tentativo di Festival di respiro europeo, promosso dalla Biennale di Venezia (settore Danza, Musica e Teatro), dal centro nazionale La Ferme du Buisson di Parigi, dal centro culturale Les Halles de Schaerbeek di Bruxelles, e dal canale televisivo franco-tedesco Arte. La manifestazione si è svolta all'incirca negli stessi giorni a Venezia, Parigi e Bruxelles, con un unico programma e con scambi di collaborazioni, focalizzando l'attenzione sulle contaminazioni sempre più frequenti tra l'universo variegato delle immagini filmiche, fotografiche, video, computerizzate - e forme di spettacolo quali il teatro, la musica e la danza.
Deep in the wood è un esempio particolarmente felice di incontro originale e creativo tra forme espressive differenti, all'incrocio tra musica, danza, cinema e installazione. Thierry de Mey, ideatore e realizzatore del progetto, ha chiesto ad alcuni danzatori e coreografi di scegliere un personaggio mitologico o fiabesco come fonte d'ispirazione per una coreografia ambientata in un bosco. Si sono prestati al gioco una settantina di artisti, nomi importanti della scena internazionale ma anche giovani talenti, che davanti alla macchina da presa hanno danzato interagendo con gli scenari naturali, costruendo coreografie sospese tra elementi astratti - il rapporto con le essenze vegetali - ed elemennti narrativi - le suggestioni derivanti dalle storie - declinate in assoli, oppure in gruppo (coppia, trio, quartetto). Le riprese sono state effettuate nell'arco di un intero ciclo di stagioni e in vari momenti della giornata, in modo da restituire un'immagine sfaccettata e variegata del mondo vegetale e animale che popola il bosco. Sono state registrate oltre nove ore di materiale, che Thierry De Mey ha poi utilizzato per creare un'installazione costruita attorno a un meccanismo di visione semplice e allo stesso tempo estremamente sofisticato, giocato sulla sincronizzazione delle immagini e sugli accordi ritmici tra la musica - composta dall'autore appositamente per questo progetto -, le immagini e i movimenti dei corpi dei danzatori. Per l'allestimento di Venezia è stato utilizzato uno spazio all'interno del Padiglione Italia. Si entra in una grande stanza semibuia, illuminata solo dalle immagini proiettate su una delle pareti, immagini incorniciate in due riquadri accostati, simili a due grandi schermi cinematografici; il pavimento è disseminato di cuscini, a disposizione dello spettatore, che vi si può adagiare scegliendo così la sua personale prospettiva di visione, oppure, in alternativa, vi sono delle panche su cui sedersi. Dopo pochi secondi di "orientamento", si viene catturati dalle immagini, che si succedono a ritmo incalzante sui due schermi, e dalla musica, ricca di sonorità ambientali, che contribuisce a trasportare lo spettatore nella profondità del bosco, Deep in the wood, appunto, come il titolo dell'opera suggerisce.
L'installazione ripropone a ciclo continuo una successione di brevi coreografie della durata complessiva di circa un'ora. Le immagini sono montate in sequenze accuratamente sincronizzate sui due schermi, in modo da creare un ritmo pulsante fatto di presenze e assenze, di pieni e di vuoti percettivi, di momenti in cui le immagini svaniscono e gli schermi, alternativamente o simultaneamente, restano vuoti. Ma anche in queste intermittenze prive di immagini, la musica continua ad avvolgere lo spettatore, inondandolo di suoni che riproducono lo scrosciare dell'acqua, il cinguettìo degli uccelli, il fruscio delle foglie, dandogli la sensazione di trovarsi nel mezzo del bosco.
Le immagini filmate sono di rara bellezza, e possiedono una qualità pittorica giocata sui contrasti e le sfumature cromatiche. Talvolta i danzatori, simili a figure camaleontiche, sembrano confondersi con gli elementi naturali, assumendone gli stessi colori e contorcendo i loro corpi tra foglie secche, rami, muschio, terra, sassi, felci e ruscelli, sino quasi a scomparire; in una sequenza, una danzatrice sprofonda in una buca nel terreno, venendo letteralmente risucchiata dagli elementi vegetali, in un'altra si vede un corpo inerte trascinato dai flusssi di un ruscello, simile all'Ofelia preraffaellita del quadro di Millais. In altre sequenze, invece, a prevalere è il contrasto cromatico tra il paesaggio e le figure dei danzatori, che vestiti con abiti colorati - rossi, gialli, azzurri, neri, bianchi - si esibiscono in coreografie che evocano movimenti di animali - di uccelli, libellulle, farfalle - oppure quelli di creature fantastiche, come elfi, fate, streghe, gnomi, principi e principesse. Un intero universo immaginario viene in tal modo evocato, legato alla rappresentazione del bosco come luogo sacro e magico, oppure come simbolo del costante processo di morte e rigenerazione o delle profondità dellíinconscio. I diversi segmenti coreografici si articolano così in una vasta gamma di registri emotivi, dall'angoscioso al comico, dall'ironico al grottesco, ma tutti attraversati da un elemento poetico.

