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Un teatro lungo venticinque anni
Sugli spettacoli del Teatro dell'Elfo
di Oliviero Ponte di Pino

Questo saggio è stato pubblicato su "Diario", 19-25 gennaio 2001, con il titolo "Rivoluzionari all'Opera".
Trovate le mie recensioni agli spettacoli dell'Elfo in un'apposita
pagina di olivieropdp.
Se invece volete andare direttamente alla fonte, visitate il sito dell'
Elfo.


Come sempre, ci sarebbe una preistoria, ma è meglio cominciare da una sera del dicembre del 1975, nel grigio della periferia milanese. Al Teatro Officina, proprio dove adesso c’è lo Zelig, un gruppo di ventenni racconta con pochi stracci, qualche ingenuità e molto entusiasmo la storia della Rivoluzione Francese. I ragazzi del Teatro dell’Elfo hanno ripreso e adattato 1789, lo spettacolo-manifesto di Ariane Mnouchkine, che con il suo Théâtre du Soleil – egualitarismo, amore per il teatro, molta improvvisazione e impegno politico – è un po’ il modello della compagnia milanese.

Quando si inizia a narrare una storia che procederà inevitabilmente per schegge e frammenti, oltre a un inizio serve anche un filo rosso. Potrebbe essere il Sogno di una notte di mezza estate, che punteggia la teatrografia dell’Elfo con tre diversi allestimenti: nel 1981, a firma di Gabriele Salvatores, e poi con la regia di Elio De Capitani nel 1988 e 1997. Protagonisti del testo di Shakespeare sono quattro ragazzi che per un amore contrastato si ribellano ai genitori, abbandonano Atene e fuggono in un bosco magico. Nella notte vivono mille avventure, tra incubo e fiaba, e quando all’alba tornano in città si scoprono trasformati per sempre. Le metafore scorrono fin troppo facili: la rivoluzione e il suo spettacolo, la foresta incantata e la città, il teatro e la vita, e poi il senso del gruppo e la trasgressione come occasione di conoscenza di sé...

Negli anni Settanta, in una Milano ancora lacerata da violente tensioni sociali e generazionali, per molti la rivoluzione sembra davvero a portata di mano. Nei centri sociali – "zone temporaneamente liberate" – l’Elfo prova e presenta i suoi spettacoli-festa (Pinocchio Bazar, il cui canovaccio viene messo a punto nel 1977 in una serie di trasmissioni a Radio Popolare, Le Mille e una notte, 1977). I testi sgangherati e torrenziali vivono di sberleffi e irriverenze, assimilano i gerghi giovanili e il ritmo della città. Sono creazioni collettive, ricche di gag e invenzioni comiche, sospinte da una teatralità immediata e sontuosamente stracciona. Li sorregge un gusto musicale irrobustito dal pop: la colonna sonora del primo Sogno porta la firma Mauro Pagani, leader della Pfm, la migliore band di rock progressivo italiano. Quegli attori ancora acerbi offrono il proprio corpo per raccontare una storia collettiva. Gli spettatori più snob storcono il naso (ancor oggi il "Corriere della Sera" tradisce una certa diffidenza), ma con il pubblico giovanile scatta un’immediata sintonia, un radicamento che resterà per decenni un prezioso patrimonio.

Arrivano gli angosciati e caotici entusiasmi del '77, le Brigate Rosse e la repressione s'impossessano della scena. L'anno dopo il sequestro Moro liquida ogni illusione. I ragazzi dell’Elfo abbandonano la precarietà dei centri sociali e le loro strettoie politiche, per privilegiare l’attività artistica. Hanno anche trovato una casa, in una sala scavata sotto un anonimo condominio di via Ciro Menotti: grazie a un "aiutino" socialista (sta per sbocciare la "Milano da bere" e il Psi flirta con varie frange esterne al rigido Pci) un vecchio cinema diventa il Teatro dell’Elfo. Lì quei giovani teatranti provano a diventare grandi, raccontando i classici con il linguaggio della modernità. Volpone (1979) e Satyricon (1979) s’impantanano per eccesso d’ambizione (come accadrà molti anni dopo, nel 1994, con Amleto), ma danno inizio a un percorso che affina, spettacolo dopo spettacolo, un linguaggio teatrale nitido e riconoscibile, che diventerà una vera e propria cifra stilistica. Attraverso una progressiva formalizzazione, gli eccessi da commedia dell’arte vengono via via ridotti, anche se continueranno a pulsare in una certa predilezione per il grottesco. Le scenografie si fanno sempre più essenziali e spoglie, con rari segni di forte evidenza e luci modulate e incise con precisione. Il ricorso ai microfoni è sistematico e ostentato, a metà tra il concerto rock e la lezione di Carmelo Bene. Le deformazioni espressionistiche s’inseguono al ritmo di un videoclip. Il linguaggio viene decisamente attualizzato, quando non si allestiscono, come accade sovente, testi contemporanei.

