(31) 15.03.02

La musica che sentite in sottofondo >>>
 

TEATRO DI GUERRA E SCRITTORI PER LA PACE

Gli Scrittori per la pace si presentano a Milano l'8 aprile a partire dalle ore 18 al Teatro di Porta Romana: leggi il comunicato.
 
Dopo l'incontro degli Autoconvocati del teatro (chiamati per la precsione a raccolta il 4 marzo scorso dalla lettera di Gianfranco Capitta), è stata indetta una nuova riunione. Ecco il comunicato:

Un folto gruppo di artisti si è riunito per valutare e discutere la situazione della scena italiana a Roma lo scorso 4 marzo. Una galassia composita, che nel rispetto di linguaggi e storie diverse, si riconosce in un progetto comune di teatro.
Si è deciso di convocarsi nuovamente venerdì 22 marzo alle ore 10,00, alla vigilia della manifestazione indetta a sostegno dello sciopero generale dei lavoratori, al Teatro Due di Roma, in via Due Macelli, per proseguire la discussione.

 
Altre info su queste e altre iniziative, dibattito (ditelavostra!!!) eccetera sull'imperdibile forum sui Teatri di guerra.
 

COMUNICAZIONE DI SERVIZIO

La pagina dei teatrolinks stava diventando esagerata: oltre 350 link a compagnie, teatri, riviste, siti... Insomma, ingestibile. Sto trasferendo il tutto su un piccolo database. Provate a testarlo, cliccando qui. Guardate se ci siete & segnalate problemi, omissioni, errori eccetera scrivendo a info@olivieropdp.it
 

L'EDITORIALE

Come vedete nel piccolo "teatro di guerra" delle scene italiane, scaramucce e dimissioni, polemiche e convocazioni iniziative si moltiplicano. È certo un segnale di vitalità, che però non può nascondere diversi problemi di fondo. In primo luogo, queste reazioni sono solo la difesa di diritti acquisiti – o, se si preferisce, di spazi duramente e faticosamente conquistati dopo anni di lavoro? Oppure è la reazione alla progressiva riduzione di questi spazi, già in atto da diversi anni? (E in questo caso bisognerebbe capire perché, e come reagire…). Se invece quello a cui >>>
 

INDICE

Di Teatro di guerra e Scrittori per la pace s'è già detto.
Poi, in ateatro 31, tanto per cominciare, (Quasi) trent'anni di storia del Crt di Milano raccontati da Oliviero Ponte di Pino (certo con molti errori & omissioni).
Dopo di che Anna Maria Monteverdi racconta il nuovo spettacolo di Lepage, Apasionada, dedicato a Frida Kahlo.
E da Londra, Veronica Picciafuoco ci parla di Ravenhill e del Noh...

LA MUSICA

La musica che sentite in sottofondo arriva (as usual) dal mago del midi Andrea Antonini, che così ce la presenta.
 
Sul registro degli ospiti di Conrad Arnold Schmid, di Lüneburg, il compositore Georg Philipp Telemann scrisse un canone a sei voci e questa poesiola:
 
Der Noten und des Glückes Lauf
Geht bald berg-unter, bald berg-auf;
Bald schwingen sie, bald stehn sie still,
Doch selten, wie mans haben will.
Zum Andenken seiner
schrieb dies

G. Ph. Telemann
Lüneburg, d. 23 Juny,
1735
 
La corsa delle note e della buona sorte / Ora sale alle vette, ora ne scende repentina; / Ora freme in ogni dove, ora rimane sospesa, / Ma di rado va, dove noi vorremmo.
A ricordo del suo, / scrisse questo / G. Ph. Telemann / Lüneburg, 23 giugno / 1735

 

NEWS

(ma intanto andate a cercarle anche nei forum...)
 
Libri & libri

Poesia: Lombardi-Pasolini e Paolini-Calzavara in CD
Ma ancora non li avete sentiti, i due CD pubblicati da Garzanti Libri? Marco Paolini interpreta Marco Calzavara e Sandro Lombardi interpreta Pier Paolo Pasolini. Intanto potete ascoltare due brani in anteprima: Marco Paolini interpreta l'irresistibile
Can, Sandro Lombardi la struggente Supplica a mia madre.
Per altre info, leggete l'intervista sul progetto di "Alice" a Oliviero Ponte di Pino, oppure visitate la pagina del sito Garzanti dedicate al progetto. Potete richiedere i due cofanetti subito subito da internetbookshop: Paolini-Calzavara (prezzo di copertina 27.000 lire) & Lombardi-Pasolini (prezzo di copertina 25.000 lire).

 

L'EDITORIALE

Come vedete nel piccolo "teatro di guerra" delle scene italiane, scaramucce e dimissioni, polemiche e convocazioni iniziative si moltiplicano. È certo un segnale di vitalità, che però non può nascondere diversi problemi di fondo. In primo luogo, queste reazioni sono solo la difesa di diritti acquisiti – o, se si preferisce, di spazi duramente e faticosamente conquistati dopo anni di lavoro? Oppure è la reazione alla progressiva riduzione di questi spazi, già in atto da diversi anni? (E in questo caso bisognerebbe capire perché, e come reagire…).
Se invece quello a cui stiamo assistendo è la nascita di una nuova progettualità, la prima domanda da porsi è un'altra. Se è stato impossibile fare le cose semplici quando la situazione era favorevole, sarà possibile farlo oggi e nei prossimi anni, dopo che la situazione politico-culturale si è fatta assai più difficile? Insomma, bisogna capire quali sono le condizioni per dare forza a quelle che nella sua ormai celebre
Lettera ai teatranti Gianfranco Capitta definisce "cinquanta, ma forse cento, ma forse anche mille, che fanno teatro ogni giorno in Italia facendomi emozionare e ragionare, e con le cui visioni ho imparato a capire e vivere il presente e il futuro".
E prima ancora, forse, bisogna comprendere chi sono questi "cinquanta, ma forse cento, ma forse anche mille". In parte la questione è emersa in maniera implicita nella discussione sul forum, e corre sotterraneamente da anni in qualunque discussione sul nuovo teatro. Chi sono questi "cinquanta, ma forse cento, ma forse anche mille"? Qualcuno lo deve decidere o si autoconvocano? E in questo caso varrà il principio assembleare "una testa un voto" o la regola - implicita e terribile - che il talento artistico non è democratico? Oppure si partirà da un documento intorno al quale coagulare il sostegno e l'impegno?
Insomma, forse è il caso di chiarire se si tratta di una battaglia politico-culturale in cui il mondo del teatro si allinea all'opposizione (una opposizione che peraltro quando era al governo non ha brillato per particolare acume…). Il primo obiettivo è ovviamente quello di difendere la necessità di un adeguato sostegno pubblico al teatro e alla cultura in generale. In questo caso, si tratta di aggregare quante più forze possibili, dentro e fuori dal teatro e dal suo mondo, e di intervenire in tutte le occasioni di lotta.
Se invece si tratta di una battaglia all'interno del teatro pubblico, in difesa di una precisa concezione della cultura e del teatro, allora è necessario chiarire gli obiettivi – ma prima ancora vanno ridefiniti il ruolo e la funzione del teatro pubblico nel nostro paese (su questo, Ronconi e il Piccolo Teatro hanno espresso con chiarezza il loro progetto).
Infine, se si tratta invece di trovare nuovi spazi per la ricerca, per individuare e far crescere nuove energie teatrali, è opportuno comprendere su quali forze e su quali spazi si può contare, e costruire una rete di rapporti e relazioni, dal Nord al Sud, rafforzando le relazioni tra spazi e realtà produttive.
Ovviamente qualunque iniziativa si muoverà probabilmente su questi tre fronti - o deve tenerli ben presenti (è quello che ho cercato di fare, nel mio piccolo, in questi anni).

Ma questa è probabilmente una impostazione troppo vaga, viziata di teoria. Forse è più opportuno essere pragmatici.
L'altro giorno stavo chiacchierando con Moni Ovadia. A un certo punto mi ha detto: "Ho visto la discussione sul sito, molto vivace, interessante. Sai cosa dovremmo fare, sul sito? Noi siamo teatranti, dovremmo fare una specie di gioco di simulazione, in cui immaginiamo cosa faremmo se fossimo al governo di questo paese."
L'obiettivo è troppo ambizioso. Ma almeno provare a immaginare che cosa faremmo se dovessimo governare il teatro, beh, quello possiamo tentare di farlo.



