(92) 10/12/05
Le Buone Pratiche 2.2
La questione meridionale a teatro

La questione meridionale a teatro: le Buone Pratiche a Benevento
L'editoriale di ateatro 92
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and1
 
Non si può essere stupidi e ricchi per più di due generazioni
Perché l'Italia deve aumentare l'investimento in cultura e spettacolo
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and2
 
Raddoppiare la spesa per la cultura in 5 anni?
Una proposta (Beta version)
di Mimma Gallina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and3
 
La forma necessaria del teatro
La Biennale Teatro 2005 diretta da Romeo Castellucci
di Fernando Marchiori

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and5
 
Lo schermo infestato
House of no More del Big Art Group
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and19
 
Andersen Project per Robert Lepage
Il nuovo "solo show" del regista canadese a Parigi e Londra
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and20
 
La quarta edizione di N[ever]land percorsi al digitale
Una intervista con Enzo Aronica
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and21
 
Il teatro in azienda
Con una nota sul mio improbabile debutto come drammaturgo
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and25
 
Aspettando Beckett: il Godot di Pontedera scatena un caso giudiziario
Una conversazione con Roberto Bacci
di Andrea Lanini

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and27
 
Verso un sistema unico dello spettacolo dal vivo in Italia
Le Buone Pratiche 2: interventi & relazioni
di Filippo Del Corno

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and30
 
Riflessioni su Mira
La Buone Pratiche: interventi & relazioni
di Renato Nicolini

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and31
 
Dissonanze
Le Buona Pratiche 2: relazioni & interventi
di Carmelo Alberti

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and32
 
Per un sistema regionale dello spettacolo
La relazione per la Conferenza regionale per lo spettacolo, Firenze, 6 dicembre 2005
di Lanfranco Binni

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and33
 
La classe morta trent'anni dopo
In mostra alla Triennale di Milano dal 6 dicembre
di Triennale

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and70
 
Il principe costante restaurato
Un convegno a Roma il 26 e 27 novembre
di Università di Roma "La Sapienza"

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and71
 
Teatro di figura, disabilità e intregrazione in convegno a Cervia
Un teatro dai diversi talenti dal 2 al 4 dicembre
di Arrivanodalmare!

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and72
 
Una prospettiva condivisa per le arti e lo spettacolo
Un incontro a Firenze il 3 e il 4 dicembre
di Adac

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro92.htm#92and73
 

 

La questione meridionale a teatro: le Buone Pratiche a Benevento
L'editoriale di ateatro 92
di Redazione ateatro

 

Così ci siamo. La prossima tornata delle Buone Pratiche, come promesso, è già in cantiere.

Dopo il lavoro preparatorio di Mira (vedi la mappazza di materiali sul sito) abbiamo deciso di rilanciare. Con un pizzico di megalomania, come è nostra abitudine. Così stiamo pensando di organizzare una specie di campagna. Lo slogan l'abbiamo rubato a Curzio Maltese: Non si può essere stupidi e ricchi per più di due generazioni. L'obiettivo è quello di chiedere ai nostri rappresentanti nella prossima legislatura di incrementare l'investimento in cultura e spettacolo.
In questo ateatro92 troverete una prima traccia di documento, aperto a emendamenti e modifiche. E poi - appunto - se ne riparla e si lancia alla Villa dei Papi, subito dopo l'Epifania.

Intanto l'annuncio di BP2.2 Benevento, estendendo l'invito ad amici e nemici. Sappiamo chr al Sud c'è grande attesa per quetso incontro, e dunque speriamo di ritrovarci numerosi e aguerriti.

Le Buone Pratiche 2.2
La questione meridionale nel teatro

sabato 7 e domenica 8 gennaio 2006

BENEVENTO

Villa dei Papi

in collaborazione con il Comune di Benevento



La Villa dei papi si chiama così perchè fu costruita dall'Arcivescovo di Benevento Orsini, successivamente divenuto papa, su consiglio di un altro papa sulla collina di Pacevecchia che, a sua volta deve il suo nome, al Trattato di pace stipulato nel XVI secolo tra due fazioni cittadine.

In attesa di riprendere il mitico Fotoromanzo della Buone Pratiche, qualche utile info:

- organizzazione & informazioni: Danny Rose
tel. 3351752301 e-mail info@dannyrose.it

- se vi volete iscrivere cliccate qui
(e vi DOVETE iscrivere)

- se volete leggere il documento preparatorio cliccate qui

Altre info a seguire nei prossimi giorni: restate sintonizzati.
E mi raccomando: ateatro al Sud ha molti amici, ma voi certamente molti di più.
Perciò diffondete la notizia e fate arrivare altri amici…

Ma intanto abbiamo online un ricchissimo e sorprendente numero 92.
Nella opulenta sezione tnm Anna Maria Monteverdi si parla di Big Art Group, Robert Lepage e N[ever]land. Fernando Marchiori ci regala le sue riflessioni sulla Biennale Teatro di Romeo Castellucci. I più pettegoli potranno divertirsi scoprendo come e perché Oliviero Ponte di Pino ha debuttato come drammaturgo e come mai Beckett è finito in tribunale con Pontedera Teatro.
E naturalmente ci sono i postumi delle Buone Pratiche 2.1. a Mira con gli interventi di Filippo Del Corno, Renato Nicolini e Carmelo Alberti, mentre la relazione Lanfranco Binni alla Conferenza Regionale dello Spettacolo di Firenze e le riflessioni di Mimma Gallina ci proiettano già – attraverso la Toscana – verso Benevento.
 


 

Non si può essere stupidi e ricchi per più di due generazioni
Perché l'Italia deve aumentare l'investimento in cultura e spettacolo
di Redazione ateatro

 

Stiamo pensando di diffondere questo testo, per raccogliere eventuali adesioni.
Mimma Gallina nel frattempo sta lavorando a un testo più specificamente rivolto al teatro, ma per noi è fondamentale inserire la “vertenza spettacolo” (reintegro del FUS eccetera) in un contesto più ampio.
Quello che ci sembra cruciale è il passaggio da un atteggiamento difensivo (“Basta taglia a cultura e spettacolo”, che presuppone che cultura e spettacolo siano un di lusso, un optional rispetto a spese più importanti), alla rivendicazione del valore strategico del settore.
Questa è una prima versione del nostro appello ai candidati alle prossime elezioni politiche, aperta a suggerimenti e modifiche (insomma, ci piacerebbe sentire il vostro parere; in ogni caso iniziate a diffondere). Dopo di che, proporremo il documento debitamente emendato in occasione delle Buone Pratiche 2.2 a Benevento il 7-8 gennaio 2006 per una prima verifica.


Due citazioni

1.
“Siamo arrivati alla soglia in cui il declino culturale diventa anche economico. Eppure nessuno sembra rendersene conto, fino a non capire che il segreto della crescita e della concorrenza cinese e indiana non è lo sfruttamento brutale, che c’è sempre stato, ma l’alfabetizzazione di centinaia di milioni di lavoratori. Non si può essere stupidi e ricchi per più di due generazioni.”
(Curzio Maltese, “Il Venerdì di Repubblica”, 25 novembre 2005)

2.
“Se il cinema, il teatro, la musica e la danza denunciano un salasso (…) il sistema della tutela statale, i musei, i siti archeologici, gli archivi, le biblioteche non stanno meglio. Diluvia sul bagnato di un paese che destina alla cultura appena lo 0,16% del suo PIL, contro lo 0,50% della media europea, contro lo 0,35% del Portogallo, lo 0,9% della Spagna, l1% della Francia e addirittura l’1,35% della Germania. Un autentico suicidio.”
(Vittorio Emiliani, “l’Unità”, 11 ottobre 2005)


Due fatti

1.
Non esistono statistiche affidabili sulla spesa in cultura e spettacolo dei governi europei, ma è indubbio che l’Italia destina al settore molto meno della media dei suoi partner europei.

2.
In Italia negli ultimi anni l’investimento in cultura e spettacolo si è drasticamente ridotto, finanziaria dopo finanziaria.


L’articolo 9 della Costituzione

In una società moderna, nel mondo globalizzato, la cultura è una risorsa che va adeguatamente valorizzata. Il principio è peraltro stato sancito dalla nostra Costituzione.

Art. 9
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”


Una richiesta ai candidati al Parlamento

Chiediamo che i candidati al Parlamento si impegnino ad aumentare progressivamente l’investimento del governo in cultura e in spettacolo, fino a raddoppiarne il valore reale nell’arco della legislatura.
Chiediamo altresì ai nostri rappresentanti all’interno degli enti locali di impegnarsi ad aumentare l’investimento in cultura e spettacolo.


 


 

Raddoppiare la spesa per la cultura in 5 anni?
Una proposta (Beta version)
di Mimma Gallina

 

C'è ancora speranza: pare che si ridimensionino i tagli previsti in finanziaria per il 2006, e su questo punto l'azione, la mobilitazione e la vigilanza (su come poi si orienterà la spesa) non deve cessare, l'obiettivo principale è ottenere le garanzie da chi governerà questo paese nei prossimi anni che l'investimento sulla cultura e lo spettacolo sia riportato a livelli "giusti", ai livelli minimi accettabili perchè si possa "parlare" di politica culturale, e si possa esigere qualità nella produzione, correttezza e dinamismo nelle gestioni.

E' stata confortante in questa direzione la conferenza Regionale Toscana dello Spettacolo del 6 dicembre, soprattutto per il ribaltamento dell'atteggiamento difensivo - un po' "scusate se ci siamo" - che anche inconsapevolmente caratterizza spesso la risposta all'attacco al settore dello spettacolo dal vivo (e della cultura più in generale). In particolare l'assessore alla cultura Mariella Zoppi, assumendo una posizione che il presidente Martini ha autorevolmente confermato (inquadrandola in un'analisi della evoluzione politica e economica generale della regione) è stata molto esplicita circa la necessità di uscire dalla retorica astratta e dalla rendite di posizione che caratterizza da troppo tempo la nostra politica nazionale (del tipo: qui c'è stata la Magna Grecia, Roma e il Rinascimento e abbiamo tanti monumenti), in nome di un intervento concreto sulla creatività come risorsa. Si è impegnata a un maggior investimento (la Toscana non è fra le regioni che spendono di più per lo spettacolo) e nello sforzo di rafforzare e in parte disegnare un sistema originale (in questo stesso numero di ateatro riportiamo l'intervento in proposito del responsabile del settore spettacolo Lanfranco Binni).

(Ri)acquisire una piena consapevolezza della funzione pubblica (servizio o valore) non significa giustificare il diritto all'esistenza ma riappropriarsi degli strumenti per passare dalla difesa, all'attacco.
Se, fuor di retorica, i beni e le attività culturali costituiscono una risorsa sulla quale è essenziale poter contare per delineare compiutamente una prospettiva realistica e coerente di rinascita civile del paese e di arresto del declino e riassunzione di un ruolo per il sistema italiano nel contesto di nuovi equilibri europei e mondiali. Se, come per l'attività di ricerca (pura ed applicata), sono fattore necessario per indirizzare in senso innovativo lo sviluppo della produzione e dell’economia,
Allora "misurare" il necessario-giusto-realistico investimento per lo spettacolo - e individuare quindi obiettivi chiari - non è semplice ma è necessario. Come anche indicare alcune finalizzazioni precise senza cui (a mio parere) sarebbe facile disperdere maggiori risorse.
L'indicazione dell'1% sul PIL è efficace ma un po' astratta; del resto non siamo riusciti (nonostante gli sforzi miei e di Giulio Stumpo, che ringraziamo e che ci ha promesso ampia documentazione su cui riflettere per l'appuntamento di Benevento) a trovare confronti a livello internazionale già elaborati e accettabili (ciascun paese orienta, misura e colloca la spesa in modo diverso e il confronto è molto complesso).
Più in concreto propongo alla discussione di Benevento, che affronterà la "questione meridionale" (ma proprio a partire dalla vitalità e dalla squilibri che probabilmente emergeranno, potrà favorire la definizione di obiettivi precisi), di riflettere su una piattaforma (ovviamente non rigida!):


a) INCREMENTO DELLA SPESA PUBBLICA PER LA CULTURA E LO SPETTACOLO

Si tratta chiedere, ma vorrei dire esigere, pretendere da chi governa a livello nazionale e regionale, che nell'arco dei prossimi 5 anni:
- la spesa statale per lo spettacolo sia incrementata di circa il 20% l'anno, ovvero RADDOPPI nell’arco della legislatura.
La % non è buttata là e non è folle, anzi è a mio parere la minima accettabile: calcolando la riduzione del FUS negli anni e in corso, questo piano porterebbe a raggiungere al quarto anno i livelli dell'85 (!) prevedendo un successivo, minimo investimento; inoltre l'incidenza della spesa per lo spettacolo sulla spesa pubblica è talmente modesta (lo 0,08% - vedi la tabella - che non sarebbe così difficile, volendo e credendoci, trovare da qualche parte, in 5 anni, un altro 0,08)
- che le Regioni perseguano l'obiettivo concreto di destinare almeno l'1% del proprio bilancio alla cultura (o un importo pro capite da definire) e le pochissime "virtuose" che già l'hanno raggiunto e superato garantiscano un incremento proporzionato ai livelli di inflazione.


b) LE FINALIZZAZIONI

L'incremento, ovviamente in collegamento con il quadro legislativo nazionale e regionale tutto da elaborare, deve orientarsi su precisi punti (pochi e chiari), definiti a livello nazionale ma declinati-regolamentati-pianificati sul territorio (cioè in modo anche diverso da una regione all'altra), secondo i principi della legislazione concorrente. Questi punti sono in parte già emersi dalle nostre discussioni e tirando un po' le fila di numerosi interventi, penso che potrebbero essere:

- il riequilibrio territoriale
nord/sud e non solo
Si tratta di offrire
- livelli minimi di offerta per il territorio
- condizioni e livelli garantiti di accesso e fruizione
I modi e mezzi sono da individuare (anche per questo ne parliamo a Benevento) e sono delicati, ma ricordo che questo è anche uno dei punti principali del progetto di legge delle Regioni (della proposta di ripartizione dei fondi statali).

- il consolidamento dei soggetti di riferimento pubblici e privati
, secondo un piano che ne garantisca chiarezza e rispetto di funzioni, indipendenza, qualità, sobrietà di gestione.
Lo so che molti amici di ateatro non sono d'accordo su questo punto ma senza una rete sana di istituzioni (sto riferendomi ovviamente agli enti lirici, gli stabili delle diverse tipologie etc.) è inutile parlare del resto, perchè questi organismi invece di essere punti di riferimento artistici e garanzia del servizio pubblico, resteranno macchine clientelari e succhia soldi.

- il sostegno alla multidisciplinarità e alla contemporaneità
: ovvero a progetti, spazi, idee, e forse la creazione di nuovi modelli/soggetti che favoriscano l'incontro e il rinnovamento dei linguaggi

- il sostegno alla creatività e all'imprenditorialità giovane:
in tutte le forme possibili e senza modelli rigidi

- il sostegno alla domanda (la questione del pubblico)
non uso i termini promozione e formazione perchè ciascuno gli dà il significato che vuole, ma rimando agli interventi di Mira in proposito.


c) GLI STRUMENTI

Vanno individuati pochi chiari obiettivi in proposito:

- il FUS è diventato una gabbia finanziaria e "ideologica"
(basti ricordare la ripartizione rigida e l'impossibilità di dialogo fra i settori) e non va incrementato, ma riformato o semplicemente abolito, sostituito da altri strumenti finanziari.

- l'extra-FUS (cioè i fondi sparsi che oggi chiamiamo così), va sottratto alla discrezionalità ministeriale.
Insomma: non sta a noi, ma di certo vanno trovati strumenti finanziari più flessibili e innovativi. Forse però non sono da escludere indicazioni concrete del tipo: i fondi del lotto andranno finalizzati alla contemporaneità, l'imprenditorialità giovanile nel settore è favorita dall'abbattimento dell'80% degli oneri previdenziali eccetera.: ma sarebbe dispersivo affrontare l'argomento ora.

- la detrazione fiscale delle erogazioni liberali anche individuali (e perché no anche la spesa per abbonamenti a stagioni teatrali, musicali eccetera), deve corrispondere a una scelta autentica: la legge va riformata e applicata con una regolamentazione semplice. E devono essere messe in atto tutte le facilitazioni fiscali possibili per il settore (cfr. progetto Regioni in proposito).

- vanno superati al più presto i decreti in vigore che impediscono qualunque rinnovamento e si deve arrivare entro il 2006 (realistico ?), a una legge quadro con la definizione di pochi principi e finalità e, nei sei mesi successivi, alle leggi e alle regolamentazioni regionali.
Il progetto Rositani per fortuna - se ho capito bene - non è più un riferimento, quello delle regioni potrebbe essere una base, ma incombe il rischio di un progetto governativo che sarebbe con ogni probabilità una eolica aggiornata dei vecchi decreti e appiattirebbe la politica regionale sui modelli statali.

Non so bene quale potrà essere il piano di azione che una COSA informale, uno spazio aperto di discussione, come ateatro dovrebbe varare per promuovere, dare concretezza a questi obiettivi, o a quelli che definiremo. Raccolta di firme, dialogo con regioni, e forze politiche, azione stampa: non so, è un argomento da discutere e risolvere senza trasformarsi in qualcosa che non siamo. Ma penso che costituiscano il presupposto per l'attuazione dei PRINCIPI (di cui intendevamo parlare a Mira), e la premessa per disegnare anche nei particolari, ma senza rigidità, un nuovo assetto del sistema dello spettacolo.


