(44) 28.10.02

L'editoriale
Trent'anni dopo
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro2002/ateatro44.asp#44and1
 
Le notizie
del numero 44
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro2002/ateatro44.asp#44and2
 
La bella crisi
Scritto per la Biennale Teatro
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro2002/ateatro44.asp#44and3
 
Ivrea 67. Convegno per un nuovo teatro
Il documento
di AA. VV.

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro2002/ateatro44.asp#44and4
 
Ivrea 87. Realtà e utopie
Intorno al "nuovo teatro"
di Gianfranco Capitta, Gianni Manzella e Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro2002/ateatro44.asp#44and5
 
Santarcangelo 94. Per una nuova idea di teatro pubblico
Proposta di riflessione per la rinascita di un teatro d'arte
di AA. VV.

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro2002/ateatro44.asp#44and6
 
Confini ed essenze
Ma che c'entra il teatro con Valentino Rossi?
di Renzo Martinelli

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro2002/ateatro44.asp#44and7
 
Politica teatro immagini
Note in margine a The Merchant of Venice di Peter Sellars
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro2002/ateatro44.asp#44and8
 
Un Mediterraneo interattivo
Le nuove videoinstallazioni interattive di Studio Azzurro a Castel S. Elmo di Napoli
di Andrea Balzola

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro2002/ateatro44.htm#44and9
 
Video Albertazzi
Il web-diary delle prove del Concerto per Roma
di Giacomo Verde

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro2001/ateatro44.asp#44and10
 

 

L'editoriale
Trent'anni dopo
di Redazione ateatro

 
Il 44 è un numero importante. Ma lo sono anche il 68, l’87 e il 94. E forse anche il 2002...
Per cominciare, ateatro 44 offre una riflessione sullo stato attuale del teatro italiano, anche in vista dell’incontro su Nuovo teatro e vecchie istituzioni previsto a Castiglioncello per il 23 e 24 novembre 2002, e prova a inserirla in una prospettiva storica.
ateatro 44 ripropone tre importanti documenti:

: : Ivrea 67, ovvero il manifesto del Convegno per un nuovo teatro, tenuto a Ivrea dal 9 al 12 giugno 1967; è una tappa fondamentale nell’evoluzione del teatro italiano e vale la pena di soffermarsi con attenzione anche sui nomi dei firmatari: Corrado Augias, Giuseppe Bartolucci, Marco Bellocchio, Carmelo Bene, Cathy Berberian, Sylvano Bussotti, Antonio Calenda e Virginio Gazzolo, Ettore Capriolo, Liliana Cavani, Leo De Berardinis, Massimo De Vita e Nuccio Ambrosino, Edoardo Fadini, Roberto Guicciardini, Roberto Lerici, Sergio Liberovici, Emanuele Luzzati, Franco Nonnis, Franco Quadri, Carlo Quartucci e il Teatrogruppo, Luca Ronconi, Giuliano Scabia, Aldo Trionfo.

: : : Ivrea 87
, il documento preparato e letto vent’anni dopo da Gianfranco Capitta, Gianni Manzella e Oliviero Ponte di Pino al secondo convegno di Ivrea, tenutosi tra il 25 e il 27 settembre 1987 sotto l’insegna Memorie e utopie; il progetto dell’iniziativa era firmato da quattro "veterani" di Ivrea 67, Giuseppe Bartolucci, Ettore Capriolo, Edoardo Fadini e Franco Quadri (mentre il coordinamento era affidato allo stesso Quadri a Piero Racanicchi e Alfredo Tradardi); ai tre relatori (che all’epoca scrivevano sul "manifesto") era stata chiesta una diagnosi del sistema teatrale italiano, nelle sue varie articolazioni (grazie per la trascrizione a Federica Fracassi, Alessia De Petris e Elena Cerasetti);

: : : : Santarcangelo 94
, ovvero il testo pubblicato nel 1994 (il primo della direzione di Leo De Berardinis) nel Quaderno di Santarcangelo e frutto dell’elaborazione di una serie di festival: Asti Teatro, Festival di Santarcangelo, Festival di Polverigi, Volterra Teatro e Toscana delle Culture; è uno schema di lavoro che è stato ripreso nella scorsa estate, con una diversa "nazionale dei festival" (grazie a Claudio x lo scanning).

Abbiamo pensato di presentare questi tre testi per più di una ragione. In primo luogo, fanno parte della storia recente del teatro italiano e ci sembra utile metterli a disposizione di studiosi e studenti; in particolare, contrassegnano alcune delle occasioni in cui il nuovo teatro ha cercato di rendersi consapevole della propria posizione all’interno del sistema teatrale, tra analisi e rivendicazioni, recriminazioni e utopie.
In secondo luogo, posti l’uno accanto all’altro, mostrano con feroce evidenza molti, troppi punti di stallo. Questa constatazione non deve spingere solo a rimarcare la rigidità del quadro e l’ottusità delle varie gerarchie (teatrali, politiche, giornalistiche...), ma soprattutto a cogliere le debolezze di chi questo scenario ha provato - invano - a cambiare.
Accanto a questi testi, La bella crisi, una riflessione su questi ultimi decenni di teatro, a firma di Oliviero Ponte di Pino, che verrà pubblicata nel volume in cui la Biennale fa il punto sull’ultimo quadriennio e si proietta verso il futuro.
Ovviamente ricondurre la discussione attualmente in corso all’interno del nuovo teatro a una serie di precedenti storici può essere una forzatura: il panorama culturale e politico esterno al teatro è in continua evoluzione, e anche all’interno del mondo teatrale le tendenze e le suddivisioni di un tempo hanno perso il loro senso. Non necessariamente chi si affaccia oggi sulle scene potrà riconoscersi in questi schemi. Ma come sempre il dibattito è aperto, sia nella rivista sia nei forum. Quella di Renzo Martinelli è una prima reazione, noi speriamo che ne arrivino anche altre.
Un secondo elemento di novità riguarda il sito. Stiamo progressivamente passando da una struttura statica a una dinamica (insomma, un database), che permetterà di consultare con maggiore facilità il ricco archivio di ateatro: sono ormai centinaia e centinaia tra saggi, interviste, recensioni, interventi, polemiche, documenti... All’inizio probabilmente avremo qualche problema tecnico (abbiate pazienza), ma cercheremo di migliorare...
Però se testate qua e là, e date pareri e suggerimenti, ve ne saremo grati.
Infine, tnm 44, più multimediale che mai, si muove su tre fronti: Anna Maria Monteverdi prepara l’arrivo a Roma di Peter Sellars (dal 7 novembre The Children of Herakles da Euripide) con una puntuale analisi della sua messinscena più studiata, The Merchant of Venice; Andrea Balzola ha esplorato a Napoli l’ultima opera di Studio Azzurro, la videoinstallazione Meditazioni Mediterraneo; Giacomo Verde rfacconta dall’interno la sua esperienza al Teatro di Roma e ci fa capire che succede quando Giorgio Albertazzi, Anna Proclemer e Uto Ughi si multimedializzano.
 


 

Le notizie
del numero 44
di Redazione ateatro

 
NEWS
(ma le trovate anche nei forum)
 
LIBRI E LIBRI Insomma, ce ne sono diversi, di libri nuovi:
Wole Soyinka, Le Baccanti di Euripide. Un rito di comunione, cura e traduzione di Francesca Lamioni, Editrice Zona, Città di Castello, 2002, 112 pagine, euro 12,00. Insomma, la curatrice la conoscete (è autrice dei saggi sul teatro yoruba pubblicati negli scrsi numeri di ateatro), lo scrittore nigeriano ha vinto il Premio Nobel, le Baccanti è un testo di qualche interesse...
 
Fausto Paravidino, Teatro, Gabriele, 2 Fratelli, , La malattia della famiglia M, Natura morta in un fosso, Genova 01, Noccioline, introduzione di Franco Quadri, Ubulibri, Milano, 2002, 276 pagine, euro 18,00. Fausto Paravidino, 25 anni, è una delle rare rivelazioni della drammaturgia italiana, Premio Tondelli e Premio Ubu, ha ricevuto commissioni da National Theatre e dal Royal Court. Il volume raccoglie in pratica tutto quello che ha scritto finora per il teatro, compresi i due recenti testi ispirati ai fatti di Genova.
 
Dario Fo, Il paese dei mezàrat. I miei primi sette anni (e qualcuno in più), Feltrinelli, Milano, 2002, 200 pagine, euro 14,00. Insomma, l’infanzia di Dario Fo raccontata da lui medesimo.
 
AA. VV., Ahi ahi i figliol di troia non muoiono mai, La grande scuola dei comici toscani, a cura di Nico Garrone, Zelig, Milano, 2001, 224 pagine, euro 12,39. Perché in Toscana a fari ridere non ci sono solo Benigni (volontariamente) e Zeffirelli (involontariamente). Insomma, le migliori gag di Vinicio Gioli, Paolo Poli, Riccardo Marasco, Marco Messeri, Giorgio Ariani, Bertolucci-Benigni, Carlo Monni, Alessandro Benvenuti, David Riondino, Paolo Hendel, Sergio Bini (Bustric!!!), Aringa & Verdurini, Giorgio Panariello, Leonardo Pieraccioni, Massimo Ceccherini, Lucia Poli, Anna Meacci, Katia Beni... Più testi di Roberto Incerti, Francesco Tei, Gian Franco d’Onofrio, Rodolfo di Giammarco, Roberto Incerti, Nico Garrone, Gabriele Rizza, Gianluca Citterio, Carlo Conti e Simona Maggiorelli. Realizzato in collaborazione con l’Associazione Culturale Radicondoli Arte.
 
FIRENZE SOCIAL FORUM
Nell’ambito delle giornate no-global di Firenze, è previsto un Forum Sociale del Teatro; info sul forum teatro di guerra
 
L’EREDITA’ DI CARMELO
Esplode - in concomitanza con la grande kermesse di Torino - la polemica sul testamento di Carmelo Bene. Del convegno e della mostra cercheremo di parlare nel prossimo numero, se volete sapere qualcosa di più sulla polemica, trovate materiale nel forum sul teatro di guerra.
 
GRAZ 2003 - CONCORSO DI DRAMMATURGIA VICINI SCONOSCIUTI Conferenze stampa con presentazione dei vincitori e del progetto a Roma il 29 ottobre e a Milano il 30 ottobre, presso gli Istituti Austriaci di Cultura. Altre info nel forum La nuova drammaturgia italiana.
 


 

La bella crisi
Scritto per la Biennale Teatro
di Oliviero Ponte di Pino

 
Questo testo verrà pubblicato prossimamente nel volume La Biennale di Venezia, DMT-danzamusicateatro. Report 2002, Marsilio, Venezia 2002.
ateatro lo presenta in anteprima con la speranza che possa offrire alcuni spunti per la discussione attualmente in corso (vedi il forum Nuovo teatro vecchie istituzioni), insieme ai documenti di Ivre 67, Ivrea 87 e Santarcangelo 94.

 
Sono passati più o meno trent'anni da quando ho visto i primi spettacoli che mi hanno emozionato: il Sogno di Brook, la Santa Giovanna di Brecht-Strehler, Nostra Signora dei Turchi con Carmelo Bene dietro la vetrata a dire che ci sono due specie di cretini, e poco dopo Cecchi, Perlini, Ronconi e Castri, il Carrozzone e la Gaia Scienza, Leo De Berardinis... Trent'anni dalle prime letture che mi hanno fatto immaginare un teatro diverso, in grado di cambiare - se non la realtà - almeno chi lo guarda: Artaud, Brecht, Ripellino, Per un teatro povero, Paradise Now, ma anche le annate di "Sipario" e L'avangiardia teatrale italiana di Franco Quadri...
Per trent'anni, dopo quello strano contagio, a teatro ho continuato a tornarci. Per abitudine, forse. Per gratitudine nei confronti di artisti che hanno segnato il mio percorso. Ma anche e soprattutto per continuare a cercare, in una forma d'arte e di comunicazione così antiquata (nell'epoca del cinema, della televisione, di internet), qualcosa che solo il teatro può dare, e che non riesco a definire: forse perché è indefinibile, forse perché non sono capace di individuare i suoi confini e la sua essenza, forse perché questa essenza cambia con il passare degli anni, sia per me sia per chi il teatro lo fa.

In quegli anni Settanta sembrano contrapporsi due idee di teatro, oltre naturalmente al teatro commerciale. Da un lato c'è il frutto delle grandi tragedie e delle grandi speranze della guerra e del dopoguerra. Il motto del Piccolo Teatro di Grassi e Strehler - "Un teatro d'arte per tutti" - condensa le sue caratteristiche e i suoi obiettivi. L'evento teatrale come fatto artistico (e dunque non semplicemente commerciale o d'evasione), in accordo con le grandi esperienze della regia europea. L'impegno a diffondere sia i testi classici (con particolare attenzione alla drammaturgia nazionale, in un paese privo di una tradizione unitaria) sia gli autori contemporanei, dopo che l'autarchia fascista aveva reso marginali molte delle più interessanti esperienze drammaturgiche del Novecento. E poi una forma d'arte non elitaria, non riservata solo al pubblico borghese, con la sua fame di svago e di rituali sociali, ma aperta a una comunità che, dopo le sanguinose divisioni della guerra, potesse democraticamente portare sulla scena le divisioni e i conflitti che animano la dinamica sociale, per renderli visibili e affrontarli in termini innanzitutto culturali e in seguito eventualmente politici.
Insomma, un teatro nazional-popolare, che presuppone cioè una qualche omogeneità in un pubblico che va dalla borghesia colta ai ceti popolari (nella Milano industriale di quegli anni, in primo luogo operai), passando per insegnanti, studenti e intellettuali. Un pubblico - si badi bene - ancora da inventare e costruire. Un pubblico da mobilitare attraverso una opportuna attività promozionale nel tessuto sociale, nelle scuole, nei luoghi di lavoro...
In Italia il modello - è storia nota - è il Piccolo Teatro, con la sua doppia anima artistica (Strehler) e organizzativa (Grassi): una diarchia forse irripetibile ma destinata a diventare un modello - forse perché adatta anche ai grandi teatri lirici, dove è necessario di mediare tra una tradizione consolidata e quasi ingessata in un repertorio pressoché museale e un feroce mercato impresariale.
In quegli stessi anni Settanta il modello degli stabili (e del teatro di regia) sta però andando in crisi. In apparenza le cause delle difficoltà sono da un lato l'involuzione di quel modello di teatro pubblico, la sua progressiva burocratizzazione (con i guasti prodotti dalla lottizzazione politica, con i suoi corollari di malaffare clientelare e gli equilibrismi nella scelta del repertorio), e nella pratica la rinuncia a molti dei suoi compiti istituzionali (ricambio generazionale, valorizzazione della drammaturgia nazionale e della nuova drammaturgia, ricerca sul linguaggio...); dall'altro le spinte egualitarie del '68 e la radicalizzazione politica impongono un rinnovato impegno sociale e nuove forme organizzative, spingendo verso il decentramento, rinnegando lo strapotere del regista e valorizzando i ruoli tecnici.
I motivi della crisi sono più profondi. Il pubblico nazional-popolare è stato inglobato (e annullato in molte della sue valenze) dal pubblico massa della tv, l'articolazione in classi stratificate soppiantata dalla polverizzazione in una società di individui-consumatori. E' entrata in crisi "dall'interno" anche la poetica della regia, con la sua illusione umanistica di cogliere il senso ultimo - se non della realtà - almeno di un testo. Quella fiducia è stata incrinata dalle letture sospettose di marxismo, psicanalisi e strutturalismo, in una ennesima crisi della coscienza europea (peraltro queste crisi ricorrenti fanno parte anch'esse della tradizione occidentale).