Le regole dell'innovazione
(Quasi) trent'anni di storia del Crt di Milano
di Oliviero Ponte di Pino

Il Crt ha ormai alle spalle diversi decenni di storia, durante i quali ha accompagnato l'evoluzione delle nostre scene, attraverso ospitalità, produzioni, rassegne, convegni... Inoltre grazie a un forte peso politico e istituzionale e in virtù del proprio progetto culturale – che si è ovviamente modificato nel corso del tempo ma che probabilmente segna la sua più profonda ragion d'essere – ha svolto un ruolo di regolazione e di controllo nell'ambito dell'intero settore della ricerca.
A questo punto, visto che i diretti interessati non lo fanno, è forse giunto il momento di provare a raccontare la storia del Crt di Milano, forse la più prestigiosa (e potente) istituzione italiana nel settore - piccolo ma assai vivace - del teatro di ricerca. Anche perché, dopo le polemiche che hanno investito di recente il Crt - vedi gli scorsi numeri di "ateatro" e la discussione sui giovani che ha coinvolto tra gli altri Renato Palazzi (un critico che, a quanto ne so, vede gli spettacoli che recensisce), Federica Fracassi e lo stesso fondatore e presidente del Crt, Sisto Dalla Palma - può forse essere utile cercare di inserire la discussione in un contesto più ampio.
Quelli che seguono sono solo alcuni appunti stesi frettolosamente, a memoria, senza verificare più di tanto date e dati, materiali e programmi delle successive stagioni. Sono il frutto di una costante attenzione di spettatore e dunque, anche negli errori e nelle omissioni, possono risultare sintomatici. (Devo ringraziare Renata Molinari che ha letto il testo e mi ha dato diversi preziosi suggerimenti: ma la paternità di errori e omissioni è del sottoscritto). Le imprecisioni (anche per mancanza di tempo – ma se avrete la pazienza di arrivare in fondo capirete che per me queste riflessioni hanno una loro attualità) sono probabilmente numerose, e sarò grato a chiunque mi aiuterà a eliminarle. E ovviamente qualunque approfondimento, precisazione, correzione, è gradito e verrà ospitato nei prossimi numeri di "ateatro".
 
Il Crt - fondato nel 1974 da Sisto Dalla Palma con un gruppo di lavoro interno all'Università Cattolica di Milano - si contrappone fin dagli inizi in maniera polemica, e con prese di posizione spesso esplicite, al Piccolo Teatro, che fino a quel momento rappresenta in Italia l'unico modello di teatro pubblico. In quello stesso periodo nascono a Milano altre realtà che cercano alternative all'involuzione degli stabili e alla loro incapacità di rispondere alle sollecitazioni della realtà sociale da un lato e della comunicazione teatrale dall'altro: il Pier Lombardo, che reagisce soprattutto alle chiusure nei confronti della drammaturgia italiana e in particolare di Testori; il Teatro Uomo (che poi diverrà Teatro di Porta Romana) che dà spazio alle realtà delle cooperative (che rispondono alle tensioni politiche ed estetiche del '68) e alle nuove tendenze della scena (almeno in parte); il Teatro dell'Elfo, che sta nascendo e crescendo in quegli anni e troverà una sede stabile per una giovane compagnia con forti legami "generazionali"; il Teatro Verdi, che cresce intorno all'esperienza del teatro per l'infanzia del Buratto; e infine l'Out Off, attivo nel campo delle nuove tendenze e della contaminazione tra le arti.
In questo scenario, il Crt punta decisamente sull'area della ricerca e sulla consapevolezza che il teatro - almeno un certo teatro - è destinato a una élite, non per censo ma per scelta (rinunciando dunque a ogni opzione nazionalpopolare o esplicitamente giovanilistica), e che solo attraverso questa scelta il teatro può (ri)trovare il proprio senso e la propria necessità.
 
Per ripercorrere l'evoluzione del Crt, può essere utile dividere la sua storia in tre fasi. Nella prima, dalla nascita fino alla metà degli anni Ottanta, a caratterizzare la programmazione sono le ospitalità internazionali. Soprattutto nella gloriosa sala di via Dini sfilano personalità di altissimo livello. Grotowski e Barba, il Living e Meredith Monk, Tadeusz Kantor sono i nomi più significativi in un'opera di sistematica sprovincializzazione della scena milanese e italiana. Non si tratta solo di importare una serie di spettacoli più o meno interessanti: molto spesso il Crt organizza rassegne monografiche (per esempio sull'Odin Teatret), accompagnate da incontri e convegni; ancora più spesso gli artisti e i gruppi, in occasione della loro permanenza milanese, tengono corsi e seminari che hanno un ruolo significativo nella complessa "autopedagogia teatrale" di quel periodo.
Il Crt ha un ruolo chiave nella rassegna dei "Confronti Teatrali", curata da Franco Quadri, che alla metà degli anni Settanta in diverse edizioni porta a Milano alcune significative realtà sia straniere sia italiane. Sono gli anni in cui, sulle nostre scene, dopo la "generazione delle cantine" romane tra i Sessanta e i Settanta (Bene, De Berardinis, Quartucci, Nanni, Perlini, Vasilicò...), inizia ad affermarsi la "seconda onda" del nuovo teatro italiano: i "Confronti Teatrali" registrano la novità e portano per la prima volta a Milano la Gaia Scienza e il Carrozzone. Ma, in base a una scelta forse snobistica, il Crt negli anni successivi ignora l'avanguardia made in Italy, con l'unica eccezione significativa di Remondi e Caporossi.
Questo atteggiamento cambia radicalmente dopo la metà degli anni Ottanta, con la sistematica apertura al nuovo teatro italiano, e in particolare alla "seconda generazione" dei gruppi, dopo la vetrina offerta dalla Biennale Teatro diretta da Franco Quadri.
In quelle edizioni la rassegna veneziana presenta un mix di grandi nomi della scena internazionale (dalla Bausch con una indimenticabile personale a Robert Wilson, da Andrei Serban all'Odin Teatret, ma anche Ronconi e Castri) e di giovani compagnie italiane emergenti, che a Venezia erano passate, ai tempi della direzione Scaparro, solo con Tango glaciale di Falso Movimento. Nella Biennale dell'84 si radunano così la Gaia Scienza (che si sta proprio allora dividendo in due tronconi), Santagata e Morganti, Raffaello Sanzio, Valdoca, Padiglione Italia... L'anno successivo, dopo la scandalosa affaire del cavallo a Santarcangelo, arriveranno anche i Magazzini. Per la prima volta il nuovo teatro italiano approda massicciamente in una grande istituzione nazionale, e le reazioni dell'establishment non si fanno attendere: di fatto il progettato triennio veneziano si riduce a un biennio, e le altre istituzioni teatrali (stabili e festival non specificamente dedicati al settore) non danno seguito a quella proposta. (Per la cronaca, a Milano la panoramica veneziana verrà in buona parte ripresa, con l'arricchimento di altri gruppi, da due edizioni della rassegna "Sussurri e Grida" curata dall'Out Off.)
Nel 1987 ci sarà un tentativo di rilanciare un fronte comune del nuovo teatro, con la seconda edizione del Convegno di Ivrea, a vent'anni dal primo storico incontro: ma questi "stati generali" di fatto produrranno solo un elenco di recriminazioni e buone intenzioni.
È proprio a questo punto che il Crt apre con decisione agli "italiani". La scelta è certo determinata da alcuni elementi "in negativo": da un lato l'onda della ricerca internazionale sembra aver perso il proprio slancio, dall'altro i cachet per le mega-produzioni internazionali si sono fatti proibitivi. Nel contempo si afferma la consapevolezza che in Italia sta accadendo qualcosa di interessante, grazie al lavoro dei gruppi: sul versante artistico, la messa a punto di una serie di grammatiche teatrali più aperte alla modernità; sul versante sociologico, in un paese che sta ancora facendo i conti con il terrorismo e sperimenta quello che verrà definito "riflusso", il teatro si trova ad aggregare decine e decine di giovani che trovano nella scena il proprio terreno d'espressione e comunicazione.
Rispetto alle ideologie teatrali che dominano in quel periodo - da un lato lo spettacolo commerciale, dall'altro l'ideale nazional-popolare del "teatro d'arte per tutti" che ispira sia gli stabili sia le cooperative - queste avanguardie lavorano per piccoli gruppi di spettatori. Non si rivolgono più a un pubblico potenzialmente indifferenziato - o, per dirlo con un'espressione che all'epoca ancora non si usava - "generalista". I loro destinatari sono invece diversi segmenti di pubblico - diversi "target". Gli artisti non hanno più davanti a sé un "popolo", una comunità omogenea, seppure strutturata al suo interno; e neppure l'universo indifferenziato dei giovani. Emerge chiaramente la consapevolezza che il teatro è un'arte "per pochi" di fronte allo strapotere del cinema e soprattutto delle televisioni, quelle pubbliche e quelle private (un fenomeno allora in fase di esplosiva crescita). In questo senso, le avanguardie teatrali stanno sperimentando sulla loro pelle quella che sarà l'evoluzione della società e della cultura del paese nei successivi decenni.
 
