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La verità giocata

Frederick Wiseman alla Comédie Française
di Oliviero Ponte di Pino


Questo testo è stato scritto per il catalogo della personale che Frederick Wiseman ha dedicato l'edizione 2000 di "Filmaker".
La Comédie Française ou L'amour joué è un documentario del 1996, della durata di 223 minuti. Puoi trovare una biografia di Wiseman, la sua filmografia e la scheda del film su IMDb. Altre informazioni le trovi sul sito della sua casa di produzione, Zipporah Films.



"Non so se dite il vero,
ma fate in modo che vi si creda".
Molière, Don Juan


In Guerra e pace si può leggere una celebre ed esemplare descrizione di una serata a teatro. Calandosi nello stato d’animo di una turbata Nataša, Tolstoj registra ciò che vede la giovane donna, ignorando – o meglio, fingendo di ignorare – che si tratta di uno spettacolo e cancellando la distinzione tra la finzione e la realtà.

"Il palcoscenico, nel mezzo, era formato di tavole di legno levigate; ai lati sorgevano delle tele dipinte che raffiguravano alberi; sullo sfondo, c’era una tela tesa su un tavolato. Al centro della scena erano sedute delle fanciulle in corsetto rosso e gonna bianca. Una di loro, molto grassa, con un abito di seta bianca, sedeva su un basso sgabello dietro il quale era incollato un cartone verde. Tutte cantavano qualcosa".

Non esiste più illusione, s’è dissolta la disponibilità a credere alla finzione – a sospendere l’incredulità. Resta solo la descrizione letterale di ciò che si vede: non è un bosco incantato, solo assi e tele dipinte, e un grottesco sgabello. E per di più la protagonista è una cicciona.

"L’uomo con i calzoni attillati cantò da solo, poi cantò lei. La musica riprese a suonare e l’uomo prese a tormentare le dita della ragazza con l’abito bianco, in evidente attesa di attaccare di nuovo la sua parte insieme con lei".

Tolstoj, molto semplicemente, osserva e descrive ciò che vede Nataša. E trascura la cosa più importante, che la sua eroina sta guardando una cosa che si chiama "teatro".

"A Nataša tutto questo appariva strano e sorprendente. Non riusciva a seguire lo svolgimento dell’opera, non riusciva nemmeno a ascoltare la musica: vedeva soltanto dei cartoni dipinti, e uomini e donne stranamente abbigliati, che si muovevano, parlavano e cantavano immersi in una luce intensa. Sapeva che cosa significasse tutto ciò, ma tutto era così manierato, falso, innaturale, che a volte Nataša provava un senso di vergogna, a volte le veniva addirittura da ridere. Si guardava attorno, guardava le facce degli spettatori, cercandovi lo stesso sentimento di ironia e di perplessità che c’era in lei, ma tutti i visi erano assorti, intenti a ciò che accadeva sulla scena ed esprimevano un’ammirazione che a lei sembrava simulata".

Non è una visione falsa, quella di Nataša (così come non è affatto falsa quella, esilarante, di Montesquieu nelle Lettres persanes, dove il visitatore straniero getta lo stesso sguardo smagato sugli attori e sul loro pubblico, proprio alla Comèdie). Anzi, è massimamente neutra, rigorosamente oggettiva. Il risultato è una fotografia rivelatrice, che smaschera una fitta rete di convenzioni sociali e linguistiche.

La voce che descrive questa scena è come quella ingenua e innocente del bambino che, nella celebre fiaba, ha l’incoscienza (o il coraggio) di gridare che il re è nudo. Ma la descrizione tolstojana del teatro, citata e commentata da Viktor Sklovskij nella Mossa del cavallo, è anche il paradigma di quello che diventerà lo "straniamento", l’elemento cardine della più articolata teoria teatrale del Novecento, quella brechtiana.

Per certi aspetti, lo sguardo di Wiseman ricorda quello di Nataša, o quello del viaggiatore persiano.

Anche il documentarista americano, almeno in apparenza, si accosta alla Comédie Française limitandosi a inquadrare e registrare quel che vede. Mostra le antiche statue nei foyer e l’inserviente che passa l’aspirapolvere sui velluti rossi delle poltrone, gli attori che provano Racine e le patatine fritte alla mensa, l’intensità delle prove e la coda alla biglietteria, il laboratorio di scenografia e una discussione su Molière, la cabina di regia semibuia, le maschere annoiate in attesa della fine dello spettacolo, gli spettatori attenti e impettiti, i banconi dove lavorano le sarte e le strade lì intorno, e più in là la Senna che scorre placida...