È una grammatica teatrale semplice e lineare, arricchita da un efficace rilancio dell’epicità brechtiana: consente agli attori di rivolgersi direttamente a un pubblico di cui rispecchiare disagi e intermittenze del cuore. Perché i quattro protagonisti del Sogno sono solo i capostipiti di una lunga genealogia di adolescenti e post-adolescenti insoddisfatti, alla ricerca di un difficile equilibrio con se stessi e con gli adulti. Dopo di loro all’Elfo, tra banchi di scuola ribaltati e accatastati, si scatenano gli studenti ribelli e violenti di Nemico di classe (1983): un altro clamoroso successo, dove si segnala un gruppo d’attori tra cui figurano Paolo Rossi, Claudio Bisio, Riccardo Bini, Antonio Catania, Sebastiano Filocamo e lo stesso De Capitani (che firma anche la regia, con effetti meno duri e più comici dell’allestimento punk di Peter Stein). Sullo stesso palcoscenico, i sette trentenni tormentati e insoddisfatti di Visi noti, sentimenti confusi del tedesco Botho Strauss (1984) esprimono il loro vuoto e il loro disorientamento.

Nel 1986 esplode Comedians, un hit che farà epoca. Curiosamente il testo di Trevor Griffiths ha la struttura di uno dei successi mondiali di quegli anni, Chorus Line: un provino per entrare nel magico mondo dello spettacolo – in questo caso, profeticamente, per ottenere una scrittura in tv. Comedians si dimostra un vero e proprio "saranno famosi", perché il regista Gabriele Salvatores intercetta diversi giovani attori praticamente sconosciuti: Paolo Rossi, Claudio Bisio e Antonio Catania, e poi Silvio Orlando, Bebo Storti, Gigio Alberti, Renato Sarti, Gianni Palladino... Per la prima volta sale alla ribalta il Nuovo Cabaret Milanese, che da allora imperverserà su piccoli e grandi schermi. Nella stessa stagione lo sforzo autobiografico della compagnia si fa ancora più ambizioso ed esplicito con Il lago, un testo (piuttosto discusso) scritto e diretto da Elio De Capitani, dove si racconta in chiave cechoviana di una tribù chiusa in una villa, tra colori e atmosfere autunnali, in un florilegio di aneddoti ma anche molto "non detto".

A questo punto la galleria di autoritratti non può che arricchirsi di sfumature e possibilità: ecco Leonce e Lena, la coppia di principini innamorati e in velleitaria fuga dal mondo del potere nella commedia di Büchner (1990), trasportata tra i graffiti di uno squallido centro sociale; e gli adolescenti chiusi e disperati del Risveglio di primavera di Wedekind (1991), a denunciare le miserie della repressione sessuale. Ad attrarre l’attenzione può essere un serial killer feroce, vulnerabile e imprevedibile come il Roberto Zucco protagonista dell’omonima pièce di Bernard-Marie Koltès (1995), che aveva iniziato la carriera massacrando i genitori a Mestre. In Quartett di Heiner Müller (1989 e 1995) può incuriosire l'intramontabile coppia dei teorici della seduzione, gli aristocratici Madame de Merteuil e Valmont, che a loro volta riecheggiano i perversi cinici e amorali, volgari ed esibizionisti altoborghesi di Decadenze di Steven Berkhoff (1993). Quasi per arrivare al cuore oscuro ma inafferrabile del problema, si può portare in scena la Madame de Sade dell’omonimo testo di Mishima (1996). Insomma, la gamma è piuttosto ampia: a volte la trasgressione può liberare una surreale sarabanda di trovate comiche come nei testi dell’irresistibile Copi Capodanno (1995) e Tango barbaro (1996), dove i registi De Capitani e Bruni scritturano come protagonisti Mariangela Melato e Toni Servillo; all’estremo opposto si possono esaurire tutte le possibili combinatorie sessuali nell’angosciato Resti umani non identificati del canadese Brad Fraser, lo spettacolo che nel 1996 segna la fusione dell’Elfo con un altro teatro milanese, il Porta Romana, per dar vita ai Teatridithalia.