In questo scenario, l'obiettivo che si pone il Crt è certamente ambizioso: presentarsi come controparte istituzionale, far rientrare alcune fasce marginali nel circuito della comunicazione, offrire un'occasione di visibilità e confronto anche a esperimenti "difficili" e spesso appesantiti da un eccesso di autoreferenzialità, mantenere aperto un canale di scambio tra centro e periferia, tra punti di vista diversi e in apparenza incompatibili.
Per capire la spregiudicata intelligenza di questo progetto, bisogna tenere conto che molte di queste esperienze affondano le loro radici (esistenziali, se non altro) nell'area delle microculture (e controculture) giovanili, nelle frange del dissenso extraparlamentare e in generale della sinistra. Non è un caso che, almeno in una prima fase, sul versante critico i gruppi godano del sostegno di giornali come "il manifesto", "Lotta Continua" e "Quotidiano dei Lavoratori", mentre quasi tutta la stampa "borghese" (all'epoca in buona maggioranza "strehleriana" e antironconiana) ignora o attacca questo genere di spettacolo. Anche la politica culturale del Pci sosterrà con enorme cautela queste nuove generazioni teatrali (come si è visto, elitarie oltre che di evidente ascendenza "formalistica"), privilegiando in linea di principio il teatro di regia, a cominciare ovviamente dai sopra citati Strehler e Ronconi.
La scelta del Crt di sostenere la ricerca teatrale italiana, e di proporsi come suo punto di riferimento istituzionale, non è dunque scontata. Non è scontata neppure l'adesione dei gruppi a questo progetto, sancita in pratica nell'incontro di Perugia del 1988, che coinciderà con due decisioni di politica culturale di notevole impatto sul settore. La prima (dopo anni in cui si è assistito a una proliferazione di contributi a pioggia e al consolidarsi di inaccettabili rendite di posizione), è la scelta di tagliare progressivamente e radicalmente il numero delle compagnie di ricerca sovvenzionate dal Ministero: degli oltre 200 gruppi finanziati dal Ministero se ne dovranno salvare una trentina. In secondo luogo, è in questo periodo che vengono istituiti i Centri di ricerca, di cui il Crt a Milano, il Centro Teatrale San Geminiano di Modena e il Centro Servizi e Spettacoli di Udine saranno i prototipi. I Centri nascono anche per sopperire ad alcune lacune "genetiche" dei gruppi che, centrati sul progetto artistico, finiscono per trascurare gli aspetti organizzativi (che vanno dal disbrigo delle infinite pratiche burocratiche alla ricerca degli spazi) e la costruzione del rapporto con il pubblico. Di fatto i Centri (soprattutto quelli citati, che non sono nati intorno a un progetto artistico ma a un percorso soprattutto organizzativo) vogliono offrire ai gruppi questi servizi - spesso affiancandoli e associandoli in coproduzioni.
Tuttavia il progetto di riorganizzazione del settore intorno a questa collaborazione sconterà negli anni successivi una diversa serie di debolezze. Nel medio periodo, malgrado i numerosi tentativi di produrre direttamente spettacoli (al Crt questi esperimento erano cominciati assai presto, grazie a Paolo Viola, troppo presto scomparso), i Centri sconteranno proprio la mancanza di una forte identità produttiva e "poetica". Questo li porterà a costruire di volta in volta "operazioni" magari interessanti ma che faticano a costruire nuclei artistici stabili, che possano mantenere nel tempo la propria necessità: infatti le produzioni dei Centri, quando non si sono appoggiate a nuclei artistici preesistenti e già collaudati, hanno lasciato ben di rado impronte indelebili. In secondo luogo Centri e gruppi avranno inevitabilmente la tendenza a proporsi come un universo separato, un circuito autonomo e indipendente rispetto agli stabili, la "serie A del teatro pubblico", pur con tutte le loro sclerotizzazioni e lottizzazioni interne. E' una divisione che sterilizza da anni il nostro teatro: è difficile trovare le responsabilità (che vanno certo distribuite tra stabili, centri, gruppi, burocrati, critici eccetera), e di misurarne i danni in termini di mancato rinnovamento e di involgarimento... E' una discontinuità che resta ancora molto aperta, come dimostrano il reiterato fallimento della candidatura di Gabriele Vacis allo Stabile di Torino o la conclusione anticipata dell'esperienza di Mario Martone a Roma. E rappresenta probabilmente il nodo irrisolto del teatro italiano degli ultimi vent'anni.
Di fatto nel giro di qualche anno, il progetto dei Centri di ricerca s'impantana: rischiano di diventare degli stabili di serie B, con meno peso e risorse dei fratelli maggiori. Almeno nella misera economia del teatro di ricerca, i Centri rappresentano una quota significativa da distribuire e filtrare in produzioni, coproduzioni e ospitalità. Ma progressivamente, non appena se ne presenti l'occasione, non appena la divisione del lavoro tra i vari teatri cittadini s'incrina, gli artisti che a questa area fanno riferimento cercano vetrine più prestigiose (o condizioni finanziariamente più vantaggiose, o semplicemente occasioni di visibilità che un Centro non può offrire a tutti i gruppi in tutte le stagioni).
 
Tornando a Milano, il Crt, per una sorta di tacita divisione del lavoro con gli altri teatri, resta a lungo il luogo deputato per la ricerca. Ma sul versante degli spazi paga un prezzo piuttosto alto. Non riesce a diventare appieno un punto di riferimento e un luogo di aggregazione, anche perché nel corso degli anni è costretto a distribuire la programmazione in diverse sale: oltre al glorioso ma ultraperiferico Salone di via Dini già citato, utilizza come sedi il Teatro Poliziano (per un breve intervallo) e il Teatro dell'Arte (dove s'insedia e poi torna dopo un lungo intervallo dovuto a interminabili e assai discutibili lavori di ristrutturazione gestiti dal Comune di Milano), passando per l'Ansaldo e addirittura per una sala parrocchiale, il Teatro Gnomo. Il pendolarismo rende ovviamente difficile stabilizzare l'interesse delle diverse fasce di pubblico che questo o quel gruppo avevano costruito nella metropoli milanese. E nei fatti il Crt non riesce a bilanciare questo nomadismo con un capillare lavoro sul territorio e sulla costruzione di un rapporto organico con il pubblico. Il rischio è quello di dover inseguire fasce sempre nuove di pubblico, sperando di individuare attraverso nuove proposte l'emergere di nuovi bisogni e tendenze (o a volte mode).
Di fatto, con il passare delle stagioni, alcuni dei nomi che avevano costituito il fulcro della programmazione del Crt emigrano altrove. Altri, che attraversano momenti di crisi creativa (inevitabili nell'ambito della ricerca), ne scivolano fuori e difficilmente vengono "ripescati". Altri ancora ne vengono di fatto allontanati, per divergenze sul piano culturale (vedi il caso della Societas Raffaello Sanzio dopo Gilgamesh). I Centri appaiono restii a permettere l'accesso a nuove formazioni. In questo periodo il loro accesso alle sovvenzioni ministeriali sarà reso assai arduo anche grazie al "filtro" dei Centri: infatti le regole burocratiche impongono a un gruppo che vuole accedere alle sovvenzioni un certo numero di repliche proprio presso i Centri. Che tendono a escluderli e così di fatto finiscono per accantonare anche la loro funzione di talent scout (indispensabile per favorire il ricambio generazionale).
Questi sviluppi portano a una nuova fase di stallo, a metà degli anni Novanta. La soluzione sarà analoga a quella trovata un decennio prima: fare del Crt il punto di riferimento milanese (e implicitamente nazionale) per una nuova generazione di gruppi che operano nel settore della ricerca. Come un decennio prima, i serbatoi cui attingere sono principalmente due rassegne. Sul versante regionale "Scena Prima" è una sorta di censimento delle giovani compagnie della Lombardia, che ha tra i promotori la Regione e altri enti locali, e alcuni teatri milanesi (oltre al Crt, Verdi e Teatridithalia). A livello nazionale, il segnale viene soprattutto da una rassegna milanese nella quale il Crt non è coinvolto, "Teatri 90", a cura di Antonio Calbi, la cui prima edizione viene ospitata dal Teatro Franco Parenti, fino a quel momento non particolarmente attento al nuovo. "Teatri 90" porta per la prima volta a Milano gruppi come l'Impasto, il Teatrino Clandestino, Fanny & Alexander, Teatro del Lemming, che diverranno presenze qualificanti nella programmazione del Teatro dell'Arte, insieme a qualche "superstite" delle generazioni precedenti.
I gruppi più giovani che approdano al Crt-Teatro dell'Arte (seppur in una condizione di debolezza di fronte a un gigante) hanno certamente una grande occasione: hanno la possibilità di un confronto a un livello culturale alto (anche se a volte questo confronto resta implicito), vengono presentati in una sede prestigiosa, affrontano il giudizio di critica e pubblico, possono essere salvati o ripiombare in quella terra di nessuno nella quale si dibattono molte piccole compagnie.
Sul piano generale, il primo rischio è quello di creare l'ennesimo ghetto per una nuova leva di teatranti, in attesa che spicchino il balzo verso altri lidi, che ora - sulla piazza milanese - vanno dai Teatridithalia al Piccolo, fino a tempi piuttosto recenti assolutamente refrattario a intrusioni da parte di qualunque "avanguardia" (al proposito non è inutile ricordare gli anatemi scagliati da Piccolo Teatro in occasione di un ormai lontano "Festival Odin" del Crt, e il beffardo volantino con cui il Crt ha salutato, in tempi molto più recenti, un'analoga iniziativa del Piccolo Teatro, che ha segnato per certi versi una svolta epocale, nel piccolo universo delle beghe di palcoscenico).
Il secondo rischio, rilevato da diversi osservatori, è che il pubblico resti perplesso e disorientato di fronte a stagioni costruite quasi del tutto su formazioni alle prime esperienze e dunque relativamente fragili, davanti a un pulviscolo di proposte con teniture spesso di pochissime repliche in una città notoriamente lenta a reagire come Milano. Il rischio è che passino quasi inosservate anche proposte di forte impatto, come il debutto milanese di una star della scena internazionale come Alain Platel con due repliche in bassa stagione.

