(62) 15.01.014
speciale
economia & politica
del teatro

Speciale economia & politica del teatro
L'editoriale di ateatro 62
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and1
 
Il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi
Perché un dossier sull’organizzazione del teatro?
di Mimma Gallina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and9
 
Mercato: l’anticamera per il pubblico
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 1/2004
di Mimma Gallina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and10
 
L'ETI oggi: un ente inutile?
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 1/2004
di Mimma Gallina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and11
 
Who's Who (all'ETI)
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 1/2004
di Redazione "Hystrio"/Retroscena

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and12
 
Francia 1 / L’Eti non va in Onda
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 1/2004
di Massimo Marino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and13
 
Francia 2 / Il pozzo di san Maurizio
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 1/2004
di Massimo Marino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and14
 
Who’s Who (Commissione Consultiva per la Prosa)
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 1/2004
di Redazione "Hystrio"/Retroscena

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and15
 
Una freccia nell’arco di Urbani: ARCUS-spa cultura e mattoni
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 1/2004
di Anna Chiara Altieri

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and16
 
Il teatro tra rivoluzione e restaurazione
La scrittura scenica nell'analisi di Lorenzo Mango
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and38
 
Le recensioni di "ateatro": Peccato che fosse puttana di John Ford
Regia di Luca Ronconi
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and39
 
Le recensioni di "ateatro": L'anomalo bicefalo
di Dario Fo
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and41
 
Le recensioni di "ateatro": Filò
di Andrea Zanzotto interpretato da Silvio Castiglioni
di Mara Serina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and42
 
In anteprima dal video di Transpermia di e con Marce-lì Antúnez Roca
Il progetto Dedalus a Torino per Malafestival 2003
di Giacomo Verde

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and45
 
Il volto e la maschera nelle fotografie di Tommaso Le Pera
Il volume fotografico dedicato alle messinscene pirandelliane
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and50
 
Tre CD (audio) teatrali
Gramsci Bar, Pasolini, Calvino-Paolini-Fresu
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and51
 
Dall'archivio di "ateatro": Così fan tutte di Wolfgang Amadeus Mozart
Regia di Giorgio Strehler, Teatro Strehler, Milano, 1997
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.asp#62and60
 
Lettera aperta al teatro italiano
(e a un paese che ci sta vomitando)
di Fanny & Alexander

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.asp#62and80
 
Oltre l'"italiese"
Teatri delle lingue, quarta edizione
di Angela Felice

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and81
 
Alla ricerca di un teatro di ricerca
Il teatro sperimentale a Pistoia negli anni Settanta
di Roberto Niccolai

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and83
 
Giulio Bosetti e otto amici comprano il Teatro Carcano
La sala milanese rischiava di chiudere
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and84
 
Clic parade 2003
Le pagine più viste dell'anno
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and85
 
Assegnato il Premio Internazionale di Architettura Teatrale
A tre progetti di uso e riuso del contenitore teatro
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and86
 
Biennale: Urbani sceglie Davide Croff?
Le voci sul nuovo presindete dell'ente
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and87
 
Beppe Grillo testimone sul crac Parmalat: ma forse era meglio affidare la CONSOB a un comico
Quando la satira è (anche) informazione
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro62.htm#62and88
 

 

Speciale economia & politica del teatro
L'editoriale di ateatro 62
di Redazione ateatro

 

L’economia e la politica del teatro sono da sempre uno dei temi portanti di ateatro 62. Le condizioni materiali e i rapporti economici vincolano e condizionano da sempre l’attività creativa, e il contesto politico e culturale incide profondamente sulla pratica teatrale, magari costringendo a sforzi inventivi anche su questo fronte.
Per iniziare il quarto anno della webzine (sono già quattro, con venti numeri all’anno!!!), in una fase assai difficile per il sistema teatrale (e non solo), ci è parso opportuno raccogliere una serie di informazioni e riflessioni su questi temi. Buona parte dei materiali contenuti in ateatro 62 è tratto dalla corposa inchiesta curata da Mimma Gallina e pubblicata sul numero di «Hystrio» che arriva in edicola proprio in questi giorni (compratelo!!!).
Altri dossier si sono sedimentati nei forum di ateatro, in particolare:

# il caso Biennale;
# la riforma del Ministero dei Beni Culturali;
# la Tedarco e i suoi rapporti con l’Agis (per quanto se ne riesce a capire);
# la lettera aperta di Fanny & Alexander (ma altre realtà hanno espresso il loro disagio nello stesso forum).

Da questi materiali emerge un disagio che, come era prevedibile, si è progressivamente accresciuto negli ultimi anni. La difficile situazione economica, il disastro dei conti pubblici (e scelte di politica culturale a volte decisamente punitive) fanno sì che le risorse pubbliche destinate al teatro (e non solo) continuino a diminuire: basti pensare da un lato alla riduzione in termini reali del FUS (circa il 50% dal 1985 al 2002, dice la relazione ufficiale del Ministero), dall’altro alla stretta di molti enti locali. Questa tendenza porta i direttori artistici, i programmatori, gli amministratori e i funzionari pubblici a scelte sempre più conservative, sempre meno rischiose – perché si ritiene che siano in accordo con le leggi di un mercato peraltro truccato.
Sul fronte dei rapporti con la politica, il passaggio al maggioritario ha inciso negativamente sui rapporti tra la cultura e una politica sempre più «dirigistica» (e in genere, soprattutto a destra, meno attenta al valore e al significato della cultura e spesso pasticciona, vedi il caso Urbani-Biennale).
Come sempre accade nel teatro italiano, resta spazio solo per i tentativi di salvezza individuale, grazie a rapporti personali con il Palazzo, a qualunque livello.

In questo scenario, la lettera di Fanny & Alexander offre numerosi spunti di riflessione. Intanto alcuni punti fermi, su cui siamo tornati più volte in passato:
# il sistema teatrale italiano è da decenni bloccato e sclerotizzato; non riesce più a garantire un ricambio generazionale e di linguaggi;
# la rete dei Centri di ricerca (ora Stabili di innovazione) ha disatteso la propria missione di sostegno alle realtà produttive e di rete distributiva per privilegiare le autoproduzioni e gli scambi; un po’ come gli Stabili, ma con una differenza: gli Stabili sono gestiti da consigli di amministrazione di nomina politica, mentre gli Stabili di Innovazione e gli Stabili Privati sono controllati da individui o gruppi di fatto inamovibili (pregi e difetti delle due soluzioni sono sotto gli occhi di tutti);
artisti e spettacoli di indiscutibile valore fanno un numero ridicolmente basso di repliche; la crisi dell’ETI, con la riduzione del sostegno al nuovo teatro, ha ulteriormente aggravato la situazione (a proposito di pettegolezzi, uno dei primi atti del nuovo Direttore Generale dell'ETI dicono sia stato un sostanzioso aumento del proprio stipendio: chissà se è vero).