La felice integrazione tra suono e immagini in movimento riscontrabile in Deep in the wood è indubbiamente legata al duplice ruolo di Thierry De Mey come compositore e cineasta. Interlocutore privilegiato di numerosi coreografi belgi, Thierry De Mey ha filmato le partiture di numerosi spettacoli di danza, ha collaborato con la sorella coreografa, Michèle Anne De Mey, e realizzato una decina di film, tra cui Love sonnets, Rosas danst Rosas, Musique de tables e Dom Svobode, ricevendo numerosi premi e riconoscimenti a livello internazionale. Quest'anno il festival Riccione TTV, che si svolgerà a Riccione dal 30 maggio al 2 giugno 2002 e che ha coprodotto Deep in the wood per la Biennale, dedicherà all'autore una personale dei suoi film e della sua produzione video (per maggiori informazioni si può visitare il sito di Riccioneteatro) Sarà un'occasione per approfondire ulteriormente la conoscenza del suo lavoro.


Un’Orgia teknologica
Lo spettacolo pasoliniano di Jean Lambert-wild a Parigi


 
Orgia
Et les rossignols chantent...
di Jean Lambert-wild

 
Pier Paolo Pasolini donne comme clef de sa production poétique l'expression: Ab gioia. Le rossignol qui chante ab gioia : de joie, par joie.
Et c'est cette expression prise en dehors de toute détermination et explication culturelle que j'aimerais retrouver dans Orgia. Par sa structure et sa thématique, Orgia nous renvoie à la tragédie antique, mais aussi bien à la Divine Comédie de Dante ou aux gisants peints par Mantegna. Orgia est un chant mythologique. J'y entends la difficulté que l'être humain a à communiquer dès que la structure de communication dépasse la structure déterminée de sa pensée. Un élément m'a surpris à la première lecture du texte. Dans le premier Episode entre l'Homme et la Femme, une expression mise en majuscule revient constamment :
 
EPPURE NESSUNO PARLAVA /
ET POURTANT PERSONNE NE PARLAIT.

 
Cette phrase, portée en avant, m'a permis de lire Orgia en évacuant toute l'emprise psychologique des personnages qui nuit à l'action vitale des mots. Quelle est donc la situation d'énonciation possible pour faire entendre ce Théâtre de Parole?
Il n'y a dans le texte aucune indication de décor. Tout lieu peut donc se prêter au rituel de la Parole, à condition toutefois, qu'il permette le rituel. J'ai découvert un lieu au travers du rêve. C'était un lieu d'Abîme où quelqu'un «prit ma main dans la sienne, d'un air joyeux qui me réconforta, il me fit pénétrer dans le monde du mystère»[1]
Un Homme perdu s'y enfonçait et dans sa chute, il était accompagné par des organismes primitifs et lumineux - Âmes mortes errantes et métamorphosées d'autres Hommes perdus. J'ai voulu que l'espace scénographique, par le biais du système Daedalus[2],retrouve ce lieu et cette idée d'enfoncement dont parle Dante. Ainsi les organismes artificiels que nous avons conçus ; sont les véhicules mystérieux d'une parole qui essaye de vaincre la malédiction de sa solitude en surmontant son incapacité à communiquer.
 