A questo punto, è possibile tracciare un primo provvisorio bilancio di questi (quasi) trent'anni.
In primo luogo, va rilevata l'identificazione di fatto della struttura con il suo fondatore e presidente, Sisto Dalla Palma. Nel corso degli anni al Crt hanno operato con funzioni direttive personalità molto diverse, sia sul versante della direzione artistica sia di quella organizzativa. Un elenco peraltro incompleto potrebbe comprendere Paolo Viola, Franco Laera, Paolo Zenoni, Giorgio Zorcù, Martinet, Sandro Pasquini (per un brevissimo esperimento), Patrizia Cuoco, Marina Gualandi, Silvio Castiglioni, Chiara Bachetti, Massimo Mancini... Ma nessuno di loro è riuscito a resistere per più di qualche anno, anche se certamente alcuni di loro hanno lasciato un segno nella fisionomia del teatro.
Professore universitario, grand commis della Democrazia Cristiana nel settore dello spettacolo (quando c'era la Dc), Sisto Dalla Palma è stato, oltre che presidente della Fonit Cetra, segretario della Biennale quando direttore del settore teatro era Maurizio Scaparro: insieme, in una operazione centrata sull'ideologia della festa, hanno rilanciato il Carnevale, di recente televisionizzato e finito nelle grinfie Fininvest.
Di fatto, la sua gestione è il principale elemento di continuità del Crt. Non mancano nella programmazione omaggi alla sua matrice cattolica (vedi le feste per la Notte dell'Epifania), che però a volte paiono corpi estranei alla normale programmazione. (Non ho qui lo spazio per approfondire le attività pedagogico-formative del Crt, che certamente hanno un peso notevole nella sua economia e nella sua progettualità, e che tuttavia esulano dagli obiettivi di questa analisi.)
Con ogni probabilità l'impronta più forte sul teatro italiano viene dalla dialettica con i gruppi, presentati o esclusi dalle stagioni del Crt in base all'omogeneità a un progetto culturale che diverge dalle loro dinamiche. A volte invece a causare la crisi all'interno di un gruppo di lavoro - in particolare nell'ambito di produzioni direttamente gestite dal teatro - pare all'opposto essere un eccesso di adesione di un progetto spettacolare a uno schema ideologico. Quella che a volte sembra mancare – almeno a uno sguardo esterno – è una autentica dialettica tra i due poli, che permetta a entrambi di crescere.
Il teatro viene vissuto dal Crt in primo luogo come una vetrina esemplare di possibilità estetiche, culturali e pedagogiche, prima ancora che come un movimento teatrale presente nella società. Non si tratta dunque di stimolare la nascita di nuove realtà o di cogliere i germi di nuovi fenomeni, quanto piuttosto di registrare l'esistenza di forme teatrali già sufficientemente formalizzate per essere inserite nel circuito teatrale.
Così in questi anni il Crt si è soprattutto preoccupato di cogliere e rilanciare tendenze che hanno già superato una certa soglia di visibilità e sponda critica - attraverso altre forze, altre attenzioni e altre vetrine ("Biennale" e "Sussurri e Grida" prima, "Teatri 90" poi; invece l'attenzione a iniziative come quelle dei "Teatri Invisibili" o di "Opera Prima" è stata a dir poco scarsa – anche per il problema della alta soglia d'ingresso di cui si è detto sopra). Dopo un periodo da "compagni di strada", per carenza o eccesso di adesione al progetto del Crt, molti gruppi finiscono poi per imboccare altre strade o per sciogliersi. E a quel punto il Crt si apre a una nuova generazione teatrale.
Il secondo nodo - cui si è già più volte accennato - riguarda la difficoltà a produrre direttamente spettacoli da parte del Crt e in generale dei Centri, in mancanza di un nucleo artistico stabile. In diverse occasioni sono stati fatti tentativi in questa direzione, che tuttavia hanno lasciato poche tracce. Dopo oltre vent'anni questa difficoltà a produrre in proprio pare insormontabile. Nei fatti il Crt ha svolto dunque soprattutto un ruolo di ospitalità e di distribuzione che di autonoma creazione.
 
Se questi primi nodi riguardano in sostanza il Crt e le sue dinamiche interne, l'ultima questione ha invece implicazioni di carattere più generale e riguarda gli equilibri dell'intero sistema teatrale italiano. Di fatto i Centri si propongono fin dall'inizio di costruire un circuito autonomo per la ricerca, alternativo a quello degli stabili e del teatro privato (mentre l'ETI, prima dei recenti tentativi di re-direzione, ha continuato a lungo a relegare la ricerca nei ghetti delle rassegne di inizio e fine stagione, quasi per salvarsi l'anima). Di fatto questo circuito è rimasto poco più di un progetto, ma rischia di costituire un potente alibi per evitare ogni contaminazione tra il teatro "ufficiale" e quello "di ricerca". È come se "tradizione" e "ricerca" in Italia costituissero in eterno due mondi separati, caratterizzati da modalità produttive incompatibili, da estetiche inconciliabili, da linguaggi divergenti. Questa separazione concede a chi fa ricerca maggiore libertà e possibilità di sperimentare, ma alla lunga finisce per deresponsabilizzare di fronte alle necessità di un teatro pubblico - e in queste condizioni può diventare difficile continuare a crescere anche sul piano puramente artistico. D'altro canto i rari esperimenti di sconfinamento di "teatranti d'avanguardia" nei grandi carrozzoni pubblici sono stati episodici e poco convincenti. Se si tratta di un singolo spettacolo, il rischio è che le necessità e le modalità produttivo-distributive degli stabili finiscano per schiacciare il progetto; se si tratta di salire sulla plancia di comando, lo scontro tra due diverse idee della cultura e del teatro (ambedue "di sinistra", va precisato, e radicate nella necessità di un teatro pubblico) diventa presto ingestibile.
La questione resta ancor oggi drammaticamente aperta. Se ne avverte l'eco in alcune vicende (e polemiche) di questi giorni. Il progetto di spezzare alcuni stabili in due tronconi (a Roma l'Argentina ad Albertazzi e l'India a Giorgio Barberio Corsetti, a Torino la "Tradizione" nelle mani di Castri, l'"Innovazione" in quelle di Vacis) riflette questa logica dicotomica, ma non porta avanti di un passo l'evoluzione del nostro sistema teatrale. In questo quadro, quale può essere la funzione del Crt e degli altri successori dei Centri di Ricerca, i Teatri stabili di innovazione? Devono accompagnare per un certo tratto alcune realtà in crescita per poi abbandonarle al loro destino - sapendo che le porte dei teatri stabili resteranno sbarrate? Devono trasformarsi in veri e propri stabili, ma con mezzi assai più limitati?
Al di là delle polemiche di corto respiro, il Crt - come tutto il teatro italiano - deve superare questa strettoia. E visto il ruolo centrale dell'istituzione milanese nelle trame teatrali di questi anni, la soluzione avrà notevoli ripercussioni sull'intero sistema - o su quel che ne resta.



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Questo nuovo numero di tnm è interamente dedicato a Lepage.
Intanto come promesso potere andare a vedere l'anteprima del video di Giacomo Verde, La faccia nascosta del teatro. Conversazione di amm con Lepage (930K) (scarica Real Player).
Poi, una ampia recensione allo spettacolo che Lepage ha dedicato alla pittrice messicana Frida Kahlo.