 


 

La forma necessaria del teatro
La Biennale Teatro 2005 diretta da Romeo Castellucci
di Fernando Marchiori

 

Il romanzo della cenere

Poca tecnologia e molto corpo, primato della grammatica sul discorso, ricerca di un nucleo essenziale non ulteriormente scomponibile, di una forma come necessità. Sono questi – per sfoltire a nostra volta le ramificazioni di una questione critica rigogliosa, che affonderebbe le sue radici fin nel terreno reso fertile dai dissodamenti dei deteatralizzatori di un secolo fa – i tratti comuni agli spettacoli presentati dalla Biennale Teatro diretta da Romeo Castellucci. Lavori scelti, almeno in parte, tra quanti emersi grazie a un bando pubblico lanciato l’anno scorso, scavalcando logiche di scambio e atti dovuti. Molti nomi sconosciuti, perciò, o provenienti da ambiti non strettamente teatrali ma comunque interessati a ripensare la rappresentazione e la sua sintassi. Un teatro forzato a venire alla luce, a uscire da quella condizione catacombale che per Castellucci è, “ai giorni nostri, una scelta tanto obbligata – a causa dell’esclusione istituzionale – quanto optata per una ragione di forza e distinzione”. Un teatro che sembra fare a meno del mondo, rispetto al quale non vuole essere risposta o reazione ma nuova creazione, punta che incide la lastra della rappresentazione, allontanando tautologie e nichilismi, elementi di significazione pregressi o indotti, per provare invece ad ascoltare il canto che si alza dalla cenere, fondo di ogni costruzione e processo, per muovere quel diaframma tra mondo e calco del mondo – usiamo l’immagine di Francesco Bonomi – che ancora ci può far scoprire che viviamo secondo mentre crediamo di vivere nel primo.


Lo spettacolo allontanato

L’essenzialità di molti di questi lavori non guarda tuttavia al “teatro povero”, e il loro incarnarsi” in esperienze di vita non è mero autobiografismo. Se la tensione al grado zero delle figure del teatro non è promessa di spettacolo, non è neppure rinuncia al teatro: “Si ha la sensazione che questa forma di riduzione dell’apparato teatrale, della macchina, sia una strategia di focalizzazione dell’oggetto e, insieme, di sottrazione di campo per le scorrerie dello spettacolo”.
Ecco allora la sospensione degli impulsi, la drammaturgia delle reazioni irriflessive, l’attuazione diluita, dislocata o differita. Ecco il ritrovamento di principi compositivi prosciugati e solidi, la verifica di differenti possibilità di esecuzione e percezione delle partiture gestuali, coreutiche, prossemiche fissate – come le estreme posture degli abitanti di Pompei – in un altrove che ci interroga con la sua assenza e ci scuote nella nostra presenza apparente, che ci rivela a noi stessi, nella nostra condizione di spettatori. Ma spettatori di uno spettacolo ormai scomparso insieme alla relazione che ne era l’essenza in quanto apertura di senso e comunità possibile.
Le premesse teoriche sembrano a tratti ricalcare – ma per capovolgerle e riconsiderarle da un fondo post-umano o per operarne una mise en abîme nello specifico teatrale – le antiche tesi sulla società dello spettacolo di Guy Debord. La constatazione che apriva il libro del situazionista francese – “Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione” – avrebbe così come corollario la deduzione che ormai da tempo lo spettacolo stesso si è allontanato. Ciò che colpisce è tuttavia la fede nella possibilità del teatro – si direbbe nelle sue capacità postume, nelle sue estreme conseguenze – di risvegliare non l’uomo – nessun afflato messianico a Venezia – ma almeno l’uomo in quanto spettatore. “Oggi non c’è più bisogno di andare a teatro per essere spettatori – scrive Castellucci – Forse ce n’è per sapere di essere spettatori.”


Fantasmi di gesti avvenuti altrove

Per tentare questo risveglio, il teatro che si è “visto” negli spazi dell’Arsenale è sembrato volersi trattenere su un terreno che precede la spettacolarità sezionandone i dati tecnici o trascendendone le disposizioni narrative. È sembrato cioè rimuovere lo spettatore, sottrarsi al suo sguardo, “nascondendosi, rinunciando alla propria appariscenza”, come ha scritto Nicholas Ridout, curatore insieme a Joe Kelleher di quei Dialoghi con le opere che hanno fatto parte integrante del festival.
Lo spettatore lasciato solo, dunque, ma non completamente. Poiché per essere riconosciuto in quanto teatro l’accadimento dovrebbe ovviamente “coinvolgere almeno qualche forma di relazione; potrebbe comprendere per esempio il riconoscimento in un’immagine, o nelle sensazioni risvegliate da un’immagine, dalla vulnerabilità di un corpo umano”. Sul piano teorico queste possibilità sono state indagate negli interventi di Bonomi, di Davide Stimilli, Bruna Filippi e Giorgio Agamben, con ampi riferimenti all’iconologia warburghiana che la riflessione sul teatro sembra – non senza qualche impaccio – finalmente avere scoperto. Sul piano della pratica teatrale ecco invece il moltiplicarsi di scene evocanti i fantasmi di gesti avvenuti in tempi, spazi o linguaggi altri, e di spettacoli nei quali l’evento si sottrae all’esposizione, come se rimanesse al di qua di una soglia per dare concretezza e visibilità alla soglia stessa, e insieme alla propria assenza.
In We’re talking about music, per esempio, un ensemble di venti musicisti “esegue” il Concerto n. 1 per piano e orchestra di Sostakovic con quattro direttori e una coppia di danzatori a segnare la misura ritmica dello spettacolo, il suo “codice temporale”. Viene annunciato il tempo (allegro, moderato, ecc.) ma gli spettatori non sentono la musica, vedono soltanto i gesti degli esecutori in scena, e lo spazio scenico è una fossa d’orchestra divisa in corridoi formati da schermi. Più che alla traduzione di un testo musicale in un testo visuale, la regia, firmata dai moscoviti Victori Alimpev e Marian Zhunin, si dice interessata al “discorso patetico sull’Assente”.


Suoni della Terra e orografie pulsanti

Anche nella danza invisibile del duo londinese Bock & Vincenzi – che s’intitola proprio L’altrove – tutto si gioca sulla presenza di corpi che traducono in una partitura plastica una consegna decodificata in tempo reale ma come proveniente da una realtà parallela. Le indicazioni di ruolo e di movimento vengono impartite ai performer (talvolta anche bendati) attraverso auricolari e schermi. Sono comandi che li portano a esplorare modalità impreviste di costruzione del movimento, provando spazi sempre diversi, itinerari di scoperta all’interno del proprio corpo, spostamenti sulla base di topografie mentali altrui, repliche di danza, ecc.
La Sonusphera dell’olandese Mark Bain prova un’esperienza per certi versi simile addirittura su scala planetaria. L’installazione capta i movimenti della Terra attraverso dei sensori sismici modificati, li canalizza al proprio interno (un involucro plastico del diametro di sei metri) e traduce i suoni del pianeta, normalmente non udibili, in pulsazioni fisiche che premono alle sue pareti, sulle quali non pochi spettatori finiscono per appoggiare l’orecchio, la mano.
Ridotta all’osso, anzi al minimo muscolo, è invece la danza di Maria Donata D’Urso in Pezzo O (due). Per trenta minuti la performer espone il proprio torso nudo, apparentemente decapitato, sopra un piano asettico, trasformandolo in scrittura corporea, orografia pulsante, segno luminoso che esplora uno spazio generato dal corpo stesso, provando contorsioni e spostamenti lentissimi – mano, gamba, seno – trovando equilibri impossibili: “Ho attribuito alla pelle – scrive – la misura di un’altimetria del territorio della scena così come il livello del mare lo è per il contesto urbano”. Ne risulta una fisicità calibrata, percettibile in ogni stato e movimento, dove persino il respiro e i rumori del corpo – registrati e lavorati dal compositore Mathieu Farnarier – assumono consistenza non organica.


Tra il reale e l’irreale

Dimostrando una compostezza e una umiltà ignote, per definizione, al gesto della body art, i linguaggi corporei che dialogano in molti spettacoli del festival puntano alla precisione del gesto ma per riorganizzarne la fenomenologia. Sono lavori che si concentrano sull’impulso più che sull’espressione, quasi a voler fondare un alfabeto non asservito al dovere semantico. Cindy Van Acker porta avanti uno studio tra i più interessanti in questa direzione. In Corps 00:00 trasforma il proprio corpo in un oggetto solo in parte controllato dalla mente e sottoposto agli impulsi elettrici che stimolano i muscoli favorendo risposte indipendenti dal dominio mentale e differenti da quelli abituali. I movimenti vengono “composti” in parallelo con una partitura musicale eseguita dal vivo da un quartetto e sembrano davvero dare vita a un dialogo tra il reale e l’irreale.
Non tutti gli appuntamenti veneziani, naturalmente, sono stati così puntuali nel percorrere le linee di tendenza riconosciute da Castellucci.



Vi sono state proposte francamente inconsistenti, come il siparietto pseudo-ecologista e melenso del norvegese Ane Lane (Migrations Birds); occasioni sprecate, come le “incursioni nella profetica provocazione cartesiana sulla macchina corpo” di Habillé d’Eau in Ragazzo cane, dove l’intenzione registica, nel tentativo di non apparire tale, è risultata una pesante ipoteca sull’intensità delle prove delle attrici; e uno scivolone inspiegabile nella commedia, per giunta noiosa, con Good Samaritans di Richard Maxwell e la compagnia New York City Players.
Ma nel complesso le innervature e le tensioni sono apparse riconoscibili, anche in spettacoli assai distanti tra loro. Prendiamo ancora il “teatro incorporeo” di Carl Michael Von Hausswolff. Basandosi sul libro Phisical Interrogation Techniques di Richard W. Krousher, che raccoglie le istruzioni della CIA, rivolte alla polizia militare statunitense e non solo, sui mezzi di tortura nel corso degli interrogatori, l’artista svedese interviene sullo spettatore attraverso forti e concreti movimenti di luce e suono che contrastano con le istruzioni astrattamente impartite da un attore all’inizio di ognuno dei sei quadri.



Non tradisce emozioni la voce incolore che informa il pubblico di quanto avviene, e su questo scarto fa perno l’ambizioso tentativo di un “teatro capovolto”, dove l’attore avrebbe la funzione della scenografia e viceversa.
Oppure la performance di Roman Signer (Action with Water Buckets) che ha appeso sette secchi di latta zavorrati sopra altrettanti secchi pieni d’acqua disposti sulla scena. Quando il filo che li trattiene in aria viene bruciato, i secchi appesi cadono dentro a quelli sottostanti facendone tracimare l’acqua e allagando lo spazio scenico. Il tempo viene agito, quasi scolpito attraverso una dinamica dell’attesa, una “drammaturgia della suspence” che diviene vibrazione del mondo in pericolo, seriale microvajont dell’anima.

L’accaduto senza l’accadere

Siamo sempre di fronte a declinazioni le più diverse di un sentimento dell’assenza del quale si ricercano le elementi di struttura formale. “È la sospensione tra il desiderio e il compimento”, scrive in uno dei “fogli di critica intorno alle opere” stilati quotidianamente nel corso del festival l’Insieme di Studio di Bologna, un gruppo di giovani studiosi che ha collaborato con Joe Kelleher e Nicolas Ridout. “L’assenza, ciò che ci è precluso, contrae la visione in quella zona inafferrabile che si situa tra ciò che accade e ciò che si suppone stia accadendo. A un certo punto si ha come la sensazione di essere di fronte all’accaduto senza l’accadere. L’accadere è altrove.”
Questa sensazione di assenza, o di presenza differita – “quel che ci accade è già morto altrove”, scriveva Joë Bousquet – trova forse una forma più cantabile in Orthographe de la physionomie en muovement, uno “spettacolo per camera ottica” con la regia di Alessandro Panzavolta.



Una quindicina di spettatori per volta entra in una “camera chiara” e siede su tre gradini dando le spalle alla camera oscura dentro la quale gli attori, senza parlare, agiscono di fronte a fonti di luci dando corpo a immagini che la lente ottica proietta in tempo reale – ma quale realtà? – sul telo bianco di fronte al pubblico. Semplici ma fortemente evocativi gli effetti di profondità di campo, i tagli obliqui, i rovesciamenti d’immagine, le sfocature zonali. L’ispirazione è venuta al giovane gruppo di Forlì dai dagherrotipi della Iconographie photographique de la Salpêtrière che il neuropatologo Jean-Marie Charcot pubblica a partire dal 1877 per documentare e studiare le malattie psichiatriche dei soggetti rinchiusi nel grande ospedale parigino, soprattutto donne classificate come isteriche o epilettiche. Sembra che le lezioni di Charcot sull’ipnotismo e sull’isteria fossero delle vere e proprie performance con le giovani internate come attrici. Le immagini diacroniche in movimento nello spettacolo colgono la forza straziante di quelle icone mute prima che lascino il teatro anatomico per entrare nei fotogrammi della pellicola cinematografica.


 


 

Lo schermo infestato
House of no More del Big Art Group
di Anna Maria Monteverdi

 

Il molto newyorchese Caden Manson, leader del giovanissimo gruppo tecno-teatrale Big Art Group, è sbarcato a Senigallia, al Teatro La Fenice, chiamato dal neo-assessore alla cultura del Comune (oltreche anima di Inteatro) Velia Papa, che già aveva accolto il loro precedente spettacolo Flicker, richiamando un vero bagno di folla di giovani e giovanissimi.



Il nuovo spettacolo, House of no More, non è stato da meno come presenza di pubblico e consenso generale. Passato abbastanza in sordina nel generale panorama teatrale nonostante la fama di enfant prodige della nuova scena che si è ritagliato l'elegante e schivo Caden, House of no More prosegue la sua ideale messa alla berlina della comunicazione mediatica. Ancora un real time film, il terzo della saga che produce un effetto “allegramente sovversivo”: il commento della rivista “Time Out” sancisce in effetti la realtà di questo spettacolo, una tutto sommato bonaria e tiepida critica ai media.



Riassumendo, la trama è un evento di cronaca nera, vero o presunto: una madre cerca disperata la propria bambina scomparsa, probabilmente rapita; forse è lei stessa la colpevole, in uno sdoppiamento di personalità.



Pare che all'inizio della guerra contro Baghdad Cnn & Co. abbiano cercato di spostare su questo fatto l'attenzione del pubblico televisivo, troppo sconvolto dalle immagini quotidiane dei bombardamenti nelle regioni mediorientali. Di questo non ne abbiamo traccia nello spettacolo ma solo dalle parole del regista. Una specie di détournement abilmente orchestrato dai grandi media e su cui chissà cosa avrebbero potuto scrivere sociologi della comunicazione come John Berger, Régis Debray e Kevin Robins. Anzi forse sarebbe il caso di riprendere il libro di quest'ultimo, Oltre l'immagine, una riflessione sull'imperialismo dell'immagine, sulla proliferazione iperreale e sul trattamento delle imagini al tempo della Guerra del Golfo. Esplicitando questo riferimento ai media al tempo della guerra, il Big Art Group avrebbe forse potuto colpire più direttamente il bersaglio. In questo senso House of no More avrebbe potuto davvero essere la versione popolare di alcuni dei concetti di Kevin Robins: all'interno del capitolo Visioni di guerra, c'è un paragrafo intitolto Lo schermo infestato in cui lo studioso analizza la stretta relazione tra un omicidio a opera di un serial killer e la efferrata strategia della "costruzione" del mostro Saddam Hussein:

Vi sono persone che amano dirci che lo schermo ha ora eclissato la realtà, che stiamo vivendo in un mondo di immagine, simulazione e spettacolo. Esiste, in realtà, qualcosa di suggestivo in questa osservazione. Ma prima di essere eccessivamente sedotti da questo scenario postmoderno, dovremmo rammentare i 150 mila uomini e donne reali che vennero realmente uccisi al di là dello screening della Guerra del Golfo. Dovremmo considerare le implicazioni del fatto che esiste una relazione simbolica tra i serial killer della fiction e quelli reali, che massacrano realmente.
Non è che noi viviamo ora nel regno dell'immagine, piuttosto vi è, ora, nella nostra cultura, una sorta di meccanismo collettivo, sociale di separazione. L'io-spettatore è disimpegnato moralmente, galleggiando in un oceano di immagini violente. L'io-attore è intrappolato in una realtà in cui la violenza è spesso moralmente schiacciante.

Rimane in House of no More come già in Flicker l'uso di una telecamera per ciascun attore che registra un'immagine che non avrà una diretta corrispondenza sugli schermi proiettati, mettendo in mostra l'evidenza che le immagini trasmesse dalla televisione altro non sono che il risultato di una composizione-manipolazione della realtà.



E' stata aggiunta la tecnologia in green screen, che complica un po' le cose ma che permette un'aggiunta di ambienti sempre diversi e soprattutto real time grazie a un banco di regia video digitale a vista che controlla le posizioni degli attori, li scompone e li scontorna in diretta. Rimane il gioco già perfettamente riuscito in Flicker e ora portato al parossismo, dall'esibizione virtuosistica alla “coreografata sincronia di movimenti degli attori” intenti a cercare il punto in cui potranno diventare - grazie alla telecamera - da separati uniti, da lontani vicini: un divertente gioco di montaggio delle immagini, che rende l'operazione teatrale formalmente straordinaria e di indubbio impatto visivo.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Andersen Project per Robert Lepage
Il nuovo "solo show" del regista canadese a Parigi e Londra
di Anna Maria Monteverdi

 



Il nuovo spettacolo di Robert Lepage Project Andersen è in scena fino al 27 novembre alla Maison des Arts de Creteil, a Parigi, e sarà a Londra il 26 gennaio, al Barbican Centre.
Andersen Project, commissionato dalla Fondazione Andersen per il bicentenario della nascita dello scrittore e poeta danese, ha debuttato il 22 maggio 2005 a Copenhagen.