Proprio negli anni Sessanta e Settanta comincia ad affermarsi una nuova tradizione, che riprende e porta in teatro il metodo delle avanguardie. E' forse la prima volta che questo accade in maniera sistematica, dopo una serie di geniali anticipazioni: le teorie di Gordon Craig e Artaud, i manifesti futuristi, l'entusiasmante stagione del teatro russo tra la Rivoluzione e Stalin, gli esperimenti del Bauhaus. E' una tradizione legata al concetto di avanguardia. Dunque non si rivolge a priori all'intero corpo sociale (almeno all'inizio), ma a una élite che non è tale per censo ma per scelta, per gusto e per affinità culturali. Non si tratta di convogliare gli spettatori verso uno spazio condiviso. E' invece il pubblico che individua luoghi, spesso marginali, in cui cercare una propria identità (o mettere in crisi la propria) e sceglie esperienze da condividere e in cui riconoscersi. Non a caso questo teatro nasce e cresce spesso fuori dai teatri: nelle strade, nelle cantine, nelle gallerie d'arte...
Si privilegiano dunque il rischio rispetto al consenso, il progetto rispetto all'opera, la riflessione sulla forma rispetto alla comunicazione. L'arte (il teatro) diventa un terreno in cui praticare e affinare nuove forme di percezione della realtà, o la percezione delle nuove forme di una realtà in rapido cambiamento. Si sperimentano nuove forme sociali, dal comunitarismo del Living alle varie forme di gruppo. Si reinventa il rapporto con il proprio corpo (Grotwski e Barba, il Living, la nuova danza). Si rimettono in discussioni i fondamenti dello spazio-tempo (Bob Wilson). Si lavora alla demolizione del concetto stesso di rappresentazione (la grandiosa radicalità di Carmelo Bene). Ci si confronta con il nuovo paesaggio metropolitano, l'orizzonte industriale o post-industriale e l'infosfera (la post-avanguardia italiana, la Fura dels Baus, l'esplorazione dei new media).
La contaminazione tra le arti e l'assimilazione delle novità tecnologiche fanno parte del metodo di lavoro. Come fa parte del patrimonio delle avanguardie la necessità di rompere il confine tra l'arte e la realtà, di "uscire dalla cornice" (mentre non a caso, in quegli stessi anni, una regia in crisi, e dunque portata a riflettere sul proprio medium, mette spesso in scena la propria "cornice"). Il teatro spesso esce dai teatri e invade gli spazi urbani e naturali, ma anche i luoghi della quotidianità e dell'intimità, dagli spettacoli d'appartamento al "teatro nelle case".
I vari elementi che compongono l'evento teatrale non sono più subordinati al testo, che per il teatro di regia custodiva sia il senso sia l'aura dell'opera d'arte, rispetto alla pratica degradata dello spettacolo. Al contrario, in un'ottica che riecheggia le teorizzazioni sulla "società dello spettacolo", i vari elementi (spazio, suono, musica, attori...) vengono elevati a pari dignità, in una rivoluzione che interessa anche la critica, il modo di "leggere" lo spettacolo. Dunque non un testo da scavare, ma un gioco di associazioni. Dunque non un regista che si fa in qualche modo portavoce e garante dell'autore, ma un creatore in proprio - o meglio, molto spesso, un artefice che si fa carico di sollecitare e plasmare la creatività altrui: questo atteggiamento avrà conseguenze notevoli nel lavoro con gli attori, attraverso la sistematica pratica dell'improvvisazione.
In una società più complessa e frantumata, dove non è possibile ricondurre a priori i vari elementi che la compongono verso una qualche forma di unità (se non quella del pubblico-massa della tv generalista), in una società che tende a nascondere (o meglio, a ignorare) i conflitti, questo nuovo teatro lavora con ostinazione sulla differenza. Spesso nasce con motivazioni esplicitamente politiche (l'anarchismo militante del Living, la protesta contro la guerra del Vietnam del Bread & Puppett, la difesa della dignità degli immigrati del Teatro Campesino), oppure come rivendicazione di una diversità e identità all'interno del corpo sociale (le varie forme di teatro gay e femminista). Mettersi in scena può dunque diventare un mezzo per accrescere la propria consapevolezza, inventare nuove forme di socializzazione, definire la propria identità, presentarla e imporla in un'arena pubblica e condivisa. Il teatro si mette in rapporto con l'alterità, o forse ritrova nei "diversi" la radicale diversità dell'attore. Entra nei manicomi (Scabia e Basaglia a Trieste) o nelle carceri (in Italia Armando Punzo). Lavora con gli handicappati (da Bob Wilson ai francesi Bateau Mouche) e con gli immigrati (o meglio, sulla scia di Peter Brook, costruisce compagnie multiculturali).
L'espressione "teatro pubblico" e la sua funzione sociale assumono un significato diverso e non privo di ambiguità. Su un piatto della bilancia ci sono ovviamente un valore condiviso e sostenuto da una lunga tradizione di mecenatismo come l'eccellenza e la ricerca artistica, la necessità di non chiudersi in una tradizione immutabile e museale ma di sperimentare nuovi linguaggi e forme (in questo, il nuovo teatro è un bene culturale, e va difeso in accordo con quanto stabilito dall'art. 9 della Costituzione); e poi il valore sociale di molte esperienze teatrali attente a fasce sociali ritenute degne di particolare attenzione. Ma già questi due ordini di motivi rischiano di entrare in rotta di collisione, a seconda che si privilegi l'arte per l'arte o il valore d'uso del teatro (fermo restando che c'è per fortuna chi sa conciliare l'uno e l'altro). Sull'altro piatto della bilancia, oltre a questa contraddizione, ci sono la natura elitaria e spesso marginale di queste esperienze e a volte la loro radicalità politica (che spesso spinge a cercare la marginalizzazione).
Forse il vero punto di forza di tutte queste esperienze è però un altro. Esprimono infatti esigenze estetiche (ma non solo) che emergono dal ventre del corpo sociale: a volte sono destinate a scomparire senza lasciare tracce, altre volte verranno invece assorbite dai mainstream (e magari finiranno in tv...). Il nuovo teatro svolge dunque una importante attività di sonda (e di stimolo), e per questo si fa carico di una indispensabile funzione pubblica e va dunque sostenuto, anche nelle sue punte più radicali e innovative (che spesso in ogni caso raggiungono una altissima qualità estetica). Hanno un valore esemplare, fungono da catalizzatore, danno una forma a realtà emergenti.
Dal punto di vista organizzativo il nuovo teatro si muove spesso su terreni inesplorati, con grande generosità. E' una continua invenzione di relazioni e rapporti, un inesauribile sforzo di fantasia per far fruttare al massimo risorse minime. In una esperienza tutta centrata sulla creazione artistica, più che verso la conquista di nuovi spettatori e di nuovi circuiti, però, i quadri organizzativi (spesso autoformatisi all'interno dei gruppi) devono gestire nuove forme di rapporti interni alla compagnia, progettare diverse forme di socialità, invadere altri spazi, costruire intrecci inediti con il "fuori dal teatro".

Nel giro di pochi anni, però, anche il modello del nuovo teatro entra in crisi. Da un lato la sensazione di "fine della storia", un progresso che sembra avanzare veloce in molte direzioni diverse, svuota di senso la nozione stessa di avanguardia e la sua ambiziosa progettualità, sia essa politica o artistica. Per altri versi, le infinite possibilità di scelta delle poetiche teatrali (con le loro sottili differenze di gusto, interessi, identità, linguaggio, sensibilità) rischiano di assomigliare troppo al grande supermercato della civiltà degli individui consumatori. In molti casi l'élitarismo, la ricerca di un proprio linguaggio, l'attenzione identitaria (della singola compagnia o del gruppo sociale cui fa riferimento) si rivelano una trappola. Oppure, al contrario, il gioco delle contaminazioni - indispensabile per arricchire e alimentare la poetica della compagnia - rischia di sospingerla verso la genericità. Più in generale, il nuovo teatro difficilmente riesce a diventare una tradizione, a costruire una pedagogia, a darsi un metodo che non sia la fedeltà a una ispirazione personale.
In Italia, dove il nuovo teatro si è sviluppato e continua a crescere e rinnovarsi con sorprendente vitalità, il sostegno pubblico non è mancato, anche se in uno scenario di penuria e dispersione delle risorse e soprattutto di una impermeabilità tra nuovo e vecchio che sta portando a una irreversibile frattura generazionale all'interno del nostro sistema. Per irrobustire e fornire una sponda prima di tutto organizzativa alla ricerca, soprattutto per quanto riguarda la circuitazione e il rapporto con il pubblico, alla fine degli anni Ottanta era stata escogitata la formula dei Centri, una soluzione che si è presto dimostrata inefficace. I Centri di ricerca non hanno infatti potuto garantire un organico sviluppo delle esperienze già riconosciute (per le quali sono diventati rapidamente dei co-produttori con meno risorse dei "veri" stabili) e non hanno saputo monitorare con sufficiente attenzione il nuovo, che infatti ha tentato di auto-organizzarsi e promuoversi autonomamente. Così i Centri si sono spesso arroccati in una difesa del (proprio) esistente o hanno imbastito progetti di scarso respiro.

Così si è passati - sia sul versante del teatro di regia sia su quello delle avanguardie - da un teatro dell'utopia a un teatro della crisi. Un teatro che rifiuta schemi generali e onnicomprensivi, che non conosce più contrapposizioni forti, che ritiene legittime le più svariate linee di ricerca e le giudica solo dai risultati, parallelamente a quello che accade in altri ambiti artistici. Un teatro senza tendenze o etichette. Un teatro che deve ogni giorno ritrovare le proprie motivazioni e ragioni di essere.
Il rapporto con la tradizione - quella letteraria, ma anche quella della pratica teatrale - è sempre più sfaccettato e complesso, segnato da discontinuità e riemersioni sorprendenti. La regia ha assunto da tempo forme e modalità di lavoro assai variegate. Il rapporto con i testi offre un'ampia gamma di opzioni tra fedeltà di lettura e libertà invenzione, senza far gridare al sacrilegio.
Crisi significa dunque costante ricerca di un nuovo senso del teatro, da recuperare spesso là dove scorrono la vita e la storia, là dove i conflitti e le contraddizioni sono più marcate - anche se magari non ancora visibili (può significare, dunque, recupero della potenza e della forma di un teatro civile, se non esplicitamente politico). Significa contaminazione di pratiche e linguaggi, sconfinamenti in altre forme espressive - ma anche incontro e intreccio di varie tradizioni e idee di teatro.
Quella attuale dovrebbe dunque essere una fase di estrema libertà creativa, di sorprese e di invenzioni - che non devono ovviamente limitarsi alla gratificazione della meraviglia e dell'insolito, oppure all'operazione pianificata a tavolino per riempire uno spazio produttivo o organizzativo, ma devono trovare ogni volta una necessità in primo luogo artistica e almeno esistenziale, se non etica.
Tuttavia crisi significa anche, per l'Italia, paralisi di un sistema teatrale irrigidito, sempre più sclerotizzato in rigide corporazioni burocratico-organizzative. Il teatro italiano, pubblico e privato, non riesce a rinnovare le proprie strutture portanti e da anni non assicura più neppure un minimo (e drammaticamente indispensabile) ricambio generazionale. Di più, queste corporazioni tendono inevitabilmente ad asservirsi a una logica di scambio che porta a una serie di sotto-reti distributive chiuse e autoreferenziali, dove la qualità della proposta ha un ruolo marginale.
Sul versante privato la tradizione del grande attore di carisma, in grado di mobilitare il pubblico, è stata spazzata via da ondate di cinema e televisione, che hanno assorbito energie e talenti e inoltre costruiscono la popolarità delle star su basi che poco hanno a che vedere con la qualità della presenza teatrale. Prospera dunque un teatro che pare servire in primo luogo a incassare i dividenti di una fama conquistata altrove (ci sono, per fortuna e come sempre, le eccezioni: in questo campo, basta fare i nomi di Mariangela Melato o Lina Sastri). La tradizione del teatro di regia continua a sopravvivere in alcune punte alte (dal punto di vista artistico), ma con sforzi creativi ed economici sempre maggiori da parte sia degli artisti sia delle istituzioni che li sostengono - come se fosse un lusso che il teatro italiano può concedersi solo in casi eccezionali: vedi al Piccolo di Milano le gigantesche invenzioni di Luca Ronconi, che però quest'anno non produrrà nel suo teatro alcun lavoro nuovo, o le difficoltà di Massimo Castri allontanato da Torino.
Le strutture produttive degli stabili, ma soprattutto la loro vischiosa organizzazione interna, paiono refrattari a qualunque innovazione. Lo confermano, oltre a numerose produzioni di registi cresciuti nel "nuovo teatro" presso vari stabili e approdate in messinscene irrisolte, anche le battaglie (e le sconfitte) di Mario Martone e Roma e Massimo Paganelli a Prato, ai quali si potevano facilmente perdonare i brutti spettacoli ma non di incrinare consolidati meccanismi e strutture di potere. In molte altre realtà, la sacralità del parco buoi degli abbonati continua a essere usata come arma preventiva contro il minimo cambiamento.
Ai centri già s'è accennato. Va aggiunto che spesso le disposizioni ministeriali hanno previsto altissime soglie d'ingresso al sostegno pubblico per i nuovi soggetti e in pratica hanno affidato proprio ai Centri, ovvero le realtà che dovrebbero scoprire e promuovere il nuovo, il compito di tenerlo ai margini.
Nell'insieme Centri e compagnie, ovvero gli artefici del nuovo teatro - salvo la luminosa eccezione di Carmelo Bene - si sono troppo spesso accontentati di una marginalità faticosa, che garantisce alti margini di libertà - ma impone anche scarse responsabilità e ridotte possibilità di incidere sull'insieme del sistema teatrale. Così una delle maggiori risorse del teatro e della vita culturale italiani - una quantità di talenti e di energie che hanno incredibilmente continuato a rinnovarsi e rivitalizzarsi decennio dopo decennio - è rimasta nel ghetto: salvo trovare nelle sue punte più alte (da Giorgio Barberio Corsetti alla Societas Raffaello Sanzio, da Pippo Delbono ai Motus a Fanny & Alexander, solo per fare qualche nome) attenzione e accoglienza all'estero, e spesso finanziamenti dai più prestigiosi festival internazionali. Perché in Italia, prima ancora che di risorse, quello del teatro d'arte è un problema di visibilità e di circuitazione. Di spazi che mancano e di produzioni interessanti e pochissimo replicate e viste.
In questo scenario, il margine di rischio da parte delle varie istituzioni teatrali si è andato progressivamente riducendo (salvo le solite e sempre più lodevoli eccezioni). A questa scelta hanno contribuito la progressiva riduzione di risorse, la sclerotizzazione del sistema, il timore di contraddire il gusto di un pubblico-massa omologato dalla televisione, l'incapacità di immaginare nuove relazioni con il pubblico.
Periodicamente l'ideologia del mercato, ovvero una pedissequa applicazione di principi "privatistici" a un'attività artistica e pubblica, investe il teatro di attese destinate a restare insoddisfatte (vedi la messianica attesa degli sponsor):purtroppo trova spesso eco nelle varie proposte di legge, a destra - dove sarebbe logico aspettarselo - come a sinistra. L'impatto è stato particolarmente duro sui teatri stabili, costretti a rincorrere moduli che non appartengono al teatro pubblico, ottenendo due risultati negativi: perdere la propria identità e turbare il mercato.
Un ruolo determinate in questa involuzione l'ha anche il peso di decenni di politica lottizzatoria, i cui guasti si sono prevedibilmente aggravati con l'introduzione del maggioritario. I consigli d'amministrazione di un ente culturale dovrebbero provvedere alle nomine dei direttori, dando così un indirizzo generale; e dovrebbero periodicamente valutare i risultati. Per il resto il loro compito dovrebbe essere quello di garantire, oltre alla correttezza del piano economico e finanziario, l'autonomia artistica e creativa: insomma, difendere gli artisti che lo stesso consiglio ha nominato. Questo presupporrebbe che, a differenza di quel che accade in Italia, le presidenze e direzioni degli stabili non vengano considerati vitalizi, ma rinnovati in base al raggiungimento di obiettivi prefissati. Sempre più spesso consiglieri di nomina politica (e con competenze specifiche a volte assai vaghe o addirittura risibili) intervengono nel merito delle scelte artistiche; in più di un caso, un membro del consiglio d'amministrazione di uno stabile si è fatto addirittura artefice di eventi prodotti dal medesimo teatro, senza destare alcuno scandalo. In una situazione del genere, qualunque direzione diventa ostaggio di equilibrismi e pressioni politiche che nulla hanno a che vedere con un progetto artistico di ampio respiro.
Resta ancora aperto il nodo della normativa sul teatro: la legge da sempre attesa e promessa sembra restare allo stadio di progetto (per fortuna, vista la pochezza dei disegni di legge presentati); di più, la divisione delle competenze tra Stato e Regioni continua a restare materia di discussione. L'unica certezza pare essere la progressiva riduzione delle risorse destinate alla cultura e dunque al teatro.

Che fare, in questa situazione?

Il teatro d'arte (e con questo si intende un teatro che non si muove solo in una logica di mercato, di consenso e di consumo, ma che si considera prima di tutto un bene culturale) è da anni una delle principali risorse della vita culturale italiana. Le successive generazioni (o ondate) di nuove realtà (compagnie, a registi, autori, autori) rappresentano un importante segnale di vitalità (dal punto di vista sociologico) e hanno raggiunto un notevole livello artistico. Quest'area va dunque valorizzata e riscattata dal ghetto in cui si trova. Va riconosciuto il suo valore di bene culturale e di servizio pubblico. Perché questo avvenga, è necessaria una maggiore consapevolezza da parte di tutti: in primo luogo da parte degli artefici del nuovo teatro, che troppo spesso hanno finito per accontentarsi di un ruolo culturalmente nobile e d'avanguardia ma spesso poco incisivo sugli assetti complessivi del sistema teatrale italiano. E' anche necessario che questo ruolo venga riconosciuto sia da parte del teatro in generale (e dei suoi referenti politici, a livello locale e centrale) sia da parte del mondo dell'informazione. E' una battaglia culturale importante, decisiva, dove il ruolo-guida di una istituzione come la Biennale - magari in rapporto con altri festival italiani e internazionali - può essere molto significativo.