MESSICO E QUADRI
Frida, Diego, l'amore, la morte e l'arte

Apasionada (Que viva Frida)
regia di Robert Lepage, testo di Sophie Faucher
(Madrid 2 marzo 2002, Teatro de la Zarzuela)

di Anna Maria Monteverdi




Frida on sale

Film, biografie, spettacoli, mostre, retrospettive, cataloghi. Tutto dedicato al personaggio dell'anno (ma non ricorre alcun anniversario particolare): la pittrice messicana Frida Kahlo, amata dai surrealisti e moglie del muralista Diego Rivera.
Il catalogo edito recentemente dalla Leonardo International e curato da L.M. Lozano raccoglie l'intera opera pittorica mentre l'Enciclopedia dell'arte Garzanti non la nomina neppure.
Tra tutte, la biografia più accreditata è quella dell'americana Hayden Herrera (Frida, La Tartaruga edizioni, ma in bibliografia va ricordato anche Diego e Frida di J.M. Le Clézio, Il Saggiatore) su cui si è basato anche il film omonimo interpretato da Salma Hayek (nel ruolo ambito da Madonna) e Antonio Banderas; un autentico capolavoro letterario per l'accuratezza della ricerca, per le fonti dirette consultate, ma anche per la piacevolezza del racconto che ne fanno un vero oggetto di culto per chi vuole conoscere in maniera approfondita le vicende della vita, dolorosa, inquieta, travagliata ma anche straordinariamente ricca di eventi e di incontri della Kalho, nata nel 1907, che preferì però lasciare simbolicamente ai posteri come propria data di nascita il 1910, anno dello scoppio della Rivoluzione messicana.

La genesi dello spettacolo

Su una drammaturgia costruita quasi esclusivamente sulle lettere e sul diario della Kalho dalla stessa attrice protagonista, Sophie Faucher, già drammaturga e interprete di The geometry of miracle, Robert Lepage ha firmato la regia di questo Apasionada in collaborazione con la ben consolidata équipe tecnica di Ex machina, il centro di produzione teatrale e multimediale da lui fondato e diretto nel 1994 e che ha sede a Québec City. Tra i collaboratori ricordiamo lo scenografo Carl Fillion e Jacques Collin, creatore delle immagini video.
La produzione è ispano-canadese-austriaca. La prima dello spettacolo è avvenuta a Montréal, presso il Théatre de Quat'sous.

La prima europea è avvenuta a Madrid il 23 febbraio; queste le prossime date:

- 12 ~ 13 April 2002: Malaga (Spain)
- 24 ~ 26 April 2002: Santa Cruz (Canary Islands)
- 18 ~ 20 July 2002: Lisbon (Portugal)


L'idea dello spettacolo, la scelta degli episodi più significativi della vita della Kahlo e lo sviluppo stesso della storia, dunque, come uno sguardo attento rileva senza bisogno di informazioni chiarificatrici, non è di Lepage. È la stessa Sophie Faucher, diplomata al Conservatorio d'Arte drammatica di Québec ed attrice teatrale e televisiva ad averne avuto l'intuizione, letteralmente folgorata molti anni fa, come ricorda lei stessa in un'intervista, dalla figura dell'artista e a chiedere allo stesso Lepage di curarne la regia. In seguito al progetto, Lepage e la Faucher intrapresero un viaggio nei "luoghi" classici: la casa-museo a Cayaocan e a Sant Angel.
Così la Faucher spiega il vero tema dello spettacolo:

"Apasionada n'est pas une biographie de Frida. C'est notre Frida, vue de l'intérieur. C'est vraiment inspiré de son journal. C'est elle qu'on va entendre parler... J'ai eu envie d'un spectacle où on mettrait de l'avant sa parole et pas seulement sa peinture."

All'epoca dell'ideazione dello spettacolo venne inaugurata proprio a Montréal il 4 novembre 1999 una mostra interamente dedicata all'arte moderna messicana (1900-1950) - la prima realizzata in Canada dal 1943 - con sezioni speciali dedicate alla fotografa italiana Tina Modotti, ai muralisti Orozco, Siqueiros e Rivera, e naturalmente alla pittrice Frida Kahlo.



Madrid
Per la prima europea è stata scelta Madrid e in particolare La Zarzuela, incantevole teatro d'opera della metà dell'Ottocento che fa parte del Centro Dramatico Nacional, situato in Calle Jovellanos, traversa del trafficatissimo Paseo del Prado.
Il teatro, intitolato a un genere musicale molto popolare in Spagna, la zarzuela, simile alla nostra operetta, propone un cartellone di eventi musicali, concerti d'opera, lied e danza, mentre lo spettacolo è rappresentato solo da due nomi ma di assoluto prestigio internazionale (e la vicinanza è assolutamente curiosa): Robert Lepage e Robert Wilson (con il Woyzeck di Büchner, musiche di Tom Waits).

Lo spettacolo
Un enorme schermo rettangolare "a vista" dall'intelaiatuta metallica grigia illuminato da una fluorescente luce blue (blue "Wilson", ovvero il blu del televisore senza segnale) domina in posizione centrale la scena del piccolo e antico Teatro della Zarzuela, con sedie in velluto rosso, a 4 ordini di galleria disposti ad emiciclo ed altrettanti ordini di palchi, restituendo l'effetto visivo di uno "schermo televisivo al plasma".
Il sipario è, dunque, interrotto a metà da questa stridente "presenza tecnologica" che sembra brillare di luce propria e che fuoriesce dal buio della scena. I palchi reali in questo spazio architettonico sono letteralmente incastonati nell'arcoscenico, impreziositi da una velatura dorata e da mascheroni: quadri (architettonici) dentro un quadro (la boite) che contiene un quadro (lo schermo). Quadri dentro quadri, come in un gioco di scatole cinesi. Sembra quindi, prima ancora di assistere allo spettacolo vero e proprio, di stare davanti a "molte cornici".
Lo schermo, una volta attenuata la luce blu, si mostra nella sua vera natura: è un velo che permette sia la proiezione delle immagini sia la visione di quello che vi accade dietro, nella zona "agita" dagli attori, restituendo percettivamente talvolta l'effetto flou, talvolta quell'effetto definibile come "dissolvenza fissa", in questo caso una sovrimpressione di immagini (bidimensionali) con corpi (tridimensionali), mentre il passaggio da una zona all'altra della visione (lo schermo e l'azione dietro lo schermo) diventa una vera dissolvenza incrociata.
Luci blu dominano per la maggior parte dello spettacolo: blu come la loro casa (la Casa Azul) a Cayoacan a Città del Messico, tra Calle Allende e Calle Londres.



Gli episodi sono narrati in prima persona dalla protagonista ma senza coerenza cronologica; sembrano piuttosto (e letteralmente) flash isolati, a partire dal momento della morte di Frida, andando a ritroso nel tempo, dalla famosa mostra-evento a Città del Messico nel 1953, a cui presenziò distesa in un letto decorato con mille oggetti, fotografie e specchi, ripercorrendo le tappe del suo rapporto con Rivera rivissute sulla scena come fossero flashback, tra desiderio d'amore, senso d'angoscia e sofferenza. I coloratissimi e drammatici quadri di Frida, i murales "politici" di Diego i filmati in bianco e nero dell'America degli anni Trenta e Quaranta e le pagine del diario della Kahlo in proiezione, infatti, fanno da contrappunto visivo agli episodi della tormentata vita della pittrice messicana. L'attrice Sophie Faucher è la protagonista, affiancata da Patric Saucier (Diego Rivera) e da Lise Roy (nella parte della Morte). La scenografia è ridotta a pochi elementi di arredo: l'appendiabiti, il cavalletto, i ponteggi ed infine il baldacchino, che una volta privato delle quattro aste diventa, nel corso dello spettacolo, tavolo o letto d'ospedale, oppure sollevato in verticale, finestra o telaio che inquadra un dipinto. Ancora una volta caratteristica della scena di Lepage è, dunque, la trasformabilità. .
Attraverso lo schermo, nella prima scena, si intravede una struttura di legno, un casottino da dove spicca in proiezione uno degli autoritratti di Frida; da una piccola apertura si affaccia fino al busto Frida, sovrapponendo all'immagine il suo corpo.
La struttura di legno si rovescia all'indietro lentamente e diventa un letto a baldacchino dove Frida è sdraiata come sul punto di morte, in mezzo ai suoi coloratissimi vestiti da tehuana. Nella stanza si intravedono alla sinistra del palco il cavalletto e i colori. Le fa compagnia una figura femminile senza capelli, vestita come un monaco buddista, che la ricopre completamente con lenzuola.
E' la morte, sua compagna in vita, che Frida nei suoi diari chiama familiarmente la pelona, la pelata.
Iniziano le proiezioni di scritte sullo schermo. Sono le lettere e le pagine del colorato diario di Frida (meraviglioso memoriale ricco non solo di parole e inchiostro ma di pittura, colori e macchie) scritto tra il 1944 e il 1954.
La prima pagina è datata "settembre 1925" e scorre sotto i nostri occhi e sono lette come i titoli di coda di un film (anche in Elsinore Lepage aveva adottato il medesimo stratagemma di "proiettare" ingigantendola su un grande schermo, la lettera di Amleto a Ofelia). Altre scritte sono visibili per lo spettatore del teatro de La Zarzuela: sono le parole in forma di led luminosi, in spagnolo nel display immediatamente sopra l'arcoscenico (lo spettacolo è in francese). Le parole scorrono letteralmente, come un fiume in piena, raccontando dettagli della vita, impressioni momentanee, descrivendo minuziosamente la terribile verità del dolore che l'ha accompagnata per tutta la vita. L'episodio dell'incidente. Lentamente, lentissimamente il tram di legno va a scontrarsi contro un robusto autobus. La ringhiera di metallo la trapassa letteralmente all'altezza del bacino, sventrandola. Era il 17 settembre 1925. Frida aveva diciotto anni ed era con il fidanzato, Alejandro Gomez Arias. L'episodio è raccontato attraverso le parole di Frida e dello stesso Alejandro che scorrono e a voce alta contemporaneamente.