La genesi: Robert = Hans Christian

La commissione da parte di Lars Sieberg della Fondazione Andersen inizialmente non ebbe buon esito. Robert Lepage rifiutò perché - come spiega al giornale del Québec “Le soleil” - “non ho mai avuto grande affinità con i racconti per l'infanzia”.



Sieberg torna alla carica portando al regista e attore canadese il diario di Andersen. A quel punto Lepage si lascia sedurre dalla prolifica attività dello scrittore danese (autore di 156 fiabe), scorgendo tra gli anedotti quotidiani narrati alcuni motivi inattesi della sua omosessualità e rintracciando alcune affinità, riducibili in sostanza all'amore di entrambi per il viaggio, come dichiara a “Le devoir”:

“Il diario di Andersen mi ha illuminato, mi sono riconosciuto nella sua vita, non tanto quella personale ma nel fatto che anche lui era un grande viaggiatore, una persona che credeva che la miglior maniera di ritrovare se stessi era di andare a conoscere l'altro, e molta parte della sua opera è stata ispirata ai viaggi. In questo mi sono riconosciuto”.



Leonardo, Cocteau, Miles Davis: queste alcune delle figure del mondo dell'arte che ricorrono nel suo teatro. Artisti che si rivelano nel corso della trama drammatica, per la loro complessa personalità ma anche per le loro debolezze, “specchio” per il personaggio solo in scena, in cui si identifica Lepage stesso: “Spesso nei miei spettacoli solo, il personaggio mi assomiglia un po'”. Lo spettacolo, dunque si fa. Come solo show, il quinto interpretato e diretto da Lepage (dopo Vinci, Les aiguilles et l'opium, Elsineure, La face cachée de la lune), che si avvale per la drammaturgia, della collaboratrice di un tempo, Marie Gignac, già sua complice di scrittura per La trilogie des Dragons.

La trama

Lo spettacolo si ispira al viaggio dello scrittore danese a Parigi nel 1867 in occasione dell'Esposizione Universale e ai due racconti L'ombra e La driade. Nella finzione teatrale un autore di testi per canzoni rock del Québec, Frédéric Lapointe, va a Parigi per creare su commissione del Théâtre de l'Opéra il libretto di un'opera lirica per l'infanzia tratta da un testo di Andersen, La driade, storia di una ninfa che rinuncia all'immortalità per visitare Parigi. Lapointe ripercorre inconsapevolmente il viaggio di Andersen e trova tracce del suo antico soggiorno. Incontra chi gli ha commissionato l'opera, un amministratore dai gusti insospettabili, un giovane maghrebino appassionato di graffiti, e un cane che diventa la guida dell'intero spettacolo. Alcuni video fondali ricreano le diverse ambientazioni delle due storie parallele a cent'anni di distanza l'una dall'altra.

La Dryade è una prigione. La Danimarca è una prigione. Ma anche il Québec è una prigione?



Dice Lepage del racconto La Driade:

«E' una parola di origine greca che designa lo spirito di un albero. Nella mitologia, gli alberi sono animati da uno spirito che prende le sembianze di una giovane fanciulla. Quando un albero muore, si dice che è perché la sua driade se ne è andata. [...] Un albero è stato piantato in una piazza di Parigi all'epoca della visita di Andersen [...] L'anno dopo, ci sarebbe stata l'Esposizione Universale del 1867. Si dice che il pretesto per portare l'albero a Parigi era il desiderio della driade di andare a vedere l'Expo”. La prigionia della ninfa è quella di Andersen rispetto alla rurale e conservatrice Danimarca (e forse di Lepage dentro l'enclave del protezionismo linguistico e culturale del Québec).

Il modernismo

1867: La stagione del Modernismo e la morte del Romanticismo. Ovvero l'Expo, il Canada, la fotografia, Baudelaire e il motore a scoppio.

Il 1867 è un anno cruciale per il passaggio a una società moderna, per le invenzioni tecniche e per il perfezionamento di quelle già esistenti, dalla stampa alla fotografia alla pila. Il 1867 è infatti la data della Grande Esposizione Universale di Parigi, allestita nata in pieno Secondo Impero napoleonico, sotto gli auspici di un grande slancio tecnico: Léon e Lévy sono autori di ottantaquattro viste stereoscopiche per l’Esposizione di Parigi, dove la fotografia è decisamente protagonista; in quella stessa occasione Otto e Langen presentano il motore con il quale si è avviato il percorso che ha portato all’attuale motore a scoppio. Quattro anni dopo Meucci inventerà il telefono. Stava intanto nascendo la nuova arte pittorica, l'impressionismo, che si basava sul colore e sulla luce.
Il 1867, anno della seconda rivoluzione industriale (e del Canada diventato dominio del Commonwelth britannico), è anche la data di morte di Baudelaire, che aveva dedicato proprio alla modernità il saggio Il pittore della vita moderna (1863), definendola “il transitorio, il fuggitivo, contingente, la metà dell'arte, di cui l'altra metà è l'eterno e immutabile”.



Il “modernista e romantico” Lepage rappresenta così con Le project Andersen un'epoca di passaggio, che per certi aspetti richiama la nostra, che segna l'avvento di una trasformazione della società e dell'individuo dovuta a scienza e tecnologia in atto:

L’Esposizione Universale del 1867 è la fine del romanticismo parigino e l’inizio del modernismo. E nel modernismo Andersen vede raconti di fate, macchine incredibili, un mondo maschile di machos, un universo realista, matematico, fondato su cose molto concrete (...) Il romanticismo, sia nella mia vita privata sia in quella professionale, me lo rimproverano. (...) Ma questi sono temi che tornano spesso nei miei spettacoli, il fatto che individui romantici si trovino in un mondo molto concreto dove c’è poco spazio per la poesia, per l’eccesso, per le passioni.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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La quarta edizione di N[ever]land percorsi al digitale
Una intervista con Enzo Aronica
di Anna Maria Monteverdi

 

N[ever]land, la “B o t t e g a ” Digitale di Enzo Aronica

Enzo Aronica è da anni protagonista del panorama della d i g i t a l a r t italiana come direttore artistico di N e v e r l a n d e come artista multimediale che vanta collaborazioni internazionali di prestigio. Per la Spellbound Dance Company ha curato la regia multimediale degli spettacoli Q U A T T R O (2003) e S T A T I C O M U N I C A N T I (2004) e il progetto video dell'ultima produzione del WYOMING DANCE THEATRE di New York.
Dal giugno 2002, è ideatore e Direttore artistico di N[everl]and Festival dedicato all'evoluzione della tecnologia digitale nei mestieri dell'arte e della comunicazione. N [ e v e r ] l a n d edizione 2005 appena conclusasi ha avuto come special guest ARS ELECTRONICA di Linz, ed inoltre Bob Dylan secondo Martin Scorsese, il controverso T h e B i g Q u e s t i o n di Cabras e Molinari dal set P a s s i o n di Mel Gibson e il progetto di film in animazione digitale interamente in 3D dedicato a Anna Frank di Dario Picciau e un numero ragguardevole di altri incontri con docenti universitari e operatori tecno-teatrali. L'Accademia delle Arti e dei Mestieri dello Spettacolo "Teatro alla Scala" ha presentato il progetto sulla ricostruzione virtuale delle scenografie del 1778 per l'E u r o p a r i c o n o s c i u t a. Aronica così proposto per N e v e r l a n d il progetto ambizioso della costituzione di un luogo che riunisca le forze che lavorano nella direzione dello studio e della ricerca digitale. Uno spazio ideale in cui si incontrano e si mettono alla prova, confrontandosi, le diverse esperienze di cinema d'animazione e teatro tecnologico condotte nei Centri Internazionali, nelle Università, nelle Accademie. Un Teatro-Studio da cui far nascere le nuove idee. Al digitale.




Qual è la tua formazione d'artista: cinema, teatro o video?

Tutti e tre, a partire dal teatro dove debutto nella seconda metà dei mitici anni Settanta, in piena avanguardia romana. La grande passione per la musica, dieci anni di violino, ma anche gli studi appassionati di etologia, la scienza nuova sul comportamento animale. Poi il video, incontrato nel centro della sua espansione, studiato a Londra al Royal College of Art, e metabolizzato inizialmente come avvicinamento al cinema. Il cinema, quindi, studiato sul campo, "sporcandosi le mani" sul set, iniziando come assistente operatore di un Premio Oscar alla fotografia come Pasqualino De Santis, una scuola ruvida ma efficace: quando al tuo primo film, in otto settimane ti passano fisicamente per le mani macchine, obiettivi e trentamila metri di pellicola si impara anche non volendo qualcosa che nessun corso o libro potrebbe darti... E poi, crescendo, la vocazione all'insegnamento, nata dall’incontro con Carlo Boso del Piccolo Teatro di Milano: da allievo a docente in Teoria e Tecnica di Palcoscenico tra Cinquecento e Settecento, in Italia prima e poi nel mondo; poi, inevitabile, la maturazione nella regia e nella direzione artistica. Oggi, tutti questi mondi convivono, quasi non hanno grande differenza per me, nella pratica di tutti i giorni. Si sostengono l'un l'altro.

Incroci, interferenze, interconnesioni: il tuo Festival N [ e v e r ] l a n d, ha esplorato nelle quattro edizioni le frontiere dell'attraversamento dei generi e dei linguaggi artistici nella loro prospettiva digitale. Qual è l'obiettivo di un Festival di questo tipo e qual è il suo pubblico?

N[ever]land è l’occasione per indagare se, come e quanto la tecnologia digitale sia oggi in grado di incontrare le moderne arti visive così come le più antiche arti di palcoscenico, l’editoria tradizionale e la mobilissima comunicazione on line, nella ricerca di un’armonia possibile tra necessità produttive e spinte creative.
Nel nome che decisi all'inizio è nascosto il significato a cui più tengo: l'isola-che-non-c'è in cui poter riscrivere le regole del gioco. Ecco, questo per me è stato e continua ad essere una casa di idee per recuperare il vuoto culturale che la grande velocità di una rivoluzione tecnologica ci infligge, inevitabilmente, preferendoci clienti docili anziché consapevoli. E poi, non sono partito concependo N[ever]land come un festival o una rassegna, ma come dei semplici “incontri”, un occasione in più per mettere in contatto persone differenti con curiosità simili, occasioni per la verità poi non così frequenti.
Quindi, il pubblico degli incontri sono tutti coloro che questa necessità di consapevolezza la vivono quotidianamente: innanzitutto molti studenti, anche grazie all’adesione delle tre Università romane, spesso confusi o delusi da indirizzi di studio dai contenuti fantasma quanto le prospettive; ma anche gli stessi docenti, in drammatica necessità di aggiornamento, non meno smarriti dei loro studenti e professionisti dell’arte e della comunicazione, che scoprono quanto paradossalmente oggi un archivista possa condividere magari con un regista o un coreografo o un giornalista la stessa interfaccia tecnologica per la soluzione del suo problema...

Schermi digitali, aule digitali, Scene digitali, Archivi digitali, questi i "cassetti" della rassegna. Su cosa hai puntato per l'edizione 2005?

Mi piace “cassetti”, rende l’idea, e fa anche pensare al cilindro del mago da cui estrarre il coniglietto, la sorpresa...Ecco, il primo rischio, la grande tentazione: nonostante la missione divulgativa ammetto che un appuntamento come n[ever]land cerca anche di sorprendere, di sfruttare lo stupore per attirare l’attenzione: per chi come noi, indaga le nuove tecnologie, questo accade anche troppo spesso, ma l’esperienza maturata in questi quattro anni ha soprattutto insegnato a prendere le distanze dal fare solo una sterile esposizione di fenomeni da baraccone informatico...Sai, in verità, i settori guida, i “cassetti” di cui sopra, sono serviti fin dall’inizio più a me per orientarmi nella preparazione di un programma che per spiegarlo e proporlo: la piattaforma tecnologica tende oramai a omologare i diversi ambiti, ad abbattere grandi separazioni nelle procedure e negli applicativi: un progetto culturale, artistico o di comunicazione (e già questi oggi suonano come sinonimi...) attraversa sempre più trasversalmente il momento dell’archivio da cui attingere, della didattica a cui rifarsi come metodologia comunicativa, allo schermo come cornice finale dove tutto finisce in mostra... E proprio per combattere il rischio che lo schermo si trasformi in lapide, quest’anno ho provato a fare salire un gradino a n[ever]land, un piccolo ma sostanziale spostamento da “casa di idee” a “bottega di idee”, nel tentativo di offrire qualcosa che possa restare anche dopo i crediti o i titoli di coda. Ad esempio, la presenza di un ospite speciale come ARS ELECTRONICA, il racconto del suo quarto di secolo passato accompagnando passo dopo passo la nuova tecnologia nel terzo millennio, può essere letto come un incoraggiamento subliminale a rimboccarci le maniche, a scendere dal piedistallo dell’intrattenimento per volgersi allo studio, alla ricerca, alla rivalutazione di ogni sano artigianato che può e deve affiancare il calore dei nostri processori.
Ecco, tornando ai “cassetti”, forse la ricerca di questo equilibrio l’ho più evidente proprio nelle Scene digitali, un bell’esempio di una bottega di idee, con quel lento ma inesorabile incedere della tecnologia nelle antiche arti di palcoscenico, non a caso l’ultimo nato nei settori di n[ever]land, inaugurato solo lo scorso anno...

Le sperimentazioni più audaci nel campo del tecnoteatro hanno scarsa possibilità di produzione e di ospitalità all'interno del panorama italiano. Quale è a tuo avviso una possibile via di uscita e quali le nuove modalità di distribuzione e circuitazione?

Qui tocchi un punto che mi riguarda doppiamente, al di là e al di fuori dei contenuti di n[ever]land, e mi riferisco al mio percorso di regista in palcoscenico e di direttore artistico di festival di teatro. Personalmente, non definirei “sperimentazione audace” alcuna delle mie incursioni teatrali nella tecnologia, quanto piuttosto una “barocca curiosità” sulla strategia della percezione in scena e in platea: e uso non a caso il termine “barocco” perché proprio insegnando in giro per il mondo le leggi di prossemica applicate alla tecnica dei comici dell’arte, e spiegando come si potesse illuminare o incendiare o allagare o riempire di nuvole un teatro del Seicento che ho maturato le mie curiosità, come cioè si possa oggi rigenerare quello stupore a partire dagli ingranaggi della vecchia macchina-teatro, delle sue maraviglie sceniche che vanno al di là, verso una scenografia “percepita” e quindi “vissuta”, tanto per fare una esempio. E questo ovviamente anche per la drammaturgia, la recitazione, la danza, la musica...Insomma, la penso come Flaiano, quando diceva “Teatro è cercare nel buio qualcosa che non c’è. E trovarlo”.
Quanto al circuito, scomparsa quella fascia intermedia di produzione e distribuzione nella quale ha vissuto la ricerca, e archiviata con una certa delusione la promessa di ospitalità della rete, oggi la conquista di spazi e attenzione appare a tutti gli effetti una necessità drammatica: e se invece fosse la benvenuta? Insomma, la tua domanda è buona per una tavola rotonda più che per una risposta. E allora concludo con un’altra domanda: ma siamo proprio sicuri che una “sperimentazione audace” abbia bisogno di un “circuito”?


 


 

Il teatro in azienda
Con una nota sul mio improbabile debutto come drammaturgo
di Oliviero Ponte di Pino

 

Non ho mai scritto per il teatro e non mi sono mai occupato di formazione aziendale, né come allievo né tantomeno come discente. Dunque era abbastanza improbabile che debuttassi come drammaturgo nel corso di un Forum di Formazione. Eppure questo evento statisticamente (quasi) impossibile si è verificato qualche settimana fa, per un complesso combinato di circostanze e soprattutto grazie all’interesse e alle necessità di Indaco, una società che di occupa di consulenza e direct marketing (e nell’abito della consulenza ricade, ovviamente, anche la formazione).
Quello del “teatro d’azienda” o “teatro in azienda” (ma c’è anche chi ha registrato il marchio come teatrodimpresa®) è del resto un’area in espansione e sviluppo, che occupa uno spazio sempre più ampio all’interno dei percorsi di formazione, ma è anche caratterizzato da una forte concorrenza e dalla necessità di offrire proposte credibili e innovative.
Il 9° Forum Formazione, organizzato da Somedia al Palazzo delle Stelline di Milano l’8 e 9 novembre 2005, ha ospitato una trentina di seminari della durata di un’ora circa, in cui le diverse aziende presentavano ai potenziali clienti i loro progetti. Erano numerosi quelli che si richiamavano più o meno esplicitamente al teatro. In particolare, citando dalla brochure dell’iniziativa e seguendo un rigoroso ordine alfabetico:

Forma del tempo®
, avendo come partner èteatro® di Jader Giraldi (“autore, attore e regista, formatore aziendale”), inizia così la presentazione del seminario: “Nel teatro ci sono tutte le storie da raccontare. Anzi, ci sono le tecniche per raccontare tutte le storie della vita. (…) Se poi il teatro è nostro e di nessun altro, rappresenta il nostro sguardo, echeggia la nostra voce, evoca la nostra memoria. E’ una testimonianza viva, del nostro esistere, così come è stato per chi in passato ha scelto l’estetica per lasciare traccia di sé. ÈTEATRO® è un progetto di teatro su misura in cui la dimensione estetica e quella formativa coesistono e si intrecciano. Il racconto teatrale diviene una metafora di una realtà che ha senso sperimentare attraverso una narrazione collettiva”.
Al primo posto nei “brand” dell’azienda c’è “Action Game®”, ovvero “giochi di simulazione che ricostruiscono una realtà virtuale in cui sperimentare e sviluppare le competenze”.