Attraverso spettacoli refrattari a ogni zavorra ideologica, più attenti in apparenza al costume, al sentimento e alla sessualità che alla storia e alla politica, l’Elfo ha continuato a incarnare l’anima inquieta e autoindulgente dei sommovimenti che hanno segnato gli ultimi decenni. Alla radice di queste tragedie (anzi, tragicommedie) c’è una ribellione individuale, esistenziale, contro regole che non possono essere comprese né accettate. Le motivazioni di questi eroi fragili (e a modo loro amletici) sono le più varie: l’amore, l’amicizia, la noia, la rabbia contro l’ingiustizia, l’omosessualità (o meglio la sessualità), il vuoto morale del consumismo, la grettezza piccoloborghese, il sentimento dell’ingiustizia del mondo... Ritornano variamente modulate ed estremizzate – con genitori sempre più assenti e forse rimpianti, con un potere sempre meno identificabile, impersonale e dunque inattaccabile – i pruriti di una gioventù che dagli anni Cinquanta continua a bruciarsi con testarda determinazione. In genere l’esito della ribellione è tragico per i protagonisti, ma offre un’occasione di conoscenza per chi si riconosce in quelle trasgressioni, e magari le pratica – ma con maggior moderazione – e le rivendica. Eppure è come se quegli spettatori non crescessero davvero, sempre affascinati, decennio dopo decennio, da quelle disperazioni, quelle incazzature, quelle rivolte solitarie.

Non a caso in queste rappresentazioni del microcosmo sociale il potere tende ad apparire ottuso, corrotto e arrogante – la congiura dei "grandi" incapaci di comprendere i loro figli. E quando a uno di questi adolescenti fragili (e un po’ cresciuti) capita di prendere il potere, l'esito è prevedibile. Basta seguire i destini di Caligola, protagonista del testo di Camus (1997); e di Edoardo II, ovvero l'elisabettiano Marlowe più le suggestioni di Derek Jarman (2000). Il loro regno di angosciato sovvertimento non può durare molto, di fronte alle necessità e alle leggi del mondo. I sovrani dell’utopia possibile potranno lasciare in eredità soltanto il sogno di una ribellione insensata e l’eco della sua bellezza omicida.

Non a caso i numi tutelari che si è scelto il gruppo – oltre ai citati Shakespeare e Mnouchkine, oltre alle suggestioni di qualche spettacolo di Jerôme Savary, Pina Bausch e Peter Stein – sono maestri di trasgressione come Fassbinder e Pasolini. Del regista tedesco l’Elfo replica per anni il feroce melodramma lesbico Le lacrime amare di Petra von Kant (1988) in un intreccio di raggelate geometrie; poi libera una vena grottesca misurandosi con la riscrittura della goldoniana Bottega del caffè, esasperato ritratto di una metropoli putrida e corrotta (1991, proprio alla vigilia dell’esplosione di Mani Pulite); infine gioca la carta della provocazione estrema allestendo I rifiuti, la città e la morte, discusso (per le accuse di antisemitismo) ritratto di una Francoforte devastata dalla speculazione edilizia (1998). Di Pasolini De Capitani riscopre un dimenticato testo giovanile in dialetto friulano, I Turcs tal Friùl, per uno struggente spettacolo con le musiche e i canti di Giovanna Marini (1995). Proprio la mediazione della traduzione di Pasolini condurrà il regista a Eschilo e alla tragedia greca, con il progetto di messinscena dell’Orestea (sempre complice la Marini) approdato alle Coefore (1999) e alle Eumenidi (2000).

A garantire in questi decenni la sopravvivenza e la vitalità dell’Elfo, oltre all’affettuoso rapporto con il pubblico, alla disponibilità di una sede e alla linearità delle scelte artistiche, è stata anche la stabilità del nucleo artistico. È un gruppo compatto, nel quale figurano da sempre anche attori come Ida Marinelli, Cristina Crippa (che ha firmato in prima persona anche diversi progetti), Corinna Agustoni e Luca Toracca, oltre alla scenografa Thalia Istikopoulou, dove però la dialettica interna è sempre viva. A garantire identità alla compagnia (e sostenere l’ingresso di nuove leve d’interpreti, come sta accadendo in questi anni) sono stati proprio alcuni attori, in particolare Ferdinando Bruni e Ida Marinelli, che hanno guadagnato sul campo il ruolo di primattore e di primattrice.

E poi naturalmente ci sono i registi. Agli inizi Gabriele Salvatores coglie e anticipa con fiuto da rabdomante i gusti e le curiosità del suo pubblico. Poi debutta nel cinema trasferendo sul grande schermo il suo Sogno, protagonisti Luca Barbareschi (che già era nel cast teatrale) e Gianna Nannini (new entry per il film), si allontana progressivamente dal teatro e nel 1991 vince l’Oscar con Mediterraneo e un cast infarcito di "comedians". Con il suo progressivo distacco dalle scene, la responsabilità registica cade soprattutto sulle spalle di Elio De Capitani e Ferdinando Bruni, che in coppia o singolarmente firmano le regie degli spettacoli più importanti. La compagnia ha vissuto anche dell’equilibrio e delle tensioni tra le loro due personalità umane e artistiche: quello corpulento e quello magro, l’estroverso e l’introverso, il coinvolgimento dell’empatia e il fascino freddo dell’intelligenza, la risata sguaiata e il ghigno sardonico, l’entusiasta e il dandy...