E' indispensabile rompere le gabbie in cui si sono rinchiusi i vari frammenti di teatro vivo (stabili pubblici, centri, stabili privati, compagnie di ricerca e quant'altro). Sono divisioni che non hanno più senso, né dal punto di vista artistico, né dal punto di vista del pubblico, né dal punto di vista delle strutture. (Proprio per questo il fallimento della direzione di Mario Martone a Roma, al di là di ogni personalismo, rappresenta una gravissima battuta d'arresto nella riforma del teatro pubblico: sancisce l'obsoleta contrapposizione tra regia e avanguardia, legittima la ghettizzazione e l'autoghettizzazione del nuovo, e infatti ha innescato un ricambio generazionale al contrario.) L'incontro tra questi diversi teatri deve dunque avvenire sia sul terreno estetico (con progetti precisi di incontri e contaminazioni) sia su quello organizzativo. (Da questo punto di vista, l'assimilazione nel programma del Piccolo Teatro di alcune punte del nuovo teatro risponde a una logica impresariale, ma finora appare privo di progettualità).
Va anche sottolineato che su alcuni terreni il nuovo teatro ha sopperito alle carenze degli stabili, lavorando in particolare sul repertorio, su un rapporto meno ingessato sia con i classici sia con autori contemporanei: vedi, solo per fare qualche esempio tra i più facili, il lavoro dei Magazzini sulla Divina Commedia o su Testori, l'attenzione di Servillo e Martone a Moscato, De Filippo e Viviani, la recente rivisitazione delle Metamorfosi da parte di Barberio Corsetti.
Dal punto di vista dell'organizzazione anche nel nuovo teatro, tra l'altro, ci sono pratiche interessanti, dal Festival di Santarcangelo a Ravenna Teatro, da Castrovillari (sostenuta dall'ETI) a Area 06. Bisognerebbe capire se sono in qualche modo esportabili, o addirittura generalizzabili.

Uno dei principali problemi del nuovo teatro è la scarsa visibilità: la ridotta circolazione degli spettacoli. In questi anni né l'ETI né la rete dei Centri, che avrebbero avuto istituzionalmente questo compito, sono riuscite a garantire un numero di piazze adeguato a spettacoli importanti, che il pubblico ha dimostrato di gradire. L'ETI si è spesso salvata l'anima con minirassegne ghettizzanti (altre attività, per quanto meritorie, sono rimaste eccezioni). I Centri filiati da una compagnia hanno finito troppo spesso per limitarsi a garantirne la sopravvivenza. Gli altri, quelli nati in primo luogo su un progetto organizzativo e che avrebbero dovuto offrire una sponda organizzativa e distributiva alle compagnie di produzione, si sono spesso piegati alla logica dello scambio e hanno preferito inventarsi progetti produttivi in proprio che - al di là di singole realizzazioni di qualche interesse - non hanno avuto continuità progettuale (in alternativa, attraverso le coproduzioni sono diventati un ulteriore filtro alla distribuzione delle risorse, senza particolare valore aggiunto in termini organizzativi e di circuitazione).
Su questo versante è necessaria una profonda riflessione: è indispensabile immaginare e realizzare nuove modalità organizzative. Se possibile, sarebbe opportuno individuare una rete di soggetti (di luoghi) in grado di coprire l'intero territorio nazionale (al di là dell'appartenenza a questa o quella categoria ministeriale): teatri (e in genere spazi agibili), festival, compagnie, quel che resta dei circuiti regionali...

E' inoltre opportuno sostenere (dando visibilità e sostegno) le esperienze che lavorano con particolare attenzione su alcuni versanti:
1. ricambio generazionale: dunque compagnie e gruppi che formano e valorizzano in primo luogo i giovani autori (un terreno particolarmente delicato, negli ultimi decenni, ma dove in questi ultimi anni non sono mancate le novità di rilievo); così come quelle che pongono al centro dell'attenzione il lavoro dell'attore (e anche su questo versante ci sono numerose novità);
2. rinnovamento del linguaggio teatrale, con la possibilità di interessare nuove fasce di pubblico; solo per fare alcuni esempi, in questi anni si sta lavorando su forme di teatro musicale, di teatrodanza e di teatro di poesia, sulla contaminazione con le arti visive, sull'integrazione con i nuovi media e con le nuove tecnologie; tutto questo porterà a un ampliamento e a una ridefinizione della natura dell'evento teatrale;
3. attenzione ai gruppi che lavorano con le diverse forme della marginalità sociale, nell'ambito di una più generale attenzione al teatro civile.
4. Questi sono ovviamente i terreni sui quali da un lato è doveroso centrare l'attenzione, in quanto rispondono ai compiti istituzionali di un teatro pubblico. Peraltro in questi ambiti si sono già avuti risultati importanti, che devono essere ancora valorizzati, ed è prevedibile avere sviluppi di qualche interesse.
Il problema, come sempre, è che il nuovo arriverà, ancora una volta, dove meno ce lo aspettiamo. Si tratta dunque di avere l'attenzione e l'umiltà di coglierlo, la prontezza e l'intelligenza per permettergli di crescere e svilupparsi.
 


 

Ivrea 67. Convegno per un nuovo teatro
Il documento
di AA. VV.

 
La lotta per il teatro è qualcosa di molto più importante di una questione estetica.
In una situazione di progressiva involuzione, estesa a molti settori chiave della vita nazionale, in questi anni si è assistito all’inaridimento della vita teatrale, resa ancora più grave e subdola dall’attuale stato di apparente floridezza. Apparenza pericolosa in quanto nasconde l’invecchiamento e il mancato adeguamento delle strutture; la crescente ingerenza della burocrazia politica e amministrativa nei teatri pubblici, il monopolio dei gruppi di potere; la sordità di fronte al più significativo repertorio internazionale; la complice disattenzione nella quale sono state spente le iniziative sperimentali a cui si è tentato di dare vita nel corso di questi anni.
Come conseguenza la realtà italiana e i mutamenti intervenuti nella nostra società così come le nuove te4cniche drammatiche e i modi espressivi elaborati in altri paesi non hanno trovato che isolati e sporadici riferimenti nella nostra produzione teatrale. Sono mancati d’altra parte il ricambio e l’aggiornamento delle tecniche di recitazione, l’analisi e l’applicazione di rinnovati materiali di linguaggio, gestici e plastici, mentre lo stesso innegabile affinamento della regia ha finito per risolversi in un estenuato perfezionismo di sterile applicazione, contro ogni possibilità di rinnovamento dei quadri.
La critica drammatica istituzionale, da suo canto, invece di svolgere una funzione di provocazione e di stimolo su questa situazione generale, ha contribuito al mantenimento dello stato di fatto e si è troppo facilmente allineata alle posizioni ufficiali, ancorando linguaggio e metodi a modalità ormai superate con una rinuncia di fatto al suo compito primo di ricerca e di interpretazione.
Con poche consapevoli eccezioni il nostro teatro, oltre a dimostrarsi incapace di svolgere un discorso suo proprio, si è così venuto a trovare in una posizione di completo isolamento, sistematicamente impermeabile cioè a ogni innovazione culturale, alle ricerche e agli esiti della scrittura poetica e del romanzo, alla sperimentazione cinematografica, ai discorsi aperti dalla nuova musica e dalle molteplici esperienze pittoriche e plastiche.
La nostra attività di scrittori, critici, registi, scenografi, musicisti, attori, tecnici del teatro, anche se di diverse ideologie, attestati su differenti posizioni di lavoro, ci fa sentire estranei ai modi, alle mentalità e alle esperienze dei teatro cosiddetto ufficiale e alla politica ufficiale nei riguardi del teatro.
Per la diversità dei metodi e dell’ispirazione che improntano l’attività in cui siamo impegnati, noi non ci poniamo come gruppo almeno nel senso in cui questa parola ha caratterizzato passate esperienze della vita letteraria e teatrale. AL di sopra di ogni diversità pensiamo però di poter individuare una sufficiente forza di coesione nel trovarci comunque di fronte a problemi di lavoro fondamentalmente analoghi.
L’attività finora svolta da ciascuno di noi può costituire perciò la base di un comune lavoro che si proponga come fine di suscitare, raccogliere, valorizzare, difendere nuove forze e tendenze del teatro, in un continuo rapporto di scambio con tutte le altre manifestazioni artistiche, sulla linea delle esigenze delle nuove generazioni teatrali. Non crediamo infatti utile né necessario partire da zero, convinti come siamo che sia possibile essere tanto più precisi quanto più si è coscienti delle esperienze che sono già state iniziate e portate avanti da noi altrove.
Oggi s’impone la necessità di adeguare gli strumenti critici agli elementi tecnico-formali dello spettacolo, di affrontare l’impegno drammaturgico senza alcuna soggezione agli schemi prestabiliti, con un recupero di tecniche e una proposta di altre tecniche, con l’uso di attori fuori dalla linea accademica e quotidiana, con la scelta di ambientazioni che riccreino lo spazio scenico.
Non c’è nuova strada nel teatro come in ogni altra attività dell’arte e della scienza che non implichi di necessità estesi margini di errore. Noi li rivendichiamo. Non vogliamo dar vita a un teatro clandestino per pochi iniziati, né rimanere esclusi dalle possibilità offerte dalle organizzazioni di pubblico alle quali riteniamo di aver diritto; rifiutiamo però un’attività ufficialmente definita come sperimentale, ma costretta ad allinearsi alle posizioni dominanti.
Il teatro deve poter arrivare alla contestazione assoluta e totale.
Di tutto questo e dei problemi connessi all’aspetto organizzativo, è nostra intenzione discutere in un convegno di apertura e di verifica che indiciamo per la fine della presente stagione teatrale e al quale invitiamo quanti, in base alle esperienza raggiunte, si sentano di condividere con noi gli obiettivi contro cui operare e questo appello di urgente lavoro. Non crediamo infatti alle contestazioni puramente grammaticali. Crediamo invece che ci si possa servire del teatro per insinuare dei dubbi, per rompere delle prospettive, per togliere delle maschere, mettere in moto qualche pensiero. Crediamo in un teatro pieno di interrogativi, di dimostrazioni giuste o sbagliate, di gesti contemporanei.

Corrado Augias Giuseppe Bartolucci Marco Bellocchio Carmelo Bene Cathy Berberian Sylvano Bussotti Antonio Calenda e Virginio Gazzolo Ettore Capriolo Liliana Cavani Leo De Berardinis Massimo De Vita e Nuccio Ambrosino Edoardo Fadini Roberto Guicciardini Roberto Lerici Sergio Liberovici Emanuele Luzzati Franco Nonnis Franco Quadri Carlo Quartucci e il Teatrogruppo Luca Ronconi Giuliano Scabia Aldo Trionfo

 


 

Ivrea 87. Realtà e utopie
Intorno al "nuovo teatro"
di Gianfranco Capitta, Gianni Manzella e Oliviero Ponte di Pino

 
1. Vent'anni dopo
Nel 1967 il «nuovo teatro» costituiva un'area di marginalità, contrapposta al teatro ufficiale. Nato per attestare la propria differenza, cercata e voluta, il «nuovo teatro» proclamava il proprio diritto «alla contestazione assoluta e totale».
Esisteva una netta distinzione tra «vecchio» e «nuovo»: era possibile individuare un confine - estetico, ideologico, economico, organizzativo, produttivo - tra alternativa e istituzione, marginalità e integrazione.
Oggi queste discriminanti sono in gran parte cadute. La lunga marcia verso e dentro le istituzioni ha trasformato e arricchito il paesaggio. Ma l'ha contemporaneamente reso meno decifrabile.
Vent'anni fa era forse possibile trovare riferimenti comuni, un terreno d'intesa. Ma oggi, in cosa si riconoscono, dentro e fuori dal teatro, quelli che hanno risposto all'appello d'Ivrea 1987.
Certo, siamo tutti in qualche modo figli di Ivrea 1967. Ma è sufficiente? Questa genealogia può costituire la base di un movimento?

2. Un teatro della differenza?

Tutti i presenti - e più in generale tutti gli «operatori teatrali», dai gruppi ai critici - sono sovvenzionati, in maggiore o minore misura, in forme diverse, dirette o indirette, da Ministero, Enti Locali, etc. Di più: nessuno vuole (ed è in grado) di tornare indietro, di liberarsi dall'abbraccio delle istituzioni; al contrario, tutti chiedono più spazi e soldi.
Una spinta originariamente eversiva si ritrova, vent'anni dopo, intrappolata nella rete delle istituzioni, ridotta (o elevataÖ) essa stessa al rango di piccola istituzione.

2a - Da una parte ecco la frustrazione di potenziali eversori condannati a un regime sempre più labirintico di circolari e carte bollate, anticamere di assessori e di portaborse, e via di questo passo, in un moltiplicarsi di possibili finanziatori. E' un piccolo dramma che si replica - o si dovrebbe replicare - ogni giorno nelle coscienze di chi è costretto a partecipare a un gioco di cui non conosce le regole.
E' possibile rivendicare «il diritto alla contestazione totale», la necessità di un teatro d'opposizione e contemporaneamente farsi sovvenzionare dallo Stato? Quale prezzo si paga - anche in termini di creatività, di libertà - entrando in questo meccanismo? Fino a che punto è giusto subirlo? E' possibile semplificarlo, de-burocratizzarlo?
Ancora: è diverso produrre cultura per un ente pubblico o per uno sponsor privato? In che misura il disinvolto passaggio da un produttore a un altro - magari di diverso colore politico o formazione culturale - influisce sul prodotto, sul risultato espressivo?

2b - Ogni discorso sul «nuovo teatro» coinvolge l'intero teatro. Il «nuovo» non costituisce più un continente a sé, ma è entrato a far parte a pieno titolo del «sistema teatrale», di cui rispecchia ormai vizi e virtù. Il «nuovo» non è più un'isola (o un continente) contrapposto e alternativo al vecchio, ma lo attraversa in tutte le sue articolazioni istituzionali: non lo si trova soltanto nell'area della «sperimentazione» (anzi, molta sperimentazione è ormai molto «vecchia»), ma invade tutti i campi, compreso il teatro privato (con l'eccezione di quasi tutti i teatri pubblici, che al nuovo si sono sempre dimostrati impermeabili - anche se non manca chi sta cercando di vendere l'usato come nuovo, vedi il Piccolo Teatro Studio: ma questo è un altro problema).
Tuttavia è innegabile che il «nuovo» si trovi in una situazione di ghettizzazione: in termini di finanziamenti, ma anche in termini di pubblico, di distribuzione, di attenzione da parte dei mezzi di informazione. Si tratta di una marginalizzazione certamente imposta e subita, ma anche, in certa misura, accettata e spesso utilizzata come comodo, ma fuorviante alibi.

3. I Teatri Pubblici

I teatri pubblici («gli stabili», tanto per intenderci) stanno attraversando una spaventosa crisi, con amministrazioni controllate, dimissioni a raffica, vuoto progettuale, deficit cronici, a dispetto delle apparenze che mostrano in scena ieri come oggi gli stessi testi: il Galileo di Brecht , allora di Strehler ora di Scaparro. Il loro unico intento sembra attualmente la creazione degli eventi e del loro rumore promozionale.
Rispetto al nuovo teatro, il loro atteggiamento è oscillato fra la rimozione assoluta e la strumentalizzazione che ha finito per stritolare i gruppi e gli artisti interessati all'interno di meccanismi a loro estranei (dai tempi di Nanni e Perlini al Teatro di Roma fino a Carmelo Bene).
Quando i «giovani» vengono chiamati in causa, si tratta in genere di operazioni di facciata (vedi Thierry Salmon assimilato a Arturo Brachetti) oppure si presentano secondo i modelli già omologati del teatro tradizionale (è il caso di Sciaccaluga e Barbareschi a Genova, di Pagliaro a Milano).
Un'unica eccezione: il Centro Teatrale Bresciano, che ha molto investito in progettualità e giovani, senza peraltro avere mai la forza di portare a maturazione questi investimenti: a cominciare da una circolazione frammentaria e inadeguata.