"Il tram si muoveva lentamente, ma l'autista del nostro mezzo era giovane e molto nervoso. Quando l'autobus ebbe girato l'angolo, l'autobus finì schiacciato contro un muro... La prima cosa a cui pensai fu il balero (giocattolo) dai bei colori che avevo appena comprato e che stavo trasportando....L'urto ci catapultò in avanti e un corrimano mi trafisse nello stesso modo in cui una spada trafigge il toro. Un uomo vide che avevo una tremenda emorragia". "Perduta la verginità per un tranvai."

Il fondale si colora di rosso.
L'episodio del primo fugace incontro con Diego è raccontato da un breve dialogo tra l'artista in cima ai ponteggi mentre dipinge il murale La creazione nell'Anfiteatro della Scuola Nazionale Preparatoria e la moglie Lupe Marin come modella.
"Dipingi la creazione del mondo?", chiede Lupe a Diego davanti all'enorme affresco…
"No, la creazione della propaganda". E dall'alto della scala in tutta la sua robusta presenza Rivera declama a voce alta con quattro slogan che l'arte deve essere a disposizione del popolo, per la liberazione del popolo.
Il Rivera artista della rivoluzione, la rivoluzione marxista, il Diego membro del partito comunista messicano, poi espulso e mai riammessovi, che aveva conosciuto in Russia Stalin, aderito alla Lega internazionale comunista, ospitato Trotzky, da cui poi si dissociò, dipinto la fatica dei contadini e la forza sovvertitrice della rivoluzione, il sangue dei rivoluzionari che concima la terra, Zapata e il motto "Tierra y libertad", è così liquidato.
Ora è Frida con i lunghi abiti, avvolta nel suo rebozo a dipingere, in un angolo davanti ad un cavalletto che si colora delle tonalità che lei stessa nomina, associandole a elementi naturali, affetti, o pure fantasie:

VERDE: luce calda e buona
MARRONE: colore del mole (salsa al cioccolato), della foglia che cade. Terra.
GIALLO: follia, malattia, paura. Parte del sole e dell'allegria.
BLU COBALTO: elettricità e purezza. Amore.
NERO: nulla è nero, veramente nulla.
VERDE FOGLIA: foglie, tristezza, scienza. L'intera Germania è di questo colore.
VERDE SCURO: colore delle brutte notizie e dei buoni affari.
BLU MARINO: distanza. Anche la tenerezza può essere di questo blu.
MAGENTA: Sangue? Chissà!


Il primo vero incontro con l'artista Diego Rivera è raccontato in scena da un breve frammento di dialogo: Frida giovanissima decide di mostrare al grande muralista della mexicanidad i suoi lavori; sono tre piccoli quadri. Lei è titubante, timida, così minuta che a stento arriva ad allungare i suoi quadri al maestoso maestro in cima ai ponteggi ma esorta Diego a dirle la verità: "Se non vi piacciono ditemelo, devo lavorare per guadagnare". "Hai talento". Lei lo invita a casa sua. Poi scene dal matrimonio, colori, musiche, danze e spari. La vestizione: le sue gonne lunghe, il rebozo, i gioielli:

"Diego mio padre, figlio, fidanzato. Diego: io Appartengo a te e alla tua arte."

Ancora una volta - come costante del teatro di Lepage - i personaggi si scoprono l'uno "specchio dell'altro". Se in La face cachée de la lune i personaggi-specchio sono i due fratelli, uniti nel liquido amniotico e dal cordone ombelicale della madre, ma separati nella vita, in Les aguilles et l'opium è il protagonista che rivive il proprio dramma d'amore (sofferto come crisi di astinenza) sulla falsariga di ben note storie di dipendenze (Cocteau) e di passioni e separazioni (Miles Davis e Juliette Greco). In Vinci il protagonista, fotografo canadese, arrivato in Europa dopo la morte di un amico, percorre un viaggio verso i luoghi di Leonardo specchiandosi con il genio dell'Umanesimo su interrogativi relativi alla propria "integrità artistica e morale".
Cambio di scenario: arrivano in America nel novembre del 1931 a Detroit, lasciandosi alle spalle un Messico in condizioni catastrofiche: recessione, guerra civile, miseria. Diego deve dipingere le pareti dell'Institute of Arts: 163 metri quadrati di affreschi "per celebrare", come disse Rivera, "la grande saga della macchina e dell'acciaio" con i soldi della Ford Motor Company, ma soprattutto per lavorare ad una retrospettiva dedicata ai suoi lavori per il Museo d'Arte moderna. Nel cuore dell'America capitalista. Rivera sogna una rivoluzione anche per il suolo nordamericano. Tempo prima aveva scritto nel suo "Manifesto per un'arte rivoluzionaria e indipendente" (redatto insieme con Trotzky e Breton) nel 1929:

"Ho sempre sostenuto che l'arte in America se arriverà un giorno a esistere, sarà il prodotto della fusione della meravigliosa arte indigena, venuta dalle profondità immemorabili del tempo, nel centro e nel Sud del Continente, e dell'arte del lavoratore industriale del Nord."

Lo schermo teatrale diventa il grande schermo del cinema: Mae West, chiamata da Frida la più straordinaria "machine a vivre" è ripresa da una pellicola che la ritrae in posa da statua della libertà (in uno dei dipinti di Frida, Il mio vestito è appeso là, il volto della star del cinema domina un enorme cartellone pubblicitario).
L'America rappresentata è quella delle macchine e del cinema, di cui. Frida non è affatto entusiasta. È il paese dei "gringos", come si legge nella sua lettera datata "3 maggio 1931" e proiettata in scena:

"I gringos non mi piacciono proprio per niente....Non mi piace il loro modo di essere, la loro ipocrisia e il loro disgustoso puritanesimo, i loro sermoni protestanti, la loro boria; questo loro essere "very decent" e "very proper"."

Il grave incidente non le permetteva di avere figli, e nonostante questo, con ostinazione non volle rinunciare a provarci.
Dopo un taglio cesareo, un secondo aborto spontaneo quando era in America, a Detroit, il 4 luglio 1932, finì in un lago di sangue.
Dallo schermo si intravede dentro una vasca da bagno inclinata, Frida, immersa nel suo stesso sangue. Nel buio della scena fuoriescono solo i contorni della vasca intinti di un rosso denso, le braccia intorno alla testa in una posa da farfalla e un'abbagliante luce bianca. La scena ricalca chiaramente, per quanto riguarda la scelta dell'insolito punto di vista, il quadro della Kahlo Ciò che l'acqua mi ha dato in cui l'acqua e il contenuto della vasca da bagno sembra quasi rovesciarsi addosso all'osservatore.
Viene portata all'ospedale. Terribile ricordo dipinto in Ospedale Henry Ford.