Gobag Sviluppo Imprese annuncia invece la “nuova era della formazione” attraverso il Candid Camera Training: gli iscritti “vengono informati che, in un determinato periodo di tempo prefissato, alcuni di loro potranno essere coinvolti in una Candid Camera che riguarderà esclusivamente le loro competenze professionali”. Successivamente, in aula, “verranno analizzate ed esaminate tutte le Candid registrate insieme al formatore”.

Indaco
, per “rispondere con maggiore consistenza e incisività alle esigenze di un contesto aziendale in continuo mutamento”, offre:
- Formazione Outdoor, utilizzando “barca a vela, training & mounts, archery biathlon, gold educational, dive & high”;
- ACTING Marketing in Action, ovvero “l’utilizzo del teatro e della comunicazione teatrale come tecnica per la formazione manageriale e per la dinamizzazione di eventi”.
Nel seminario presentato a Milano Indaco ibrida appunto Teatro e Sport: interazioni dinamoche per un nuovo agonismo aziendale: “Nell’ambito del training aziendale, l’impiego sincronico di sport-teatro e di analoghe tecniche corporee e mentali, diventa utile ad incentivare le risorse del ‘sentire’ e del ‘comunicare’. (…) I punti distintivi del programma:
- dal role taker al role player: teatro e sport per assumere e gestire un efficace ruolo aziendale;
- chi è il capo?: analogie tra coach e regista;
- costruire un team vincente: il gioco di squadra e le regole del palcoscenico;
- debriefing e learning-log: efficace ‘drammatizzazione’ del momento formativo.”

SC Consulting con Azienda, “Vis comica” e Formazione: buonumore e buone performances punta invece sui “principi della ‘Scienza del Sorriso’ (Psico Neuro Endocrino Immunologia) applicati a innovativi modelli formativi (…) L’energia scatenata dal ridere, introdotta in ‘Azienda’ e opportunamente veicolata attraverso Percorsi formativi permette di sviluppare opportunità all’interno di processi e dinamiche aziendali. ‘Ridere’ e ‘Emozioni Positive’ rappresentano efficaci strumenti di
- Problem Solving;
- Facilitazione nella soluzione di problemi complessi;
- Gestione e Soluzione di Conflitti interni;
- Crescita personale-professionale.”
Non sorprende che l’azienda dichiari di avvalersi “dell’esperienza dei Clown-Dottori di !Ridere per vivere!”.

S.P.E.L.L. (l’acronimo sta per “Società per elevare il livello del lavoro”) presenta invece una “lezione spettacolo” dal titolo Meditazioni per dirigenti perplessi. “La lezione-spettacolo è un momento formativo, arricchito dalle modalità e dagli strumenti propri del teatro. L’obiettivo è quello di trasmettere le informazioni con maggiore incisività, coinvolgendo la sfera emotiva oltre a quella strettamente cognitiva. In questo modo è possibile rendere fruibili anche gli argomenti più ostici (…) Naturalmente, come tutte le tecniche di teatrodimpresa®, la lezione spettacolo si integra perfettamente con la formazione tradizionale, rappresentando la partenza ideale per un tragitto formativo o una chiusura brillante di un percorso svolto. Per la sua godibilità (…) è anche un modo intelligente per animare una convention, lanciare un prodotto o per un evento promozionale”. Non può sorprendere che le Meditazioni per dirigenti perplessi (disponibile in versione completa di 2 ore e versione condensata di 75 minuti) siano “state presenti in cartellone, come puro momento di intrattenimento, in importanti teatri italiani”.
Oltre al teatrodimpresa®, S.P.E.L.L. propone altri percorsi formativi:
- Guidare guidando, che “consente di mettere alla prova le proprie doti di leader in un contesto avvincente: una pista ed un’automobile”
- CooKing, che condensa la vita organizzativa “nella preparazione di un singolo piatto o di un intero pasto con o senza l’ausilio dello chef”;
- Outdoor Sociale, rivolto soprattutto a quadri e dirigenti, “che coniuga la dimensione ‘fuori aula’ con i temi del confronto e dell’impegno sociale, per stimolare i partecipanti ad una riflessione sul proprio modo di intendere e agire il ruolo del capo”.
La stessa S.P.E.L.L. affronta in un altro seminario la domanda cruciale: Il grande tabù: funziona davvero il Teatro in azienda? Per rispondere utilizza le “testimonianze di chi lo ha provato”. In particolare la brochure annunciava la presenza:
- Claudia Mosca, “che ha seguito il progetto Taboo, una tournée di dieci spettacoli sul tema della morte per presentare agli agenti della compagnia [le assicurazioni Zurich, n.d.r.] una nuova campagna sulla polizze vita;
- Adamo Bove, “responsabile della security in Tim, che ha proposto a duemila dipendenti uno spettacolo di sensibilizzazione sulle tematiche di Security;
- Laura D’Amico, “che ha sperimentato il teatrodimpresa® come momento di intrattenimento in una convention aziendale” di Manpower;
- Anna Castellucci, della ASL di Bologna, che ha utilizzato “il teatrodimpresa® in diverse occasioni, da quelle di carattere formativo a quelle divulgative, fino ad essere coinvolta insieme ad altri dirigenti sul palcoscenico in una rappresentazione pubblica”.

La Scuola di Palo Alto, una business and management school, offre quello che è forse il programma più articolato. Sotto l’insegna “Che spettacolo!”, precisando che “la produzione è della Scuola di Palo Alto”, la “regia di Leonardo Poppa, regista e docente di tecniche teatrali”, annuncia con grande evidenza: “Gli attori? SIETE VOI”.
I numerosi workshop hanno titoli adatti a una accademia d’arte drammatica:
- “Sul Palco della Vita. Le Regole della Comunicazione in Pubblico”;
- “Svelare il Corpo Attraverso la Maschera. La forza del Linguaggio Gestuale”;
- “I Meccanismi della Risata. Le Tecniche del Comico al Servizio della Comunicazione”;
- “Le Abilità Sociali Attraverso il Metodo Stanislawsky. Il Lavoro dell’Attore e l’Intelligenza Emotiva”;
- “Il Potere del Narrare. I Racconti come Finestra Emotiva dell’Impresa”;
- “Comunicare in Pubblico. Dominare la Scena in Meeting, Congressi e Convention”.
Non è tutto. Sul versante “Spettacoli in azienda”, la Scuola di Palo Alto offre tra l’altro “La Gestione del Cliente Interno attraverso il ‘Mugugno Comedy’”. Perché “nei luoghi di lavoro possono svilupparsi molteplici situazioni di tensione” e dunque “è utile offrire l’opportunità di manifestare le cause di nervosismi e irritazioni, creando un ambiente di confronto sereno, al fuori (sic) del contesto produttivo”; ecco dunque un percorso in “tre tappe:
- raccolta dei mugugni;
- analisi dei mugugni;
- rappresentazione dei mugugni.”
“Le tecniche teatrali e i meccanismi della comunicazione permetteranno di calarsi nei panni degli altri, di ascoltare, di gestire positivamente le proprie emozioni e cogliere con più attenzione gli stimoli esterni.”
Volendo è possibile creare uno “spettacolo di simulazione sul gioco dei ruoli”, dove ogni partecipante crea un personaggio di riferimento (reale o di fantasia) e interagisce con gli altri; uno “spettacolo recitato da attori aziendali (…) sulla base di tematiche ritenute utili o importanti all’interno dell’azienda stessa”, per allietare meeting e convention aziendali; sulla base di specifiche richieste, è anche possibile creare spettacoli ad hoc con attori professionisti oppure organizzare le più tradizionali serate “di evasione” per convention e meeting aziendali. Il colpo di coda finale è però “…In giallo. Intrattenimento con partecipazione attiva”, dove “i partecipanti non sono solo spettatori ma attivi protagonisti dell’indagine”: alcuni attori mischiati ai partecipanti (e individuati come possibili sospetti) e un ispettore si preoccuperanno di creare il contesto adatto; anche in questo caso “è possibile, laddove il committente lo desideri, personalizzare la trama (calzando la storia sull’azienda), e/o far partecipare ai fatti alcuni collaboratori interessati”.

Non so quanto sia rappresentativo il campione di aziende presenti al 9° Forum Formazione; in ogni caso la percentuale di chi utilizza tecniche teatrali è molto alta. Le tipologie di intervento sono assai variegate, a riprova – se non altro - della versatilità del teatro e la ricchezza delle sue possibili funzioni. Si va dallo spettacolo che chiude la convention aziendale (e che tutti i comici televisivi – e i loro conti correnti bancari - conoscono bene) a forme di intervento assai sofisticato (nella presentazione di Indaco, per esempio, si è accennato ai “cattivi shakespeariani” come possibili modelli di leadership: e sul tema c’è ormai un’ampia bibliografia). Ovviamente si usano tecniche differenti quando si tratta di “mettere in situazione” dei giovani che devono iniziare a lavorare in un call center o alla cassa di un supermercato; oppure quando si ratta di affinare la comunicazione all’interno dell’azienda o di fare operazioni di marketing o pubbliche relazioni; o ancora quando si tratta di affinare le capacità decisionali di un dirigente d’azienda.
Per spiegare il successo di questo approccio nell’ambito della formazione va anche ricordato che la teatralizzazione si sposa bene con le tecniche ispirate all’analisi transazionale (Eric Berne, Analisi transazionale e psicoterapia e A che gioco giochiamo?; Vann-Joines, Analisi transazionale), molto usata in ambito aziendale.
A volte il teatro in azienda è una retorica che con la sua leggerezza rispetto a forme più ingessate di comunicazione e formazione aiuta a trasmettere con maggiore efficacia un determinato messaggio (l’insistenza sugli aspetti emotivi rispetto a quelli puramente razionali non è casuale); per certi aspetti è un’attività che si apparenta all’animazione nei villaggi turistici. In altri casi è più una tecnica dell’io che serve a plasmare la personalità, l’identità individuale (soprattutto per manager e dirigenti) e collettiva (ovvero aziendale) e i rapporti interpersonali; in questo il teatro in azienda può richiamare piuttosto lo psicodramma e la terapia di gruppo.
Inutile sottolineare che un uso del teatro di questo tipo – e in questi contesti – può far correre un brivido lungo la schiena dei cultori dell’arte per l’arte, e suggerisce alcune riflessioni sulla natura stessa del teatro e della teatralità (e sul loro valore…) all’interno della società contemporanea. Il teatro in azienda è un’occasione di consapevolezza e un momento di controllo, è uno spazio di apparente libertà che però ha come obiettivo un maggiore condizionamento (o per lo meno l’adeguamento a determinati standard).
Altrettanto inutile sottolineare che il “teatro d’azienda” rappresenta un possibile sbocco professionale per giovani teatranti che sappiano in qualche modo costruirsi una professionalità alternativa e che siano in grado di confrontarsi con una realtà assai diversa da quella del mondo del teatro, per obiettivi e per modalità di comportamento.

E il mio debutto come drammaturgo?
Qualche tempo fa avevo scritto un breve testo, Atleti del cuore, per il libretto-programma della rassegna “Teatri dello sport”: è un dialoghetto didattico tra un’atleta e un attore, che vorrebbe illustrare affinità e differenze tra le due attività (lo si trova in questo sito).
Non era un testo scritto per essere rappresentato ma Umberto Lardieri e Lisa Baudino (che chissà come è riuscita a scovare il testo in rete) hanno pensato che potesse essere utile per illustrare la filosofia di base del loro progetto e hanno chiesto a due attori (Alberto Barbi e Barbara Cinquatti) di interpretare i due personaggi.
Così per un quarto d’ora ho provato l’ebbrezza di essere un drammaturgo (una vocazione che non ho mai avuto) e un formatore aziendale (un’altra vocazione che mi manca). Posso solo ringraziare gli artefici di questa esperienza… e chissà che da questo strano incrocio non nasca qualcos’altro.


 


 

Aspettando Beckett: il Godot di Pontedera scatena un caso giudiziario
Una conversazione con Roberto Bacci
di Andrea Lanini

 



Il primo “tradimento” che la regia di Roberto Bacci si è concessa nei confronti di Aspettando Godot, l’ultima produzione della Compagnia Laboratorio di Pontedera (lo spettacolo ha debuttato il 21 ottobre al Teatro di Via Manzoni di Pontedera), prende le forme di un albero impiccato: un’infedeltà scenografica che materializza da subito, davanti agli occhi del pubblico, quell’idea di soffocante costrizione, di asfittica agonia che poco dopo raddoppierà la sua forza espressiva attraverso il nodo scorsoio che Lucky porta al collo.
Ma l’immagine di morte evocata dalla lunga corda che scende dal soffitto è come immediatamente stempera dalle movenze allegre del legno, da un suo solitario ritmo di danza che evapora dalle sinuosità dei rami: si tratta indubbiamente di un impiccato, ma di un impiccato vitale, caparbiamente aggrappato alla necessità di non abbandonare l’attesa, alla convinzione che qualcosa può ancora accadere, all’immagine utopica dell’arrivo di una voce portatrice di senso, di verità. E si tratta anche di una potente metafora della stessa pièce e del mondo che Beckett ha imprigionato nel limbo senza tempo né direzione della sua drammaturgia: questo tronco che penzola nel vuoto con disinvoltura e con l’aria divertita di chi è in procinto di assistere a qualcosa che potrebbe anche essere piacevole - ossimoro scenografico che sbeffeggia la propria contraddittorietà - è immagine e riflesso della natura di Aspettando Godot e della sua trama spiraliforme, è la sintesi visiva della prigione invisibile in cui Estragone, Vladimiro, Lucky e Pozzo girano in tondo obbedendo al loro modo di vivere l’attesa. Anche loro sono impiccati che danzano, perché per Beckett chiunque attenda non è che un impiccato che danza.
Il ricordo, le dissonanze che attraversano il tempo e lo spazio, le interferenze che ognuno ha con la percezione di se stesso, sono tutte declinazioni espressive che fuoriescono dalla stessa danza: non c’è dubbio che si tratti di una danza di morte, ma l’attesa della morte è vissuta attraverso un inarrestabile flusso vitale che serve a creare un malinteso con ciò che resta della vita, e che permette all’attesa di rotolare sulla propria inerzia. E questo rotolare, clownistico, burattinesco, continuamente sfasato nei confronti di ciò che il pubblico – spettatore e partecipe di un attesa che in parte è anche la sua, ma della cui assurdità può permettersi il lusso di valutare con maggiore obiettività i contorni - potrebbe o dovrebbe aspettarsi, è divertente, buffo. In presenza della morte, si ride: anche questo è un ossimoro, un ossimoro le cui componenti antitetiche è assolutamente necessario rendere per non snaturare il testo e il pensiero di Beckett. In questa fedeltà sta il secondo “tradimento” di Roberto Bacci: tradimento non a Beckett, beninteso, ma ad un certo modo di rappresentare Beckett, a certi “beckettismi” deleteri che le interpretazioni di Luisa Pasello(Vladimiro) e Silvia Pasello (Estragone), Savino Paparella (Pozzo) e Tazio Torrini (Lucky) – il gruppo si completa con Maria Pasello e Riccardo Mossini, i giovanissimi attori che si alternano nel ruolo del Ragazzo - hanno saputo far evaporare grazie alla loro grande capacità di ricreare nei momenti giusti quella leggerezza scanzonata e quel ritmo da macchietta che in Aspettando Godot hanno il compito di stridere con il baratro esistenziale che incombe sul tutto.
La naturale complicità di Luisa e Silvia Pasello, la loro capacità istintiva di creare l’intesa, contribuiscono a generare tutti quei presupposti che condurrebbero l’azione verso la gag, se la tensione metafisica della scrittura di Samuel Beckett non la costringesse allo scontro con la paralisi, a dover fare i conti con la visione di un’escatologia avviluppata nella sua stessa negazione. E’ proprio dalla natura orfana, incompleta, di questa aspirazione alla comicità che nasce il retrogusto amaro, unico per la sua capacità di moltiplicare all’infinito gli echi del proprio disagio, della risata che affiora dai testi del drammaturgo irlandese. E, comunque sia, si può e si deve ridere, perché anche la mortificazione dello slancio è una forma di vitalità, esattamente come la sopportazione del dolore e della menomazione fisica è una delle ultime certezze possibili, la spia che nonostante tutto si va avanti. Si deve poter ridere perché il riso diventa la forza che amalgama e fa convergere quelle stesse infinite moltiplicazioni: direttrici che arrampicandosi verso una condizione di eterna riproposta del niente che le governa, arrivano a negare ogni possibile individualità, e ad abbracciare un valore universale che costituisce la componente mitica dei clown di Beckett: divinità di un Olimpo non più necessario e in fase di smantellamento che diventa potente e geniale metafora della condizione umana.
Gli ultimi suoni che provengono dalla rituale sospensione dell’attesa, al momento dell’attenuarsi delle luci che prelude alla fine della rappresentazione, sono quelli delle note del brano che Ares Tavolazzi ha scritto per lo spettacolo: una musica dolce, rarefatta, che pare voler consolare con la sua carica onirica l’infantilità irreversibile di chi domani attenderà di nuovo; un andamento di berceuse che sembra invocare il sonno dell’anima: forse un regalo di Godot, ogni volta elargito come sospensione momentanea della pena. Al di là di queste felici trasgressioni (di una terza necessaria e più che legittima “disubbidienza”, relativa alla volontà di Samuel Beckett di non permettere che i ruoli maschili delle sue opere venissero interpretati da attrici, parleremo più diffusamente dopo), quella del regista pontederese è una lettura fedele e rigorosa, drammaturgicamente e filologicamente attentissima a riproporre il carattere e le atmosfere del capolavoro di Beckett.
Un lavoro importante per Roberto Bacci, questo Aspettando Godot: per la prima volta nella sua carriera – anche in questa occasione affiancato da Stefano Geraci per la consulenza drammaturgica - affronta “uno spartito da suonare” (come lui stesso dice nelle note di regia), un’opera teatrale già perfettamente realizzata nella sua completezza letteraria. In precedenza i suoi spettacoli erano sempre nati dalle suggestioni e dalle pagine dei grandi capolavori della letteratura mondiale: una prova di trascrizione e di adattamento per il teatro che offriva ampi spazi di intervento e molteplici possibilità di lettura. Con Beckett, e nell’anno in cui il mondo festeggia i cento anni dalla sua nascita (“Devo confessare che mi è sembrato uno scherzo del destino quando, una volta che ho deciso di mettere in scena Aspettando Godot, me lo hanno fatto notare. Era ormai troppo tardi per tornare indietro”, scrive Bacci), è arrivato per lui e per la Compagnia Laboratorio di Pontedera il momento per una sfida diversa, il cui significato è per la prima volta da ricercare all’interno di un testo già scritto.
Si tratta di un impegno che chiude un ciclo, iniziato anni fa con Oblomov - spettacolo del 1999 tratto dall’omonimo romanzo di Ivan Gonciarov - e continuato attraverso gli incontri con Thomas Mann e La montagna incantata (dalle sue pagine è tratto, nel 2001, lo spettacolo Ciò che resta), e con Dostoevskij (dall’Idiota nasce nel 2003 Il raglio dell’asino).