4. Il Teatro Privato
Il «nuovo teatro» ha cercato di trovare spazio anche all'interno del teatro «privato» (è il caso del Gran Teatro di Carlo Cecchi, del Teatro dell'Elfo e di numerose ex- cooperative semi- pubbliche, cancellate in maniera assolutamente indolore da due anni di circolari ministeriali) risultando però quasi sempre penalizzato dai meccanismi che sovrintendono a questo settore, a cominciare da quello delle sovvenzioni (oltretutto «truccate» dal crescente peso degli abbonamenti, da cui escono i dati trionfalistici dei Biglietti d'Oro di Taormina e affini); la stessa strozzatura del 50% di posti occupati nell'arco della stagione ha imposto a molte compagnie scelte a volte lontane dalla loro storia e necessità (salvo ricorrere alla pratica corrente dei falsi borderò e biglietti).
Non si capisce perché e come il «nuovo teatro» (ma anche il teatro pubblico) possa essere assimilato a quello dichiaratamente commerciale o di puro intrattenimento (da Garinei e Giovannini a Lucio Ardenzi, ma anche la retorica sentimentale di Gabriele Lavia).

5.
I Centri
Resta tuttora ambigua la loro struttura e funzione: vi si sovrappongono infatti produzione e distribuzione, con la prevalenza della seconda sulla prima e una conseguente inadeguata circolazione degli spettacoli.
Quanto alla produzione, il passaggio dei finanziamenti dall'ente erogatore alla compagnia trova nella struttura del Centro un intermediario talvolta dispersivo ( fino a pretendere diritti in qualità di «agenti» per gli «artisti del centro») o quantomeno con interessi non sempre coincidenti con quelli delle compagnie, con un meccanismo di «coazione produttiva» che esclude la possibilità di progettare oltre il breve periodo.
Resta irrisolto il nodo della divisione dei borderò, spartiti in base accordi «riservati» da centri e compagnie, con un grave danno soprattutto per queste ultime, anche per quanto riguarda la distribuzione dei contributi.
La situazione di monopolio settoriale e locale di alcuni Centri rischia inoltre di coprire, agli occhi degli organismi centrali, realtà locali a volte assai più articolate.

6. Le Scuole

Manca totalmente una politica di formazione teatrale. A parte i due casi di scuole di lunga tradizione come l'Accademia d'Arte Drammatica di Roma e la Civica Scuola d'Arte Drammatica di Milano, soggette peraltro a condizionamenti e indirizzi pedagogici spesso contingenti e episodici, il è affidato alla buona volontà dei singoli, con tutti i rischi di iniziative private a mero scopo di lucro ( oggi in frenetico sviluppo ), oppure di strutture «locali» con l'unico controllo della burocrazia regionale.
Il maggior prestigio e le maggiori energie finiscono spesso per essere risucchiati da esperienze che si condensano semplicemente intorno al carisma del grande nome.
Nessuna dignità è mai stata riconosciuta alle esperienze di formazione «dal basso» che il nuovo teatro ha promosso in questi anni.
La carenza di iniziative di formazione è particolarmente grave in campo organizzativo. Ne risulta una carenza di «quadri» professionalmente preparati a coprire alcuni ruoli-chiave e una conseguente confusione di compiti: sono sempre più numerosi i gruppi e i registi soprattutto giovani - costretti a fare gli agenti e gli organizzatori di se stessi.

7. Il Ministero dello Spettacolo
In attesa della tanto agognata (ma ormai mitica) legge di riforma, il Ministero (che si occupa di Sport e Turismo oltre che di Spettacolo), erogatore primo di sopravvivenza al teatro italiano, continua ad adeguarsi e criteri inaccettabili e assurdi, privilegiando chi opera a scopo speculativo ed è già premiato dalle perversioni del botteghino: come erogare contributi a un'industria privata (già favorita dalle istituzioni pubbliche con una distribuzione pilotata) proporzionalmente al suo attivo. Inoltre vige il principio della sovvenzione a pioggia (anche con cifre irrisorie, insufficienti a qualsiasi seria attività) in virtù del principio di cooptazione che porta inevitabilmente a un meccanismo di tipo corporativo. Si arriva così alla situazione senza via d'uscita dell'ultima stagione in cui è stato lecito lamentarsi contemporaneamente del drastico taglio dei contributi e dell'eccessiva crescita del numero di compagnie beneficiarie (circa 350).
Senza dimenticare la solo parziale trasparenza della composizione delle Commissioni Ministeriali e la pratica segreta dell'entità dei contributi erogati (con la discrezionalità che il sempre possibile aggiustamento dopo i ricorsi comporta); e paradossi tragicomici come la divisione dei 14 teatri italiani in 4 categorie diverse.
Entro tale ottica burocratica, va comunque dato atto al Ministero di essere il più rigoroso e conseguenziale degli enti erogatori.

8. Ente Teatrale Italiano
Dei dieci miliardi e mezzo che l'Eti riceve ogni anno dal Ministero (cui vanno aggiunti i lauti incassi del botteghino) solo 500 milioni - il 5%- vanno a quella che ancora viene definita «attività di sperimentazione» (dove la decotta Atisp continua a mantenere un ruolo egemone).
Per il resto l'Eti si preoccupa soprattutto dei propri cartelloni, infarciti di nomi altisonanti e di assoluta sicurezza, in concorrenza o complicità con il teatro privato. Accanto a discutibili e dispendiose vetrine all'estero, l'Eti sovvenziona in Italia una serie di rassegne che sono la più diretta conseguenza della ghettizzazione del «nuovo», confinato in spazi e situazioni volutamente separate dal teatro che si vuole «ufficiale»: infatti solo eccezionalmente vengono ospitate dall'Eti nei suoi spazi augusti. Queste rassegne hanno inoltre la caratteristica di non finanziare direttamente i gruppi, ma di venire «appaltate» a realtà locali che finiscono per risponderne discrezionalmente (è la polemica lanciata lo scorso anno da Raimondi e Caporossi a Milano), per poi magari riequilibrare con imposizioni ed esclusioni (di gruppi e di intere rassegne), scelte ritenute troppo autonome.
L'iniziativa che dell'Eti doveva rappresentare l'avanzamento più scoperto nel settore del «nuovo, teatro», ha presentato gruppi scelti secondo criteri misteriosi e che tuttavia consentono oggi ad alcuni di quegli stessi di apparire nelle programmazioni «87-'88 sullo stesso piano - si fa per dire - di Gassman e compagnia.
La responsabilità maggiore dell'Eti consiste però nell'uso ristretto e discrezionale degli spazi pubblici che amministra, spesso in situazione di monopolio, e nelle condizioni a cui sottopone i gruppi per esservi ammessi.

9. La distribuzione
Le grosse agenzie e i grossi produttori privati, grazie anche al loro rapporto privilegiato con l'Eti, impongono interi «pacchetti» di spettacoli, facendo terra bruciata: in questo modo opere francamente mediocri si garantiscono alte presenze e incassi e dunque proporzionate sovvenzioni.
Oltretutto la libera circolazione degli spettacoli risulta strozzata fra poche persone e agenzie che sono contemporaneamente «consulenti» dei teatri produttori (pubblici e privati) e dei teatri ospitanti, delle compagnie interessate al giro o allo scambio e dei festival. E' un meccanismo talmente diffuso che gli stessi teatri pubblici finiscono per rivolgersi sempre più spesso alle agenzie private.
Particolarmente grave è inoltre l'obbligo - implicito nelle circolari ministeriali - della produzione, che ha gonfiato l'offerta di spettacoli e distolte energie e competenze dalla distribuzione, dirottandole sulla produzione: con l'ovvio risultato di programmazioni di teatri ispirate al famigerato principio dello scambio che ha portato in poche stagioni numerose compagnie (soprattutto le ex cooperative) sull'orlo della bancarotta finanziaria e artistica; il problema rischia di porsi in termini non molto diversi anche per i centri.

10. L'Agis
L'Agis è insieme il portavoce e il garante di questo sistema costruito sulla difesa a oltranza di un sistema di «autogoverno corporativo» in cui prevalgono interessi particolari e in cui la stessa divisione in categorie finisce per costituire un grave limite (basti pensare che la sperimentazione vi è rappresentata dall'Atisp).
Per illustrare la sua posizione, basta leggere un brano della relazione redatta in occasione degli ultimi Biglietti d'Oro, a proposito dell'aumento del numero delle compagnie sovvenzionate dal Ministero:
«La differenza è imputabile a una specie di promozione in massa di complessi minori a titoli superiori di sovvenzione. Si tratta per lo più di complessi che non beneficiano, di converso, di elevati indici di fruizione degli spettacoli offerti, come attestano le basse medie di frequenze (anche al di sotto delle 50 unità a recite). (Ö) I criteri adottati a riguardo possono definirsi antiselettivi, alimentando quelle tendenze all'assistenzialismo che restano mal conciliabili con le caratteristiche proprie degli investimenti produttivi: che sono tali se incidono positivamente sul volume dell'attività e della relativa fruizione, in funzione, sperabilmente, della qualità;»
Ovvero, un mercato distorto diventa in questo modo metro «oggettivo» di giudizio; le sovvenzioni che vanno ad aggiungersi agli utili delle compagnie private diventano «investimenti produttivi».

11. Gli enti locali
Gli enti locali hanno segnato il ritorno della committenza a teatro; per molti gruppi - e non solo per loro - costituiscono una delle poche occasioni per far effettivamente nascere uno spettacolo. Sono ormai diventati una delle fonti primarie di sostentamento dei gruppi ma obbediscono sempre più spesso a una propria logica autopromozionale, concedendo contributi preferibilmente a iniziative di immediato ritorno pubblicitario ma di scarso respiro artistico e culturale. Il campo in cui si sono voluti impegnare - se pur di loro squisita competenza - è quello degli spazi. Nei rari casi in cui l'hanno fatto, hanno sempre avuto dei ripensamenti che hanno cambiato la destinazione appena acquisita di quello spazio «riconquistato» (il Fabbricone a Prato, la Limonaia di Villa Torlonia a Roma, il Teatro dei Magazzini a Scandicci, la Palazzina Liberty a Milano) dovendo rispondere non solo a scontri partitici prettamente locali, ma a un intreccio di interessi talvolta molto complicati di contributi e ritorni «incrociati»: è il caso delle compartecipazioni con altri enti pubblici e privati alla gestione e alla vita artistica di spazi e istituzioni (vedi il passaggio dei contributi ai gruppi attraverso le istituzioni stabili, per esempio a Roma); o di sistemi di convenzioni e di gestione incrociata con l'Eti e gli stabili.

12. I Festival
L'istituzione festival gode di una sempre crescente fortuna, con un moltiplicarsi di manifestazioni di interesse più o meno periferico. Paradossalmente tuttavia la circolazione di spettacoli internazionali di alto livello si è fatta più scarsa: una crisi dettata dall'impossibilità di rilanciare (per motivi economici oltre che «creativi») la formula della «vetrina».
Sono sempre più numerose le rassegne che scelgono semplicemente di «tirare la volata» a produzioni destinate alla normale circolazione invernale: molto spesso i festival estivi (da Verona a Taormina) appaltano ormai i loro spettacoli a privati che impongono criteri di rigida adattabilità alla successiva stagione invernale, chiudendo quella che in passato era una delle rare possibilità di produrre opere al di fuori della logica del cosiddetto mercato. Anche in questo ambito sta riproducendosi oltretutto il meccanismo che relega il «nuovo teatro» in una sorta di serie B (vedi i casi dell'ultima edizione di Asti Teatro e la prossima di Taormina Arte). Va ricordato a questo proposito che l'unico tentativo da parte di una grande istituzione culturale «ufficiale» di produrre direttamente e senza discriminanti i giovani gruppi, cioè la Biennale di Venezia 1984 e 1985 è stata duramente attaccata, in primo luogo, dalla critica più autorevole: un atteggiamento che si è riproposto quando, di fronte alla pratica abolizione del settore Teatro della manifestazione veneziana, la critica e le sue associazioni hanno risposto con il silenzio.

13. I partiti
I partiti hanno assolto in questo contesto una funzione molto ambigua. Coinvolti in prima persona nelle difficoltà e negli scontri, hanno finito solo per evidenziare le proprie contraddizioni progettuali, utilizzando spesso il teatro come pura e semplice base elettorale e clientelare.
Facendo un'analisi schematica del comportamento dei tre maggiori partiti italiani rispetto al teatro, si può notare che:
- la Dc ha visto in questi ultimi anni molto accresciuto il proprio peso e la propria influenza in un settore che aveva come tradizionale punto di riferimento la sinistra: ma, al di là dell'accresciuta presenza nei consigli di amministrazione dei teatri pubblici (conseguente ai risultati elettorali), ha il suo punto di forza soprattutto in un ritrovato spirito egemonico all'interno delle associazioni di categoria (non solo nell'Agis): spazia dal teatro privato (Lucio Ardenzi in una situazione di quasi monopolio) al teatro di ricerca, intorno alla figura del suo responsabile del settore prosa. -
- il Psi, nonostante l'attivismo e la nutrita presenza nei consigli di amministrazione, ha più predicato il modernismo e l'avvento della cultura intermediale di quanto non abbia svolto un'effettiva opera di realizzazione di progetti in sede parlamentare e sul territorio. Esempio clamoroso di questo atteggiamento sono le istituzioni che spesso i suoi rappresentanti dirigono e che finiscono sempre per far prevalere modelli consumati e consumistici. -
- il Pci è sicuramente il partito che più si è impegnato a livello di ricerca e di denuncia dei problemi che affliggono il teatro in questi anni. La sua immagine è però velata dallo scarso impegno rivelato all'interno dei consigli di amministrazione in cui siede e dalla scarsa funzionalità di funzionari periferici all'impostazione culturale concordata al centro (dalle vicissitudini giudiziarie dei suoi esponenti al Teatro di Roma allo scarso impegno nel difendere il settore teatro alla Biennale di Venezia, al ruolo assunto nella «punizione» ai Magazzini). -
- L'unico segnale di attuazione di una politica culturale è la assai discussa nomina di Gabriele Lavia alla direzione di quel teatro pratese dove fino a quel momento avevano lavorato Ronconi (regista al quale, nonostante le promesse e gli impegni, il Pci non è mai riuscito, anche là dove avrebbe potuto, a offrire una sede di lavoro stabile. -

14. La critica e la cultura teatrale
In Italia non esiste praticamente più riflessione attorno al teatro.
Il teatro è ormai quasi totalmente privo di memoria (se non quella privata e personale): non esistono praticamente centri di documentazione, salvo rare eccezioni sostenute dalle esigenze particolari di qualche ente o dalla buona volontà di un privato cittadino. Di più: il teatro appare confinato al puro e semplice spettacolo, da consumare al più presto e svuotato di ogni spessore problematico. Tutto ciò che sta (e soprattutto si muove) intorno al teatro, che ne costituisce una delle ricchezze e spesso ne costruisce il futuro, viene rimosso o ignorato.
La critica si è ridotta ormai, salvo rarissime eccezioni, all'informazione «a caldo» redatta dai quotidiani, con tempi di riflessione e ritmi di lavoro che non lasciano praticamente spazio all'approfondimento e riducono spesso a zero la capacità di cogliere i sottintesi problematici di un lavoro.
In un teatro che al 90% è morto, fatto cioè di abitudine e routine, accanirsi a evidenziare i difetti (che certamente esistono) dei pochi spettacoli vivi ancora in circolazione, di quegli spettacoli e artisti che hanno ancora qualcosa da dire, significa appiattire pericolosamente lo sguardo: il proprio e quello di tutto il pubblico.
Il rapporto con il teatro di settimanali e affini appare troppo spesso casuale e superficiale: le scelte editoriali dei periodici tendono a creare l'evento e a consumarlo ancora prima che si verifichi (sbagliando spesso bersaglio); ancora più grave il fatto che a questa ideologia dell'«Operazione Cultural-Pubblicitaria» tendano ad adeguarsi molti teatri pubblici e privati: per eccitare la curiosità dei mezzi di comunicazione di massa con operazioni «curiose» ma di dubbio valore e dubbio spessore. La banalizzazione della critica è un fatto particolarmente grave perché non esiste attualmente in Italia una rivista di teatro credibile; peggio ancora, non esiste a livello di «mercato» un pubblico (diecimila acquirenti su cinquanta milioni di italiani) in grado di sostenerla.
In altri termini, il teatro è vissuto dal suo stesso pubblico o come pura evasione (quindi agli antipodi di qualsiasi riflessione) o come museo o istituzione parascolastica (che trasmette quindi valori consacrati, da subire senza discutere).
In questi ultimi anni il teatro ha superato in un'unica occasione la capacità di previsione dei media, guadagnandosi le prime pagine dei giornali al di fuori di anniversari, funerali e celebrazioni varie: è il celebre «caso» del cavallo; e visto il panorama generale dell'informazione sul teatro, non possono sorprendere la disinformazione e la grossolanità dell'approccio a questo episodio, ricostruito per «sentito dire», inesattezza, falsità e sciocchezze (al di là del giudizio sull'episodio nei suoi termini effettivi).