Detto questo, forse è il caso di porsi alcune domande, proprio a partire dall’appello del gruppo ravennate.
In primo luogo, quali sono i suoi destinatari? Fanny & Alexander scrivono ai «cari colleghi», ovvero – si suppone – agli artisti che operano nel campo del teatro. In apparenza chiedono più piazze per i loro spettacoli, in realtà (si spera...) stanno chiedendo ai «cari colleghi» soprattutto due altre cose.
In primo luogo una diversa consapevolezza da parte di tutti (e dunque in primo luogo da parte di Fanny & Alexander) riguardo alla difficoltà della situazione e all’appartenenza a un fronte in qualche modo comune, con obiettivi condivisibili.
In secondo luogo, inevitabilmente, una tale presa di posizione spinge verso la creazione di una rete, di una alleanza tra queste realtà che possa in qualche modo rivitalizzare il circuito teatrale italiano.
Il destinatario esplicito sono dunque i gruppi e gli artisti citati (Danio Manfredini, Teatrino Clandestino, Valdoca, Motus, Masque, Alfonso Santagata, ma l’elenco potrebbe allungarsi): non a caso sono tutte compagnie di produzione che in genere non dispongono di un teatro. Da anni i giovani gruppi, come testimonia lo stesso Marco Cavalcoli, cercano un proprio coordinamento, ma evidentemente senza risultati apprezzabili. L’incontro di Castiglioncello nel dicembre del 2002 ha tentato (invano) di richiamare l’attenzione su un problema che accomuna da anni le diverse forme di rappresentanza istituzionale del nuovo teatro, a cominciare dalle convulsioni ormai semiclandestine della Tedarco.
Dopo di che, ci sono i destinatari impliciti dell’appello di Fanny & Alexander. Per primi, gli Stabili di innovazione (e in generale il sistema teatrale italiano, a partire dall’ETI che avrebbe istituzionalmente il compito di favorire il nuovo), un circuito che non è riuscito colpevolmente a garantire una dignitosa circolazione agli spettacoli, ed è preda di una progressiva involuzione. Ancora, ovviamente, chi ha ruoli decisionali all’interno del sistema teatrale italiano: chi dirige teatri, circuiti, rassegne eccetera. E poi la critica...
Si potrebbero peraltro aggiungere alcune postille. Da un lato, come si evince dal tono di alcuni messaggi, prima ancora che una capacità di auto-organizzazione, pare mancare al teatro italiano una reale capacità di ascolto e confronto reciproci. Si privilegia inevitabilmente il proprio lavoro artistico, rispetto sia all’aspetto di politica culturale, sia rispetto al confronto con gli altri, sia rispetto alle condizioni reali del sistema teatrale. Sono numerosi i progetti interessanti e ambiziosi, che però hanno costi che non possono essere realmente sostenuti dalla gran parte dei festival e delle programmazioni, o che rischiano di drenare le già scarse disponibilità.
A questa situazione bisogna reagire cercando in primo luogo cercando di riequilibrare la distribuzione delle risorse pubbliche (meglio: di risorse sempre più scarse) all’interno del sistema teatrale italiano: dunque il FUS, ma anche le fonti di sovvenzioni a livello locale (regioni in testa, poi comuni, festival eccetera). In quest’ottica diventano cruciali la politica e il ruolo del l’ETI e degli Stabili di Innovazione. E’ un compito di controllo che dovrebbe riguardare tutti, perché si tratta molto semplicemente di controllare come vengono spesi e dove finiscono i denari pubblici.
In secondo luogo vanno cercate fonti di finanziamento alternative, come peraltro si è sempre fatto, sia sul versante pubblico sia su quello privato. Per quanto riguarda il settore pubblico, i rischi di un ritorno a una gestione clientelare ed elettoralistica sono molto alti. Anche perché spesso, a sinistra, la cultura rischia di coincidere con l’acquisto di eventi preconfezionati, ad alto costo e senza ricadute rilevanti sul medio e lungo periodo. Sotto questo profilo, la vicenda della ARCUS s.p.a. è esemplare. Sul versante privato, è certamente possibile (e giusto) cercare aiuto e sostegno. Il problema è che questo sostegno può sostenere (o contribuire a sostenere) alcune iniziative, ma per il momento nel nostro paese non può rappresentare una alternativa di sistema. Le sponsorizzazioni alla cultura rappresentano una fetta insignificante del fatturato del settore, e un’area di nicchia (e ad alto rischio) come quella del nuovo teatro non rappresenta certo un partner particolarmente appetibile per chi ragiona solo in termini di contatti e di ritorno di immagine. Fatte le salve le meritevolissime eccezioni.
In realtà l’economia dei gruppi e della compagnie è – per necessità – molto complessa: gli spettacoli rappresentano spesso un costo (un «lusso») rispetto ad altre attività più redditizie (come corsi e seminari).
L’altro corno del dilemma è ovviamente il mercato, ovvero il pubblico teatrale. Di fronte a un meccanismo distributivo ingessato, è molto difficile immaginare di creare circuiti alternativi, ma resta forse l’unica soluzione praticabile. Tuttavia per farlo vanno pensate e incentivate anche forme diverse di rapporti economici tra ospiti e ospitanti (e con gli spettatori), di informazione e promozione, e anche di modalità produttive. Per molti il «teatro povero», le residenze con seminari e prove aperte, sono già una necessità e una virtù, e realisticamente in questa situazione rischiano di essere una piattaforma di sopravvivenza.
Un secondo versante riguarda invece una maggiore consapevolezza di quello che sta accadendo. A volte possono essere noiose questioni tecniche, a volte riflessioni su valori e ideali, a volte inchieste e scandali piccoli e grandi. Ma l’importante è che le informazioni circolino, che le idee vengano discusse, che i valori e le battaglie possano essere condivisi. Troppo spesso nel teatro italiano l’informazione viene vissuta come un bene prezioso, un segreto professionale da spargere con parsimonia nei pettegolezzi privati (per sparlare di questo e quell’altro, certi di essere ripagati con la stessa moneta), da utilizzare per avvantaggiarsi in qualche appalto (di fatto) truccato, da non condividere assolutamente con i «cari colleghi», vissuti come pericolosi rivali nella corsa alle scarse risorse. L’unica forma consentita di pubblica condivisione delle informazioni è – troppo spesso – il disperato appello di chi si accorge che sta per affondare e chiede aiuto. Con la speranza che arriverà qualche messaggio di doverosa solidarietà, che qualche assessore magari si commuoverà, e che in ogni caso, per chi ha deciso che il teatro è la sua vita, smettere sarà impossibile, anche in condizioni sempre più proibitive (e intanto gli altri, i «cari colleghi», magari scoprono l’allegria del sopravvissuto...).
Ecco, nei limiti del possibile ateatro sta cercando di mettere in circolo idee e informazioni. Ma è uno sforzo che, senza la collaborazione di tutti, rischia di restare inutile.


 


 

Il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi
Perché un dossier sull’organizzazione del teatro?
di Mimma Gallina

 

Sgombriamo subito il campo da un equivoco: la necessità di fare un punto sulla situazione organizzativa del teatro italiano dopo due anni e mezzo di Governo Berlusconi non corrisponde alla convinzione che la vita o la sopravvivenza del settore sia riconducibile ai suoi rapporti con lo Stato, o con il potere politico in senso più lato: per fortuna o purtroppo (sarebbe un bell’alibi) non è così.
Ma, se il teatro è ancora un po’ lo shakespeariano «specchio» della società – o se lo è ancora di più oggi, come ogni tanto sostiene qualche ottimista –, se ci aspettiamo a maggior ragione oggi dal teatro parole e emozioni che mettano un po’ d’ordine nel brusio informativo, se tutto questo e niente di meno è il compito del lavoro teatrale (e sono le opere a dirci se e come lo assolve), l’organizzazione e le istituzioni del teatro sono la cerniera che da sempre lo collega al potere e la sua vita materiale è un efficace sismografo di questa relazione.
Nel corso di questi due anni e mezzo, non ci è sembrato di vivere cambiamenti epocali, eppure ci diciamo sempre più spesso: «Questo solo sei mesi fa non sarebbe stato possibile».
Nel teatro e nell’organizzazione del teatro, sembra che non sia successo niente, anche perché avvezzo da secoli al passaggio dei Principi e trasformista per natura e per necessità di sopravvivenza. L’immagine ufficiale e predominante che il settore tende a dare di sé (dove e quando gli si consente visibilità) è prevalentemente allineata e funzionale al consenso, un’immagine che di recente ha visto revival un po’ kitsch (molto organici all’attuale classe dirigente), nella mondanità demodée di qualche gala e nuovo premio.
Eppure sono successe tante «piccole» cose che ci danno la sensazione, oggi, che senza che nessuno progettasse o intuisse un disegno preciso (da discutere, appoggiare, contrastare), molto sia cambiato.
Questa sensazione, e la necessità di decifrare le microtrasformazioni, è all’origine del dossier che la rivista «Hystrio» pubblica in due puntate (n. 1 del 2004 con 35 pagine, la seconda sul numero successivo).
La riflessione è stata ordinata per problemi e aree tematiche e ha coinvolto numerosi collaboratori, ma è stato inevitabile procedere in modo frammentario e un po’ empirico. Le analisi di più ampio respiro, sono quindi integrate da dati, «casi», fatti, schede che ci sembra possano aiutare a comporre, come in un puzzle, una fotografia attendibile della realtà.