Oggi, considerate le differenti sensibilità, questo "teatro della trasgressione" sta forse per raggiungere un punto di svolta – anche perché ogni poetica dell'eccesso, basata su un costante superamento di sé e sulla provocazione, prima o poi si scontra con un limite invalicabile. Qualche indicazione può arrivare dai due più recenti spettacoli della compagnia milanese, visti negli ultimi mesi del 2000. Ferdinando Bruni firma la regia del nuovo testo di Mark Ravenhill, esponente della recente e interessante leva di drammaturghi inglesi. Il suo Bagaglio a mano racconta di due coppie omosessuali (una di maschi e una di femmine) che decidono di avere un bambino; la vicenda contemporanea è inframmezzata da scene che ricostruiscono l’antefatto dell’Importanza di chiamarsi Ernesto di Wilde (che ruota intorno a un neonato smarrito). Prosegue dunque la riflessione sulla diversità (con l’orgogliosa rivendicazione del suo valore positivo), ma affiora anche il disagio di una generazione che ha rifiutato i padri, e tuttavia non è in grado di assumersi le proprie responsabilità genitoriali; ed è in agguato la tentazione di un estetismo che rischia di raffreddare queste tensioni, raggelandole nell’estremo e mortale connubio tra amore della devianza e amore della bellezza. Se quella di Bagaglio a mano si rivela una famiglia impossibile, quelle descritte in brevi gag da un’altra giovane drammaturga, la belgradese Biljana Sbrlianovic, in Giochi di famiglia sono microcellule sociologicamente ben delineate – anche se rese in chiave grottesca – dove il padre e la madre, invariabilmente ottusi, vengono alla fine sterminati più o meno involontariamente dal loro bambino (il tutto ha come sfondo la Jugoslavia di Milosevic). Nel portare in scena la pièce, Elio De Capitani sembra così riprendere la strada del teatro politico, già praticato con una certa frequenza: nel 1985 con L’isola del sudafricano Athol Fugard sui campi di prigionia del regime razzista; e nel 1998 con La morte e la fanciulla, il testo del cileno Ariel Dorfman sulle possibilità di riconciliazione tra carnefici e vittime dopo la dittatura.

Il 26 gennaio 2001 segna il debutto di Elio De Capitani nel teatro lirico (un genere dove Ferdinando Bruni è già attivo da tempo soprattutto come scenografo e costumista, e soprattutto in Francia). Il regista milanese firma alla Fenice di Venezia la regia del Simon Boccanegra. Il protagonista è un ex-trasgressivo che ha fatto carriera. Forse non è una scelta casuale: Boccanegra era un corsaro e in gioventù ha sedotto la figlia del nobile Fiesco, e ora si ritrova Doge di Genova... Del resto all’opera, come ha dimostrato Richard Strauss, uno che all'inizio del Novecento aveva già capito tutto del secolo a venire, è possibile esplorare con gran gusto tutti i sentieri trasgressione, salvo poi approdare (per dirla con Arbasino) alle "più tranquillanti (e ’medie’) certezze, (…) raggiunte attraverso l’Eccesso sistematico" (Grazie per le magnifiche rose, p. 104).

Sarebbe curioso, allora, riflettere in questa chiave su una certa propensione dell’Elfo al musical (con risultati in verità non sempre convincenti). Anche se probabilmente il terreno più corretto per valutare le prospettive della compagnia resta quello dei classici. In Fedra (1998), con la drammaturgia di Agnese Grieco, Ferdinando Bruni (regista) e Ida Marinelli (protagonista) raccontano la passione perversa della regina per il figliastro con l’eleganza di un moderno grand opéra, e un oliato montaggio di attrazioni e astrazioni. Nelle Eumenidi Elio De Capitani prova invece a misurarsi con la difficile nascita della democrazia dopo la trasgressione del matricidio, quasi ad avvertire la necessità di un teatro civile – prima ancora che politico. In apparenza sono due direzioni diverse. Ma la tensione più profonda di un romanzo teatrale di formazione che dura da quasi trent'anni è forse proprio questa: il tentativo di far convivere il disagio personale e le pulsioni collettive, l'estetico e il politico, l'esistenziale e l'epocale, l'astrazione raffinata e l'ingenuità del grottesco – per trovare di volta in volta, imprevedibilmente, la festa o la tragedia. Anche in questa fragile utopia, la tribù dell'Elfo si rivela figlia del proprio tempo.


copyright Oliviero Ponte di Pino 2001

 

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