15. Il rapporto con la televisione
Il progressivo isolamento del teatro dalla parte più viva e vitale della società lo sta costringendo all'interno di una specie di «riserva protetta».
Nel rapporto con i media, denuncia un preoccupante rapporto di subalternità: la scena diventa una facile rendita per una fama costruita altrove o rincorre i successi di cinema e televisione con brutte copie spesso velleitarie e patetiche.
Lo spettacolo teatrale più visto nel mondo è stato firmato, è vero, da un regista di prestigio come Luigi Squarzina: ma non si può certo affermare che la sagra strapaesana messa in scena per la cerimonia inaugurale dei mondiali di atletica sia un buon esempio dei rapporti fra teatro e televisione.
In altri paesi esistono esempi di fruttuosa collaborazione fra la sperimentazione in campo teatrale e quella in campo televisivo: in Francia con Arcanal e la Sept (la cui serata inaugurale, con Elettra, regia teatrale di Antoine Vitez, regia cine-tv di Hugo Santiago, ha avuto indiscutibili indici di ascolto); nei Paesi Bassi con il Netherlands Theater Institut, l'istituto statale che documenta ormai sistematicamente le punte più interessanti del teatro e della danza in Olanda; in Gran Bretagna con Channel 4, che produce spettacoli teatrali in vista di un loro successivo uso televisivo - con relativo utile.
Sono solo alcuni esempi che però evidenziano il vuoto assoluto di iniziative pubbliche in questo settore: un ritardo che si sta facendo sempre più grave, nella totale assenza di iniziative della Rai in un settore di sua precisa competenza.

Una provvisoria conclusione
Quelli sopra schematizzati sono alcuni dei «fronti di manovra» sui quali il «nuovo teatro» può cercare di muoversi, per sfuggire a una situazione di isolamento e ghettizzazione. Resta però irrisolto uno dei nodi fondamentali di ogni «rivoluzione teatrale», un nodo che il nuovo teatro italiano ha sempre accantonato: quello della definizione del proprio pubblico.
Se non si possono dimenticare le difficoltà economiche, le ancora più drammatiche strozzature della distribuzione, l'incapacità della critica a svolgere un adeguato ruolo di informazione e formazione, è anche vero che proprio su questo terreno (identificazione di un pubblico potenziale e successive attività di formazione e sostegno) le scelte, le iniziative e gli investimenti del «nuovo teatro» in generale sono sempre stati piuttosto scarsi e superficiali, rischiando di perdere i frutti di stagioni creativamente assai felici.
 


 

Santarcangelo 94. Per una nuova idea di teatro pubblico
Proposta di riflessione per la rinascita di un teatro d'arte
di AA. VV.

 
Questo testo è stato pubblicato nel Quaderno del Festival di Santarcangelo del 1994.
 
 
C'è teatro e teatro. C'è un teatro che si esaurisce nello spettacolo e che per questo vuol piacere, cerca il consenso e desidera convincere. Ma questo teatro è malato, superato dalle trasformazioni politiche e sociali con cui non ha saputo fare i conti. È diventato pura routine o un'ombra pallida dei più nuovi mezzi di comunicazione.
E c'è un teatro che cerca piuttosto la conoscenza. Non si accontenta del divertimento. Non vuole illustrare idee, nemmeno le più nobili. Si interroga da sempre su pochi temi, sempre gli stessi e mai esauriti. Quelli che toccano il destino dell'uomo, il suo rapporto con la storia. È un teatro di necessità. Come il gesto inutile di Antigone quella manciata di terra buttata sul corpo del fratello ucciso che può anche costare la vita. Necessario per chi lo fa, innanzitutto. n suo tempo è il presente. Vive nel suo farsi, nel presente della scena in cui l'attore si incontra con lo spettatore e l'incontro può cambiare entrambi. È un evento non nel senso di una spettacolarità da consumarsi su pagine di anticipazioni giornalistiche. È anche un teatro che spesso divide, perché implica l'esplorazione di limiti margini zone d'ombra. È il solo teatro al quale riusciamo a riconoscere un senso. (G.M.)


Per una nuova idea di teatro pubblico
Proposta di riflessione per la rinascita di un teatro d'arte

Asti Teatro
Festival di Santarcangelo
Festival di Polverigi
Volterra Teatro
Toscana delle Culture

1.0 Occorre testimoniare fortemente un teatro diverso.

1.1 Gli elementi fondanti di questo teatro sono: l'arte dell'attore, le prove come processo creativo, l'indipendenza come sviluppo di una propria idea di teatro, il confronto con nuovi linguaggi e nuovi contesti, l'ensemble come strumento non effimero per creare, il laboratorio come modello di formazione permanente, il confronto con il pubblico inteso non come soggetto indifferenziato ma come spettatori consapevoli e critici, la concezione degli spazi teatrali come luoghi dell'incontro e della redazione.

1.2 Siamo al punto terminale di una fase che ha visto l'affermazione prima e il declino poi del teatro inteso come servizio pubblico, del decentramento, dei circuiti.
In questi ultimi anni inoltre si è imposta una fuorviante concezione aziendalistica del teatro e della cultura che ne sta inaridendo le fondamenta di libero pensiero.
Occorre restituire un senso al teatro d'arte come anima di un nuovo teatro pubblico, e rilanciare il teatro e la cultura non come mezzi di potere o di consenso, o sottoprodotti, ma come necessità primarie per uno stato sociale. Bisogna ridefinire le competenze del ruolo istituzionale e del ruolo artistico, riconoscendone differenze e autonomie, sia a livello centrale che locale, perché il rinnovamento non sia soltanto sulle scene ma costituisca un ciclo virtuoso, riformulando una politica culturale in cui l'innovazione sia più forte della norma.

2.0 Oggi molti festival sono luoghi di teatro vivente.

2.1 Non è un caso quindi che proprio da alcuni festival e dalle strutture che li gestiscono venga una proposta di riflessione che non coinvolge solo loro, ma l'intero corpo del teatro italiano.
Quasi mai si pensa alla necessità dei festival come luogo di pensiero e di progetto, di rischio e di trasmissione di esperienze.
I festival vogliono essere considerati, come di fatto sono, una parte del sistema teatrale che fornisce oggi nuove ragioni, nuovi orizzonti alla 'funzione pubblica' del teatro, alla sua necessità.
Da una parte infatti essi, presentando opere, autori, protagonisti della scena spesso inediti o emergenti, contribuiscono al rinnovamento del pubblico, dall'altra essi rappresentano delle risposte a domande latenti di una nuova organizzazione della cultura, di nuovi spazi, di nuove modalità di incontro, di più profonde relazioni.

2.2 Nei festival può essere verificata oggi una nuova idea di teatro non soltanto per ciò che avviene sul palcoscenico (linguaggi, temi, lavoro drammaturgico, registico, attorale) ma anche per ciò che è avvenuto e avviene nei modi produttivi.
Non c'è solo un rischio artistico legato alla singola opera. Spesso c'è un rischio organizzativo ed economico, ci sono vocazioni produttive che si confrontano da anni in questo settore e che sono oggi i punti di una più avanzata identificazione della 'funzione pubblica' del teatro.
Ecco perché alcuni festival propongono oggi a loro stessi di espandere la "zona franca" in cui hanno operato, per diventare luoghi di progetto capaci di promuovere idee e regole per l'intero sistema teatrale: dalla produzione alla distribuzione, dalla formazione all'organizzazione.

2.3 I nostri festival, diversi tra loro per identità culturale e struttura amministrativa, si riconoscono nel processo di cambiamento del teatro dagli anni '60 ad oggi e intendono questo primo coordinamento come promotore di nuove proposte progettuali per il teatro italiano, aperto a quanti ne accettano i presupposti culturali e artistici.

2.4 Oltre un calendario concordato si è delineata una prima iniziativa sul tema comune Per una nuova idea di teatro pubblico, composta da una serie di giornate di studio all'interno dei 5 festival, realizzate in completa autonomia secondo la propria identità e vocazione.

Sono stati individuati inoltre alcuni punti di operatività comune per il futuro:

* pensare il festival come luogo di progettualità annuale

* attivare confronti e scambi di esperienze, collaborazioni di ospitalità e produzione, attività seminariali e laboratoriali

* lavorare all'incontro fra le generazioni teatrali, fino ai novissimi

* concorrere alla formazione di poli regionali e interregionali per una distribuzione naturale delle opere e per la costituzione di contesti creativi

* organizzare in comune eventi importanti, da realizzarsi non necessariamente nei luoghi dei festival ma anche in altre città.
 


 

Confini ed essenze
Ma che c'entra il teatro con Valentino Rossi?
di Renzo Martinelli

 
Caro Oliviero,
non sono stato capace di scriverti di Valentino nel giorno della vittoria, non ne avevo voglia in quel momento.
Sono qui a scriverti ora, dopo aver letto La bella crisi, che tocca tanti punti interessanti (il ruolo monco dei centri di ricerca, la paralisi burocratica italiana, i tanti "teatri") e dopo aver dato una scorsa veloce al documento di Ivrea del 1987, che mi fa sorridere amaramente per le tante analogie con la situazione odierna, anche se sono passati quasi vent'anni. Ti scrivo in questi giorni di mezzo che seguono il debutto dello studio su Canti del caos. E' uno studio che ha creato spaccature e di cui siamo molto fieri, nonostante la morsa di quella messa sotto silenzio che oramai cade implacabile sui nostri lavori, laddove la critica non si riesce a confrontare con qualcosa che non sa bene dove collocare, qualcosa che è fatalmente fuori dall'avanguardia e dalla condanna del '900 alla parola, qualcosa che si pone appunto come «bella crisi», nascita crudele.
  Quello che mi ha più colpito nei tuoi documenti è la forza, l'emozione, la ricchezza delle esperienze che ti hanno formato e accompagnato, un entusiasmo che credo sia l'unica forma ancora possibile per stare vicino al teatro e alimentarlo.
Ed è così che mi torna la voglia di parlarti di Valentino e quindi di me, delle scelte che ho fatto e che sto facendo. Con il rombo dei motori in mezzo, però, a confondere le acque.
In fondo parlandoti del nostro eroe avrei finito comunque col parlarti di arte.
 

 
Per me Valentino è un artista. Uno che si sente libero nel gioco di interpretare quella traccia segnata di nero comunemente chiamata pista, modificandola, sbandandola, sgovernandola, quasi come se quel tracciato rigido diventasse altra cosa rispetto alle regole che governano questo sport, quasi che la sua «invenzione» fosse il vero tracciato. E' una sensazione difficile da spiegare, ma è come se, dopo una «staccata al limite», la curva si allargasse per contenere quel corpo lanciato a velocità folle, che ha con sé anche una sensazione di lentezza.
 

 
La pista intesa così diventa materia viva, qualcosa che bisogna aver provato e che non riesco a definire. E questo si vede, qui sta il segreto delle sue vittorie.
Ritorno spesso alle corse e ai loro odori e in fondo mi sembra di aver fatto sempre la stesso, uno stesso respiro che mi ha portato fino a qui.
Hai presente quando Valentino compie quella serie rituale di comportamenti pre-gara, si rivolge alla sua moto per trovarle un corpo, proprio lì, proprio in quel «Japanese Monster» pieno di tecnologia, che invece richiederebbe un rapporto distaccato, freddo, consumistico.
Parlandoti di lui è come se ti continuassi a parlare del tuo intenso saggio, della mia ricerca: immaginare la pista in modo diverso; immaginare il teatro in modo diverso. Parlarti di quel suo modo di vincere ancora, ancora, per dimostrare che quell'altro, anche a parità di moto, nulla può.
E poi sulla pioggia come un pioniere: «Ah ma questo è un capolavoro», ho pensato mentre lo guardavo, «è un capolavoro d'abilità, ma non solo». Valentino è un capolavoro perché privilegia il rischio rispetto al consenso, il progetto rispetto all'opera, la riflessione sulla forma rispetto alla comunicazione. Io vedo in lui un testo classico, un autore contemporaneo, nazionale, non solo elitario, non solo per gli intenditori. La forza di essere tutto questo porta con sé naturalmente ed elegantemente anche la crosta più superficiale del suo successo.
Agostini no! No, lui non era un artista, correva solo, con l'unica moto in gara, con l'unico Stradivari (ti ricordi il suono dell'Mv Agusta, che strana analogia adesso con i 4 tempi anche se silenziati...).
Io non potevo fare che del motocross, il rischio totale. L'ho deciso quando un collaudatore della Gilera mi ha detto di scegliere definitivamente tra le due e le quattro ruote (allora ancora bimbo giravo in pista con un go-kart e un copertone sotto il culo per arrivare alla pedaliera). I miei miti avevano ancora a quei tempi il viso affaticato e sporco dalla gara e non conoscevano, così ritenevo, i grandi onori dei media. Erano tutti un po' re, un po' martiri. Ogni tanto qualcuno si prendeva perfino il lusso di creare delle grane a quei giapponesi tutti intenti a conquistarsi il mercato senza badare a niente e a nessuno e gli sponsor non dettavano certo legge su tutto e su tutti (se un giorno vorrai ti racconterò una storiella su un amico anarchico e pilota ...un certo Joel Robert). E non è un caso forse che a furia di emularli mi sia anch'io beccato quella fama di rompicoglioni che voi teatranti mi affibbiate e anche quel soprannome per un po', coniato da Federica e da Gabriele Argazzi di Terzadecade: «Re Martirio».
D'altronde è così, ho voluto il teatro quando il mondo delle moto ha cominciato a farmi sentire in gabbia, ho voluto il teatro per riprendermi la mia libertà, anche a costo di essere antipatico.
Ci si spostava tutti su furgoni officina, su camper, un po' come degli zingari - un po' come adesso, con la sola differenza che ogni domenica allora si correva, mentre ora l'energia è sempre compressa e a volte brucia, fa un male cane. I meccanici erano i migliori amici e se erano italiani si parlava anche di cantautori, di film e di donne tra una pista, un collaudo e un'altra pista. Lavoravano attorno a quel mezzo meccanico per renderlo parlante.
Per continuare a cercare...
E qui mi fermo. Mi sto facendo prendere la mano dai ricordi. E' da tanto che vorrei buttar giù un po' di vita e qui ho sommato tutto, ma è quel tutto che io ogni tanto racconto con un po' di inibizione a chi mi ha incontrato da regista e che volevo darti per permetterti di guardare il mio percorso con più elementi e con occhi diversi.
La mia vita continua a essere questa somma: 1+1=1
Mentre «cercavo» in giro con la moto mi sono perso, proprio come pubblicità della Simonini che recitava così: «Per andare veramente fuori strada!». Ci ero finito veramente e in tutti i sensi. La musica che ascoltavo non era più musica da condividere con amici e meccanici sul camper. I film che iniziavo a scoprire, il teatro che iniziavo a frequentare erano solo per me, mi creavano un vuoto attorno e una nuova solitudine. Cambiava tutto e anche la mia fidanzata diceva che ero diventato diverso.
A me sembrava di continuare a fare la stessa cosa e non mi rendevo conto che invece non correvo più, che avevo iniziato a studiare musica, che giocavo a rugby nel ruolo di estremo per tenermi in forma e perché faticavo a stare fermo e che la mia calligrafia, quella sì, era davvero diversa.
Sono arrivato qui e a volte anche il teatro mi sembra una gabbia, anche negli incontri politici che stiamo facendo mi sembra sempre che ci sia un «non detto» che non ha nulla a che fare con la forza dell'arte. Ma per ora non posso fare a meno di vivere questa scelta.
Ah dimenticavo... i miei piloti preferiti erano tre: Barry Sheene, eclettico dallo stile personalissimo, paperino-peperino fissato con il numero 7; Renzo Pasolini, eterno secondo, il poeta; Jarno Saarineen, pioniere degli sbandamenti arrivato dallo Speedway.

Con affetto
Renzo


LEGENDA DIVERTISSEMENT

staccata al limite dicesi di quel modo di sospendere la velocità piena e di aggrapparsi ai freni quando tutto sembra tremendamente in ritardo e le mille operazioni da compiere devono funzionare per istinto dimenticando la tecnica.
 

Jarno Saarines a Silverstone (1972).
  
manetta attributo del polso e della mano destra, quella che padroneggia l'uso della manopola del gas e del freno anteriore. Una buona manetta la dice lunga sul concetto di pilota veloce ma non include sempre la capacità di guidare organicamente e con poesia (fermo restando che c'è per fortuna chi sa conciliare l'uno e l'altro).

Ciccio Manetta mitico pilota rozzanese solo manetta senza poesia. Goliardicamente «pirla».
 

Barry Sheene (1976).
 
Japanese Monster termine coniato con l'ingresso in Europa delle moto giapponesi allora ancora contingentate per limitare i danni al mercato; a seconda dell'annata o della disciplina (cross, velocità, trial ecc.) si sono spartite le competizioni e il mercato. Rispondono ai nomi di Honda, Yamaha, Suzuki, Kawasaki.

sponsor sempre più senza arte, ma con molta parte.

pioniere pazzo che si ostina a credere nel valore dell'arte, del cross e del «nuovo teatro».
 