I pezzi scelti per ateatro sono quelli che sono sembrati più utili al dibattito in corso, fra i giovani gruppi e gli operatori che frequentano abitualmente il sito e non solo.
Partiamo da una riflessione e da qualche elemento informativo sul mercato e la sua evoluzione recente. Banalmente: perché di fronte a una situazione statistica in apparenza confortante, tutti si lamentano? Sono convinta che una riflessione più attenta sui dati possa offrire anche qualche suggerimento operativo.
Come «braccio esecutivo» del Ministero, e come emergenza reale, parliamo dell’ETI: cominciando un po’ dalla storia per capire meglio il presente (con un approfondimento sulla discutibile politica internazionale: vedi il caso Francia e il Théâtre des Italiens). Nel caso vi sfuggisse il finale dell’articolo, voglio anticipare con molta serenità la mia domanda tutt’altro che retorica ed estremista (realista piuttosto): non è il caso di pensare seriamente di sciogliere questo ente che costa una somma spropositata rispetto a quello che fa?
Sul fronte del quadro legislativo e dell’operato governativo, abbiamo ritenuto di non riportare l’analisi dettagliata, atto per atto, che troverete su «Hystrio», ma una prima informazione (preoccupata) su ARCUS s.p.a., la nuova agenzia governativa per i beni culturali (gradita anche alla sinistra), che potrebbe costituire una prima significativa rottura della gabbia del FUS, ma da cui temiamo – se non interverrà presto un regolamento chiaro – passeranno (e sono già passate in parallelo) le più svariate clientele.
Ci poniamo anche la fondamentale domanda «chi è chi», a governare il teatro (limitandoci per ora a Commissione Ministeriale ed ETI). ateatro ha promesso in diverse occasioni di dare spazio ai pettegolezzi, ma ha per la verità un po’ deluso le aspettative. Anche in questo caso abbiamo resistito (con un po’ di fatica per la verità) alla tentazione di allinearci alla linea Sgarbi, quindi non vi diremo chi è amante di chi, o compagno di scuola di chi (ci limitiamo alla segnalazione di qualche relazione legale ma significativa e a precedenti professionali o giudiziari facilmente reperibili su internet). Ci sembra interessante conoscere il profilo professionale dei pochi eletti (nel senso di nominati), che distribuiscono i pochi mezzi a disposizione: e poiché di poco si tratta, è a maggior ragione importante la qualità (competenza, conoscenza) di chi se ne occupa. A voi giudicare.
Ricordo solo che questi incarichi sono per legge attribuiti a esperti e sono incompatibili con l’esercizio di attività professionali collegate ai soggetti finanziati. Se nel nostro paese la percezione della competenza e del «conflitto di interessi» non fosse così bassa, io credo che più d’uno si dovrebbe dimettere. Il calo di qualità e la probabilità degli interessi personali, sono del resto un’inevitabile conseguenza dell’estensione generalizzata delle logiche dello spoil system: la scelta chiarissima di occupare tutte le poltrone disponibili e non lasciare il benché minimo spazio all’opposizione, a livello nazionale e locale (la sinistra – accusata di occupare tutti i posti della cultura – era un po’ più elegante). Il rischio che nel centro destra non ci sia un numero sufficiente di persone anche solo vagamente all’altezza dei posti da coprire nel settore culturale, è già una realtà, un po’ come negli ultimi tempi dei governi Craxi (ma non preoccupiamoci troppo per questo: c’è sempre il trasformismo).

Su «Hystrio» potrete trovare inoltre:
# la già citata sezione sui rapporti fra Teatro e Stato, completa di dati e analisi dei contributi (chi sale e chi scende, new entries etc.), integrata da uno scorcio sul livello locale (la situazione lombarda e milanese: davvero gravissima), e su quello internazionale, con una scheda sugli Istituti Italiani di Cultura all’estero (grottesca oltre che grave);
# la riforma della SIAE: tutti sappiamo che è stata riformata, quasi nessuno sa come e perché;
# la riflessione sul mercato (su questo numero di ateatro) e sulle politiche del settore è integrata da qualche domanda "tecnica" al professor Severino Salvemini, da un collage di citazioni dell’indimenticabile Benvenuto Cuminetti (quando dietro alla gestione di teatri comunali c’era un pensiero!), da una scheda sul Teatro Lirico di Milano.
Passando ai settori operativi del teatro italiano, abbiamo deciso di dare la precedenza a quelli più innovativi: con un’ampia sezione su «nuovo teatro», stabili di innovazione, teatro ragazzi e festival. Integriamo la riflessione sui festival con qualche scheda informativa: soprattutto vi suggeriamo di non perdervi il raffinato dibattito culturale interno all’INDA e i misteri del Reggio Parma Festival.
Hanno collaborato a questo numero del dossier, che io ho coordinato ma è stato curato sul piano redazionale per «Hystrio» da Roberta Arcelloni, Anna Chiara Altieri, Adriano Gallina, Maria Guerrini, Massimo Marino, Pier Giorgio Nosari, Vanessa Polselli.
Abbiamo rimandato alla seconda puntata (ma ve lo anticipiamo perché questa non vi sembri troppo lacunosa), una riflessione sugli stabili pubblici e privati (a proposito di conflitto di interesse, i CDA dei Teatri Pubblici sono senza dubbio il terreno privilegiato), le compagnie, la censura (e l’autocensura), il caso Biennale e la voce diretta dei politici (di governo e di opposizione) sui problemi sollevati.


 


 

Mercato: l’anticamera per il pubblico
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 1/2004
di Mimma Gallina

 

Parlare di mercato richiede qualche precisazione preliminare, in primo luogo per distinguere fra due tipi di domanda, il pubblico (ovvero il consumatore finale), che decreta certamente in larga misura con la sua risposta il successo di uno spettacolo, ma solo in parte il risultato economico (che dipende molto dal sistema distributivo); e il sistema distributivo: esercizi privati (programmati dai gestori e/o da agenzie), teatri comunali (la spina dorsale del sistema, su cui convergono i maggiori finanziamenti degli enti locali) che possono essere gestiti con criteri artistico-organizzativi più o meno autonomi dalle amministrazioni pubbliche, i teatri di produzione, cioè il sistema della stabilità in un’accezione allargata (in cui le logiche che presiedono le ospitalità sono culturalmente, ma anche economicamente legate all’attività di produzione e alla relativa distribuzione: ci riferiamo agli "scambi"), le centrali distributive pubbliche (l’Eti in primo luogo e i circuiti territoriali) e private (le agenzie). Insomma quello che Raffaele Viviani definiva efficacemente ´l’anticamera’ per arrivare al pubblico.
In Italia non si è mai introdotta una distinzione chiara fra pubblico e privato: il settore dello spettacolo - si sa - è "stagnante", "non progressivo" nel suo complesso e si dà per scontato che non possa produrre profitto. Ovvero: i prodotti più orientati al mercato sono considerati oggi, dal sistema teatrale pubblico, sullo stesso piano di quelli d’arte, con incidenze non secondarie sugli equilibri economici del sistema. Oltre a ciò, attraverso i criteri di finanziamento, lo stato interviene sul mercato da un lato prescrivendo "dimensioni" aziendali (produttive e distributive) che attribuiscono un valore sempre maggiore alla risposta del pubblico e al contempo con prescrizioni che compromettono di fatto la libertà delle imprese: l’esempio più chiaro ci sembra l’indicazione di prolungare le "teniture" (la durata delle programmazioni) agli Stabili, un’invasione di campo i cui contraccolpi negativi sono di gran lunga superiori agli auspicati effetti positivi.
Se consideriamo l’andamento della domanda (biglietti venduti) per il teatro di prosa su un arco di tempo medio lungo, 1990/2002, (ricaviamo i dati dall’annuario Siae Teatro in Italia 2002 e da diversi numeri del «Giornale dello Spettacolo») possiamo rilevare una crescita lenta ma stabile, con una battuta d’arresto nel 2000/2001, e una ripresa nel 2002. In questo ultimo anno, il comparto definito "teatro" dalla Siae ha totalizzato 13.540.225 biglietti venduti (presenze) pari al 71,71% del totale relativo allo spettacolo dal vivo. E’ interessante analizzare la composizione di questi dati. Il teatro di prosa propriamente detto, ha totalizzato:

  2001 2002 variazione
presenze 11.660.224 11.200.243 - 4%
rappresentazioni 79.849 81.228 + 2%
incassi (spesa del pubblico) 148.380.568 147.390.677 –1%

Questi i dati per la rivista e commedia musicale:

  2001 2002 variazione
presenze 713.994 1.413.320 + 98%
rappresentazioni 2.146 2.907 + 35%
incassi (spesa del pubblico) 21.540.045 44.510.115 + 107%

Nel confronto con la prosa la crescita di commedia musicale-rivista-musical è davvero strabiliante: supera il raddoppio in termini di incassi e quasi lo raggiunge per presenze, mentre l’incremento delle rappresentazioni, + 35%, dimostra che l’alta ricettività del sistema distributivo nei confronti del settore è stata ripagata ampiamente dal gradimento di un pubblico disponibile a sostenere un maggior costo dei biglietti. Anche il pubblico della prosa ha compensato in parte, con biglietti più alti, il calo complessivo delle presenze, che contrasta con l’incremento delle rappresentazioni (quindi dei costi delle imprese di produzione). Nel complesso una situazione piuttosto preoccupante.
Un punto di vista ancora più interno all’andamento del teatro di prosa tra il luglio 2002 e il luglio 2003 mostra tre campioni assoluti nel rapporto rappresentazioni-presenze-incassi: Vincenzo Salemme, Carlo Giuffrè e Gigi Proietti. Segue una fascia composita con nomi di consolidata o più recente notorietà teatrale (da Mauri a Luca de Filippo, da Poli a Dapporto, da Cecchi a Paolo Rossi), ma anche con alcuni degli spettacoli più apprezzati dalla critica (come Sabato, domenica e lunedì con la regia di Servillo o Prometeo di Ronconi): gli incassi medi in quest’area oscillano dai 6 ai 12.000 euro e le presenze fra le 300 e le 700. Spiccano, nell’insieme, se pure con un minor numero di repliche (quindi di presenze e incassi totali), i risultati superiori alle 1.000 presenze medie di Fo, della Cortellesi, dei Legnanesi, delle Maldobrie dello Stabile del Friuli Venezia-Giulia. Nella fascia fra le 200 e le 300 presenze medie, e fra i 2.000 e i 5.000 euro di incasso si collocano la maggioranza delle produzioni. Ma una buona percentuale - non solo fra le proposte di ricerca che agiscono spesso in sale sotto i 100 posti ma anche nel settore della stabilità - raggiunge risultati molto bassi, dimostrando un rapporto di scarsa rilevanza con il "mercato", inteso come pubblico/incassi: 158 spettacoli (su 789, che non comprendono il teatro per ragazzi), totalizzano meno di 100 presenze medie e 281 non superano i 1.000 euro di incasso (quasi la metà di questi sono sotto i 500); a questi dati, corrisponde, forse, anche la necessità di "diluire" l’attività in repliche totalmente improduttive, ingiustificate dal punto di vista del rapporto costi/presenze, ma probabilmente solo necessarie a raggiungere i requisiti ministeriali.
Per la commedia musicale ad alcune situazioni di punta, che raggiungono valori assoluti e medi di grande rilevanza (la media a recita di Notre Dame de Paris è stata di 2.655 spettatori e 101.191 euro di incasso), segue una consistente fascia medio alta e media, ma 24 produzioni totalizzano incassi medi inferiori ai 5.000 euro. Come dire, se pure con dati in crescita (anche dal punto di vista del numero delle produzioni) e molto soddisfacenti, anche in questo settore, da un punto di vista di mercato, non tutti "ci azzeccano". A partire dalle sale si possono "incrociare" altri dati interessanti, relativi alle classifiche di presenze e incassi medi dei teatri, e dal famoso o famigerato "tasso di occupancy": una buona affluenza e un buon incasso sono merito delle compagnie ma certo molto anche della solidità dei teatri, e chi riesce a piazzare i propri spettacoli nelle sale più affermate, con un maggior numero di abbonati, ha una chance in più. Come dire: a un buon giro corrisponde una buona risposta di pubblico.

Il musical scaccia la prosa
E’ chiaro che la potenziale risposta del pubblico (già verificata o presunta), conta nell’orientare le scelte: in misura determinante per i teatri privati - e non è un caso che sempre più sale si stiano specializzando in musical - ma in misura crescente anche per quelli pubblici. La presenza dello spettacolo musicale nei teatri pubblici sta affiancandosi e in parte sostituendo quella della prosa tradizionale, che sicuramente non ha poche responsabilità in questa evoluzione (ripetitività, distanza dagli spettatori, soprattutto giovani etc.). Bisogna del resto dare atto che la qualità raggiunta da questo genere è spesso molto alta, i temi che tratta sono spesso più "urgenti" soprattutto per il pubblico giovane, la critica colta si è messa a seguirlo, e anche il ministero l’ha nobilitata con il riconoscimento di "Teatro nazionale della Commedia Musicale" attribuito al Sistina. Altre considerazioni. Tanto i teatri privati che pubblici stanno aumentando i prezzi (tendenza già rilevata nel 2002): scelta inevitabile forse a compensazione dei minori finanziamenti, o forse, per i privati soprattutto, si è ampiamente verificato che chi ha già scelto il teatro o la musica dal vivo, non si sposta su altri consumi per qualche euro in più. Ma in che misura questo potrebbe scoraggiare il pubblico giovane? I teatri comunali hanno ridotto i cartelloni in media di uno spettacolo rispetto alla stagione 2002/2003 (magari mantenendo lo stesso prezzo degli abbonamenti). Lo spazio concesso alle giovani compagnie e all’innovazione è sempre più risicato. C’è chi collega questi orientamenti a una situazione di campagna elettorale perenne, per cui si teme qualunque intervento possa ridurre il tasso di consenso degli spettatori. I circuiti regionali del resto, per affermazione degli stessi direttori (non di rado esautorati da presidenti-politici) non riescono a operare con decisione in direzione del "nuovo" e il sostegno dell’Eti è praticamente venuto meno. Gli scambi non riguardano solo gli stabili: le imprese di produzione che dispongono di una sede tendono a scambiare in misura crescente (comprensibilmente del resto), non inferiore al 60/70% con punte del 100%. Questo fenomeno e la conseguente chiusura del "giro" per chi, in assenza di sede, non abbia forti elementi di chiamata spingerà qualche compagnia giovane e non, soprattutto nei capoluoghi di regione, ad acquisire una propria sede. Su quale economia potranno basarsi questi spazi anche di fronte alla contrazione dei finanziamenti locali? » prevedibile una fase di selezione, che potrebbe preludere a un "effetto ricambio". Le direzioni artistiche sono in ribasso: quando ci sono, tendono a privilegiare le logiche del marketing rispetto a quelle della funzione pubblica e del progetto culturale e spesso subiscono senza troppi traumi le direttive politiche; in alcune sedi prestigiose non sono stati nominati o rimpiazzati a pari livello i direttori, sostituiti di fatto dalle agenzie, o piuttosto dagli accordi fra agenzie e assessori o funzionari più o meno capaci. Le agenzie più attive in effetti (l’Utim di Milano, Essevuteatro di Firenze), stanno riacquisendo spazi e funzioni che - ci sembra - avessero perso progressivamente, a partire dalla fine degli anni Settanta; ma il ruolo di intermediazione, senza interlocutori competenti, può facilmente allargarsi e determinare "forzature" nei cartelloni: non sarà difficile a questo proposito trovare stagioni "fotocopia". Per concludere: abbiamo offerto qualche elemento di informazione frammentario sul processo - ormai in atto da anni - di impoverimento e degrado del sistema distributivo nel suo complesso, tanto sul piano della progettazione artistica che delle competenze gestionali e, soprattutto, su quello delle tensioni ideali e della consapevolezza della funzione culturale. La situazione, occultata da dati generali apparentemente positivi, è a maggior ragione grave, soprattutto per le giovani generazioni.