In apparenza Wiseman si limita a guardare il mondo, e non spiega nulla. Non spiega – anche perché lo sanno tutti – che la Comédie Française è una tra le istituzioni culturali più antiche e prestigiose, e che le sue origini risalgono addirittura alla compagnia di Molière: qualche anno dopo la morte dell’attore-autore la sua troupe, che recitava in Rue Guénégaud, si fuse con quella di Rue de Bourgogne, dando così vita a un organismo che godeva – grazie alla lettre de cachet del 21 ottobre 1680 – del potente patrocinio di Luigi XIV. Fino alla Rivoluzione la Comédie operò in pratica in regime di monopolio: era l’unica compagnia abilitata a recitare in francese a Parigi, e questo la poneva nella posizione più vantaggiosa nei confronti della temibile concorrenza delle compagnie dei comici italiani. Ma questo genere di privilegi ha un prezzo, come aveva imparato a sue spese lo stesso Molière: per un artista il rapporto privilegiato con il potere politico rischia di rivelarsi sempre un patto con il diavolo (l’ha imparato anche l’amministratore della Comédie, Jean-Pierre Miquel, quello che commenta "Le jeu de la politique c’est l’hypocrisie", ovvero "Il gioco – ma anche la recita – della politica è l’ipocrisia").

Wiseman non fornisce didascalie né ricostruzioni storiche, ma lascia intuire anche a chi non conosce le sue secolari vicende che la Comédie è un mondo assai particolare. È un microcosmo, una piccola società all’interno della quale vigono leggi speciali, come in tutte le compagnie teatrali – e come nelle realtà chiuse, in quei microcosmi sociologici che hanno attratto la curiosità e l’attenzione di Wiseman, compreso l’American Ballet che precede questo documentario nella sua filmografia.

Nel caso specifico, le leggi che regolano questa comunità sono specialissime: i suoi attori sono sociètaires (ovvero soci, tra i venti e i trenta in tutto) del teatro, e dunque rispondono anche delle sue fortune economiche; oppure sono pensionnaires, ovvero scritturati di anno in anno, fino a un massimo di dieci: dopo di che, dovrebbero venire eletti sociètaires, oppure andarsene.

Wiseman non è un esteta o un idealista. A giudicare dalla grammatica del suo sguardo filmico, è mosso piuttosto da un rigore puritano, da una presa di coscienza etica nei confronti della realtà – preceduta ovviamente da una profonda fede nel visibile, nell'oggettività delle cose. Dunque vuole comprendere il mondo osservandolo così come gli si offre. Per farlo, deve coglierlo in tutte le sue sfaccettature, esaurire la complessità delle relazioni che l'innervano. Per esempio, sa benissimo che qualunque comunità si regge anche su precisi rapporti economici e di potere. Allora documenta la votazione dei nuovi soci e la discussione sul bilancio e sulle sovvenzioni governative. Anche perché in questo caso l’intreccio è assai complesso: la Comédie, come abbiamo visto, è un’impresa privata che però è posta al servizio dell’intera società. Le basi di questa impostazione risalgono addirittura a Napoleone Bonaparte, con un apposito decreto emanato a Mosca nel 1812, anche se oggi gran parte del budget viene coperto da sovvenzioni pubbliche.

Wiseman non commenta, non s’intromette con una voce fuori campo. Si limita ad accostare i brani che le macchine da presa e i microfoni hanno registrato (qualche volta si concede persino qualche fuori fuoco da diretta), con la massima neutralità e naturalezza possibile, anche se con ogni evidenza i suoi soggetti sanno di essere ripresi: in questo caso, oltretutto, sono spesso attori. Girovaga in maniera apparentemente casuale negli anfratti degli edifici e nelle tre sale in cui lavora la Comédie (Salle Richlieu, Vieux Colombier, Salle Récamier), nei laboratori e negli uffici, persino nella casa di riposo dove vivono i vecchi comédiens, tagliando allo stesso modo (tra il piano americano e il primo piano) tanto gli attori quanto i non attori.