Renzo Pasolini.
 
due tempi motori senza valvole di sfogo, che usano per combustibile una miscela olio-benzina, dal suono acuto, provocato, oltre che dal numero di giri, anche da quelle marmitte a espansione che con un buon «buzzing» si possono anche suonare con ottimi risultati (il marmittofono è stato il mio primo strumento musicale prima del trombone).

buzzing tecnica delle labbra per provocare il suono negli strumenti a fiato privi di ancia.

quattro tempi motori con valvole di aspirazione e scarico. Rumore pieno, un po' come per i tromboni per un'orchestra, che danno profondità e provocano ricordi.

due ruote definizione che dice molto di quei funamboli che esercitano il piacere dell'equilibrio dinamico.

quattro ruote definisce piloti di auto, ben accomodati su un sedile e allacciati alle cinture di sicurezza. Hanno nel migliore dei casi un piede destro «pesante» (che per chi corre in moto corrisponde al piede del freno).

go-kart sorta di automobilina molto cattiva e difficile da guidare; per farlo occorre una tecnica che permette fin da subito di capire la predisposizione di un ragazzino per le competizioni (nel mio caso si disse: «Nato per correre»).

Mv Agusta mitica moto varesotta, definita più volte lo Stradivari del motociclismo in un'epoca dove le regole anti-inquinamento acustico (decibel) non prevedevano l'uso del silenziatore.

Gilera quella che in una nota canzone serviva per andare a spasso mattina e sera (la moto Guzzi serviva invece per andare nel culo a tutti).

Joel Robert fuoriclasse belga, pluricampione del mondo nella 250cc cross con la Suzuki.

Culo di Gomma famoso meccanico della TGM chiamato così dalla canzone di De Gregori.

Simonini nome proprio. Il primo che assemblava moto specifiche, nate appositamente per le corse in tempi in cui si modificavano per lo più moto nate per la produzione (in quell'epoca in una gara di motocross si poteva persino vedere una Lambretta). Il primo a venderle in scatola di montaggio.

estremo ruolo molto particolare di una squadra di rugby, da non confondere con il ruolo calcistico «portiere». L'estremo spesso si inserisce nell'attacco, confonde la squadra avversaria e possibilmente fa meta (con lo schema di gioco chiamato «Mara», semplice ma efficace, la meta era assicurata).

Speedway una delle più entusiasmanti tra le discipline motoristiche. Senza freni. In completo sgoverno, in sbandata, in derapata.

Cross ciò che si attraversa.

Teatro ciò che ti attraversa.
 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Politica teatro immagini
Note in margine a The Merchant of Venice di Peter Sellars
di Anna Maria Monteverdi

 
Peter Sellars, geniale ed irriverente regista teatrale e d'opera, nasce nel 1957 in Pennyslavania; interessato all'ambito antropologico del teatro, dopo la laurea all'Università di Harvard intraprende viaggi di studio e di ricerca in Australia, India, Giappone e Cina. In America collabora con il Wooster Group di Elizabeth LeCompte. SI è affermato soprattutto grazie alle sua particolarissime regie d'opera, trasgressive e ironiche quanto ad ambientazione, molte delle quali realizzate in collaborazione con il direttore d'orchestra Craig Smith: Le nozze di Figaro alla Trump Tower, Don Giovanni in un bordello. E' anche regista cinematografico (The cabinet of Dr. Ramirez, 1993, ispirato all'omonimo film espressionista di Robert Wiene) e autore di videoclip musicali (HardRock, per il jazzista Herbie Hanckock); ha diretto per due anni il Los Angeles Festival ed attualmente insegna World arts and culture all'UCLA.1
Caratteristica del suo teatro è una scena pregnante di tematiche di vero attivismo, di impegno politico e sociale2 spesso mascherate sotto testi classici (i Greci e Shakespeare) e ricche di riferimenti a culture non esclusivamente occidentali. Costante del suo teatro - come ricorda Valentina Valentini - è, infatti, sia il multiculturalismo, sia quel principio dell'attualizzazione del mito antico e di "denuncia del sistema politico" che rimanda al teatro epico di Brecht e al nuovo teatro americano: "Prendere in esame il lavoro di Sellars significa innanzitutto esaminare cosa, a fine secolo, è diventato il teatro che ha ereditato la tradizione sperimentale -modernista ed interculturale - delle neo-avanguardie." 3 E' proprio da questa emergenza "ereditaria", sopravvivenza della schechneriana "teoria della performance", che parte Valentina Valentini nel saggio su Sellars pubblicato all'interno della monografia dedicata al regista, sviluppando l'analisi critica dal sincretismo interculturale quale metodo e "dispositivo costruttivo" del lavoro di Sellars, nonché marca identificativa di questa neo-neo-avanguardia americana (in cui è possibile includere anche Robert Lepage, in riferimento a The Dragon's Trilogy, The Seven Streams of the River Ota, Tectonic Plates, ispirati a tematiche orientaliste).
C'è sempre un riferimento ai fatti attuali nelle opere di Sellars; del resto durissime sono le sue dichiarazioni sulle tematiche del momento: dalla globalizzazione alla multiracial society, dalla guerra alla manipolazione dell'informazione ad opera dei media, al razzismo, rilasciate in occasioni di conferenze o di interviste:

In quasi ogni stanza in cui trascorriamo la nostra vita c'è una televisione, che diventa così un personaggio. Quindi molte volte nei miei spettacoli metto una televisione sul palcoscenico perché è un qualcuno con cui conviviamo e che non sta mai zitto. Come puoi avere dei tuoi pensieri quando vivi accanto a questa cosa che non fa altro che parlare? E' uno dei grossi punti di tensione della vita quotidiana, ogni parte del nostro dialogo interiore è influenzata da questa scatola, se ti chiedi quali sono le opinioni basate su ciò che hai visto con i tuoi occhi e quelle invece create dalla TV ti rendi conto che è pazzesco.

Aiax (Boston, 1986) è ambientato al Pentagono, mentre in The Persians (Parigi, 1993) le immagini sugli schermi in scena mostrano spezzoni della guerra del Golfo vissuta attraverso le "giornate televisive", attraverso in sostanza, i réportage della CNN; in The Merchant of Venice durante la scena del processo tra l'ebreo Shylock e il nobile veneziano Antonio, una tv mandava in onda le immagini girate da un videoamatore dell'automobilista negro Rodney King picchiato a sangue da poliziotti bianchi poi assolti dal tribunale con la sentenza che scatenò i moti di Los Angeles nel 1992.
Aiax, interpretato da attori nelle vesti di generali americani e di agenti della Cia che sguazzano in una chiazza di sangue, fu tra i primissimi spettacoli di Sellars ad affrontare, a partire dalla tragedia greca, il tema della violenza, della guerra, della manipolazione del consenso dei media e il loro controllo "militare". L'evento di cronaca a cui si ispirò per la messinscena fu la notizia del bombardamento della Libia da parte dell'America nel tentativo di eliminare Gheddafi, all'epoca della presidenza Reagan:

Quando si lavora in un teatro chiamato American National Theater, il pensiero comincia a rivolgersi al dramma greco e all'idea di un teatro popolare in grado di discutere tematiche molto serie che, anzi, sarebbero considerate da non mettere in discussione ai giorni nostri. E' la nostra maggiore crisi in America: viviamo in una società che è la più censurata del mondo. Arrivano pochissime informazioni che non si adattino agli scopi del sistema economico capitalistico. E i giornali a grande tiratura, in particolare la televisione, operano sotto una censura tremenda... Non è più una questione di individui, ma di uno strano collettivo senza volto che prende le sue decisioni senza chiedere a nessuno. Così in America è in un alto palazzo di uffici all'angolo tra la 57th Street e Avenue of the Americas (Sixth Avenue) a New York che si prende la decisione nel notiziario CBS di come stanno le cose.4
The Merchant of Venice ha debuttato nel 1994 al Chicago Goodman Theatre, interpreti uno Shylock e un Marocco nero, una Porzia cinese e Bassanio e Antonio sudamericani. Lo spettacolo è ambientato a Venice, in California. Sellars crea una scena tecnologica "abitata" da monitor, schermi, microfoni a vista, telecamere di controllo che suggeriscono l'idea di vigilanza ossessiva, della natura pericolosa e panottica del potere e dell'uso dei media per controllare e registrare la vita dei cittadini. Per attualizzare il testo, Sellars opera secondo un principio di equivalenza assolutamente ineccepibile: se ai tempi di Shakespeare il mercato era legato al commercio in mare, ora il potere economico è determinato dalle tecnologie e da chi ne detiene il possesso.
La critica ai media di Sellars sembra allinearsi alle tesi del sociologo Kevin Robins che in Into the image. Culture and politics in the field of vision si era schierato contro quella tecnocultura che esalta incondizionatamente le tecnologie dell'immagine in quanto "intrinsecamente liberatorie", produttrici di un mondo rassicurante ma inesistente. Secondo Robins dobbiamo iniziare a "operare una discriminazione tra l'uso liberatorio e censorio delle immagini, tra quelle che dischiudono e quelle che interrompono i nostri rapporti con l'altro, tra quelle che democratizzano la cultura e quelle che la mistificano, tra quelle che comunicano e quelle che manipolano". Le immagini implicano un senso di responsabilità rispetto ai fatti, rendendoci testimoni: come dice l'autore, la televisione può aver anche creato il villaggio globale ma "nessuno è corso ad aiutare il proprio vicino che ne aveva bisogno". La condizione subìta dai telespettatori è contemporaneamente di coinvolgimento e di estraneamento. Di "paralisi", come hanno evidenziato i réportage televisivi della guerra nel Golfo, in Bosnia (Robins ne parla ampiamente nel capitolo Visioni di guerra). Le nuove tecnologie hanno imposto un predominio della vista, una "sovranità della vista contro il tatto" che per Robins rivelerebbe, dietro il principio di un mondo dove tutto è visibile, un universo ordinato per essere controllato. Dietro la cultura del vedere, insomma, si nasconderebbe una cultura della non partecipazione. La vista mediata tecnologicamente (e interpretata come un aumento di conoscenza) secondo Robins sarebbe, in realtà, sinonimo di "non realizzazione", di distacco dall'esperienza, allontanamento-dissociazione dal mondo.
Il "consumo" cannibalico, onnivoro, acritico delle immagini dei media occupa gran parte della riflessione di Robins: non solo la visione della guerra attraverso la sua "miniaturizzazione" prodotta dallo schermo la rende accettabile o tollerabile, allontanandoci completamente dal suo significato, ma la sua vista paradossalmente, è rassicurante e ci rende "sollevati": "L'osservatore è all'esterno dell'esperienza e protetto da essa. Lo schermo è uno scudo che isola lui o lei dal bombardamento di esperienza". Elias Canetti aveva posto l'accento sul "piacere della sopravvivenza", affermando che "l'orrore alla vista della morte si trasforma nella soddisfazione che sia qualcun altro a morire". Dunque questa deterritorializzazione resa possibile dai media non rende affatto l'altrove vicino ma al contrario, produce la coscienza di una mostruosa alterità. Si accentua ancora di più la "lontananza" e la "differenza". Quello che si vede in diretta non è "qui" e "ora": "Il telespettatore dovrebbe essere devastato dal trauma intenso di tali realtà. Il "consumatore di sofferenza" e di terrore, dovrebbe essere traumatizzato dal fatto di incorporare una visione del genere." E aggiunge che il fatto di essere sottoposti a tali visioni avrebbe senso solo se questo potesse effettivamente cambiare qualcosa ma "senza quella possibilità, vi è una certa oscenità nel conoscere."
I mezzi di comunicazione di massa hanno clamorosamente fallito il loro scopo, quello di divulgare capillarmente, fuori da ogni nazionalismo e separatismo, le culture più lontane, far comprendere le ragioni profonde e la storia di popoli che abitano angoli remoti, praticano religioni e stili di vita diversi. La domanda fondamentale è: può l'arte (anche l'arte del teatro) farci comprendere la realtà e il momento storico in cui viviamo?


Dice Sellars:
 
"Il teatro spiega che la decisione di un individuo, su come vivere o non vivere la propria esistenza, forma il clima e la temperatura morale di una nazione e influisce sulla direzione politica e il temperamento di un'epoca".5

Il teatro deve ritrovare la sua necessità, la comunicazione diretta. Ora più che mai è la realtà che deve trionfare sulla scena, una realtà che il mezzo di riproduzione che sembrerebbe più adatto, paradossalmente, ne è anche il più lontano:

Domanda: Ce l'ha con la CNN?

Sellars: Certo, sa dirci cos'è successo negli ultimi 5 minuti ma ha una totale amnesia degli ultimi 5 secoli. Se conosci gli ultimi 5 secoli e li unisci alla storia degli ultimi 5 minuti capisci qualcosa di più (...) La CNN parla di morte 24 ore su 24 senza avere il senso di ciò che sia una sola morte. I media non sono forse anche uno strumento per comunicare? Una comunicazione vera si muove in due direzioni: lo scambio e l'uguaglianza sono fattori determinanti per la sua riuscita. Arriviamo da un secolo che ha inventato la comunicazione di massa monolitica e monodirezionale. Un adolescente che cresce in un campo profughi della Palestina sa tutto sul modo di vivere degli americani, mentre gli americani non sanno nulla di come vive e di ciò che pensa quell'adolescente... Nel XII secolo le culture si capivano più di adesso. Lo scambio era continuo. Favorirlo di nuovo vuol dire per esempio finanziare progetti culturali. Politici e uomini d'affari si chiedono: A che serve l'arte? Io rispondo che l'arte è la testa dell'economia e della politica, può spiegarci come andrannno le cose. Io incarno un'occasione di dialoghi trasversali tra contesti che non si incontrerebbero mai. L'artista deve essere le orecchie della società: ora più che mai visto che in America 4 società possiedono l'80 per cento dei media. Dai giornali e televisioni si ottiene un unico punto di vista. E' pericolosissimo il modo distorto e deviante in cui vengono raccontate le storie.

Domanda: Accusa i media nella loro totalità?

SELLARS: La vicenda dell'antrace fa capire la perdita di ogni senso delle proporzioni. Qualche decina di persone colpite fa più notizia di milioni di bambini morti di fame in Iraq. Paradossalmente l'arte non può più alimentarsi di fantasia ma di realtà visto che la fantasia oggi è dominio dei media. La vera arma di chi fa il mio lavoro adesso è la riproduzione della realtà al di là della fiction.
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In occasione di un convegno su "Multiculturalismo nelle arti e nella società", Sellars aveva affermato il ruolo che spetta all'artista nella società contemporanea. Non ci si può nascondere dietro i problemi del mondo. Ne siamo tutti coinvolti. Ma il multiculturalismo per Sellars è soprattutto presa di posizione a favore delle minoranze:

Quando parliamo di multiculturalismo e affrontiamo il problema degli stranieri, degli attacchi agli immigrati, e diciamo: "Ah, questi immigrati, vogliono solo venire qui, sfruttare il nostro successo economico e ingorgare le nostre strade", dovremmo chiederci: "Perché non possono vivere a casa loro?" Non possono vivere a casa loro perché la loro patria è governata da un dittatore e questo è in relazione al fatto che possiamo continuare a mangiare le noccioline sull'aereo. Al Senegal è stato imposto per venti anni di non piantare altro che arachidi perché l'Europa voleva le arachidi, e ciò ha distrutto la terra e l'intera economia di una nazione... Siamo il 14% della popolazione mondiale che consuma l'80 per cento delle risorse del mondo. Perché non facciamo lo sforzo di diventare più obiettivi e trattiamo il multiculturalismo non come un capriccio ma come una realtà? Il fatto è che la vita di ognuno di noi è inseparabile dalla vita degli altri in altre parti del pianeta; siamo economicamente e politicamente responsabili.7

The Merchant of Venice

Il mercante di Venezia di Sellars è diventato un "classico", una sorta di esempio-campione per chi si occupa del fenomeno del teatro elettronico o del rapporto tra teatro e tecnologia. Riprendendo lo schema cronologico-storico e le argomentazioni di Béatrice Picon-Vallin (Les écrans sur la scène; La scène et l'image), François Parfait, autrice di un recentissimo volume antologico sulla videoarte, cita The Merchant di Peter Sellars e la storia di una "consuetudine" di antisemitismo e di ingiustizia sociale nella Venezia del Cinquecento (tele)trasposta ai giorni nostri, come esempio emblematico dell'uso politico del video in scena.