 


 

L'ETI oggi: un ente inutile?
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 1/2004
di Mimma Gallina

 

Tutti sapete che, ma non guasta ricordare, nel 1942 viene costituito l’Ente Teatrale Italiano per la cultura popolare, con lo scopo di promuovere ´l’incremento delle attività teatrali e di pubblico spettacolo nel quadro delle direttive fissate dal Ministero della Cultura Popolareª. Dal dopoguerra e fino ai primi anni Settanta arriva a gestire fino a 180 sale, acquisisce la proprietà dei teatri della Pergola a Firenze, e del Valle di Roma, dove opera con gestione diretta anche al Teatro Quirino, come a Bologna, al Duse. Significativa la sua presenza anche a Napoli, con il San Ferdinando e a Bari, con il Piccinni. Le trasformazioni del sistema teatrale italiano negli anni Settanta danno uno scossone anche all’ente: l’azione crescente e congiunta di compagnie, soprattutto cooperative e enti locali (che spesso riprendono la gestione diretta delle sale), la nascita dei circuiti teatrali territoriali, le prime decise politiche regionali a sostegno del settore, determinano una crescita vertiginosa dell’attività, mettendo in crisi la stessa funzione dell’Eti, che rischia di finire fra i cosiddetti "enti inutili". Ma, mentre tutto il teatro italiano si aspettava una legge organica per il settore (prevista entro il 1979 con decreto), ´nel 1978 il legislatore – citiamo dal sito ufficiale dell’Eti - prendendo atto del radicale cambiamento del teatro italiano, con la Legge n. 836 del 14.12.1978 riforma l’Ente, con lo scopo di "promuovere nel quadro delle direttive emanate dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo, l’incremento e la diffusione delle attività teatrali e di pubblico spettacolo nel territorio nazionale e all’estero"'. Cosa cambia? Non si chiede più all’Eti di gestire direttamente i teatri (fatta eccezione per quelli di proprietà e in uso), ma di svolgere una funzione di "coordinamento" della distribuzione e soprattutto di operare in collaborazione con i circuiti regionali; inoltre di ´svolgere attività di promozione, programmazione e, ove occorra, gestione diretta dei teatri nel Mezzogiorno e nelle isole'; e ancora scambi con l’estero e documentazione. Le forze nuove del teatro italiano sono consapevoli che i compiti individuati sono quanto meno vaghi, ma prevale la convinzione che si definiranno in corso d’opera, anche perché la riforma prevede ´un consiglio di amministrazione composto da 21 membri nominati dal Ministro del Turismo e dello Spettacolo e si configura come un vero "parlamento del teatro nazionale", in cui siedono rappresentati degli enti fondatori, delle categorie teatrali, dei sindacati, delle regioni'. Insomma si pensa di praticare con successo quello che allora si chiamava "entrismo", e pochi anni dopo "pratica consociativa". L’Ente opererà adeguando un po’ i metodi, l’attività distributiva resterà di fatto prevalente, ma attuata attraverso forme di convenzione con enti locali e circuiti, e la scelta delle compagnie si adeguerà quel tanto necessario. Ma è proprio l’impostazione "rappresentativa" che porterà al commissariamento.

Dal commissario straordinario a un "golpe" legalizzato
´Nel 1993 – leggiamo ancora nel sito Eti - a seguito dell’abrogazione, attraverso referendum, della legge istitutiva del Ministero del Turismo e dello Spettacolo (Decreto Presidenziale n. 175 del 5.6.1993) le funzioni del soppresso Ministero vengono trasferite in parte alle Regioni, in parte alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. (…) Vengono sciolti gli organi statutari dell’Ente e nominato un commissario straordinario'. Il Decreto n. 394, infatti, considera incompatibile l’appartenenza agli organi dell’Ente un’attività professionale che pregiudichi l’imparzialità. L’Eti commissariato, paradossalmente, riesce in qualche misura a voltare pagina, naturalmente sempre come braccio esecutivo del ministero. Con la presidenza di Renzo Tian e la direzione di Giovanna Marinelli l’attività, che già negli anni a cavallo fra la fine degli anni Ottanta e primi Novanta aveva dimostrato segni di una sensibilità nuova, si sposta più decisamente verso la promozione, ovvero il sostegno della aree "deboli" (ricerca, ragazzi, drammaturgia), progetti speciali per il Sud, rapporti internazionali, progetti speciali di formazione, protocolli di intesa e altro. La programmazione delle sale resta tuttavia l’impegno prevalente in termini di bilancio, anche se innovazioni sostanziali possono essere colte nella gestione della Pergola e del Valle, ad esempio. » certo che l’Eti torna a essere un punto di riferimento del sistema e della sua evoluzione. Negli anni del centro sinistra (cioè dal 1996 alla primavera del 2001) il mondo teatrale nel suo complesso, a partire dalla necessità di chiudere una gestione "commissariata" che durava ormai da troppi anni, si aspettava una riforma generale dell’Eti, in collegamento con la revisione delle competenze fra Stato e Regioni e i nuovi assetti normativi attesi per il settore. Sull’Eti del resto avevano puntato molto i ministri Veltroni e Melandri, tanto che il progetto legge di ispirazione governativa sul teatro di prosa (approvato nel ‘99 dalla Camera), ne prevedeva (contro il parere negativo di quasi tutto il teatro italiano, e forse anche contro il buon senso), l’autorevole trasformazione in un organismo cardine dell’ordinamento ipotizzato: il Centro Nazionale per il Teatro. Ma le cose sono andate in modo molto diverso. Il primo atto del governo Berlusconi è la nomina a commissario di un "mito" del teatro italiano, l’impresario Lucio Ardenzi (scomparso dopo pochi mesi): l’autorevolezza del personaggio è fuori discussione, ma la scelta rappresenta una presa di distanza molto forte rispetto alle linee degli ultimi anni. Ma soprattutto, l’istituzione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, che esercita vigilanza sull’ente, consente per decreto l’approvazione di un nuovo statuto, che si verificherà nel marzo 2002. Il nuovo governo esercita una facoltà cui il precedente aveva rinunciato in previsione della futura legge. Un po’ come nel ‘78, la storia si ripete: quando ci si aspetta un disegno normativo organico, che guarda caso dovrebbe rafforzare il ruolo delle regioni, l’Eti viene riformato (e tutto il resto può attendere). E questa volta cosa resta e cosa cambia? L’unica sostanziale novità sembrerebbe l’allargamento al settore della danza, nella definizione delle funzioni; appare però anche il termine "tradizione", e con toni un po’ troppo espliciti per un articolo generale, l’indicazione di accordi con le emittenti televisive. Resta naturalmente confermata la funzione di braccio esecutivo del ministero, anzi, è rafforzata. Le innovazioni più significative riguardano infatti le modalità operative e la composizione del consiglio di amministrazione, tutto scelto dal Ministero, che dura in carica tre anni, è composto dal presidente e quattro membri, ´individuati tra personalità di elevata professionalità, con particolare riguardo ai settori di attività dell’Ente e con comprovate capacità organizzative e amministrative' e ´eventuali interessi personali e diretti relativi allo svolgimento di attività imprenditoriali ed artistiche nell’ambito del teatro e della danza costituiscono elemento di incompatibilità con le funzioni di consigliere' (art. 11 dello statuto). Forse perché il passaggio da 21 a 4 oltre al presidente (e tutti nominati dal Ministero) è davvero repentino, si sente la necessità di affiancare due organismi allargati consultivi: una Consulta territoriale e una Consulta tecnico-artistica (art. 13). Da un lato si conferma l’esclusione della gestione "attiva" dei settori interessati, dall’altro se ne prevede la consultazione anche ´per supportare l’attività di osservatorio dell’ente stesso'. Questi organismi sono impossibili da comporre se non in termini verticistici. Potremmo sbagliarci, ma su questo punto crediamo che la nuova gestione dell’Eti sia (forzatamente ma comunque) inadempiente: sul sito non troviamo traccia della formazione e composizione di queste "consulte", se non con riferimento a una "commissione danza", intesa come parte di quella "tecnico artistica" (che ha in effetti collaborato a progettare i primi passi dell’Ente a favore di questa disciplina). Sappiamo che anche al teatro "di innovazione" è stato chiesto di mandare propri rappresentanti per collaborare a gestire i primi interventi concreti per il settore, e che l’associazione ha optato per indicare degli esperti (che hanno in effetti collaborato a dividere una torta molto magra). E' ormai passato un anno e mezzo dalla "riforma" e dovremmo essere in grado di dare le prime informazioni e valutazioni dell’operato dell’Ente, presieduto da Domenico Galdieri (operatore di vasta esperienza e competenza, attivo in particolare nell’area dell’impresariato privato, come il suo predecessore), affiancato da 4 consiglieri e da un direttore generale, Angela Spocci, precedentemente del tutto estranea agli ambienti operativi del teatro di prosa. Difficile però cogliere vere e proprie linee programmatiche (solo convinte perorazioni sulla funzione delle "belle arti" nel mondo). Del resto non potrebbe forse essere diversamente, visto che l’ente si trova di fronte ai brillanti ossimori del ministro Urbani: ´valorizzare la tutela delle tradizioni teatrali nazionali, popolari e locali, promuovendo il rinnovamento dei linguaggi artistici, la valorizzazione delle lingue dialettali e l’interdisciplinarietà delle arti').