Abbiamo chiesto a Roberto Bacci di ripercorrere con noi il significato di questo cammino, le scelte artistiche e gli intenti espressivi che lo hanno scandito.

Esiste una domanda che mi sono sempre posto, e che durante tanti anni di lavoro ha dato origine a risposte diverse: si tratta di una domanda fondamentale a cui è indispensabile cercare di rispondere per fare in modo che il teatro non diventi automaticamente il riflesso di altro teatro, e quindi qualcosa di non più vivo, personale, necessario. La domanda, ogni volta, è “perché fare un altro spettacolo… ancora un altro spettacolo”. Per me non è mai stato un automatismo, ho sempre cercato una necessità vera senza la quale per me è impossibile mettermi in una situazione di lavoro che dura mesi. La necessità vera è data dal bisogno di arrivare ogni volta ad un risultato che deve essere sconosciuto, imprevisto. Gli spettacoli di questi ultimi anni portavano con loro altre domande, domande che riguardano tutti: sono quelle semplici domande che non hanno mai trovato risposta: quale sia il senso di un esistenza come la nostra, guidata da un corpo e da una mente come quelli che abbiamo, per molti versi così limitati a quelle stesse circostanze che di volta in volta ci influenzano e ci fanno pensare in maniera distorta, ondivaga; un’esistenza vissuta come in attesa di qualcuno che possa dirci che cosa fare e spiegarci il significato del nostro stesso cammino. I lavori che la Fondazione ha affrontato negli ultimi anni nascono dalla riflessione sulla rinuncia a cercare una risposta, sulla scelta di affidarsi a quelle risposte senza domande che giorno dopo giorno questa cultura e questa civiltà ci forniscono. L’essere umano non è più alla ricerca di qualcosa ma in attesa di qualcosa: di qualcosa che non arriva perché non può arrivare, ma che può solo essere cercata. Perché il senso vero forse sta nella ricerca, più che nell’attesa.

Era naturale che questo percorso arrivasse a Godot…

Sì, perché Godot è l’incontro decisivo tra questa ferita-domanda e la più alta forma (a livello di letteratura teatrale) che Beckett ha saputo esprimere in funzione della riflessione sulla nostra condizione umana.

Un incontro in qualche modo preannunciato dagli spettacoli precedenti…

Gli spettacoli precedenti hanno maturato le condizioni necessarie per l’approdo a Godot. Se pensiamo per esempio all’ignavia di Oblomov, alla sua pigrizia attiva, vediamo come un essere umano continuamente attivo (senza però chiedersi mai che cosa significhi “essere attivo” in questo mondo), finisca per ribellarsi alla sua stessa produzione di cultura vuota di senso e necessità. Lì si cominciavano a porre i problemi di evidenziare i contorni di una contraddizione in cui tutti ci troviamo: il lavoro sugli spettacoli successivi è proseguito in quella direzione. In un certo senso, chi dice che facciamo sempre lo stesso spettacolo ha ragione: è così, perché il nostro lavoro incontra sempre domande universali che attendono ancora una risposta. Se nessuno è mai riuscito a trovarla, significa che probabilmente non c’è: ma nella nostra prigione l’importante è continuare a interrogarsi, interrogarsi con il proprio teatro. Dopo Oblomov e la sua pigrizia vissuta come forma rivoluzionaria ad un imperante “zombismo” è arrivato Ciò che resta… ciò che resta dopo la vita, dopo la morte: anche qui la domanda era la stessa, e si rivelava attraverso l’incontro con la malattia intesa come forma di risveglio. La malattia ti pone al termine dell’esistenza e quindi ti fa ricordare perché hai vissuto, cosa di cui ci dimentichiamo sempre. Solo quando abbiamo un inciampo ci ricordiamo che stiamo camminando. Ciò che resta è proprio l’incarnazione di questo inciampo: Hans Castorp arriva in un sanatorio dove la vita, a contatto con la morte, acquista valore e significato nuovi. Con Il raglio dell’asino abbiamo provato a rispondere a quella domanda riflettendo sul fatto che se esistesse un essere assolutamente buono (Dostoevskij si era ispirato a Cristo e a Don Chusciotte per creare il suo protagonista) il mondo, forse, potrebbe salvarsi. Non più attraverso la consapevolezza ma grazie alla bontà. Anche lì l’azione arriva ad un fallimento, il protagonista non riesce a cambiare la realtà che lo circonda: come Castorp torna in pianura per trovare poi la morte in una trincea, così l’idiota torna in Svizzera nel suo ospedale psichiatrico. Pietroburgo sta alla Montagna Incantata come Myskin sta a Castorp.

Questi tre spettacoli nascevano da tre grandi romanzi, mentre invece questa quarta tappa del vostro percorso si addentra per la prima volta nelle strettoie di uno “spartito già scritto”…

A 56 anni volevo vedere che cosa succedeva a trovarsi di fronte una prospettiva nuova come questa. E questa non è l’unica novità: per la prima volta porterò un mio spettacolo sul palcoscenico di un teatro all’italiana (quello di Santa Croce sull’Arno (Pi), Ndr).

Come ti sei trovato a lavorare con queste costrizioni nuove?

Il lavoro è più complicato, ma allo stesso tempo fornisce molte più sicurezze rispetto al lavoro sui grandi romanzi: le possibilità che questi ti offrono spesso creano anche molte difficoltà. Lì devi andare a cercare lo spettacolo sperando di trovarlo, qui sai che lo spettacolo ce l’hai davanti di sicuro… anche se devi andare a trovarlo comunque.

Nel 1984 il Teatro di Pontedera ha incontrato la trilogia “Beckett directs Beckett”: un’ospite illustre che attraverso l’interpretazione del Saint Quentin Drama Workshop ha regalato agli spettatori di vedere Aspettando Godot, Finale di partita e L’ultimo nastro di Krapp in una versione supervisionata dallo stesso autore. Come ricordi quel Godot?

Era uno spettacolo estremamente vivo, passionale, ironico. Il vero Beckett è così: c’è una leggerezza che va assolutamente mantenuta. Non a caso Beckett lavorava maggiormente su personaggi da circo che non su personaggi teatrali: non è che avesse un grande amore per il teatro, e neanche gli interessava conoscerlo a fondo. Amava personaggi come Buster Keaton (con cui poi ha anche lavorato) o come Charlie Chaplin, artisti che per comunicare lavoravano su dei cliché. Attraverso quei cliché lui costruiva figure capaci di assumere su di sé tutta una serie di caratteristiche dovute al ruolo, anziché al personaggio. Luisa e Silvia infatti lavorano più sul ruolo che sul personaggio. Non è che sia importante la storia di Estragone o quella di Vladimiro: a nessuno interessa il loro passato o sapere quello che faranno, perché tali domande non sono previste. La cosa straordinaria è che, mancando una logica, la loro storia riesce a dare vita a ruoli eterni. E’quindi la condizione che conta, non la storia, la condizione a cui loro sono condannati, e noi con loro. E’la condizione di qualcuno che aspetta che qualcun altro li punisca o li salvi, di un’attesa continua che dà vita ad una “malattia del domani” che è shakespeariana: è il “domani e domani e domani…” di Macbeth. Devo dire che mi dispiace molto di non poter fare lo spettacolo in inglese, perché in quella lingua il testo ha un ritmo più bello, una musicalità e una sintesi verbale più forti, più cattive. Però faremo il nostro spettacolo in Inghilterra…”

Parliamo del divieto beckettiano rivolto alle attrici che volessero interpretare i suoi ruoli maschili…

Secondo me lui aveva paura delle libertà che scelte del genere possono offrire, e dei rischi a cui è facile andare incontro. Ma nella storia del teatro ci sono state donne che hanno interpretato parti maschili meglio degli uomini: la cosa importante, ovviamente, è la qualità della recitazione. Ci sono stati molti processi a causa di questo divieto: Beckett stesso perse una causa contro una compagnia di attrici olandesi che aveva messo in scena Godot. Franca Valeri mi disse di aver fatto domanda, col Piccolo di Milano, per fare Finale di partita e di non essere riuscita ad ottenere – nonostante l’intervento del Consolato Italiano – il permesso. Anche noi ci aspettiamo qualche disguido, e già ci siamo preparati a sostenerne le conseguenze. La cosa che possiamo portare a nostra discolpa è la qualità del lavoro: se c’è qualità possiamo difenderci. Perché la nostra non è stata una scelta provocatoria o stravagante, ma semplicemente artistica. Abbiamo voluto dare a Beckett quello che avevamo di meglio.



Silvia e Luisa Pasello, Vladimiro ed Estragone nell'Aspettando Godot di Roberto Bacci: qui di seguito si spiega perché il casting dello spettacolo sia finito in tribunale.

I disguidi previsti da Roberto Bacci sono poi puntualmente arrivati: gli eredi di Beckett, nonostante il contratto di rappresentazione sottoscritto con l’Agenzia Teatrale D’Arborio (detentrice dei diritti delle opere di Beckett per l’Italia), decidono di organizzare una contestazione mirata ad interrompere le repliche dello spettacolo. Questo il comunicato che la Fondazione Pontedera Teatro ha scritto per difendere le proprie scelte e il proprio diritto di rappresentare Aspettando Godot.

COMUNICATO STAMPA
16/10/05

VA IN SCENA IL BECKETT ILLEGITTIMAMENTE PROIBITO

Lo spettacolo della Compagnia Laboratorio di Pontedera Aspettando Godot di Samuel Beckett, diretto da Roberto Bacci e prodotto dalla Fondazione Pontedera Teatro, in scena al Teatro di Via Manzoni di Pontedera dal 21 ottobre al 27 novembre 2005, rischia di non potere essere più rappresentato a causa di una contestazione del cast da parte degli eredi di Beckett, nonostante sia stato sottoscritto un contratto di rappresentazione con l’Agenzia Teatrale D’Arborio.

A tre settimane dal debutto, l’Agenzia Teatrale D’Arborio, che detiene i diritti delle opere di Beckett per l’Italia, tramite la SIAE si oppone all’interpretazione dei personaggi maschili Vladimiro ed Estragone da parte di due donne, Luisa Pasello e Silvia Pasello (gli altri due personaggi della commedia, Pozzo e Lucky, sono interpretati rispettivamente da Savino Paparella e Tazio Torrini).
Ieri, martedì 15 novembre, la SIAE ha fatto pervenire alla Fondazione Pontedera Teatro una diffida che vorrebbe bloccare le prossime repliche dello spettacolo. Ma la Fondazione Pontedera Teatro non riconosce alla SIAE il diritto di interrompere lo spettacolo, in quanto il contratto con l’Agenzia D’Arborio non è stato in alcun modo inadempiuto dalla stessa Fondazione.
Pontedera Teatro, ritenendo il contratto valido a tutti gli effetti, ha perciò deciso di non accogliere la diffida e di proseguire le rappresentazioni, esercitando un suo legittimo diritto. Inoltre, si sottolinea il fatto che i diritti morali dell’opera, come riconosciuto dalla SIAE stessa, non sono tutelabili se non da eredi diretti dell’autore e non indiretti.

Il Teatro è deciso a cercare una soluzione e a difendere i propri diritti e le proprie ragioni artistiche. Infatti, il testo è stato utilizzato integralmente e messo in scena fedelmente, seguendo le indicazioni di regia di Beckett fin nei minimi particolari. I personaggi di Vladimiro ed Estragone restano maschili in tutto e per tutto. Non c’è nessun elemento nella scelta interpretativa, nella regia, nei costumi, nel trucco, nella recitazione degli attori, fino ai particolari più minuti, che faccia riferimento al cambiamento dei personaggi, come si può evincere dalla visione dello spettacolo. Questo è il motivo per cui la compagnia ha ritenuto di potere utilizzare le due attrici liberamente, non avendo sotto questo aspetto nessun espresso impedimento contrattuale.
Del resto sappiamo, come risulta dalla storia del teatro, che ci sono stati altri illustri allestimenti, per altro mai contestati, con la presenza di attrici nei ruoli di Vladimiro ed Estragone.
Nella pratica del teatro è sempre stata consuetudine che le donne possano avere accesso a ruoli maschili e viceversa. Un teatro che ha più di trent’anni di storia sulle spalle, riconosciuto e apprezzato sia in Italia che all’estero, difende anche la propria autonomia artistica. Ci sono peraltro già stati moltissimi precedenti relativi all’opera di Beckett. In questo caso quello che conta è la sostanziale fedeltà all’opera di Beckett ed è in questo senso che la Fondazione Pontedera Teatro ritiene di non avere tradito le aspettative dell’autore.
Sinora nessuno degli eredi di Beckett, nonostante i precedenti inviti, ha assistito allo spettacolo. La Fondazione Pontedera Teatro si auspica che possano venire a Pontedera a vedere il lavoro al più presto per verificarne la qualità artistica e la coerenza con l’opera di Beckett.

Aspettando Godot ha debuttato al Teatro di Via Manzoni di Pontedera il 21 ottobre 2005 all’interno della rassegna “Pontedera Produce Teatro”, ricevendo il consenso del pubblico e della critica. Nei primi mesi del 2006 lo spettacolo sarà ospitato in stagione da altri teatri italiani.
In questo spettacolo sono state investite risorse umane e finanziare e sarebbe molto grave doverlo interrompere. Per le repliche al Teatro di Via Manzoni ci sono già decine di persone prenotate.
La Fondazione Pontedera Teatro, nella consapevolezza di esercitare un incontestabile diritto, non intende annullare le rappresentazioni, certa di vedere riconosciuto anche per il futuro il proprio legittimo diritto a mettere in scena lo spettacolo con gli interpreti attuali.

Il 2 dicembre il Tribunale di Roma ha emesso una sentenza al riguardo. Qui di seguiti il comunicato stampa di Pontedera Teatro.

Fondazione Pontedera Teatro
COMUNICATO STAMPA
2/12/05


La Fondazione Pontedera Teatro ha vinto il ricorso presentato con procedura d’urgenza il 29 novembre nei confronti della SIAE e dell’Agenzia Teatrale D’Arborio al fine di potere continuare a rappresentare lo spettacolo Aspettando Godot di Samuel Beckett, nell’allestimento di Roberto Bacci.

L’Agenzia Teatrale D’Arborio, che detiene i diritti delle opere di Beckett per l’Italia, e la SACD, la società degli autori francese, dietro pressioni degli eredi di Beckett, avevano chiesto alla SIAE di bloccare lo spettacolo perché i personaggi di Vladimiro ed Estragone erano interpretati da due donne, Luisa e Silvia Pasello, adducendo la supposta contrarietà dell’autore ad avere donne nei panni di personaggi maschili e viceversa, nonostante i molti precedenti relativi ad Aspettando Godot e ad altre opere di Beckett, interpretate da attori di sesso diverso da quello dei personaggi, sia in Italia che all’estero.

Lo spettacolo prodotto dalla Fondazione Pontedera Teatro è stato presentato in prima assoluta al Teatro di Via Manzoni di Pontedera (PI) dal 21 ottobre al 27 novembre 2005, ricevendo grandi consensi di critica e di pubblico e facendo registrare il tutto esaurito per 28 repliche.
La prima diffida della SIAE è arrivata dopo 3 settimane di repliche, il 16 novembre, una seconda il 21 novembre. Poiché nel contratto stipulato con l’Agenzia D’Arborio non vi era espresso divieto di utilizzare attori di sesso femminile, la Fondazione Pontedera Teatro, ritenendo il contratto valido a tutti gli effetti, ha deciso di continuare a presentare lo spettacolo nella propria sede sino al 27 novembre, assumendosi tutti i rischi del caso. Ma senza l’autorizzazione della SIAE sarebbe stato impossibile rappresentare le successive repliche, previste sia a Pontedera che in altre città italiane nella stagioni teatrali 2005/2006 e 2006/2007.
La sentenza con cui oggi 2 dicembre 2005 il Tribunale di Roma ordina alla SIAE di rilasciare alla Fondazione Pontedera Teatro il permesso generale di rappresentazione, sblocca lo spettacolo (anche se per motivi organizzativi non è possibile effettuare all’ultimo minuto la data prevista per questa sera al Teatro Verdi di Santa Croce, che ri-programmerà lo spettacolo appena possibile).