Frédéric Maurin in un articolo intitolato Scène, mensonges et vidéo. La dernière frontière du théâtre américain,8 apparso in "Théâtre/public", colloca Il mercante di Venezia di Sellars nell'ambito delle produzioni da lui identificate dalla contrapposizione oggettività/spettacolarità (l’oggettività dei fatti e la loro "spettacolarizzazione" mediatica).
George Banu ne parla, invece, nell'articolo Théâtre et technologie ou Celui qui dit oui/celui qui dit non, apparso nel 1999 nella rivista canadese di teatro "Jeu". L'effetto di moltiplicazione di punti di vista e la possibilità di primi piani resi in scena dai monitor, testimonierebbero una continuità del videoteatro con il teatro di ricerca "storico", impegnato da sempre, secondo Banu, alla questione dell'avvicinamento (rapprocher); dispositivi architettonici e strategie scenografiche furono impiegate per soddisfare questa esigenza di prossimità che permetteva all'attore di mettere in luce il valore della presenza. Il video in scena, quale è significativamente evidente proprio in The Merchant di Sellars, rimanderebbe inoltre, secondo Banu, alla visione poliprospettica e alla scomposizione della figura umana attuata dalle avanguardie pittoriche primonovecentiste, quella cubista principalmente:

Le recours à la caméra permet une multiplicité de stratégies du regard, car elle tourne, change d'angle, modifie la perspective. La vidéo offre une grande variété de points de vue sur la comèdien et l'espace. Cela a conduit bon nombre de commentateurs à assimiler ce dispositif télévisuel du regard à l'approche cubiste qui, elle aussi, dès le début du siècle, s'était proposé de montrer le motif plastique dans une perspective prismatique. La technologie actualise pour le spectacle vivant une répons déja formulée par les peintres. La barrière de la frontalité est battue en brèche.

Sellars dice che "Shakespeare analizza le radici economiche del razzismo. Venezia era una superpotenza mondiale che controllava i commerci, cosa che portò a un razzismo sistematico; un'enorme struttura coloniale viene creata all'epoca di Shakespeare. Shakespeare è più eloquente dei dati economici". Da qui l'equivalenza con la nostra società, multirazziale e ben spinta dal razzismo allo sfruttamento, alla discriminazione, all'intolleranza, alla xenofobia, all'emarginazione. Nessuna forzatura, dunque, perché - come sottolinea il regista - Shakespeare descriveva una società molto simile alla nostra, ovvero "una società multiculturale in seno al quale il razzismo istituzionalizzato permetteva di ‘fare buoni affari’ e avere vantaggi economici". 9
Il video, come si deduce dalle fotografie di scena e dalla precisa analisi dello spettacolo a cura di Fréderic Maurin comprensiva dello schema tecnico della disposizione dei monitor in scena, è il vero protagonista:

L'uso del video è di capitale importanza nella percezione di The Merchant of Venice di Peter Sellars, al pari della distribuzione multirazziale dei ruoli e dello sfondo californiano.10

Nello spettacolo una telecamera portata in spalle dagli attori o fissata a terra su un treppiedi ben visibile agli spettatori, registra in diretta l'azione di un personaggio e la trasmette ai monitor. Questi, schierati in posizione avanzata sul palcoscenico, diventano presenze "fisiche", giurati o testimoni oculari; del resto la parte centrale della commedia è ambientata proprio in una sala del tribunale dove un giudice deve pronunciare una sentenza. E' come se la telecamera spiasse i personaggi, scrutandoli ad uno ad uno, attardandosi su alcuni loro particolari, ma da angolature diverse dal frontale. Gli spettatori, perciò, hanno davanti a loro l'intero in carne ed ossa (il corpo dell'attore) e il particolare (un dettaglio del volto). E' chiaro che lo schermo è specchio che riflette il sé più intimo e nascosto dei personaggi: è l'interiorità, la memoria, la verità nascosta. Nella commedia si parla di "false apparenze" e della necessità di non giudicare superficialmente un uomo: "Le forme esteriori possono ingannare - Sempre l'ornamento inganna il mondo. Nei processi, quale causa disonesta e corrotta che, sostenuta da una voce graziosa non maschera il volto del male?"


Il video frammenta il corpo, restituendone porzioni o brandelli: lo "smembramento", come è noto, è proprio il tema della commedia (nel contratto è previsto che se l'ebreo Shylock non verrà pagato sarà prelevata una parte dal corpo di Antonio); il video inoltre, sottolinea il volto, isola il gesto, che a teatro diventa confuso tra gli altri gesti, perché l'attenzione è distratta dal "totale". Volti che sembrano imprigionati nella scatola televisiva, come le teste "ritagliate" su cuscini nelle videoinstallazioni di Tony Ousler. Tranci di carne, teste tagliate, corpi a pezzi, per denaro, per debiti, per guerre, sono quelli trasmessi dai telegiornali; il nostro occhio televisivo è già così ben abituato a vedere a pezzi un corpo, che non associamo più quella immagine alla morte. La tecnologia scardina gli organi. Non c'è più alcuna integrità possibile.

It's now our time
Il documento video commissionato a Sellars dalla BBC ha il titolo significativo It's now our time. A new generation approach to Shakespeare.11 Girato in occasione delle prove di The Merchant of Venice, il film è un vero svelamento del suo metodo di lavoro e contiene le argomentazioni e i pensieri che precedono lo spettacolo ma, a differenza dello spettacolo, non ha nulla di tecnologico: Sellars introduce, infatti, un unico elemento scenografico, uno specchio.
In un ambiente quotidiano, stanze spoglie con molte finestre, il regista, adoperando una tecnica che potremmo definire "minimalista", riprende gli attori mentre leggono a voce alta il testo di Shakespeare avendo sempre la loro immagine riflessa in uno specchio o in una finestra e rivolgendo lo sguardo direttamente alla telecamera (cioè, indirettamente, a chi guarderà il film).
La caratteristica di questo documento è che gli attori una volta letto il brano, con procedimento di straniamento brechtiano, lo commentano, aggiungendovi passaggi da testi di economia (tra cui How capitalism underdevelopped black America): la conoscenza delle leggi del mercato dà valore alla dimensione critica dell'attore nella costruzione attualizzata del personaggio; ed ancora, passi dalla Bibbia, dal Corano, dal Tao Te Ching che non fanno altro che evidenziare il tema della diversità di etnia, di strati sociali, di religione, di sesso, di età dei personaggi: "Gli attori ci portano nelle loro vite interiori e raffrontano quotidianamente le loro vite con Shakespeare, psicologicamente, fisicamente" , dice lo stesso Sellars nell'introduzione al video.
L'attore che impersona Shylock viene scelto di pelle nera e diventa il simbolo di tutte vittime innocenti che pagano per la sola colpa dell'appartenenza a un popolo o ad un'etnia emarginata e perseguitata; queste alcune frasi con cui Sellars fa parlare lo Shylock nero:

Nessun bianco che fosse ubriaco, molestatore di bambini o criminale è stato considerato inferiore a un nero per quanto retto e ricco che fosse.... Una donna nera attraente potrebbe essere violentata da un bianco in piena impunità legale. Se suo marito, il suo amante, figlio o padre avessero qualcosa da dire in merito potrebbero essere castrato o linciati.

Che sarebbe l'equivalente dell'arringa di difesa dell'ebreo Shylock in Shakespeare:

Mi ha svillaneggiato, mi ha fatto andare in malora mezzo milione, ha riso alle mie perdite, schernito i miei guadagni, disprezzato il mio popolo, rovinato i miei affari, raffreddato i miei amici, infiammato i miei nemici -e per quale motivo? Perché sono ebreo. Un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, membra, sensi, affetti, passioni? Non è nutrito dallo stesso cibo, ferito dalle stesse armi? Soggetto alle stesse malattie? guarito dalle stesse medicine? Riscaldato e raffreddato dallo stesso inverno e dalla stessa estate di un cristiano? Se ci pungete noi non sanguiniamo? Se ci fate il sollettico non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo?

Nel video Marocco interpreta invece il tema della rivolta anticoloniale, pronunciando una frase tratta da I dannati della Terra di Fanon:

In quanto rifiuto sistematico dell'altro e ostinazione caparbia a negare all'altro ogni attributo di umanità, il colonialismo obbliga i propri sottomessi a chiedere continuamente: "Chi sono io veramente?".

Graziano legge un testo sullo sterminio degli Indiani d'America mentre passano immagini di repertorio sulle esecuzioni del Ku Klux Klan a ricordare le vittime di tutte le ingiustizie razziale. Teatro è il (non) luogo di un utopico dialogo multirazziale: "Tutti noi rappresentiamo molte culture", ricorda Sellars. Particolarmente toccante è il momento in cui i personaggi, uno dopo l'altro, guardando in macchina, pronunciano la frase: "Non vi dispiaccia il mio colore".


Lo specchio introduce visivamente il tema del dualismo esteriorità/interiorità, falsità e lealtà, verità e menzogna: il personaggio non ha un solo volto ma mille maschere e questo rende esplicito il concetto shakesperiano che "non bisogna fermarsi alle apparenze esteriori". Lo specchio, disposto alle spalle del personaggio che parla, permette di restituire sia la contemporaneità di campo e controcampo, sia una visione "prismatica" dello stesso personaggio, generando un complicato incrocio di sguardi e un particolare effetto ottico di loop o di scatole cinesi. Il video dunque, lontano dal voler restituire il "corpo" dello spettacolo, mostra i ragionamenti e le modalità che lo hanno generato, in un cammino à rebours che ripercorre il difficile processo di creazione. In scena gli specchi diventeranno i video, ma secondo lo stesso principio di scomposizione e smembramento del corpo umano, in una potente sintesi visiva dei devastanti effetti di un'economia razzista e della necessità di vedere il mondo da un'altra prospettiva.
Un ringraziamento specialissimo alle mie studentesse Giulia Carrara e Claudia Meini, che hanno svolto una brillante relazione su Peter Sellars e che hanno scrupolosamente trascritto il testo del videodocumentario It's now our time che ho usato per la mia analisi.

NOTE
 
Peter Sellars ha diretto più di 100 spettacoli in America e in Europa; ha lavorato in collaborazione con il compositore americano John Adams per Nixon in China, The Death of Klighoffer e con il poeta/librettista June Jordan per I was looking at the ceiling and then I saw the sky. Le notizie biografiche riportate sono state tratte in parte dal sito dell'UCLA, in parte dal saggio Fare teatro, fare la società: un'introduzione al lavoro di Peter Sellars di M. Delgado, in M. Delgado - V. Valentini (a cura di) Peter Sellars, Catanzaro, Rubettino, 1999.
 
2 "Sostengo che le arti hanno il compito di spingere all'azione e alla partecipazione, scoprire quello che va fatto e farlo, un ruolo di attivismo puro: dare alle persone la possibilità di riprendersi la loro società, le loro sicurezze, la propria vita, non come spettatori ma come partecipanti attivamente impegnati"P.Sellars, La questione della cultura, in V.Valentini, M.Delgado (a cura di) Peter Sellars, cit., p. 38.
 
3 V. Valentini, Interculturalismo e modernismo nel teatro di Peter Sellars in Peter Sellars, cit., p. 57.
 
4 P. Sellars, Conferenza tenuta a Carnutum, Austria, 1989.
 
5 P. Sellars, Conferenza tenuta a Carnutum, Austria, 1999, in M. Mac Donald, Sole antico, luce moderna, cit., p. 92.
 
6 Intervista a P. Sellars a cura di Leonetta Bentivoglio, "la Repubblica", 18 novembre 2001.
 
7 P.Sellars, La questione della cultura, Lisbona, Fourth Elia Conference, 13-16 novembre 1996, in V. Valentini - M. Delgado (a cura di), P.Sellars, Catanzaro, Rubbettino, 1999, p. 32-33.
 
8 "Théâtre/public", gen.feb.1996, numero monografico Théâtre et technologie.
 
9 Dal videodocumentario della BBC It's now our time su "The Merchant of Venice" ,1994.
 
10 F. Maurin, Usi e usure dell'immagine: speculazioni su "The Merchant of Venice", in V. Valentini - M. Delgado (a cura di), Peter Sellars cit., p. 115. Trad. di A. Pomarico (Ia pubbl. in B. Picon-Vallin, a cura di, Les écrans sur la scène. Tentations et résistances de la scène face aux images, Lausanne, L'age d'homme, 1998). Rimando senz'altro al testo di Maurin per la descrizione dettagliata dello spettacolo.
 
11 It's now our time. A new generation approach to Shakepseare, 55', col., 1994. Regia: Peter Sellars. Produzione: M. Kustow/Holmes associates per BBC television. Trasmesso su BBC 2 nel 1994.
 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Un Mediterraneo interattivo
Le nuove videoinstallazioni interattive di Studio Azzurro a Castel S. Elmo di Napoli
di Andrea Balzola

 
Il 19 ottobre, nel suggestivo e labirintico castel Sant’Elmo sulla collina del Vomero, si è inaugurata la mostra "Meditazioni Mediterraneo": cinque videoinstallazioni interattive ideate e realizzate da Studio Azzurro, prodotte dalla Maison Hermès in collaborazione con la Soprintendenza Speciale per il Polo Museale di Napoli. Un viaggio d’immagini e di suoni nella mappa del mediterraneo, in particolare nel faccia a faccia tra il Golfo di Napoli e la costa nordafricana. Un viaggio che sarebbe piaciuto a Fernand Braudel, il primo storico a mettere in luce la vitalità complessa, dirompente e assai longeva delle civiltà del Mediterraneo. Una stratificazione di identità culturali e linguistiche, ma anche – come suggerisce Studio Azzurro – di materie, suoni, colori, odori e gesti. All’ingresso della mostra, in una sala circolare, 16 monitor scandiscono con ritmo rapido e dettagli di mani e materie lavorate, le impronte video dei mestieri artigianali che plasmano l’humus di una civiltà minacciata, ma non ancora estinta dalla globalizzazione. Una mappa diaproiettata di questo mediterraneo introduce il visitatore al percorso vero e proprio, è l’ingrandimento di uno dei disegni progettuali di Paolo Rosa che traccia le traiettorie dei venti, ma anche delle vie del sale, della seta, delle spezie e delle armi. Anche in questa mostra, viene confermato e sviluppato il carattere distintivo della ricerca artistica di Studio Azzurro, che attraversa ormai da un ventennio i territori delle arti visive, del video, del cinema e del teatro, senza farsi intrappolare in nessuno di essi, cercando invece – e spesso trovando – una chiave originale d’intreccio dei diversi codici espressivi. L’occasione espositiva diventa allora una messa in scena dei linguaggi, dove lo spettatore diventa attore di un percorso percettivo e cognitivo inedito e interagisce con i percorsi creativi degli autori, aperti alle vitali metamorfosi del senso e dei sensi. La strategia è limpida: creare nei luoghi prescelti una rete videosonora di cattura dell’essenza degli elementi naturali e dell’opera degli uomini del mediterraneo, aggregando i nuclei tematici in micronarrazioni (i gesti che danno forma alla materia, il confronto/scontro tra gli elementi, l’intreccio babelico delle lingue che si sublima nel canto, etc.), poi fare un rigoroso lavoro alchemico di distillazione e trasformazione dei materiali con un’innovativa postproduzione digitale, infine ricomporre nell’interfaccia espositivo le tappe di quel viaggio, allestendo una costellazione di paesaggi "sensibili" (interattivi) che ci chiamano dentro l’immagine e il suono e provano a fare di noi, almeno per un momento, dei viaggiatori sinestetici. Ripercorriamo queste tappe.



1. "Il vento porta i profumi".
E’ forse la videoinstallazione più poetica e originale della mostra. Qui il video interpreta il paesaggio e un finissimo lavoro di postproduzione digitale ne ridipinge luci e colori, ma anche ne plasma la materia, come se l’immagine di per sé immateriale trovasse una nuova consistenza mutante. L’agente di questa mutazione è uno sciame d‘api virtuale (attivabile dallo spettatore) che "attacca" il paesaggio, sfigurandolo. Nei quadri che si susseguono su doppio schermo, appaiono deserto e campi e un’immagine emblematica del percorso di Studio Azzurro: quella di un pittore che dipinge "en plein air" un paesaggio mediterraneo, le sue pennellate scivolano sul cielo. Qui pittura, fotografia, cinema, video e computer si stratificano in una sola immagine in costante trasformazione. E’ ovviamente un omaggio a Van Gogh, e anche al "sogno" cinematografico di Kurosawa che faceva rivivere il grande pittore olandese dentro il suoi stessi quadri. Non a caso, l’immagine simbolo della mostra, che compare sulla copertina del libro-catalogo e sulle locandine, è un cavalletto in riva al mare che supporta un mirino elettronico, citazione vertoviana ma anche omaggio alla pittura "en plein air" che da Van Gogh in poi s’immerge nel paesaggio per rubarne l’anima.
 
2."Il vuoto scritto dalla luce".
Attraversando una traccia luminosa interattiva, le inquadrature su doppio schermo di un deserto o di una spiaggia con ruderi, si avvicinano bruscamente, quasi risucchiandoci nel vuoto della grande sabbia e della grande acqua.