Contributi ordinari davvero straordinari
E' d’obbligo riferire di una situazione finanziaria molto grave che sarebbe dovuta ad un errore nelle scritture di bilancio delle precedenti gestioni (gli abbonamenti dei teatri sarebbero stati imputati secondo criteri "di cassa", anziché "di competenza") e all’incidenza del costo del personale. Non entriamo nel merito se non ricordando che l’Eti ha percepito i seguenti contributi: 2001 - Contributi ordinari: 9.037.995,73 euro. 2002 - Contributi ordinari: 10.296.224,00 euro (con un incremento pari al 13,9%), oltre a contributi "extra Fus" (finalizzati) di 2.817.211,00 euro. 2003 - Contributi ordinari 9.474.000,00 euro (questo non significa che i contributi siano stati ridotti, perché non si può ancora risalire agli straordinari Fus e extra Fus per l’anno in corso). A nostro parere questa dotazione è molto alta rispetto all’attività che l’Ente sviluppa, e che sta anzi riducendo; il problema contabile sollevato dovrebbe essere noto da un po’ (perlomeno dalla chiusura di bilancio dell’esercizio 2001), e la soluzione non può passare attraverso eventuali incrementi contributivi, ma da una revisione generale della gestione (come farebbe doverosamente qualunque privato), se non si vuole rischiare di tamponare la falla per ripresentarla al prossimo cambio di governo, o di direzione. Dal punto di vista dei teatri direttamente gestiti, si è potenziata ´la permanenza di alcune fra le più importanti compagnie di tradizione (al Quirino si è ottenuto un incremento del pubblico e degli incassi del 27%)' (Galdieri sul "Giornale dello Spettacolo" del 14/11/2003). Il Valle non ha visto confermata la linea fortemente innovativa impressa da Tian-Marinelli e non ha trovato una sua strada (anche se si sottolinea l’importanza delle presenze internazionali): forse per questo il Teatro di Roma vorrebbe gestirlo (dichiarazioni di Albertazzi e Forlenza). ´L’attenzione alle compagnie di ricerca' ha portato a una convenzione con il Teatro Vascello (stabile di innovazione): dove in effetti c’è di tutto di più, con, pare, risultati piuttosto soddisfacenti. Il sostegno alla danza è partito lentamente e in scala ridotta (programmazione in 9 località con 11 compagnie, che verranno alternate nei prossimi anni, oltre a gala inaugurale, presenze all’estero e ospitalità internazionali, sostegno a poche manifestazioni già esistenti). Gli interventi nel campo della formazione si sono spostati (come da indicazioni ministeriali), verso l’Accademia d’Arte Drammatica "Silvio d’Amico" (ma ci sembra di capire che risentono molto delle difficoltà finanziarie). Per quanto riguarda il sostegno all’innovazione, al teatro ragazzi, all’attività dei circuiti e ai diversi ambiti compatibili con le funzioni dell’ente, l’Eti ha emanato un documento Criteri per la concessione di contributi (anno 2003). I contenuti e i metodi illustrati nella prima parte (incluso il criterio del "bando"), potrebbero essere interessanti, in quanto orientati a una valutazione di specifici progetti. La seconda parte però, annulla i presupposti, indicando requisiti di ammissione che riproducono quasi alla lettera quello che già chiede il ministero ai soggetti in questione e configurando nella sostanza queste collaborazioni come finanziamenti aggiuntivi a quelli già assegnati.
In effetti riteniamo che, senza una propria progettualità autonoma, l’Eti non potrà recuperare una funzione originale e "utile" al sistema. Anche per quanto riguarda il Sud, non siamo stati in grado di individuare linee precise (da quando si è chiusa l’esperienza delle aree disagiate). Ma il vero problema è che l’entità del finanziamento che l’Eti destina a questi contributi è irrisoria e temiamo che non ci sia da stare allegri per il futuro (sempre che l’impostazione venga confermata). Non ci resta in conclusione che dare atto di una "voce" partita dall’interrogazione di un consigliere regionale della Toscana e che occupa molto i quotidiani fiorentini: le difficoltà finanziarie porterebbero a mettere in vendita il gioiello di famiglia, la Pergola. Per quanto smentita, la voce desta autentiche preoccupazioni perché, forse non a caso, una delle novità dello statuto riguarda proprio questa materia. Articolo 3, "Teatri di proprietà o in gestione dell’Ente": ´I teatri attualmente di proprietà o in gestione dell’Ente potranno essere dal consiglio di amministrazione dell’Ente progressivamente dismessi (...)'. Non sappiamo se augurarci un intervento del Comune di Firenze e della Regione Toscana, o se questo vorrebbe solo dire scaricare sugli enti locali i costi dell’immobile, e di una gestione troppo costosa. Oppure se auspicare un passo indietro deciso, di 25 anni, e chiedersi se non sia il caso di valutare una per una con obbiettività le funzioni dell’Ente, come le assolve e quanto costano, se sono nazionali o locali, se altri potrebbero assumerle e così via, e, forse, arrivare alle conclusioni che è meglio rimettere in circolo mezzi e energie e sciogliere, con cinque lustri di ritardo, un ente "inutile" e forse anche dannoso.


 


 

Who's Who (all'ETI)
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 1/2004
di Redazione "Hystrio"/Retroscena

 

Presidente - Domenico Galdieri: operatore di vasta esperienza e competenza, attivo in particolare nell’area dell’impresariato privato come organizzatore e produttore; ha diretto il Consorzio Teatrale Campano (un circuito teatrale regionale).
Direttore Generale - Angela Spocci: del tutto estranea agli ambienti operativi del teatro di prosa, è un tecnico con competenze gestionali e amministrative nel settore del teatro lirico: dirigente presso l’Ente lirico di Cagliari, il Teatro Regio di Parma, segretario generale dell’Arena di Verona. La sua presenza all’Arena risulta per la verità travagliata - da un procedimento giudiziario originato dalla sua assunzione e qualche contrasto interno - e ha fine con il licenziamento (per cui ha opposto ricorso). Nella sua assunzione come segretario generale dell’ente lirico il procuratore capo di Verona Guido Papalia ha ravvisato il reato di abuso d’ufficio. Sotto inchiesta (il procedimento è stato aperto nel ‘96) sono finiti i consiglieri di amministrazione dell’ente che nel dicembre del ‘94 votarono a favore dell’assunzione per chiamata diretta e senza concorso della Spocci. Alcuni consiglieri sono stati accusati anche di arricchimento illecito per lo stipendio deliberato in suo favore (10 milioni al mese). Anche all’Eti la signora Spocci è stata assunta senza concorso (in effetti il concorso non è previsto dallo statuto), ma, conoscendo questi precedenti, e vista l’importanza del ruolo, forse sarebbe stato elegante, da parte del ministero e del cda, promuovere una forma di selezione, che avrebbe potuto dare a questa scelta più precisi connotati di trasparenza.