In America Rivera stava intanto dipingendo il grande murale per il Rockfeller Center di New York: Men at the crossroads. Ecco Diego in cima alla scala mentre il murale si mostra davanti al pubblico in sala in tutta la sua forza espressiva e comunicativa.
L'incontro con la capitalista America è segnato dalla lettera, proiettata in scena, di Rockfeller di "sostituire quell'uomo tra la folla somigliante a Lenin perché è una vera offesa"". Il murale, nonostante la protesta popolare, viene coperto ancora incompiuto con carta catramata e pannelli e successivamente staccato e distrutto. Piccolo particolare: nello spettacolo è Diego che lo fa in mille pezzi, non la committenza: l'immagine sullo schermo del murale si trasforma in tanti piccoli pezzi di un puzzle. In scena proiezioni di fotografie dell'epoca e filmati in bianco e nero: la produzione industriale, la grande Depressione, ma anche l'America del jazz, delle orchestre.
Lettera del 1933: Cristina la sorella di Frida, viene abbandonata dal marito e Frida la invita ad andare a vivere con loro, insieme con la figlia. In seguito Cristina diventa l'amante di Diego, episodio raccontato nello spettacolo come un "passaggio d'abito" durante una danza. Ogni situazione significativa viene sottolineata da una frase di Frida tratta dal diario e da un quadro.
Divorzio. Viene proiettato il Doppio ritratto. È il quadro più famoso, anche quello più importante quanto a dimensioni (i quadri della Kahlo, come i retablos votivi, hanno piccole dimensioni). È la Frida addolorata per i continui tradimenti. Con un bisturi recide la vena da cui scorre il suo stesso sangue. Il cuore è esposto. Herrera definisce quella dualità una "immagine di autonutrimento: Frida conforta, protegge o fortifica se stessa". E' la separazione a seguito del quale si taglierà i lunghi capelli. Ancora una volta, dolore.
All'episodio dell'incontro e del legame amoroso con Trotzky, esiliato politico in Messico e loro ospite, è dedicato pochissimo spazio. Lei è vestita con i suoi vestiti con grandi balze e lo scialle. E' Diego a presentarli, loro si abbracciano nascosti dietro un cavalletto.
Ritorna il baldacchino questa volta in verticale: dalla piccola apertura la protagonista racconta del sogno, minuziosamente descritto nel diario, di quando da piccola aveva disegnato con un dito nel vetro appannato una porta e aveva immaginato di attraversarla e incontrare un'amica:


"Dovevo avere all'incirca sei anni, quando sperimentai con intensità l'amicizia immaginaria con una bambina più o meno della mia età. Avevo alitato sul vetro della finestra della mia camera di allora e con un dito avevo disegnato una porta. Piena di gioia e di urgenza, varcai quella "soglia" con l'immaginazione... Scesi in fretta nel cuore della terra dove la mia amica immaginaria stava aspettando. Non ricordo né la sua faccia né il suo colore. Ma so che era allegra, che rideva molto. Senza emettere suono. Era agile e danzava come se il suo corpo non avesse peso. La seguivo in tutti i suoi movimenti e mentre danzava le raccontavo i miei problemi segreti. Quali? Non ricordo. Ma dalla mia voce sapeva tutto di me...Ritornando alla finestra rientrai dalla stessa porta disegnata sul vetro. Quando? Quanto tempo avevo passato con lei? Non so. Forse un secondo, forse migliaia di anni... ero felice. Annebbiai la porta con la mano ed essa scomparve".

E' con lei l'altro personaggio femminile, il doppio del sogno, colei che non l'abbandona mai, la morte e che ora assume la posizione sdraiata sopra il suo baldacchino come lo scheletro del suo dipinto Il sogno (1940).



Frida è ora nel letto d'ospedale: il cavalletto da verticale si inclina in orizzontale mentre lei è letteralmente avvinghiata sopra, e diventa tavola operatoria; i medici le pongono una placca di metallo come una seconda colonna vertebrale. Frida, sollevata in alto e sospesa, avvolta da costringenti cinghie bianche, diventa un quadro: è La colonna spezzata dipinto nel 1944 dopo l'ennesimo intervento chirurgico alla colonna vertebrale che l'aveva costretta e imprigionata in un busto rigido.



Alla separazione seguì una seconda unione in America, l'8 dicembre 1940, il giorno del cinquattaquattresimo compleanno di Diego. La struttura a baldacchino, levate le appendici verticali, diventa un tavolo di ufficio: davanti a una ufficiale del Governo americano si risposano per la seconda volta. Lui è malato: ha un tumore al pene e accetta la cobaltoterapia che lo guarirà, mentre non guarirà mai dall'infedeltà..
1954: davanti al tavolo sono sedute ora una di fronte all'altra Frida e la morte. Tra loro quello che sembra lo specchio che Frida usava per i suoi autoritratti ("La mia vita un'ossessione: io") in realtà è solo una cornice di legno vuota. La figura femminile l'attraversa, le due donne si uniscono e si allontanano su una sola sedia a rotelle (a Frida era stata amputata una gamba pochi mesi prima di morire).

"La morte non è niente. Ho passato la mia vita a morire".
"Uniremo le ceneri io e Diego e saremo come due soli nell'eternità".


Alcune considerazioni

Come si deduce dalla trama dello spettacolo, mancano all'appello moltissimi episodi chiave della vita di Frida Kahlo: la formazione artistica e intellettuale presso la Scuola Nazionale Preparatoria, quella della "generazione illuminata dagli ultimi fulgori della rivoluzione armata". Niente della Frida dipinta da Diego nella Ballata della rivoluzione proletaria mentre distribuisce fucili ai rivoluzionari, né della finale svolta "sociale" e del suo interesse per i testi marxisti a partire dal 1948 (quando fu riammessa nel Partito comunista). Niente della straordinaria cerimonia funebre in cui la Kahlo viene acclamata nel suo ultimo viaggio come vera eroina comunista, mentre la cassa veniva coperta da una bandiera rossa con falce e martello. Manca anche Tina Modotti. Nessun accenno, inoltre, alla lunga serie di amanti (uomini e donne). Trattata marginalmente la sua storia con Trotzky. Niente sul suo controverso rapporto con i Surrealisti ("Pensavano che fossi surrealista ma non lo ero. Non ho dipinto sogni. Ho dipinto la mia realtà").
Si è piuttosto privilegiato, più che la tematica politica, la relazione intima tra Frida e Diego, ricca di folgorante passione, ma anche di tradimenti, di dolore, di separazioni e di ricongiungimenti; di coraggio e di stoica sopportazione del male fisico; dell'arte che racconta la Storia e di quella che svela la verità indicibile della sofferenza.
Lepage ha strutturato l'intero spettacolo sul piano della "visualità", riducendo al minimo l'apparato tecnologico: le pitture di Frida e di Diego sono restituite in proiezione nella loro vivacità di forme e colori che riempiono la scena con una vera esplosione di immagini di straordinario impatto e di grande suggestione, mentre le parole del diario vengono mostrate nella loro calligrafia originaria, diventano così una vera e propria "scrittura di luce".


London Calling
di Veronica Picciafuoco

MOTHER CLAP'S MOLLY HOUSE
di Mark Ravenhill

 
ALDWICH THEATRE
COVENT GARDEN
 
Regia: Nicholas Hytner
Musica: Matthew Scott
Coreografia: Giles Cadle
Luci : Rick Fisher
 
Dopo essere stato trasferito dal National Theatre, Southbank, continuerà fino al 16 marzo la programmazione del “musical” di Ravenhill sulla diversa consapevolezza della realtà gay di oggi rispetto a ieri.
Mark Ravenhill viene considerato uno dei capisaldi del “in-yer-face theatre” o anche teatro di rottura, aggressivo e provocativo come suggerisce il nome stesso scelto per questa corrente di nuovi scrittori britannici degli anni '90.
Per poter dire di avere visto uno spettacolo “in-yer-face” ci si deve sicuramente sentire confrontati con scene e linguaggio decisamente trasgressivo, sesso, violenza e umiliazione che in qualche modo provocano e si scontrano con l'inautenticità dei nostri tabù e delle nostre paure, provocando il pubblico a una reazione, qualsiasi.
Può essere la voglia di uscire perché non capaci di sostenere un tale “affronto alla decenza”, o saltare sul palco e “SSTTOOPPPP, The show can't go on”. Oppure, tornare a casa, con la voglia di rivedere uno spettacolo simile, dove quello stato di subbuglio, non chiaramente giustificato, viene apprezzato avendo sicuramente smosso qualcosa, masochismo o presa di coscenza?
Mark Ravenhill, sfacciato scrittore britannico che con il suo Shopping and Fucking (tra l'altro attualmente messo in scena a Genova dal Teatro della Tosse) ha sbalordito Shaftesbury Avenue (West End) facendo parlare di sé su scala internazionale ed è diventato un'icona della nuova drammaturgia inglese.

***

Il racconto di Ravenhill si basa su un fenomeno sociale ricorrente nel 18° secolo, dove uomini - eterosessuali e non - pagavano per indossare abbigliamento femminile e per poter automaticamente “giocare” ruoli adatti all'abito.
Anche se in modo molto generale, questa storia mi ha riportato al testo di Jean Genet, Il balcone, dove uomini facoltosi della città pagavano la “Madre” del bordello per essere liberi di indossare per un breve momento le vesti che desideravano e viverne le fantasie più intime in una loro realtà illusoria.
Anche il testo di Ravenhill solleva alcune questioni sulla realtà sociale e sull'identità sessuale; i ruoli giocati ne fanno un motivo di racconto e rappresentazione .
Siamo a Londra, 1726 e Mrs Tull incorre in problemi finanziari. Il lavoro è vicino al fallimento, le sgualdrine del quartiere diventano sempre più esigenti, il marito muore. Un uomo si presenta vestito da donna e l'apprendista scompare di notte tornando con strane scuse.
Come farà Mrs Tull a recuperare la situazione?
Contemporaneamente nel secondo atto, con semplici cambiamenti di set, siamo catapultati nel 2001, dove Will e Josh, nel loro lussuoso appartamento di città, tra droga, uomini e rock & roll si annoiano, dopo avere apertamente simulato atti sessuali e sfoggiato mutandine firmate rigorosamente Calvin Klein.
Se considero questo spettacolo come semplice divertimento, mi sono goduta momenti come gli interventi celesti del “cupido post-gay” che interviene con gorgheggi musicali, il gran finale alla “Village People”, o l'atmosfera di gioco e scoperta che permea in particolare il primo atto.
Lo stile, decisamente forzato e un po' kitsch, ha reso i personaggi una caricatura di loro stessi perdendo spesso qualsiasi connotazione reale.
Se guardo al contesto sociale, Ravenhill critica chiaramente la realtà di oggi in cui sentimenti e altruismo non esistono più. Resta solamente il sesso, privato di alcuna connotazione romantica e dove il singolo trionfa nella sua individualità ed egoismo.