La Fondazione Pontedera Teatro esprime soddisfazione per questo primo esito giudiziario. “Speriamo che si tratti di una sentenza che riapra le porte ad una visione più dialettica di Beckett” si augura Roberto Bacci. “Questa prima vittoria non appartiene solo a noi ma assume un valore culturale più generale e riapre un antico dibattito intorno ai problemi legati ai diritti d’autore. Per noi è anche un modo di festeggiare il centenario di Beckett, che ricorre nel 2006. La risposta a chi ci ha costretto a ricorrere alla giudizia ordinaria la daremo in teatro, attraverso lo spettacolo”.
Esprime soddisfazione anche il Presidente della Fondazione Pontedera Teatro, Antonio Chelli: “E’ un primo riconoscimento dei nostri diritti. Resta aperta una discussione più culturale sul giudizio di merito, che affronteremo in futuro, magari lontano dai tribunali”.
La Fondazione Pontedera Teatro desidera ringraziare pubblicamente l’Avv. Frittelli per lo straordinario impegno profuso e per l’amore che ha dimostrato nei confronti del teatro.

Riportiamo qui sotto alcuni stralci della sentenza emessa dal Giudice Iofrida per conto del Tribunale ordinario di Roma, Sez. IX, Sezione Specializzata in materia di Proprietà industriale ed intellettuale.

La sentenza vera e propria:

In accoglimento del ricorso, ex art. 700 c.p.c., presentato ante causam, in data 29/11/2005, dalla Fondazione Pontedera Teatro, in persona del presidente e legale rappresentante p.t., nei confronti della SIAE Società Italiana Autori ed Editori, e della Ditta Paola D’Arborio Sirovich di Paola Perilli, rappresentante in Italia dei diritti di utilizzazione economica dell’opera di Samuel Beckett, nel contraddittorio delle parti:

- (il giudice) ordina alla resistente SIAE di rilasciare alla ricorrente Fondazione Pontedera Teatro il contratto di permesso generale per lo spettacolo e rappresentazione del testo “Aspettando Godot” di Samuel Beckett, per le stagioni teatrali 2005/2006 e 2006/2007, oggetto del contratto di rappresentazione del 20/4/2005, ed autorizza la ricorrente alla rappresentazione della suddetta opera, nelle more del rilascio del descritto permesso generale di rappresentazione.

Qui di seguito alcuni stralci che motivano la sentenza:

- Il concessionario di un contratto di rappresentazione è obbligato, verso il concedente (l’autore o altro soggetto cessionario o successore dell’autore), ex. art. 138 L.A. a rappresentare l’opera “senza apporvi aggiunte, tagli o variazioni non consentite dall’autore” e “a non mutare, senza gravi motivi, i principali interpreti dell’opera” e detto obbligo costituisce un’esplicazione del diritto all’integrità dell’opera, di cui all’Art. 18 L.A., come diritto esclusivo di natura patrimoniale esercitatile anche da un cessionario dell’autore, ed all’Art. 20 L.A., come diritto morale dell’autore, di natura personale e non trasferibile;

- nella fattispecie, non vi è stata né un’inadempienza contrattuale da parte della Fondazione Pontedera Teatro, non essendo state effettuate alterazioni del testo “Aspettando Godot” (come dedotto, documentato, con diverse recensioni allo spettacolo, e neppure contestato dai resistenti) ed essendo stata la sostituzione di due degli attori inizialmente indicati, con due attrici di sesso femminile, che interpretano comunque sempre i ruoli maschili (con trucco ed abiti corrispondenti, vedasi fotografie prodotte dalla ricorrente) creati dall’autore, sia necessitata dalla indisponibilità degli stessi sia consentita in fase contrattuale, per quanto sopra detto, né una lesione dell’integrità dell’opera, di cui all’art. 18 L.A., che può non essere influenzata dalla sola recitazione di attrici di sesso femminile, in vesti e personaggi maschili, né è allo stato configurabile una possibile lesione anche del diritto, personalissimo (riservato dunque all’autore o al suo successore), morale d’autore di cui all’Art. 20 L.A., in quanto detto diritto non è assoluto ma riceve tutela solo rispetto a qualsiasi “deformazione, mutilazione o modificazione” o altri atti “a danno dell’opera stessa”, che “possano essere di pregiudizio all’onore e alla reputazione” dell’autore, vale a dire che possano modificare la percezione della personalità dell’autore e della sua opera presso il pubblico, il che non può rinvenirsi nella sola sostituzione di alcuni attori con alcune attrici, senza tagli o aggiunte al copione o modifiche alle indicazioni di scena o alterazione dei personaggi interpretati;

- (…) la ricorrente è una Fondazione che svolge un’attività culturale e non imprenditoriale e la sospensione delle rappresentazioni teatrali, oggetto dell’accordo del 20/4/2005, relativo a due stagioni teatrali, potrebbe seriamente comprometterne la stessa sopravvivenza (conseguendo la perdita del contributo statale conferitole).


 


 

Verso un sistema unico dello spettacolo dal vivo in Italia
Le Buone Pratiche 2: interventi & relazioni
di Filippo Del Corno

 

Premessa
Questo testo non vuole essere una proposta di legge articolata tecnicamente, ma un elenco di principi fondamentali che potrebbero ispirare una nuova iniziativa di legge per abolire l’ormai invecchiato strumento del FUS e istituire un Sistema Unico dello Spettacolo dal Vivo.
I principi espressi nascono dall’osservazione di alcune evidenti difficoltà che caratterizzano l’attuale organizzazione dello Spettacolo dal Vivo in Italia:
- Le tradizionali suddivisioni di settore in Prosa/Musica/Lirica/Danza non rispondono in maniera efficace al processo di turbolenta contaminazione che esiste tra le varie discipline dello Spettacolo, e al continuo scambio di pratiche ed esperienze i cui esiti artistici spesso sfuggono a ogni possibile catalogazione di “genere”.
- Le suddivisioni sopracitate tagliano il mondo della produzione spettacolare in spaccati verticali, con il risultato di accorpare in leggi e regolamenti realtà molto diverse tra loro per dimensioni e prassi di gestione; si producono così effetti aberranti per cui, ad esempio, valgono criteri e regole identiche per le domande di finanziamento inoltrate da grandi Fondazioni o da piccole Associazioni culturali.
- I criteri e le procedure di determinazione e erogazione di contributi pubblici sono fortemente disomogenei nei diversi regolamenti prodotti da Stato e Enti Locali. -
I ritardi ormai cronici con cui vengono erogati, e addirittura determinati, i contributi pubblici ai soggetti che producono o distribuiscono lo Spettacolo dal Vivo impediscono una programmazione serena e responsabile; tali ritardi inoltre obbligano i soggetti a gravissime esposizioni debitorie con le Banche, producendo l’effetto perverso e paradossale di impegnare grande parte dei contributi pubblici a pagare gli interessi passivi prodotti dal ritardo con cui i contributi stessi vengono erogati.
- La collaborazione tra soggetti diversi, appartenenti o meno allo stesso settore, non vengono sufficientemente premiati e incentivati, nonostante possano produrre risultati estremamente efficaci nel contenimento dei costi e nella promozione di contenuti artistici e culturali verso un pubblico più vasto e articolato.
- L’Italia soffre in ogni settore della mancanza di un reale ricambio della classe dirigente; nelle attività dello Spettacolo questa mancanza è ancora più grave e sentita soprattutto perché soffoca l’emergere di una nuova generazione di talenti creativi la cui attività viene invece riconosciuta e premiata all’estero. Inoltre la nuova generazione di artisti e operatori, facendo della sobrietà della spesa un parametro imprescindibile, ha dimostrato anche evidenti capacità manageriali. A ostacolare ulteriormente tale ricambio generazionale, che pure viene spesso evocato, concorre anche l’abnorme pratica di consentire ad un’unica persona di ricoprire contemporaneamente più cariche di direzione artistica presso soggetti diversi.
- Il ricambio generazionale della classe dirigente nel campo dello Spettacolo è uno strumento anche per promuovere il necessario ricambio generazionale del pubblico, che appare sempre più urgente.
- Se la nuova generazione di talenti creativi e di operatori trova campo fertile all’estero, l’Italia sembra invece chiudersi a riccio di fronte alla possibilità di aprire le proprie frontiere a esperienze di programmazione e gestione che in altri paesi hanno prodotto risultati estremamente positivi.
- Per chi vuole promuovere la nascita di un nuovo soggetto per produrre spettacolo e innovare così l’esperienza artistica del Paese è difficilissimo accedere a quei contributi pubblici che potrebbero permettere di sperimentare le potenzialità di nuove energie creative al servizio di nuovi progetti.
- Per contro esistono diversi soggetti che hanno da tempo esaurito ogni autentica capacità propositiva e che sopravvivono, grazie a contributi pubblici, solo perché i costi sociali del loro smantellamento risulterebbero troppo onerosi.

A tutte queste difficoltà si potrebbe rispondere con un’azione legislativa che attuasse questi principi:

1) Sistema Unico dello Spettacolo dal Vivo
Si istituisce in Italia un Sistema Unico dello Spettacolo dal Vivo, che comprende quindi tutte le forme di produzione e distribuzione di spettacolo che prevedano un aspetto performativo.

2) Piccole – Medie – Grandi Imprese dello Spettacolo dal Vivo
Il Sistema Unico dello Spettacolo viene suddiviso in tre segmenti basati sulle dimensioni delle diverse imprese:

a) piccole imprese;
b) medie imprese,
c) grandi imprese.

I criteri che sovrintendono a tale suddivisione sono puramente oggettivi: dimensione finanziaria del bilancio annuo della singola impresa, numero e tipologia contrattuale dei dipendenti, numero di produzioni e rappresentazioni.
I regolamenti e i criteri di attribuzione dei contributi si dispongono quindi non più sui tradizionali assi verticali dei singoli generi, bensì su tre assi orizzontali che accomunano tra loro realtà che pur in discipline diverse vivono pratiche progettuali e gestionali estremamente simili.

3) Armonizzazione dei criteri tra Stato e Enti Locali
I criteri di regolamentazione per la determinazione e l’erogazione di contributi pubblici alle imprese del Sistema Unico dello Spettacolo dal Vivo devono essere armonizzati e quindi resi compatibili e conseguenti lungo tutto l’asse Stato centrale – Enti Locali (Regione, Provincia, Comune), pur nel rispetto delle singole autonomie decisionali delle varie Istituzioni.

4) Perentorietà – Tempestività - Trasparenza
Deve essere istituita una forma di garanzia comune a tutte le Istituzioni che provvedono al finanziamento del Sistema dello Spettacolo dal Vivo (dallo Stato al Comune) che rispetti tre parametri fondamentali nella determinazione e nell’erogazione dei contributi: perentorietà, tempestività, trasparenza. La perentorietà deve basarsi su un reciproco rispetto tassativo delle scadenze nelle procedure di:

a) presentazione delle domande di finanziamento;
b) istruttoria relativa alla loro pertinenza;
c) determinazione del contributo;
d) comunicazione dell’avvenuta determinazione.

La tempestività deve produrre un’immediata erogazione dei contributi secondo le procedure previste dalla legge o dal regolamento, e comunque con un minimo del 50% erogato a preventivo e precedentemente alla data di inizio della manifestazione per la quale viene presentata domanda. La trasparenza deve essere garantita con la pubblicazione delle determinazioni di contributo e una relazione su criteri e motivazioni nelle procedure di determinazione.

5) Incentivi alle collaborazioni: reti stabili – reti provvisorie
Incentivi economici devono essere riconosciuti per quei soggetti che promuovono esperienze di collaborazione, soprattutto se multidisciplinari. Gli incentivi economici devono premiare l’istituzione di reti di collaborazione, sia stabili e legate a un progetto pluriennale, sia provvisorie, ossia legate puramente alla realizzazione di un singolo progetto. Le reti di collaborazione potranno essere orizzontali, ossia tra due imprese di dimensione identica, o verticali, tra imprese di dimensioni diverse.

6) Incentivi al ricambio generazionale – quota arancione
Incentivi economici significativi devono essere riconosciuti alle imprese di grande e media dimensione che affidano la direzione artistica a persone che abbiano meno di quaranta anni. È fatto espresso divieto per le medie e grandi imprese di affidare la direzione artistica a persona che abbia già un mandato di direzione in un’altra impresa, a meno che nell’accettare il nuovo mandato non vengano formalizzate dimissioni immediate dal precedente incarico.

7) Incentivi all’internazionalizzazione – quota bandiera
Se la durata di un mandato di direzione artistica è fissato in quattro anni le imprese di grande dimensione devono garantire ogni quattro mandati almeno un mandato a un cittadino straniero.

8) Incentivi alla nascita di nuove imprese e allo smantellamento di imprese finite - quota fiocco
Una quota percentuale delle risorse preposte al finanziamento delle attività dello Spettacolo da Stato e Enti Locali deve essere destinata a soggetti che inoltrano domanda di finanziamento per la prima volta. Un’altra quota percentuale deve essere destinata a coprire i costi sociali della chiusura di imprese che abbiano esaurito la loro attività propositiva e le cui richieste di finanziamento servono evidentemente per la pura sopravvivenza della struttura. All’interno di questa quota una parte dei finanziamenti può essere utilizzata anche per favorire progetti di riconversione di una struttura priva di contenuti artistici e culturali minimamente significativi in una nuova struttura al servizio di una proposta artistico-culturale di forte innovazione.


 


 

Riflessioni su Mira
La Buone Pratiche: interventi & relazioni
di Renato Nicolini

 

Cari Mimma ed Oliviero,

forse, anziché perdermi in riflessioni sulla legittimità dell’uso del termine valore dopo Nietzsche, potevo andare direttamente al merito della questione posta da Buone Pratiche 2: se il teatro è un elemento del welfare, può seguire le sorti (declinanti) del welfare; se invece è un valore, qualcosa cioè che attiene alla sfera dell’identità, dei diritti di cittadinanza e della democrazia politica, no, perché è qualcosa in più. Avrei potuto aggiungere che è qualcosa in più anche dal punto di vista economico, poiché produce domanda di beni immateriali e con questa una crescita di qualità delle strutture dell’economia. Poi, seguendo l’onda suggerita di non aspettare passivamente l’inversione della tendenza declinante che ormai caratterizza il FUS, e prendendo atto che ormai i due terzi delle risorse del teatro provengono da altre forze (Enti Locali, etc.), avrei potuto raccontare il caso del Laboratorio Teatrale dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, che è ormai alla sua terza stagione e che è finanziato dall’ARDIS (l’Ente per il Diritto allo Studio della Regione Calabria) ed anche direttamente dall’Università di Reggio Calabria. Ma non è mai troppo tardi per fare una cosa.
Lo spettacolo più importante della nostra stagione 2005, La Fondazione della Città, una “rivista architettonica” sui miti di fondazione della città, che inizia con una disputa tra Alessandro Magno ed i suoi architetti a proposito della fondazione di Alessandria, e prosegue con la Torre di Babele, Roma, Crotone e Sibari, la Città del Sole di Campanella, il terremoto di Reggio raccontato da Norman Douglas, scene da Mahagonny di Brecht e dalla Cimice di Majakovskij, 1984 di Orwell etc., è stata ospite a luglio dell’Estate Romana alla Sapienza, dove ha così colpito Stefano Mollica, responsabile dell’AISLo (Associazione Italiana per lo Sviluppo Locale da invitarla, come spettacolo inaugurale, al Convegno Internazionale che l’AISLo organizza ogni anno, e che quest’anno si è tenuto a Barletta, con la collaborazione del Comune di Barletta e della Regione Puglia, in un luogo federiciano come il cortile del Castello Svevo. Dove La Fondazione è stata rappresentata, il 28 ottobre, in un quadro scenico molto diverso da quello di un teatro tradizionale, senza palcoscenico e senza scenografia che non fosse elettronica.
Il significato dello spettacolo era convergente con la tesi principale del Convegno, che le città sono oggi, proprio perché viviamo nel quadro dell’economia globale, basata sui consumi e sulla produzione di beni immateriali rovesciando i vecchi dogmi dell’industralismo ottocentesco e novecentesco, e lo saranno sempre più in futuro, il motore dello sviluppo.
L’invito a Barletta (cui si è aggiunto dopo l’incontro di Mira un altro invito, a concludere ad inizio agosto 2006 l’annuale Seminario di Architettura di Camerino) non è solo un riconoscimento della qualità del nostro lavoro. E’ un riconoscimento che si estende ai nostri sostenitori istituzionali, l’ARDIS, che non solo ci sostiene economicamente ma ci dà la possibilità di usare un bel teatro come il Teatro Siracusa di Reggio Calabria, e l’Università Mediterranea, che quest’anno ha dotato il Laboratorio di una propria sede. Dove lavoreremo per le scene ed i costumi, e terremo iniziative a carattere seminariale, cui intendiamo invitare scenografi teatrali come Sergio Tramonti, ma anche architetti-scenografi come Franz Prati, e artisti visivi-scenografi come Fabio Massimo Iaquone. Ciò che c’interessa quest’anno – metteremo in scena un mio testo da Le Mille e Una Notte, ed un testo di Giuliano Scabia, Visioni di Gesù con Afrodite - è infatti sperimentare il contributo che altre immaginazioni possono dare allo spettacolo teatrale, e le loro relazioni di reciproca influenza.
Già la rappresentazione di Barletta è stata un primo esperimento in questa direzione, visto che in quell’occasione abbiamo rinunciato ad usare scene e palcoscenico per utilizzare direttamente la scena naturale del Cortile del Castello Svevo – che in sé si costituiva già come una rappresentazione della città. Abbiamo più di una registrazione video dello spettacolo; la versione in teatro a Reggio, frammenti della versione romana, ed infine quella a Barletta. Nel nostro Laboratorio studieremo le differenze.
Sperimenteremo le relazioni tra scena reale e scena virtuale, tra attore reale ed attore virtuale, anche in un corso a contratto, all’interno del corso di laurea in Disegno Industriale, che terrò a Roma, all’Università “Ludovico Quaroni”, assieme a Marilù Prati, che dirige con me il Laboratorio di Reggio; ed anche in un altro che dovremmo condurre in Tunisia, a Nefta, dove abbiamo un progetto di formazione in cooperazione con l’ENAU di Tunisi – partendo sempre dal tema del confronto tre l’immaginario orientale e quello occidentale, basandoci in parte sempre sul testo originario de Le Mille e una Notte – in parte sui miti di Didone e del viaggio.
Barletta è un riconoscimento al lavoro di tutta l’Associazione Culturale “Le Nozze” di Marilù Prati, che gestisce il Laboratorio Teatrale in convenzione con l’Univeristà e con l’ARDIS. C’è un gruppo, ormai folto e sperimentato, di attori studenti e di collaboratori tecnici, come Valentina De Grazia, Nino Minniti e Francesca Chiappetta. In un certo senso ci sentiamo quasi dei privilegiati, abbiamo un organico da Teatro Stabile, tutto basato su un vero volontariato. Quest’adesione si spiega soltanto con la passione, con il fatto che chi partecipa sente di ricevere davvero, in termini di esperienza e di conoscenza, qualcosa in cambio. Una formazione che non si esaurisca nei propri confini disciplinari è particolarmente importante nell’università dei crediti formativi, un terreno inevitabilmente autoreferenziale, che corre il rischio di chiudersi proprio quando magari sta pensando di specializzarsi.
Ed avrei potuto concludere riprendendo il tema principale, quello del teatro come qualcosa di cui non si può fare a meno, e che bisogna fare di tutto per mantenere in vita. Il Laboratorio di Reggio è un vero paradosso, qualcosa che va assolutamente alla rovescia in un’Italia in cui oggi tutto sembra invece congiurare alla distruzione del teatro e della cultura del teatro. C’è una vera persecuzione ideologica (dico ideologica perché si promuove un’altra idea della cultura, quella passiva e mediatizzata, dove la differenza è vista come deviazione e non come potenziale maggiore ricchezza) contro lo spettacolo dal vivo. Si sega la Scala a metà come fosse un fenomeno da circo. Si colpiscono due volte gli Enti Locali che hanno capito, come Veltroni a Roma o Cacciari a Venezia o Bassolino in Campania, il valore economico della cultura.