Consiglio di Amministrazione - I consiglieri sono 4 + 1, un gruppo eterogeneo di intellettuali, operatori, politici, e gestiscono il principale ente teatrale di rilevanza nazionale; la loro responsabilità è notevole, la competenza e le capacità richieste, all’altezza del compito.
Maria Bolasco De Luca ex presidente dell’Idi (Istituto del Dramma Italiano) fino allo scioglimento dello stesso; persona competente, si è sempre occupata di drammaturgia.
Luca Doninelli - scrittore e critico di area cattolica («l’Avvenire») stimato e conosciuto nell’ambiente letterario e teatrale.
Luciana Libero - critico teatrale dell’«Unità» e della «Nazione» è stata coordinatrice dei Centri per la promozione della scrittura teatrale contemporanea.
Massimo Pedroni - politico di Alleanza Nazionale e vicepresidente del Teatro di Roma. (Considerando la rilevanza della presenza romana dell’Eti, non ci sembra impossibile che i due incarichi si configurino di fatto come conflittuali: da che parte del tavolo starebbe Pedroni se si dovesse trattare l’ipotizzato, se pure smentito, passaggio del Valle al Teatro di Roma?).


 


 

Francia 1 / L’Eti non va in Onda
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 1/2004
di Massimo Marino

 

Le "Giornate professionali italo-francesi di teatro e danza" sono iniziate a Spoleto nel 1997 e si sono perse nel nulla nel 2003. Sei edizioni, alternativamente in una sede italiana e in una francese, per provare a far dialogare due sistemi vicini e diversi. Seminari per operatori, spettacoli o work in progress, laboratori, confronti sui temi della traduzione, della circuitazione, della coproduzione, promossi dall’Eti e dall’Onda, l’ente teatrale nazionale italiano e quello francese. Una svolta arriva quando nel 2001, alla scadenza del mandato di direttrice di Giovanna Marinelli, che fortemente aveva voluto le "Giornate", cambia la dirigenza Eti. Il nuovo consiglio di amministrazione è espressione della destra che ha vinto le elezioni. I rapporti con i francesi si raffreddano. L’edizione del 2002 di Lille si apre con molte domande. Si arriva comunque alla fine, riproponendosi di rinnovare la formula: i due sistemi ormai hanno imparato a conoscersi, non ha senso fare un piccolo festival. Un gruppo di lavoro, formato da direttori di teatri e di festival italiani e francesi, elabora alcune linee per il futuro: bisogna superare la vetrina, avviare collaborazioni di ricerca, di produzione, di formazione, di documentazione fra realtà teatrali dei due paesi, allargando gli scambi a un’area mediterranea più ampia. L’Eti non gradisce: propone di continuare con la vetrina, concedendo la possibilità di qualche incontro suppletivo in altre situazioni. Ma, in realtà, sembra puntare a manifestazioni da sostenere in proprio, cercando, in Francia come altrove, partner più congeniali, per promuovere progetti più tradizionali (le giornate avevano finito per privilegiare il teatro contemporaneo), per vendere lo spettacolo italiano. L’Onda rompe nel giugno 2003, dopo numerosi incontri rinviati e lettere senza risposta da parte italiana. Nel frattempo si comprende l’alternativa a cui lavorava l’Eti, la rassegna Les Italiens organizzata da Scaparro a Parigi. L’Onda cerca nuove strade di relazione con l’Italia, arrivando, agli inizi di dicembre 2003, a un incontro a Modena fra alcuni operatori francesi e realtà produttive e compagnie italiane, riunite da Emilia Romagna Teatro. La situazione è in evoluzione, tutta da seguire.


 


 

Francia 2 / Il pozzo di san Maurizio
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 1/2004
di Massimo Marino

 

"L’Italia ‘invade’ i teatri di Parigi" titolava pomposamente la Repubblica riferendo dell’iniziativa ideata da Maurizio Scaparro. Una rassegna di teatro, cinema, poesia e cultura italiana a Parigi, con al centro i nostri autori. Il titolo Les Italiens richiama l’appellativo dato in Francia ai comici dell’arte, ma è anche il nome di una compagnia/progetto speciale del regista, già "decollato" con una lunga presenza al Teatro Valle di Roma lo scorso anno. La parte teatrale della rassegna parigina è partita appunto con uno spettacolo di Scaparro dedicato alla commedia dell’arte per arrivare ad autori come Viviani, Testori, Tabucchi, passando per Goldoni, Pirandello Eduardo, fino a scrittori recentissimi quali Scaldati, Celeste, Nevio Spadoni. Tre mesi e passa di spettacoli e iniziative al Théâtre des Champs-Elysées e in altri luoghi della capitale francese.
A guardare meglio, almeno il programma teatrale sembra vecchio e onnicomprensivo, con qualche apertura ma nessuna attenzione al teatro e alla danza contemporanei. Il periodo scelto è proibitivo: in concorrenza con il Festival d’Automne, vero evento parigino della stagione autunnale, ma bisogna stare nel semestre di presidenza italiana della Unione Europea. A osservare a fondo l’operazione appare perfettamente in linea con quelle propugnate all’estero dal governo Berlusconi: vendere la cultura italiana un tanto al chilo, con molta polvere, televisione, moda, mandolini e pastasciutta. Operazione promozionale, di grande spesa, che non si cura di mettere fondamenta per un reale scambio culturale.
Analizziamo i dati della sezione teatrale della manifestazione, la più lunga e cospicua. La fonte è l’Eti che ha finanziato il tutto con un bel po’ di danaro pubblico (secondo "il Riformista" per il solo affitto del teatro si è speso circa un miliardo di vecchie lire). Nelle due sale del Théâtre des Champs-Elysées (Comédie con 624 posti e Studio con 232 posti) si sono tenuti, dal 23 settembre al 30 novembre, 27 spettacoli, per 85 repliche complessive, con un totale di 7114 presenze, con una media di 84 presenze a replica (per alcuni spettacoli dobbiamo immaginare la sala vuota). La rassegna stampa conferma il totale disinteresse della "conquistanda" Francia per Les Italiens (perlomeno per la parte teatrale, ripetiamo). Molti tamburini, qualche rarissima presentazione di "Le Figaro", "France Soir", "Zurban", soprattutto su eventi che si fregiavano di nomi già noti ai francesi (Una giornata particolare, uno spettacolo di Marco Bernardi dal film di Scola, un concerto di musiche di Nino Rota e poco altro), qualche recensione su "Focus Magazine", una rivista degli italiani a Parigi, il totale disinteresse di "Le Monde", "Libération" e dei periodici specializzati. Nessuna recensione, nessun punto sulla situazione del teatro italiano, sugli autori, eccetera. Nessuna scoperta. Ma se guardiamo la rassegna stampa italiana, il quadro è trionfale, fino a risultare smaccatamente pubblicitario e consolatorio.