3. "La terra genera l’aria".
Attirati dal vapore e dal fumo che scaturiscono dalle ferite incandescenti del Vesuvio (su una videoproiezione verticale creata da tre schermi), il peso del nostro passo fa vibrare l’immagine, indizio inquietante dell’instabilità della terra, vibrazione tellurica generata da vibrazioni tattili e sonore, che rievoca le avventure di uno strano vulcanologo, un ascoltatore di vulcani.
 
4. "Il colore si annoda al suono".
Ancora il nostro passo può calpestare un tappeto "sensibile" (dove dei sensori nascosti attivano le videoproiezioni), e mutare così una tavolozza di colori e sapori che attraversano le porte dei sensi e creano una spirale di suoni, un canto.
 
5. "L’acqua si ferma nel sale".
Un’altra videoproiezione interattiva su due schermi, rivela come il deposito del sale sia la relazione alchemica tra mare e terra.
Al centro di questo circuito, su una delle ripide scale che portano ad affacciarsi sul golfo di Napoli, Studio Azzurro ha voluto creare una dissonanza (che forse avrebbe meritato maggior rilievo simbolico) all’interno di questo sua sinfonia audiovisiva del mediterraneo: "Eveline". Cinque "cartoline" video in bianco e nero che ripropongono la terribile documentazione dello strazio contemporaneo: la marcia infinita dei profughi affamati, le case distrutte dalla guerra con il massacro dei civili, la cementificazione del paesaggio, i carri armati nelle strade, le navi carretta dei clandestini. Un menu del dolore che continua a essere servito quotidianamente sullo schermo sempre troppo distratto e indifferente delle nostre case. Ed è anche con quella sofferenza che noi dovremo imparare ad essere più interattivi.


Meditazioni Mediterraneo
In viaggio attraverso cinque paesaggi instabili
Castel Sant’Elmo, via Tito Angelini, 20 – Napoli
Dal 20 ottobre al 17 novembre 2002
Apertura tutti i giorni, tranne il lunedì, 9-18
Catalogo pubblicato da Silvana Editoriale
Sito web: www.studioazzurro.com/mediterraneo.

 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Video Albertazzi
Il web-diary delle prove del Concerto per Roma
di Giacomo Verde

 
Giacomo Verde, "reduce" dal Teatro Argentina dove dal 13 al 15 ottobre creava i video fondali "live" per il recital di Giorgio Albertazzi, Anna Proclemer e Uto Ughi Concerto per Roma con regia di Andrea Liberovici, ha lasciato ad "ateatro" il suo "web-diary" nato dall'esigenza di comunicare all'esterno in tempo reale, le impressioni, le tensioni, le difficoltà del più criticato teatro d'Italia. Dove si legge che il mito del "grande attore" esiste ancora, che regista è chi lo sa fare, che, infine, c'è chi crede che la tecnologia a teatro sia come un Gerovital o una "bella tovaglia" di un banchetto per pochi eletti (dove i convitati, sono, per esempio, l'Ordine dei medici che aveva pagato una replica dello spettacolo :-).
amm


:: Tuesday, October 08, 2002 ::
accidenti ho poco tempo ... non riesco a raccontare tutto quello che vorrei perché sono ospite a casa di amici e non posso usare il computer per moto tempo :-( Comunque oggi il "maestro" Uto ha provato l'acustica del teatro e ci chiedeva quale dei suoi violini "suonava" meglio... per me erano quasi identici e lui era davvero bravissimo. Ha un'aria così svagata ... :-) e ha battibeccato un paio di volte con l'assistente perché non concordava sulla durata dei pezzi che lei aveva cronometrato ... Anche Albertazzi si lamenta della sua assistente perché non si ferma mai a vedere le prove. :-) Il videoproiettore è meno potente del previsto, in realtà il costoso telo da retroproiezione lascia passare meno immagine del previsto e i miei video-fondali-vengono un po' spenti... nei prossimi giorni vedremo come risolvere ... La Proclemer a un certo punto guarda lo schermo e dice: "Ma quella sembro io con gli occhi azzurri!" "Ma sei tu, guarda bene...", le dico. In effetti era lei in una vecchia foto in bianco e nero dove la dominante azzurra del video le dava un leggero tono azzurrognolo agli occhi ... "E' vero, sono proprio io", ha aggiunto sorpresa. Devo dire che sentire recitare questi "vecchi attori" è comunque piacevole ... mi piace molto come Albertazzi recita il pezzo della poesia di Pasolini ... Il "maestro di romanesco" si è avvicinato alla mia postazione e mi ha chiesto: "Ma come si chiama il lavoro che fai tu?" Non so ancora", gli ho risposto, "devo ancora trovare il nome".
domani spero di avere piu' tempo per raccontare ...



:: Wednesday, October 09, 2002 ::
Non c'è progetto!!

Quello che all'inizio sembrava un "simpatico lavoro da mestieranti della scena" adesso risulta noioso e debole.
Anche rispetto al mio lavoro di video fondali. Qui al Teatro Argentina di Roma mi sento ancora più "clandestino"...
Così come i "vecchi attori" si dividono le battute delle poesie sulla base di quello che "gli piace fare" e che gli viene quasi bene "alla prima" (per esempio hanno sostituito una poesia futurista perché "non gli veniva bene", dopo averla provata appena tre volte - e poi ieri è stato deciso di tagliare tutta la parte finale del primo tempo - futuristi compresi - perché il pezzo di Uto Ughi suonato in quel momento era già abbastanza bello ... "e cosa vuoi fare dopo? meglio chiudere!!!")... insomma così come gli attori fanno il "montaggio" delle cose che "funzionano", anche a me viene chiesto di realizzare "belle immagini" che si possano accostare alla musica o alla recitazione ma senza la guida di un vero progetto registico: è veramente deludente! Sembra di lavorare in un laboratorio di primo livello dei miei "Tele-racconti", dove gli studenti si meravigliano delle "belle cose" che vengono fuori e gli sembra che basti così!! Anzi ancora peggio!! Perché chi veramente vede e si accontenta dei fondali in realtà è solo Liberovici (il "giovane" regista) mentre Uto Ughi, Albertazzi, Proclemer e Bonagura quasi non li guardano e anzi noto una certa diffidenza nei confronti del mio lavoro.
E a me non piace lavorare con chi ti guarda con sospetto. Loro forse hanno paura che gli rubo la scena. Ma in effetti in molti momenti anche io ho l'impressione di non essere necessario ... proprio perché non c'è un vero progetto ma solo delle idee per cercare di dare una "veste moderna" alla solita zolfa. Inoltre è impossibile fare anche delle "critiche costruttive" perché la modalità "piramidale" del lavoro non mi permette di prendere la parola: scavalcherei il regggista!! E questo è vietatissssssimo!!! E poi c'è davvero poco tempo: bisogna essere produttivi, non c'è tempo per discutere e approfondire. Vabbuò peggio per loro! ;-)
Oggi dovremmo provare l'Amleto di Albertazzi, dove ad un certo punto del famoso monologo "il Giorgio" sostituirà il "famoso teschio" con una video camera (sigh!!) in modo da autoriprendersi: la sola idea mi fa accapponare la pelle! Ancora una volta un uso "banale" delle macchine video, scambiato per genialata registica! Spero che si rendano conto della "bruttezza" della cosa o che ci siano dei problemi psico-tecnici che la rendano irrealizzabile.
Oggi mi son messo la maglietta dei C.S.I. con scritto "M'importa una sega"... bnon mi resta altro ... purtroppo.
per ora e' tutto
giac
:: Giacomo 12:43 PM [+] ::




:: Thursday, October 10, 2002 ::
E' quasi l'una di notte


Nella giornata appena passata è stato "provato" il secondo tempo, ma ancora non si è visto il finale dello spettacolo.
Albertazzi usa la videocamera al posto del teschio nell'amletico monologo: il suo faccione viene mega-video-proiettato sul fondo della scena esaltando tutte le sue bellissime rughe. L'effetto è interessante anche se un po' piatto e spudoratamente "teatrale". Probabilmente avrà successo, a me pare terribbbbile. Siamo andati avanti nella scelta delle "belle immagini" dal catalogo effetti speciali G. Verde - stagione 1999/2000 - che qui nella provincia della videoarte, per tecno-registi principianti, fanno comunque effetto. :-) :-) :-)
Si potranno ammirare meravigliosi gattoni su lucido trasparente, radiografie giganti, ripresa dello schermo video che trasmette Pasolini che intervista Ezra Pound, e per finire uno splendido Angelone seicentesco che suona il violino ... un vero "simpatico" guazzabuglio denso di "poesia visiva" di primo livello :) :) :)
Mi dispiace molto per Pasolini ed Ezra: anche loro finiti in questo Helzapopping dedicato a Roma.
Per fortuna che i pezzi suonati dall'orchestra di Uto Ughi (anche se strafamosi) sono comunque molto belli da sentire. I testi teatrali in questo momento mi sembravano più interessanti nelle prove fatte a tavolino ... spero di sbagliarmi.
Comunque se avevo dei dubbi sul fatto che questo "lavoro" avrebbe potuto aprirmi delle porte nel "teatro ufficiale" adesso sono certo: non se ne apriranno! e se verrà fuori qualche altra proposta sarà sicuramente per operazioni poco interessanti. Non mi va di utilizzare il video, e le tecnologie in generale, per dare l'immagine di "modernità" a situazioni che in realtà non hanno la minima intenzione, o possibilità, di evolvere da forme e da tecniche ormai "felicemente sclerotizzate", e che in fondo possono già funzionare da sole - almeno quando sono ben fatte.
Ci sarebbe molto da riflettere su tutto questo...
Ma ora è tardi e preferisco andare a letto
'notte
:: Giacomo 1:26 AM [+] ::



:: Friday, October 11, 2002 ::
Hanno tagliato i gatti!! ;-)

Ieri alle 19 circa è stato fatto il primo tentativo di "filata"; il secondo tempo è risultato interminabile quindi sono stati richiesti dei tagli. I sacrificati sono:
Alcuni pezzi dell'Amleto-Albertazzi; 6 sonetti del Belli; tutti i poeti latini; una canzone della Fusco. E siccome il "maestro Uto" si è incazzato quando ha visto un gattone campeggiare sull'orchestra, mentre eseguiva Respighi, si è pensato (evviva!!) che era meglio rinunciare ai gatti. Devo ammettere che il pezzo video-gatto in questione lo avevo fatto veramente malissimo, era davvero brutto. Ma che dovevo fare? Non avevo potuto provare a vedere come "animare" i gatti su quella musica, e quando è arrivato il momento ho provato a fare qualcosa... ma non veniva fuori niente di buono, d'altronde non potevo chiedere all'orchestra di fermarsi e ricominciare in modo che potessi trovare delle soluzioni... così ho lasciato un grande gatto immobile sullo sfondo per tutto il tempo!!! :-) Un vero scandalo!! :) :) :) :)
E l'urlo che ha cacciato Albertazzi quando è andato a prendere la videocamera per autoriprendersi (nel bel mezzo del suo Amleto) e l'ha trovata spenta!!??? Batteria scarica. E questo perché è la sua vecchia videocamera con delle vecchie batterie che non durano nulla. Era scontato accadesse! Per fortuna è successo in prova.
Ma possibile che non ci fossero i soldi per noleggiare un'attrezzatura decente? ....
Intanto io rimango in questa barca, clandestino in incognito, a fare molto meno di quello che avrei potuto fare.
Ho chiesto ad un tecnico com'era la situazione "ai tempi di Martone". "Bellissimo", mi ha risposto, "si facevano feste dalla piccionaia ai magazzini, e poi una stagione di spettacoli bellissimi, gli abbonamenti a prezzi abbordabili anche per gli studenti, il teatro era sempre pieno, e le compagnie che venivano erano tutte belle compagnie" ...
vabbuò, oggi alle 18 prova generale con teatro pieno di gente - ingresso gratuito gestito da una associazione culturale ...
vedremo che succede.
per ora è tutto
giac
:: Giacomo 1:00 PM ::

:: Saturday, October 12, 2002 ::
Prima non ci sono riuscito!

in teatro stamani non c'era nessuno degli uffici e l'internet point era chiuso.
Tra meno di un'ora si va in scena. Ieri la generale è stata davvero "buffa". Nel secondo tempo hanno saltato un brano musicale perché Uto era dietro le quinte e si era "distratto", poi la Proclemer non aveva il testo di una poesia, poi Uto ha rifatto l'inizio del brano che ormai era dato per perso e quando si è accorto che non era quello giusto l'ha fatto finire e ha ricominciato quello previsto. Io ho dovuto improvvisare immagini per coprire gli errori. Che palle!!!
Nel pomeriggio mi ero arrabbiato con la Proclemer: diceva che c'erano troppe immagini, e che la distraevano:- "Io non riesco ad ascoltare la musica e contemporaneamente a seguire le immagini", diceva. "Bene", le ho risposto, "allora potremmo tornare al cinema muto, quando non c'era il sonoro a distrarre dalle immagini!!!" :-) :)
Comunque il pubblico non pagante ha appalaudito e acclamato, anche se tutto sommato le prestazioni attoriali e musicali (e anche video) non erano certo al massimo.
Ma a cosa serve fare il teatro in questo modo? A chi serve fare teatro così??
E' solo una celebrazione delle "personalità artistiche", quasi un culto della persona che trovo davvero idiota.
E' evidente che questo modo di fare arte mi è lontanissimo. E' un vero peccato vedere tanto "buon mestiere" sprecato in questo modo. E poi è brutto vedere come sono gerarchizzati i rapporti umani dietro le quinte. I "big" salutano e parlano solo con i "big", gli "operatori dello spettacolo" (macchinisti, musicisti, elettrricisti, fonici e video maker) solidarizzano tra di loro e fanno battute anche pesanti sui tic delle "persone famose e importanti"... sembrano davvero cose di altri tempi... come in effetti è il teatro che continuano a proporre...
ci sentiamo dopo la prima
giac
:: Giacomo 7:36 PM ::

Sunday, October 13, 2002 ::
Dopo la prima …

Si è più rilassati. Lo spettacolo non è andato male. Il pubblico degli abbonati o invitati di "lusso" ha reagito applaudendo nei momenti previsti… non so come abbiano "valutato" le proiezioni video. Naturalmente gli amici mi hanno detto che erano la cosa più interessante dello spettacolo. Anche un giovane produttore teatrale pare ne sia rimasto colpito. Speriamo non si sia fatto male ;-)
Prima di andare in scena ci sono stati i soliti "minuetti" di benvenuto reciproco tra i "protagonisti" della serata: Albertazzi baciabbraccia Uto che baciabbraccia Proclemer che baciabbraccia Bonagura che baciabbraccia Fusco che baciabbraccia Liberovici che baciabbraccia Proclemer che baciabbraccia… I "non protagonisti" invece si raccontavano barzellette sconce, qualcuno diceva "merda" e parlavano del più e del meno.
Durante le ultime prove tecniche abbiamo constatato che la vecchia videocamera di Albertazzi mandava in tilt il mega-videoproiettore da centinaia di milioni di lire e così ho dovuto attrezzare la mia videocamera in modo che potesse fare il monologo del teschio usando appunto la mia.
Durante il secondo tempo ho dovuto improvvisare due interi pezzi di video-fondali che non avevo potuto provare durante la generale perché avevano sbagliato la scaletta: nessuno ha protestato. Come pare che nessuno si sia accorto di nulla quando Uto all’inizio del secondo tempo non ha attaccato a suonare alla battuta convenzionata con Giorgio. E pensare che quando si sono piazzati in scena, 30 secondi prima dell’apertura del sipario, Uto chiede a Giorgio: "Scusa Giorgio quand’è che devo cominciare a suonare?". Risposta: "Quando dico ‘Quel violino che ascoltavo da bambino’". "Ah, bene, grazie".
Ma quando è arrivato il momento di suonare (erano passati non più di 4 minuti dall’apertura del sipario) Uto non ha dato segni di vita, Giorgio ha ripetuto la battuta… nulla, allora si è avvicinato e guardandolo dritto e l’ha ridetta. Solo allora, come risvegliato improvvisamente, Uto si è riscosso e si è lanciato in un bellissimo assolo, meglio di quanto aveva fatto in prova: evidentemente doveva farsi perdonare…
anche se non è tutto...
giac
:: Giacomo 12:26 PM ::

:: Monday, October 14, 2002 ::
E per finire ...

Stamani sulla "Repubblica" c'è un articolo su Albertazzi Multimediale dove il "giovane regista" si prende tutti i meriti ed io non sono nemmeno citato: esattamente come mi aspettavo!
Mi consola solo il fatto che ieri sera, dopo lo spettacolo, sono saliti sul palco due "teatranti" per conoscermi e farmi i complimenti dicendo che il mio lavoro era l'unica cosa interessante della serata e che si capiva che non poteva essere "opera della regia".
Ok! Adesso basta con l'Argentina ;-)
alla prossima
giac
:: Giacomo 5:20 PM ::
 


Appuntamento al prossimo numero.
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