 


 

Dissonanze
Le Buona Pratiche 2: relazioni & interventi
di Carmelo Alberti

 

Il sistema di relazioni umane è basato come sempre su un sistema di valorizzazione (della formazione, del ruolo, della personalità, eccetera) che si auto-determina, di volta in volta, in base alle regole fissate dai vari “protagonisti” sociali. Il valore, dunque, è un fattore provvisorio e funzionale. Invece, quello che è decisamente cambiato nel “valore” del teatro è la sua sintonia (ora si dovrebbe dire meglio: la sua dissonanza) con il tempo e lo spazio dell’immaginazione collettiva. Il carattere “pubblico”, dunque, non corrisponde ad un consumo condiviso e condivisibile: perché si riabbia tale funzione serve un incredibile lavoro preparatorio, per definire una circolarità degli scambi fra partecipanti che siano responsabili del medesimo progetto, che riconoscano la stessa lingua, che diano “valore” a quelle forme teatrali. È opportuno, perciò, spostare decisamente lo sguardo verso la condizione dello spettatore globale, che è divenuto via via (non da poco tempo, da almeno cento anni) un individuo solo, un singolo spettatore, anche quando si muove in gruppo.
Se si rispettano le garanzie di una “buona pratica della rappresentazione” (ed è un nodo da affrontare a parte, una questione che investe i mediatori della messinscena sul versante della coscienza teatrale), forse rimane intatta l’incidenza emozionale del teatro: insomma, ciò che avviene sul palcoscenico finisce per riguardarci. Questo vuol dire che in ogni loro esibizione i promotori artistici debbano garantire (non solamente per istinto) una gamma di livelli interpretativi sempre più ampia (a iniziare dalla fase progettuale). Al minimo si tratta di comunicare almeno il livello della narrazione (della traccia drammatica), come è confermato dalla costante passione per prodotti cinematografici e televisivi, in cui la trama è organizzata su schemi chiari ed elementari (buono, cattivo, eroe, malfattore), che finiscono per riportare indietro persino l’idea della moralità borghese.
Ma la capacità di parlare a tanti, rivolgendosi al singolo, si misura con una scommessa impegnativa, collegata alla condizione “recitativa” che contraddistingue la vita quotidiana. Ciascun individuo, giorno per giorno, rappresenta le proprie “parti” relazionali (impiegato, padre, figlio, amante, utente, ecc.) in modo traumatico (“la vita quotidiana come rappresentazione”), tanto che alla fine (in fase di verifica) il “ruolo” (si legga: la personalità) tende ad assopirsi, oppure a sfumare verso le zone incerte del disagio e della malattia.
Il teatro può svolgere una funzione attiva nella ricerca dell’equilibrio soggettivo quando ingloberà interamente i “valori” elementari che caratterizzano i rapporti quotidiani. Andar verso il pubblico, significa suonare meglio i propri strumenti, per offrire a chi assiste una metodologia interpretativa neutra, allo stato puro, che solleciti la mente e l’immaginazione.
Si è visto, ad esempio, come nella fase d’avvio del teatro-narrazione un attore seduto al centro della scena sia in grado di tessere la trama di un racconto evocativo, che accende in un numero esteso e distinto di spettatori, attraverso meccanismi di consumo immaginativo, fisionomie di personaggi ben visibili. Ma funziona altrettanto bene il recupero di una messinscena clownesca, costruita su alternanza di poesia e ingenuità. Oppure, il dar qualità (in scena) alla sofferenza e alle situazioni d’emarginazione, fino a liberare nell’animo di chi assiste un’energia incontrollabile. Oppure, la vicinanza e la contiguità con il referente (guardandolo negli occhi, lasciando accese le luci della sala), costretto a stare all’erta e a seguire le fasi del gioco scenico. Oppure, l’accentuazione dello scontro fra contesto drammatico e vittima sacrificale. E altro ancora.
La via della teatralità contemporanea si affida meglio alla frammentazione, all’azione circoscritta, meno alla stagionalità. Ciò significa, che le ricorrenti emergenze economiche renderanno sempre più “clandestine” le proposte del teatro non istituzionale.
Rimane la necessità di continuare (o ricominciare, dopo lo strappo provocato dai profeti dell’antiteatralità) a teorizzare, in prossimità delle risultanze della ricerca scenica: il “valore” assoluto rimane ancorato all’esercizio del “pensiero”. La dissonanza del teatro dal valore civile risiede nell’esaltazione degli apporti degli uomini di scena e, insieme, di quelli d’organizzazione.
Lo dimostra la recente storia teatrale del Veneto, che pure possiede un serbatoio storico-culturale enorme, ma boccheggia di fronte alla caduta della funzione di servizio pubblico entro la trappola di micro-organismi gestionali, frammentati territorialmente, preoccupati solo di difendere il proprio spazio. La parte sana della produzione-programmazione regionale è costituita da una rete di professionisti, uno stuolo di organizzatori sapienti che hanno condiviso ogni passaggio della creazione con gli artisti e hanno spiegato (mediando fino allo spasimo) ogni possibilità di sviluppo e di valorizzazione culturale alla classe politica locale.
Occorre, ancora, una svolta nella definizione del “valore” territoriale del teatro, attraverso un’apertura a forme integrate di conoscenze: andare oltre le scritture sceniche nel Veneto comporta un’indagine di natura antropologica non facile, che investe artisti e referenti (visto che la politica offre una risposta dai tempi fin troppo lunghi).
Si tratta, insomma, di perfezionare l’azione di chi sa come migliorare i processi mentre è costretto ad agire restando dentro l’esperimento (quello del rinnovamento e della valorizzazione del teatro).


 


 

Per un sistema regionale dello spettacolo
La relazione per la Conferenza regionale per lo spettacolo, Firenze, 6 dicembre 2005
di Lanfranco Binni

 

Da anni insistiamo sulla necessità di coniugare progettualità e processi culturali, per costruire i diritti alla cultura attraverso buone pratiche da sperimentare, elaborare, diffondere nello spazio pubblico, nella società di tutti, sull’intero territorio regionale e all’interno di relazioni nazionali e internazionali. L’idea progettuale di un “sistema regionale dello spettacolo” abbiamo iniziato a proporla nel 2000; allora proponemmo, agli enti locali, alle operatrici e agli operatori dello spettacolo in Toscana, di avviare la costruzione di un sistema articolato per reti, strutture e servizi e fortemente orientato alla formazione del pubblico. Già allora era chiaro che a fronte di un’offerta consistente da parte delle compagnie e delle associazioni, la domanda tendeva a diminuire. In condizioni di difficoltà economiche crescenti era prevedibile che il disequilibrio tra offerta e domanda sarebbe aumentato. Per questo avviammo, attraverso progetti di iniziativa regionale, una prima rete di strutture teatrali: i piccoli teatri in gran parte restaurati nei decenni precedenti e spesso rimasti inutilizzati, e che in un’architettura potenziale di sistema iniziarono a svolgere funzioni di “scuola pubblica ai linguaggi dello spettacolo” nei più diversi territori della Toscana. Sviluppammo anche alcune prime reti tematiche, in situazioni di frontiera culturale: il teatro in carcere, la danza, il teatro di strada Era solo un inizio, e l’esperienza è stata generalmente positiva. Con risorse esigue, e modalità di cofinanziamento Regione-enti locali, con il coordinamento delle Province, la rete di “Sipario Aperto” (circa 100 piccoli teatri) ha sostanzialmente svolto le proprie funzioni, spesso incontrandosi con i percorsi di altri progetti regionali come il progetto interculturale “Porto Franco” e il progetto “TRA ART rete regionale per l’arte contemporanea”. La rete tematica del teatro in carcere si è consolidata ed estesa, ed è iniziato un percorso di progettazione di rete anche per il teatro di strada, mentre le attività di danza hanno iniziato a coordinarsi attraverso lo strumento di un’associazione, l’ADAC, promossa dalla Regione. Contemporaneamente abbiamo sostenuto le attività di produzione nei generi tradizionali della musica, della prosa e della danza, attraverso bandi che hanno perseguito obiettivi di innovazione e stabilità, incentivando le residenze delle compagnie e delle associazioni nei teatri, e le loro attività di formazione del pubblico.

Siamo convinti che oggi, in una situazione di attacco senza precedenti alle attività di spettacolo anche in Toscana, le esperienze progettuali e le pratiche finora sviluppate debbano confluire in un disegno progettuale complessivo che permetta di costruire relazioni tra tutte le strutture, le reti e i servizi. Proponiamo dunque di costruire, secondo percorsi definiti e con scadenze di progetto, l’architettura complessiva del sistema toscano dello spettacolo, sulla base di alcune scelte di fondo.

1. “Fare sistema” nel settore dello spettacolo significa sviluppare in un disegno progettuale unitario e condiviso le potenzialità produttive, distributive, formative ed economiche dell’intero settore, dotando ogni territorio di strumenti e servizi sempre più efficaci e qualificati.
Nel processo di costruzione del sistema regionale dello spettacolo, attuando il metodo della co-progettazione e dell’accordo tra istituzioni, enti e associazioni, svolgono un ruolo centrale di impianto di sistema le reti delle strutture e degli spazi per lo spettacolo. Nella “Toscana delle Toscane”, ricca di tradizioni e differenze culturali, un sistema teatrale articolato su due livelli (i teatri grandi e medi, luoghi di produzione, ricerca e formazione di operatori; i piccoli teatri, luoghi di sperimentazione, di educazione ai linguaggi dello spettacolo e di formazione del pubblico) può sostenere obiettivi di forte radicamento territoriale e di coesione dell’intero sistema teatrale, all’interno del complessivo sistema toscano della cultura.
Il nostro modello di sistema regionale dello spettacolo non può non essere policentrico: nelle diverse aree territoriali i teatri grandi, medi e piccoli devono oggi promuovere e stabilire – anche sulla base delle esperienze in corso in diverse aree della Toscana – rapporti di collaborazione e cooperazione sui diversi terreni d’intervento. Non pensiamo a un sistema chiuso; pensiamo piuttosto a un sistema di reti territoriali capaci di interagire con gli altri luoghi dello spettacolo (piazze, edifici monumentali, edifici industriali dismessi e recuperabili a nuovi usi, centri interculturali, istituti culturali e associazioni), con il mondo della scuola, con l’associazionismo.

2. Il Sistema è uno strumento per “fare spettacolo”, svolgendo funzioni di : formazione del pubblico attuale e potenziale - in una Toscana multiculturale che vuole costruirsi come regione aperta e consapevole del valore delle differenze e delle diversità - ; sostegno alle attività di spettacolo in ogni loro fase: dalla ricerca alla produzione, alla didattica, alla promozione, alla distribuzione; sviluppo del confronto con le esperienze nazionali e internazionali; rafforzamento complessivo dello spettacolo in Toscana su scala regionale, nazionale e internazionale, anche per opporre politiche di rilancio e sviluppo a politiche di disinvestimento.

3. Il Sistema regionale dello Spettacolo

- è un sistema di reti territoriali e tematiche; le reti territoriali si sviluppano nelle singole aree provinciali, a partire dalle reti attuali di “Sipario Aperto” e “Teatri insieme” nelle aree Pisa-Livorno e Arezzo e stabilendo relazioni di cooperazione e collaborazione con i teatri medi e grandi delle aree provinciali; le reti tematiche, su scala regionale, si sviluppano a partire dalle attuali reti del teatro in carcere, della danza e del teatro di strada; questo processo inizia nel 2006 e si estende a tutti i territori provinciali negli anni successivi;

- interviene sull’estensione e qualificazione della domanda (pubblico/pubblici, territorio) attraverso iniziative di informazione e comunicazione, di sperimentazione di “cantieri per lo spettacolo” rivolti ai giovani artisti, di incontri con il pubblico ecc.

- sostiene le attività di produzione delle compagnie e delle associazioni, promuovendo la scelta della contemporaneità e della rilettura del passato nei suoi intrecci con il presente e la sperimentazione interdisciplinare dei linguaggi;

- incrementa le attività di distribuzione, anche in funzione dell’accesso delle giovani compagnie e formazioni musicali al sistema toscano dello spettacolo, e promuove la nuova creatività attraverso “vetrine” e situazioni di confronto;

- realizza strumenti di documentazione e informazione sull’intero sistema dello spettacolo in Toscana, attraverso un “portale” regionale (da progettare e costruire anche con la partecipazione di FTS e altri enti che abbiano già attivato banche dati) e attraverso strumenti a stampa di larga diffusione (guida breve al sistema dello spettacolo, guida ai festival, opuscolo sul teatro in carcere ecc.);

- stabilisce interrelazioni tra il sistema e le altre reti culturali a livello regionale (a partire da arte contemporanea e intercultura, musei e biblioteche, beni culturali) e altri settori d’intervento della Regione Toscana (istruzione e formazione, trasporti, attività produttive, turismo), e tra il sistema toscano e il livello nazionale (a partire dall’Italia centrale) e internazionale (progetti europei, Mediterraneo ecc.).

Sulla base di queste scelte di politica culturale, la Regione sviluppa nel 2006 - attraverso il Piano regionale dello spettacolo - le seguenti azioni in funzione della costruzione del Sistema:

1) costruzione dell’architettura complessiva del sistema (teatri, cinema, spazi, piazze ecc.) nelle aree provinciali di Pisa, Livorno e Arezzo, a partire dalle reti attuali di “Sipario Aperto” e di “Teatri insieme”;

2) progettazione (anche con Fondazione Toscana Spettacolo, Mediateca Regionale Toscana ecc.) e prima implementazione del portale del Sistema regionale dello Spettacolo (attraverso una redazione integrata Regione-enti-territori), e produzione di strumenti di informazione e comunicazione rivolti al grande pubblico, a stampa e on-line (guida breve al sistema dello spettacolo, guida breve ai festival, guida al teatro in carcere);

3) ridefinizione (in collaborazione con le Province toscane) dei “festival” come “cantieri interdisciplinari” innovativi per tematiche e sperimentazione di linguaggi, e promozione del calendario unitario di tutti i festival, superando le separazioni tra i generi;

4) sperimentazione dei primi “cantieri per lo spettacolo”, esperienze laboratoriali in cui maestri e maestre di riconosciuto valore artistico sperimentano con giovani allievi i linguaggi dello spettacolo sulla base delle proprie poetiche;

5) individuazione di possibili “vetrine” per le giovani compagnie e formazioni musicali, nell’ambito del sostegno regionale alle attività di produzione delle compagnie, associazioni ecc., e anche in relazione con l’iniziativa interregionale Centro Scena;

6) definizione di un quadro progettuale finalizzato all’educazione musicale;

7) presenza attiva della Regione Toscana nel coordinamento interregionale e nel coordinamento Stato-Regioni sulla base della proposta di legge per lo spettacolo presentata dalle Regioni nel 2005;

8) definizione di un quadro delle opportunità di finanziamenti europei per lo spettacolo, anche in collegamento con l’assessorato regionale alla formazione professionale;

9) definizione di un quadro di relazioni intersettoriali all’interno della Regione Toscana (istruzione e formazione professionale, turismo, trasporti, attività produttive, ambiente ecc.);

10) adeguamento della normativa regionale (leggi regionali 45/2000, 75/1984, 88/1994) agli obiettivi del Sistema.