Il teatro pone un limite tra sé e il mondo, un confine tra la finzione e la realtà (anche se poi spesso gioca a valicarlo, questo confine, a renderlo vago e permeabile): attraverso segni come il boccascena, i tre colpi di bastone all’inizio della pièce (alla Comédie sono sei, in memoria della fusione delle due compagnie), le luci che s’abbassano… Anche il cinema sa distinguere i livelli di realtà, per esempio con le dissolvenze che convenzionalmente aprono i flashback. Per Wiseman, ovviamente, non esistono convenzioni di questo genere: una immagine è una immagine è una immagine, non sono ammessi livelli diversi di realtà.

Così l’apparente oggettività del filmato, quel suo indugiare su particolari "veri", si scontra subito con la programmatica falsità del teatro, con la sua natura di sgangherato sacrario dell'illusione e dell'immaginario. Nei testi sui quali la compagnia sta lavorando – quattro classici della scena francese, che esemplificano il tipico repertorio della compagnia, ma anche l’ésprit transalpino (con il suo mix di ironia e sensualità, razionalismo e retorica), come Marivaux, Feydeau, Molière e Racine, con la Thébaïde – Wiseman isola alcune scene esemplari. Sceglie un brano della Double inconstance dove si insiste che la realtà è ciò che crediamo, e dunque "se lo vuoi, lo credi"; o mostra i due protagonisti di Occupe toi d'Amélie che, svegliandosi l’uno accanto all’altra dopo una notte di bagordi, non sanno se hanno fatto l’amore oppure no; o ancora, indugia su Roland Bertin e Jacques Lassalle mentre discutono se e quanto Don Juan e Sganarelle credano all’esistenza di Dio e dell’inferno, e dunque su quanto possa crederci Molière. Ed è un vertiginoso paradosso ironico: perché Wiseman sta girando un documentario su un regista e un attore che discutono accanitamente sulle convinzioni di due personaggi teatrali totalmente inventati, che s’accapigliano sulla realtà del demonio: ma come è possibile fare del cinema-verità su questa stratificazione d’inesistenze, su questa geologia d’invisibili?

Wiseman possiede le due doti necessarie a un buon spettatore teatrale: l’attenzione e il rispetto per ciò che vede. A garantire l’oggettività e la partecipazione del documentarista, è l’impegno – il tempo – profuso nell’impresa: un sopralluogo di tre mesi, 11 settimane di riprese dal 1° dicembre 1994 al febbraio 1995, con una troupe di tre persone, 126 ore di filmato, un anno di montaggio.

Ma uno sguardo non è mai innocente. Piano piano, mentre scorrono le immagini, nello spettatore "adulto" cui si rivolge Wiseman si organizzano delle opposizioni. La più banale, la si è già vista, quella tra realtà e la finzione. Poi quella tra il teatro e la città, ovvero il luogo dove scorrono e si consumano le parole e quello dove la vita scorre silenziosa (il traffico, il fiume). Finché a un certo punto la macchina da presa indugia su due musicanti da strada, banjo e clarinetto, e viene in mente l’apologo di Borges su quel filosofo che leggeva sui testi di Aristotele quelle strane parole, "commedia" e "tragedia", senza riuscire a immaginare che mai potessero significare, a quale realtà potessero corrispondere; mentre là sotto, in cortile, due bambini giocano: "Facciamo che io sono il re e tu la regina... ".

Poi l’opposizione tra la retorica sempre un po’ sospetta (anche nel quotidiano) di attori e registi e la quieta attività di costumisti e scenografi. Il contrasto tra l’illusione della scena – in fondo sempre così cialtrona e sgangherata – e la materialità minuziosamente calibrata che la sostiene, quell’altissimo artigianato che sembra sopravvivere solo nei teatri. Il palcoscenico, si dice, è forse l’unico luogo in cui è possibile giocare con la morte: sulla scena è una maschera grottesca sul volto di una bella ragazza.

Se ne potrebbero elencare molte altre, di opposizioni di questo genere. Ma dove nascono, se lo sguardo è volutamente neutro? Nello spettatore, che si sente costretto a organizzare la sua esperienza? Nella realtà, che è fatta di opposti e contrasti in lotta tra loro? Nel montaggio di un regista che riesce a creare una grammatica della realtà talmente convincente da passare inosservata, da apparire naturale?

È una grammatica, per di più, che non si esaurisce nello sterile gioco dei contrari. Progressivamente s'organizzano alcuni fili narrativi, dalla folla delle comparse emergono i personaggi, quelli che percorrono l'intero percorso e quasi l'accompagnano, e quelli che hanno diritto a una sola scena, ma di grande effetto.