1 - Extrait du Chant III de l'Enfer de la Divine Comédie de Dante
 
2 - Le système Daedalus est une interaction diffuse entre des comédiens et des organismes artificiels modélisés et conçus à partir d'algorithmes inspirés d'organismes vivants au fond des océans. Nous nommons ces organismes artificiels des Posydones. Ils sont divisés en deux espèces dotées de comportements spécifiques : les Apharias et les Hyssards. Pour mettre en place le système Daedalus, nous avons utilisé les techniques des systèmes multi-agents. Chaque Posydone est donc un agent, c'est-à-dire une entité qui évolue dans un environnement. Elle est capable de percevoir et d'agir dans cet environnement. Elle peut communiquer avec d'autres agents, et possède un comportement autonome. Par ailleurs les états physiologiques des comédiens sont enregistrés par un ensemble de capteurs dont les informations agissent sur le comportement des Posydones. La visualisation de ces organismes artificiels en 3D dans l'espace scénique est rendue possible par l'utilisation d'un moteur d'animation 3D temps réel (AAASeed) ainsi que par une illusion d'optique basée sur un phénomène de catoptrique.
 
Le système Daedalus
 
Le système Daedalus à été conçu pour Orgia et son exploitation sera exclusive à ce seul cadre poétique.
Nous avons cherché à suggérer une impression d'enfoncement, à matérialiser les échanges poétiques entre les différentes voix, à questionner notre capacité à interroger le vivant, à poser, lors des répétitions la question du simulacre - le paradoxe du comédien dont parle Diderot - par l'interface entre les états physiologiques des comédiens et du décor. Mais surtout à dessiner un cadre spatial ou des signes mystérieux puissent s'accrocher et exister au milieu des Ondulations aléatoires d'émotions produites par les échanges entre sons et sens.
Pour être un peu plus technique, le système Daedalus est construit sur une interface scénique entre des comédiens et des organismes artificiels. Ces organismes artificiels sont modélisés et conçus à partir d'algorithmes inspirés de certains organismes vivants que l'on peut rencontrer au fond des océans.
Nous nommons ces organismes artificiels des Posydones.
Pour mettre en place le système Daedalus nous avons utilisé le paradigme des systèmes multi-agents. Chaque Posydone est donc un agent, c'est-à-dire pour reprendre la définition de Demazeau "Une entité réelle ou virtuelle qui évolue dans un environnement. Elle est capable de percevoir cet environnement, et d'agir dans cet environnement. Elle peut communiquer avec d'autres agents, et possède un comportement autonome. Ce comportement peut-être perçu comme étant une conséquence de sa connaissance, de ses interactions avec les autres agents et du but qu 'elle essaie d'atteindre." Ce concept nous a permis, d'une part, de donner aux Posydones la perception de l'espace scènique dans lequel ils évolueront et d'autre part, de les faire communiquer entre eux.
Les comédiens, modélisés par des agents, évoluent dans le même environnement. Ils agissent sur les Posydones par un ensemble de capteurs qui enregistrent leurs états physiologiques (révélé par le rythme cardiaque, l'amplitude respiratoire, la conductivité de la peau, la variation de température) et de dégager ainsi, leur cinèse moyenne.
Il faut imaginer que les capteurs sont les "sens" des Posydones. Ils leur permettent de voir, de sentir et d'entendre les acteurs. Les stimuli de ces "sens" activant des comportements que nous avons inscrits dans chaque espèce.
Nous avons conçu deux espèces de Posydones : les Apharias et les Hyssards.
Chaque espèce a un comportement spécifique. De même, chaque individu d'une espèce à une attitude spécifique.
Les Posydones ont une durée de vie limitée. Ils doivent se nourrir, se reproduire, dormir...
Reste, à rendre accessible pour les spectateurs la visualisation de ces "marionnettes vitalisées". Cela tient essentiellement à la finesse des algorithmes de comportements que peut calculer le système Daedalus, à la fluidité des actions/réactions entre les comédiens et les Posydones et, bien-sûr, à la qualité de l'illusion d'optique que nous n'aurions jamais obtenu sans le logiciel AAASEED conçu par Mâa Berriet.
 

 
Diagramme de flots de données qui donne une représentation globale du système Daedalus
 
Sul sito del Théatre de la Colline è possibile scaricare alcuni estratti video dello spettacolo (provate un po'...):
Orgia 1 (alta);
Orgia 1 (bassa);
Orgia 2 (alta);
Orgia 2 (bassa);
Orgia 3 (alta);
Orgia 3 (bassa).
 