In conclusione: il “Sistema Regionale dello Spettacolo” è un progetto/processo. L’idea progettuale del sistema si trasforma in processo reale attraverso azioni e fasi di attuazione. Il 2006 è un anno di transizione per orientare la situazione attuale al nuovo scenario del sistema. Ogni finanziamento regionale sarà da noi considerato e gestito come investimento finalizzato agli obiettivi della costruzione del sistema. La costruzione di un sistema aperto e in divenire, ma saldamente strutturato per reti, strutture e servizi, rende infine indispensabile – ed è una condizione del processo - la sinergia progettuale e operativa tra tutti i livelli istituzionali, tra istituzioni e soggetti privati, per dare forma e concretezza territoriale al disegno strategico regionale.

“Me-ti insegnava: I rivolgimenti avvengono nei vicoli ciechi.” A insegnare è il Brecht del 1934, dall’esilio danese; un anno dopo, nel 1935, parteciperà al Congresso internazionale di Parigi “per la difesa della cultura” dalla peste nera che si sta diffondendo in Europa dall’Italia e dalla Germania. In quegli anni, che fanno parte della nostra storia e della nostra memoria, la cultura è - come sempre - terreno di scontro politico. Come oggi, nelle nuove condizioni della globalizzazione finanziaria, dell’economicismo mercantile e del populismo autoritario, della deculturalizzazione della politica. Grande è la confusione sotto il cielo, e la situazione non è eccellente, è pessima. L’attacco sistematico allo stato sociale, alla cultura come diritto di cittadinanza, alla centralità della conoscenza come condizione dello sviluppo umano e sociale, non ammette obiezioni. Una società di analfabeti e consumatori servili, economicamente ricattati, teledipendenti, condannati a sopravvivere su percorsi miserabili, è di gran lunga preferibile a una società di persone consapevoli dei propri diritti, della propria diversità, della propria centralità. La società dello spettacolo si è rapidamente trasformata in uno spettacolo sociale irto di detriti, macerie, violenza, stupidità. L’alternativa all’incubo della cecità pre-vista da Saramago, alla deriva inesauribile verso l’incapacità e l’impossibilità di vedere, è lo sviluppo di pratiche culturali che coltivino una concezione della cultura come arte della relazione, tra persone, tra presente e passato, tra saper vedere e saper fare. Su questo terreno è eticamente nobile resistere, ma è assai più efficace insistere, costruendo scenari diversi.

Lanfranco Binni
Regione Toscana Giunta regionale
Direzione generale delle politiche formative, beni e attività culturali
Responsabile Settore Spettacolo

Firenze, 6 dicembre 2005


 


 

La classe morta trent'anni dopo
In mostra alla Triennale di Milano dal 6 dicembre
di Triennale

 

La classe morta
Disegni, installazione, video-evento
Triennale di Milano
6 dicembre 2005 – 5 febbraio 2006
Preview per la stampa: lunedì 5 dicembre 2005, ore 11.00



LA CLASSE MORTA, IL CELEBRE SPETTACOLO DI TADEUSZ KANTOR, RIVIVE ALLA TRIENNALE DI MILANO IN OCCASIONE DEI TRENT’ANNI DALLA SUA CREAZIONE

“La classe morta” è iscritto come un’opera fondamentale nella storia del teatro a livello mondiale. Il ricordo dell’infanzia, la memoria e l’onnipresente sentimento della morte sono la materia di questa “seduta drammatica” (come Kantor amava definire questo spettacolo), collocato in “un angolo” di uno spazio buio e indefinito, alla luce di una semplice lampadina.

La prima rappresentazione di questa perfetta macchina teatrale della memoria ha avuto luogo a Cracovia il 15 novembre 1975, nella cantina di un palazzo cinquecentesco dove aveva sede la Galeria Krzysztofory, luogo abituale di incontro di artisti e teatranti.



A distanza di trent’anni la Triennale di Milano e il CRT Artificio – che ha prodotto tutti gli ultimi spettacoli sino alla scomparsa del Maestro polacco avvenuta quindici anni fa, l’8 dicembre del 1990 – hanno programmato un evento che presenta per la prima volta un gruppo di 24 disegni originali, due installazioni di Tadeusz Kantor e la proiezione del primo video-documento con la ricostruzione integrale del celebre spettacolo.

Incredibilmente infatti, La Classe Morta - rappresentata dal Teatr Cricot 2 più di un migliaio di volte nei teatri di tutto il mondo – non è mai stata registrata integralmente, se si eccettua il film di Andrzej Wajda liberamente ispirato allo spettacolo e una registrazione effettuata senza pubblico in uno studio televisivo di Parigi.

Questa edizione in video - curata da Anna Halczak e Franco Laera – utilizza un raro filmato del 1976 e registrazioni frammentarie effettuate nel corso delle rappresentazioni in tempi e luoghi diversi, che sono state raccolte nel corso di quest’ultimo anno, restaurate ed editate digitalmente per restituire fedelmente l’opera nella sua integralità, sulla base della partitura originale dello spettacolo scritta dallo stesso Kantor.
A sottolineare l’eccezionalità dell’evento, la proiezione de “La Classe Morta” si interseca dal vivo con alcuni testi di Tadeusz Kantor, in parte inediti, affidati all’attore Giovanni Battista Storti che ha a lungo fatto parte del Teatr Cricot 2.

La classe morta
Disegni, installazione, video-evento
Triennale di Milano
6 dicembre 2005 – 5 febbraio 2006
Ingresso: 8,00/5,50/4,00
A cura di Anna Halczak e Franco Laera
Preview per la stampa: lunedì 5 dicembre 2005, ore 11.00
L’attore Giovanni Battista Storti accompagna l’evento dal vivo con le parole di Tadeusz Kantor tutti i pomeriggi dalle 14.30 alle 20.30 e la mattina su prenotazione per le scuole

Triennale di Milano
viale Alemagna 6
www.triennale.it


 


 

Il principe costante restaurato
Un convegno a Roma il 26 e 27 novembre
di Università di Roma "La Sapienza"

 

UNIVERSITA’ DI ROMA “LA SAPIENZA”

MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA’ CULTURALI
DIREZIONE GENERALE CINEMA-DIREZIONE GENERALE TEATRO

PROVICIA DI ROMA
ASSESSORATO ALLE POLITICHE CULTURALI DELLA COMUNICAZIONE
E DEI SISTEMI INFORMATIVI

In collaborazione con
Dipartimento di arti e scienze dello spettacolo

venerdì 25 novembre ore 15,30
sabato 26 novembre ore 9,30
Teatro Ateneo – viale delle Scienze 3 (Città universitaria)

Il Principe Costante di Jerzy Grotowski
Convegno Internazionale di Studi
a cura di Ferruccio Marotti e Luisa Tinti


Proiezione della versione restaurata de “Il Principe Costante”
con sottotitoli in italiano




Jerzy Grotowski – uno fra i maggiori uomini di teatro del Novecento – è stato nel 1982, insieme con Eduardo De Filippo, il primo professore a contratto di teatro alla “Sapienza”. Ma già nel 1975 Grotowski era stato ospite al Teatro Ateneo, dove aveva mostrato il film del “Principe Costante”, spettacolo teatrale da lui realizzato dieci anni prima con la grande interpretazione di Ryszard Cieslak, che aveva avuto quattromila repliche in tutto il mondo ed era diventato lo spettacolo mito di quei decenni. Si trattava di un film muto, bianco e nero in 16 mm, molto rovinato, che riprendeva lo spettacolo per intero, con solo un’interruzione ogni 11 minuti (che corrisponde al cambio di caricatore in una cinepresa professionale)
In quell’occasione Ferruccio Marotti, allora direttore dell’allora Istituto del Teatro dell’Università, il quale aveva registrato a Spoleto, nel 1968, la traccia audio dello spettacolo, propose a un incredulo Grotowski di permettergli di sincronizzare il film muto di alcuni anni prima, con la registrazione audio del 1968, con l’aiuto dello stesso Cieslak: da questa originale impresa, nacque un documento di grande valore storico: “Il Principe Costante – Ricostruzione”.



Ryszard Cieslak, attore simbolo del teatro del Novecento.

Oggi, a trent’anni di distanza, il convegno – voluto dall’Assessorato alle Politiche Culturali della Provincia di Roma, dalla Direzione Generale Cinema e Direzione Generale Teatro del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - presenta la copia del film, nuovamente restaurata con tecnologie digitali e sottotitolata in italiano, inglese, francese e polacco, per permettere – al di là della magia delle azioni e dei suoni – di comprendere la poesia del dramma di Calderón-Slowacki.
Portano la loro testimonianza al convegno Rena Mirecka e Zygmunt Molik, due degli attori che, negli anni sessanta, presero parte allo spettacolo, Mario Raimondo e Antonio Costa, che con Allen Ginzberg, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Strehler, Romolo Valli videro lo spettacolo a Spoleto nel ’68, studiosi e collaboratori di Grotowski, Paul Allain, Marina Ciccarini, Stefania Gardecka, Leszek Kolankiewick, Ferdinando Taviani.
Dopo il convegno il film sarà depositato e visionabile presso la Biblioteca Mediateca del Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo (tel.06 4991 4116) per gli studenti, e su appuntamento presso la Videoteca del Centro Teatro Ateneo al numero 06 4991 4434.

ctaorganizzazione@uniroma1.it

Programma

Venerdì 25 novembre
Ore 15.30 – Apertura dei lavori

Renato Guarini
Rettore dell’Università di Roma “La Sapienza”

Vincenzo Vita
Assessore alle Politiche Culturali della Comunicazione e dei Sistemi Informativi della Provincia di Roma

relazioni

Ferruccio Marotti
Il Principe Costante: una ricostruzione. Il lavoro con Ryszard Cieslak sul film muto del Teatr Laboratorium

Proiezione della versione restaurata de Il principe costante, con sottotitoli in italiano

Rena Mirecka
The way

Ferdinando Taviani
Il drappo rosso

Zygmunt Molik
Ombrello e cappello

Stefania Gardecka
All’ombra del maestro

Sabato 26 novembre
Ore 9.30

Luisa Tinti
Introduzione

relazioni

Marina Ciccarini
Variazioni sul tema della Redenzione nel Principe Costante di Calderón-Slowacki

Leszek Kolankiewick
I problemi delle registrazioni audiovisive degli spettacoli di Grotowski

Paul Allain
Fare non recitare nel “Principe Costante”

Antonio Costa
L’ospite grato (ovvero grazie per le magnifiche cose)


 


 

Teatro di figura, disabilità e intregrazione in convegno a Cervia
Un teatro dai diversi talenti dal 2 al 4 dicembre
di Arrivanodalmare!

 

“Un teatro dai diversi talenti”
teatro di figura, disabilità e integrazione
incontri/seminari/laboratori/spettacoli

Cesena 2, 3, 4 dicembre2005


Centro Teatro di Figura ARRIVANO DAL MARE!

in collaborazione con
Cooperativa "LE MANI PARLANTI"
Associazione “BURATTINI E SALUTE”
Associazione "CYRANO"
Rete "LA BARACCA DEI TALENTI"
e il sostegno di
Ministero Beni e Attività Culturali
Regione Emilia Romagna, ERT Emilia Romagna Teatro
Comune di Cesena Assessorato alla Cultura e Settore Servizi Sociali
CDE Centro Documentazione Educativa
CDA Centro Documentazione Apprendimenti
Centro Servizi ASSI.PRO.V
Con il patrocinio
della Azienda USL di Cesena
Con il contributo e il patrocinio
della Provincia Forlì-Cesena e Comitato Paritetico Provinciale del Volontariato

programma

Venerdì 2dicembre 2005
Auditorium Hera (via Spinelli 60)

CONVEGNO
Ore 15 apertura convegno
Corrado Vecchi (Presidente “Burattini e salute”)

Ore 15.15
I SESSIONE: "TEATRO DI FIGURA E RELAZIONE DI AIUTO "
moderatrice: Rita Silimbani (pedagogista, Vice Presidente “Burattini e salute”)

INTRODUZIONE di Stefano Giunchi (Direttore dell'Atelier delle Figure/Scuola per Burattinai)

“PSICOTERAPIA E TEATRO DI FIGURA”
comunicazione di Fabio Groppi, (psicoterapeuta Coop. Le Mani Parlanti)

"RACCONTARE E RACCONTARSI"
comunicazione di Sergio Diotti (autore e fulesta, coop. Arrivano dal Mare!)

"BAMBINI IN OSPEDALE, IL MODELLO GIOCAMICO, OSPEDALE PARMA"
comunicazione di Corrado Vecchi (psicomotricista, coop “Le Mani Parlanti”)

INTERVENTO di Madeleine Lions (Presidente di "Marionnettes et therapie")

Centro di documentazione educativa (CDE – via Anna Frank 185)
LABORATORI DIMOSTRATIVI (accesso gratuito su prenotazione)
ore 20.30-22,30
· "FIGURE ED IMMAGINI IN TRASFORMAZIONE" condotto da Fabio Groppi ·
· “LA RELAZIONE D’AIUTO NELL’APPRENDIMENTO IN DIFFICOLTÀ” – condotto da Stefano Giunchi. ·
· "RACCONTARE E RACCONTARSI CON LE FIGURE" - condotto da Sergio Diotti ·


Sabato 3 dicembre 2005
Auditorium Hera (via Spinelli 60)
CONVEGNO

Ore 9,00 apertura convegno
Daniele Gualdi (Ass. Pubblica Istruzione e Cultura, Comune di Cesena)

II SESSIONE: "LE COMPAGNIE INTEGRATE DI TEATRO DI FIGURA"
moderatore Fabio Groppi

INTRODUZIONE di Adriano Brandolini (psicologo, Presidente di "Cyrano")

comunicazioni e presentazioni di video di:
Anna Volpi e Giuseppe Giuberti (educatori, Parma)

Filippo Arcelloni (regista, Piacenza)

Corrado Sorbara (regista, Amelia)

Angelo Aiello e Luca Ronga (burattinai e docenti Atelier delle Figure, Cervia)

Arianna Maroni (educatrice e operatrice Cyrano, Cesena)

Emanuele Pasero (assessore politiche sociali di Amelia)

Ore 11, 00
III SESSIONE: "IL SOSTEGNO NELLA SCUOLA: QUALE INTEGRAZIONE"
Moderatore Piero Gridelli (pedagogista, Coordin. Gruppo Integrazione CDE)

INTRODUZIONE di Rita Silimbani (pedagogista)

“COUNCELING E TEATRO DI FIGURA: UNA ESPERIENZA NELLE SCUOLE MEDIE DI CORREGGIO”
comunicazione di Simona Gollini e Marta Vaccari

“LE OMBRE COME SFONDO INTEGRATORE”
comunicazione di Angela Mercatali

Ore 12,30 SPETTACOLO
compagnia "Ciao! fantastici burattini" (Piacenza)
in "LA FESTA"




Teatro Comunale di Longiano
SPETTACOLI E DIMOSTRAZIONI


Ore 15,30 SPETTACOLO
Compagnia “Pupazzi da Slegare” (Cesena)
In “CRAZY PUPPETS CIRCUS SHOW”

Ore 16,15
Fabio Groppi e Giuseppe Giuberti presentano il film e il libro, dal laboratorio “INCONTRI NEI RACCONTI”, realizzato all’interno della coop. Sociale “Fiordaliso” di Parma

Ore 17,00 SPETTACOLO
Compagnia “Instabile” (Porchiano)
in “GUERRA O PACE”
regia Corrado Sorbara



Domenica 4 dicembre 2005
Centro di documentazione educativa (CDE – via Anna Frank 185)
Ore 9.30 ASSEMBLEA ASSOCIAZIONE “Burattini e salute”



informazioni e prenotazioni per i laboratori:
0544 971958 / 0544 965876
e-mail atelier@arrivanodalmare.it
www.arrivanodalmare.it / www.europuppet.org / www.burattiniesalute.it

 


 

Una prospettiva condivisa per le arti e lo spettacolo
Un incontro a Firenze il 3 e il 4 dicembre
di Adac

 

Sabato 3 e Domenica 4 dicembre 2005

Firenze
- Auditorium dell'Ente Cassa di Risparmio di Firenze via F. Portinari, 5/r

UNA PROSPETTIVA CONDIVISA PER LE ARTI E LO SPETTACOLO CONTEMPORANEI
incontro aperto

Scopo dell'incontro è dare l'avvio a un processo di discussione, aperta a tutti coloro che operano nel campo della danza, del teatro, della musica, delle arti visive, delle arti mediali e della critica, che porti all'individuazione di una prospettiva condivisa per il futuro dello spettacolo e delle arti contemporanee in Italia.

L'incontro vuole essere un'opportunità di dialogo e confronto, di partecipazione attiva, in prima persona, alla possibilità di trasformare un sistema che non soddisfa più le attuali e reali esigenze culturali e sociali. E' importante un coinvolgimento più ampio possibile delle persone che vivono nella loro esperienza quotidiana la difficoltà di questo momento, per questo ti invitiamo a partecipare e a comunicare questa iniziativa a tutti coloro che ritieni interessati.

Sono previsti interventi di:
Paolo Aniello (Presidente CSS Udine, Presidente Tedarco), Matteo Bambi (Kinkaleri - Prato), Roberto Castello (Coreografo, Presidente ADAC), Ninni Cutaia (Direttore Teatro Stabile di Napoli), Ilaria Fabbri (Dirigente ETI), Silvia Fanti (Xing -Direttore Artistico Festival Internazionale sullo Spettacolo Contemporaneo - Bologna), Massimo Marino (Critico), Paolo Ruffini (Critico), Gianni Tangucci (Direttore Artistico Teatro del Maggio Musicale Fiorentino), Daniel Soutif (Direttore Centro per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci - Prato).

Informazioni e adesioni:
Martino Baldi martino.baldi@gmail.com /tel. 328.8423509
Monica Cerretelli monicacerretelli@libero.it / tel.347.1745763


 



Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
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