Il prodotto finale vuole preservare intatte la freschezza, l’immediatezza, l’apparente casualità della presa diretta, pur essendo con ogni evidenza sorretto da un’articolata drammaturgia. In teatro, drammaturgia è semplicemente tutto ciò che viene prima dello spettacolo, lo scarto che crea l’asimmetria tra gli attori e il pubblico, la differenza tra chi ha preparato qualcosa e chi si attende – appunto – una sorpresa. Attraverso questa operazione drammaturgica lo sguardo dello "spettatore ingenuo" Wiseman si organizza, e organizza lo sguardo dello spettatore.

Ma quando si esaurisce la necessità di questo "sguardo esemplare"? Dopo quante ore, settimane, mesi di riprese si è accumulato sufficiente materiale? C’è probabilmente un momento in cui Wiseman si dice: "Ecco, ci siamo": in questo caso, è con ogni evidenza la scena del compleanno nella casa di riposo, il momento in cui i vari fili narrativi sembrano ricomporsi e ritrovarsi. Questo, se un documentario è un'opera esemplare, che deve organizzare lo sguardo dello spettatore, comporta un secondo atto di fede: quello è il momento in cui, finalmente, anche lo spettatore potrà ritenersi finalmente "educato", in cui il mondo – quel frammento mondo – troverà il suo senso anche per lui. Ma forse un documentario, come suggeriscono le smisurate lunghezze dei film di Wiseman (e l'impressionante quantità del girato, considerando che in media ne utilizza il 3%), è un'opera potenzialmente infinita, che dovrebbe affiancare la realtà come un controcanto, e non è un caso che l'oggetto delle sue osservazioni siano mondi chiusi, limitati, che si possono abbracciare con lo sguardo. O magari un documentario è un'opera aperta, al confine tra l'arte e la vita, un processo in cui si stabilisce un rapporto vero, di autentica amicizia, tra l’osservatore e l’osservato, che richiede cura e attenzione anche "dopo", quando tutto è finito: allora forse la vera opera sta "fuori", negli incontri tra Wiseman e i suoi soggetti, tra Wiseman e i suoi spettatori.

Gli stessi problemi si possono affrontare da un altro punto di vista, quello dell’"effetto verità" perseguito con tanta maestria. La realtà va vista per quello che è, ma come abbiamo imparato non si offre a una prima occhiata distratta e casuale. Per cogliere la verità del mondo, lo sguardo deve accompagnare, quasi penetrare, il suo oggetto. Alla fine, però, quello "sguardo" diventa "girato": diventa – appunto – un oggetto, un prodotto, materia morta. Allora nel montaggio è necessario ritrovare l’innocenza del primo sguardo, ricreare una relazione. Sono tutti problemi che gli attori di teatro, che ogni sera devono rinnovare la loro presenza e credibilità sulla scena, conoscono bene, perché sono l’essenza del loro lavoro.

Allora, non a caso, c’è ancora altro nello sguardo di Wiseman: perché vi affiora spesso una rispettosa ironia. C’è ironia, perché il teatro e il mondo ci si offrono attraverso un continuo gioco di fascinazione e smascheramento, di magia e di guittaggine. C’è un’ironia che nasce dalla distanza di chi osserva, di lontano, di chi mette a confronto diversi sistemi di valori e scale di senso. C’è l’ironia di chi sa che questo è solo un gioco (e che forse sospetta che tutto possa essere un gioco, quello degli attori ma anche quello dei nostri ruoli sociali, delle nostre maschere). Ma c’è anche rispetto, e affetto, perché quel gioco qualcuno lo prende tremendamente sul serio, tanto da dedicarci un’intera esistenza. E lo prende sul serio proprio nel momento in cui è più fragile e vulnerabile.

Nel sottotitolo del documentario di Wiseman (che sembra puntare alla quintessenza di Marivaux) l’amore è un gioco, una partita da vincere o da perdere. Al tempo stesso in quell’espressione, e nella pièce, l’amore e i sentimenti vengono giocati, ingannati. Tuttavia jouer, ovviamente, significa anche recitare: dunque ecco l’amore recitato, messo in scena. Ma anche in questo caso è possibile un ribaltamento del significato. Perché il teatro forse non è altro che amore recitato, o amore messo in scacco: un paradossale atto d’amore, come cercare di fare un film-verità su qualcosa che non esiste. E senza amore, la vita non è vita vera.

copyright Oliviero Ponte di Pino & Filmaker, 2000

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