“Le anime delicate potrebbero risentirsi, ma senza alcun dubbio Ravenhill accusa la trasformazione del sesso in uno sporco affare” ("The Guardian")

Nel complesso ho trovato una certa lentezza nella messa in scena, e una volta uscita dal teatro ero più annoiata che in subbuglio. Il linguaggio e le scene “hard” hanno sicuramente rispettato la corrente di cui Ravenhill fa' parte, ma non basta.
È sicuramente un “teatro-musical” di nuova concezione, dove oltre al racconto si vuole lanciare un messaggio.

NOH performance
FUNABENKEI E TAMAKATSURA
di AKIRA MATSUI

At SOAS, NOH GROUP, Università di Londra
Teatro-Conferenza condotti da Dr. David Hughes, specializzato in musicologia orientale
Festival di Brighton / Marzo 2002


600 anni fa, il maestro giapponese Zeami, disse: “Ogni fenomeno nell'universo si sviluppa attraverso una specifica progressione”. Anche il canto di un uccello o il rumore di un insetto seguono questa progressione. Questo è chiamato Jo, Ha, Kyu.

Motokiyo Zeami (d.C. 1363-1443) è il fondatore del teatro NOH. Egli fuse due stili teatrali, Sarugaku una forma di divertimento prevalentemente circense o teatro di strada; e Dergaku, che ha le sue origini nei canti e danze popolari.
Nonostante questo teatro, sviluppatosi nel tempo, sia nella forma che nella tecnica, possa sembrare estremamente stilizzato e difficile da comprendere per la cultura occidentale, in realtà le sue convenzioni si basano su un'accurata osservazione dei semplici risvolti della natura e della sua progressione ritmica.

Jo = inizio o apertura;
Ha = pausa o sviluppo;
Khy = climax
.

Ogni singolo gesto, così come l'intera rappresentazione nella sua globalità, segue questa struttura della progressione costante.
I temi affrontati e la drammaturgia sono estremamente semplici. Il crescendo di singole emozioni è presentato grazie alla composizione dell'uso dello spazio (geometria) e della musica.
I principali temi trattati sono la compassione, la tolleranza, l'amore, la gelosia, la vendetta e lo spirito del samurai.
Una persona triste non parlerà dei suoi sentimenti, ma si esprimerà servendosi di immagini tratte dalla natura, per esempio “l'estate è finita”. Le emozioni si spiegano mediante la natura. Raramente il personaggio si esprime attraverso il proprio ego, ma sempre come un riflesso della natura stessa.
Come nel teatro greco, il teatro NOH mantiene una gerarchia interna escludendo inoltre le donne i cui ruoli sono interpretati da uomini. I ruoli principali (SHITÈ) richiedono l'uso della maschera.
E' stato invitato a condurre questo spettacolo Akira Matsui, maestro di una della cinque principali scuole di teatro classico NOH, la scuola Kita. Negli ultimi 25 anni è stato molto attivo nel diffondere la cultura NOH in tutto il mondo, organizzando spettacoli e stages in USA, Canada, Australia, Inghilterra, Germania, India, Indonesia, Polonia. E' stato coinvolto in progetti su Shakespeare, Georgia O'Keefe, WB Yeats. Nel '98 è stato designato dal Governo Giapponese come asset importante per la cultura giapponese, ricevendo un riconoscimento al merito per la cultura.
In quest'occasione, sono stati rappresentati alcuni estratti da tre principali testi classici spesso ricorrenti nelle storie NOH.

***

Sono arrivata allo spettacolo particolarmente curiosa di osservarlo dal punto di vista del movimento giacché questa tecnica viene spesso paragonata alla Commedia dell'Arte, o alle Danze Balinesi o al Kathakali, in quanto derivano tutte dalla cultura popolare di cui mantengono gli stereotipi pur sviluppandosi nel tempo.
Ogni personaggio, ritornando al senso della ritmica progressione naturale, si muove con una precisione assoluta e ogni minimo movimento ha una sua denominazione, corrisponde ad una situazione o un sentimento. L'insieme di questi movimenti che, se sezionati, diventano un'infinità, dà un senso di precisione assoluta. La richiesta costante di presenza fisica e di spirito, fa sì che questi attori si muovano sul palco come su una piattaforma mobile, un po' come certi carillons di una volta.
I loro piccoli piedi, in calzini bianchi con il pollice separato dal resto delle dita, la pianta del piede rigorosamente piatta mai inarcata, appoggia prima su un punto preciso del tallone che poi va ad appoggiarsi lentamente sul resto della pianta, susseguendosi con precisa fluidità. A seconda del personaggio le braccia assumeranno una specifica posizione e ripeterà sempre e soltanto un certo tipo di movimenti muovendosi secondo un cammino ben preciso. Peso del corpo in avanti, indietro, collo, spalle, il linguaggio del corpo che segue piccoli movimenti frammentari che ne compongono uno preciso e distinto, tipico di quella maschera.
La rappresentazione si costruisce cumulando tutti quei dettagli superficiali, TAI-YU

TAI = fiore
YU = essenza


Concentrandosi sul TAI, l'interiore, il fenomeno, automaticamente YU, l'espressione si manifesterà. Se TAI è la luna, YU è la luce riflessa (yin/ yang).
Una forte concentrazione aiutata dalla tecnica zen, dove tutto è uno, rende lo spettatore calamitato, incantato dalla fluidità dei movimenti e, pur non comprendendo con immediatezza il significato di ogni gesto, azione e intenzione, si perde in questa compattezza dove nulla è lasciato al caso. Disciplina rigorosa, presenza fisica e scenica. I piedi sembrano scivolare leggeri, poi veloci, poi imponenti, si elevano in aria e ripiombano al suolo con tutto il peso del corpo e suoni sordi. Il corpo, che in una progressione ritmica di movimenti prefissati può essere tanto piccolo, fragile e tentennate nell'impersonare un donna, può trasformarsi, allungarsi, allargarsi e mostrare aggressività e imponenza nell'impersonare per esempio un guerriero. L'attore e le sue dimensioni sono sempre le stesse eppure, sarà un effetto ottico, ma sembra di osservare due persone diverse con un'aura di energia ben distinta.
Maschere più stilizzate alternate a maschere con lunghi e crespi capelli corvini. Espressioni dipinte, la donna fragile o il guerriero. Le figure minori e i bambini non richiedono maschera, ma sempre indossano costumi abbondanti nei decori, nelle forme e nel peso.
I suoni emessi da flauti e tamburi accompagnati da vocalizzi gutturali, dati dalle 4 vocali dell'alfabeto giapponese A E I U, armonici, puntuali e pungenti. (Tamburo: immaginate un piccolo bilanciere dove all'estremità invece dei pesi tondi ci siano due piatti di porcellana da frutta riccamente decorati).
Impossibile non seguire, facile perdersi in quest'onda che nasce in mondi lontani e s'infrange contro le insenature delle nostre scogliere interiori.
Vedere tutto questo ha riconfermato la mia convinzione dell'importanza della tecnica e del “focus” (concentrazione), che permettono all'attore e alla sua esecuzione di rivelarsi nella sua libertà di espressione. Da gabbia-prigione a libertà di espressione.
Ancora una volta, Londra ha permesso di testimoniare una fetta della cultura orientale a noi lontana solo in apparenza, poiché in realtà rispecchia gli elementi naturali universali: fuoco, acqua, aria e terra.
Mi considero fortunata di avere partecipato a questo scorcio di cultura e il fatto che la performance non fosse in un teatro ufficiale, ha reso il tutto molto più accessibile e tangibile permettendo di partecipare a quei momenti di vita intimi, accoglienti e famigliari che si nascondono in tanti angoli della città.
Un ringraziamento particolare al Dr. D. Hughes, professore in musicologia orientale, che ha condotto la serata con grande umiltà e ironia, ripercorrendo piccoli e buffi aneddoti dei suoi primi contatti con il mondo orientale.


Appuntamento al prossimo numero.
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