Orgia da P.P. Pasolini
regia di Jean Lambert-wild
Parigi, Théâtre Nationale de la Colline
 
Musique Jean-Luc Therminarias
Cellule technologique Université de Technologie Belfort-Montbéliard, laboratoire des systèmes et transports - groupe systèmes multi-agents
Enseignants-chercheurs UTBM Abder Koukam, Alain-Jérome Fougères, Vincent Hilaire
Elèves-ingénieurs UTBM Amine Bousta, Jean-Sébastien Chaise, Thomas Chazelle, Sophie Gegout, Nicolas Mathieu, Yannick Mettavant, Julien Piaser
Ingénieurs électroniciens UTC Francisco Martinez, Jean-Jacques Vanhoutte
Régisseur informatique du système Daedalus - Stéphane Pelliccia
Réalisation numérique - Cécile Babiole
Logiciel 3D temps réel interactif "AAASeed" Emmanuel Mâa Berriet
Coproduction : 326, Théâtre Granit - Scène Nationale de Belfort, Théâtre National de la Colline, Scènes du Jura Lons-Dôle, Nouveau Théâtre de Besançon - CDN de Franche-Comté, Théâtre du Muselet - Scène Nationale de Châlons-en-Champagne, Espace Jean-Legendre - Théâtre de Compiègne, Le Carreau - Scène Nationale de Forbach, GMEM (Centre National de Création Musicale-Marseille), Université de Technologie Belfort-Montbéliard (UTBM) laboratoire des systèmes et transports


Italian Landscapes/Paesaggi Italiani

Italian Landscapes raccoglie, in oltre cento tavole, lavori di immagine sul tema del 'paesaggio' commissionati a 22 autori, ognuno dei quali riporta nel libro il suo personale clima visivo.

I curatori del libro "Italian Landscapes" , parte del team di xing, hanno selezionato, nel panorama italiano, una ventina di staff policompetenti e di figure 'intermittenti' ascoltando ciò che segnala il mondo della comunicazione mediale avanzata.
E' possibile identificare in Italia una serie di "marchi" o autori che comprendono in un’unica figura o team diversi ruoli creativo/produttivi che si estendono dalle arti visive alla performatività, dalla pubblicità alle interfacce multimediali, dall’art direction all’animazione video-musicale, dalla realizzazione di magazine a quella di prodotti pubblicitari o autopromozionali.
A questi autori è stato chiesto di creare dei lavori di stile e di immaginario declinandoli su diverse piattaforme con un unico obbiettivo: certificare e rielaborare la persistenza di un gusto e la sua trasformazione.

Italian Landscapes taglia trasversalmente ogni sistema espressivo per convogliare il lavoro di immagine in un quadro contemporaneo pluriespressivo.

“Italian Landscapes rispecchia un panorama di personalità che prende posizione e si autoespone come bacino cultural-generazionale attivo in Italia.

Italian Landscapes/Paesaggi Italiani contiene interventi di:
-Solitonwave
-Sun Wu-Kung
-Ogi:no Knauss
-Dafne Boggeri
-Elettrosofia
-Freezer
-Loew & associati
-Motus
-Alice Guareschi
-Andrea Dojmi
-Luca Vitone/Cesare Viel
-Armin Linke/Vincenzo Cabiati
-Maria Arena
-Paolo Caredda/Leopoldo Mantovani/Saul Saguatti
-Sartoria
-Marcello Maloberti
-Teatrino Clandestino
-Norma Jeane
-Kinkaleri
-Elisa Sighicelli
-Fanny & Alexander/Enrico Fedrigoli


Italian Landscapes
a cura di XING
208 pagine
L 48.000 Euro 24.79
in libreria

Presentazioni :
BOLOGNA GIOVEDI 17 GENNAIO h 18 Fabrica Features via Rizzoli 8
TORINO SABATO 19 GENNAIO h 18 Infinito LTD Gallery Via C. Alberto 5
MILANO VENERDì 1 FEBBRAIO h 18 Art Book Via Lomazzo 28
ROMA VENERDI 15 FEBBRAIO h 18 Fondazione Adriano Olivetti
Sala Roberto Olivetti Via Zanardelli 34
SCANDICCI (FI) DOMENICA 17 MARZO h 21 Teatro Studio Via Donizzetti 58
RICCIONE VENERDI 31 MAGGIO TTV Riccione Festival Palazzo del Turismo

promozione: Luca Sossella editore - Via Morgagni 32 - 00161 Roma -
tel 06.44252989 - l.sossella@mediaevo.com - www.mediaevo.com

ufficio stampa:
Silvia Fanti - XING - Bologna - tel 335.5727161 - pressoff@xing.it - www.xing.it


Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
copyright Oliviero Ponte di Pino 2001, 2002