 


 

Who’s Who (Commissione Consultiva per la Prosa)
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 1/2004
di Redazione "Hystrio"/Retroscena

 

Alle commissioni consultive dello spettacolo compete l’indicazione dei contributi, con particolare riferimento alla componente "qualitativa". Con una legge del ‘96, il ministro Veltroni ha modificato drasticamente criteri consolidati, prevedendo fra l’altro che i componenti siano ´scelti tra esperti altamente qualificati nelle materie di competenza' ma soprattutto ´che non versino in situazioni di incompatibilità derivanti dall’esercizio attuale e personale di attività oggetto delle competenze istituzionali delle commissioniª. Il ministro Urbani, ha provveduto nel 2002 a nominare nuovi componenti: ci sembra interessante conoscerli meglio perché la loro responsabilità non è piccola (per quanto il ruolo sia, appunto, consultivo) e la loro conoscenza del teatro dovrebbe essere vasta e aggiornata.

Alfredo Giacomazzi – Direttore Generale per lo Spettacolo dal vivo.
Giovanni Antonucci – Di nomina ministeriale: storico del teatro, docente universitario, autore di numerosissime pubblicazioni nel campo dei media, è anche producer televisivo, e giurato di molti premi italiani, oltre che autore di testi, traduttore, adattatore. Critico per il quotidiano «Il Giornale».
Pasquale Donato – Di nomina ministeriale: nonostante le nostre ricerche non è stato possibile risalire ad alcuna informazione su di lui che lo qualificasse come esperto del settore;
Sabina Negri – Di nomina ministeriale: giovane autrice teatrale, negli ultimi due anni sono stati portati in scena alcuni suoi testi (da compagnie sovvenzionate); è consulente artistica del Teatro della Società di Lecco. Segnaliamo, come riferiscono le cronache («La Padania», ma anche Gianantonio Stella sul «Corriere della Sera»), il suo matrimonio con il vicepresidente del Senato, il leghista Roberto Calderoli, officiato dall’amico Marco Formentini con "rito celtico".
Michele Paulicelli – Di nomina ministeriale: musicista e autore di musical di argomento religioso (alcuni dei quali molto rappresentati, come Forza venite gente), appartenente ad area cattolica, attivo presso gruppi religiosi, in particolare di ispirazione francescana.
Renato Tomasino – Di nomina ministeriale: docente di storia del teatro presso l’Università di Palermo, è autore di diverse pubblicazioni su cinema e teatro.
Franco Scaglia – Di nomina ministeriale: unico membro della precedente commissione riconfermato, personalità molto nota nel settore televisivo e teatrale. Giornalista e scrittore genovese, Premio Campiello nel 2002 con Il Custode dell’acqua. Ex vicepresidente Raisat, attualmente presidente di RaiInternational, è molto spesso presente in qualità di giurato, critico, consigliere, membro di commissioni, in manifestazioni del settore teatrale.
Francesco Carducci Artenisio – Nominato dalla conferenza Stato-città: laureato in Economia e Commercio, ha alle spalle una lunga carriera manageriale, che ha sviluppato anche in incarichi istituzionali nel settore della cultura (ex consigliere di Cinecittà Holding S.p.a., Assessore al Turismo e Grandi Eventi del Comune di Roma durante l’amministrazione Rutelli, consigliere di amministrazione dell’Agenzia Romana per la Preparazione del Giubileo S.p.A. in rappresentanza del Comune di Roma).
Giancarlo Marinelli – Nominato dalla Conferenza rapporti Stato, Regioni e Provincie autonome: giovanissimo (30 anni) autore e sceneggiatore teatrale, finalista al Premio Campiello 2002 con Dopo l’amore, attualmente alcuni suoi spettacoli, come autore e come regista, sono in scena, soprattutto nel circuito dei teatri veneti. E' stato proposto per questo incarico dalla Regione Veneto.


Qualche ulteriore informazione sulle leggi e sull'applicazione dello «spoil system»

La composizione e il funzionamento delle commissioni consultive per lo spettacolo è regolamentato dalla Legge 23 dicembre 1996 n°650 - Conversione in legge, con modificazioni, del Decreto Legge 23 ottobre 1996 n°545, Art. 1:

Comma 61. Le commissioni istituite ai sensi dei commi 59 e 60 [ndr commissioni per la musica, per la prosa, per il cinema, per i credito cinematografico, per il circo e gli spettacoli viaggianti, per la danza] sono composte da nove membri, incluso il Capo di Dipartimento dello spettacolo che le presiede. Gli altri componenti sono nominati nel numero di sei dall’Autorità di Governo competente per lo spettacolo e gli altri due, rispettivamente, uno su designazione della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, ed uno su designazione della Conferenza Stato-città. Essi sono scelti tra esperti altamente qualificati nelle materie di competenza di ciascuna delle commissioni.

Comma 63. I componenti delle commissioni istituite ai sensi dei commi 59 e 60 sono tenuti a dichiarare, all’atto del loro insediamento, di non versare in situazioni di incompatibilità con la carica ricoperta, derivanti dall’esercizio attuale e personale di attività oggetto delle competenze istituzionali delle commissioni.


Il Ministro per i Beni e le Attività Culturali, On. Giuliano Urbani, avvalendosi delle prerogative previste dalla «Legge Frattini» (art. 6 della Legge 145/2002) che prevede la possibilità di sostituire i componenti di organi la cui nomina rientra fra le sue competenze, ha provveduto nel 2002 a nominare i componenti delle cinque Commissioni consultive per lo spettacolo.
La riforma delle commissioni del ‘96, uno dei primi atti del ministro Veltroni, in particolare per quest’ultimo punto (comma 63) costituì una piccola rivoluzione, non troppo ben vista soprattutto dalle categorie, abituate ad «autogestire» in qualche misura i contributi attraverso le proprie rappresentanze, ma anche a intervenire tecnicamente sui criteri.
Una parziale compensazione di questi malumori fu rappresentata dall’istituzione successiva di una commissione per i problemi dello spettacolo, largamente rappresentativa e con funzioni, appunto, tecniche. Non si sottolineò invece con sufficiente chiarezza da parte delle categorie la contraddizione che ci sembra implicita fra l’impegno notevole richiesto ai membri della commissione (8 persone chiamate a valutare TUTTO il teatro italiano), e l’assenza di compensi corrispondenti, che – come avviene per tutti gli incarichi pubblici in democrazia – costituisce la prima garanzia dell’assenza di interessi personali.
Quanto alla legge Frattini e al cosiddetto spoil system, ci sembra grave che se ne consideri automatica l’applicazione, e dove non è direttamente applicabile lo spirito, anche ai vertici delle istituzioni culturali: che si ritenga cioè corretto e inevitabile che l’organizzazione della cultura debba corrispondere ad appartenenze (o ad obbedienze) politiche. Non c’è dubbio che anche i governi di centro-sinistra abbiano «piazzato» propri uomini nelle posizioni chiave, ad esempio proprio nelle commissioni ministeriali, e che abbiano qualche volta sorvolato proprio rispetto alle «situazioni di incompatibilità» che avevano con tanto clamore inteso escludere. Pure, alla luce di questi due anni di governo di centro-destra, emergono differenze fondamentali: da una parte, una più precisa competenza dei propri rappresentanti e la volontà di mantenere una dialettica maggioranza e opposizione, garantendo comunque sempre a quest’ultima margini di rappresentanza (un po’ come è avviene per legge con i vertici RAI); dall’altra un’occupazione frenetica di tutti gli spazi, anche in assenza di elementi qualificati, anche nelle sedi che, per la propria storia, avrebbero dovuto suggerire atteggiamenti diversi (pensiamo ai CDA degli Stabili).
Questo modo di operare (oltre a favorire qualche trasformismo e svelare appartenenze e simpatie politiche del tutto imprevedibili, oltre che i trasformismi "fisiologici") ha determinato un calo della qualità tecnica e intellettuale degli organismi direttivi di nomina politica (con qualche fortunata eccezione). A tutto ciò si associa anche un abbassamento drastico del livello di percezione del «conflitto di interessi»: essere attivo in un’impresa teatrale privata, e consigliere di amministrazione di un teatro pubblico, ad esempio, è molto comune (e non è considerato, pare, come contraddittorio: quasi che i due settori non perseguissero logiche diverse e a volte concorrenti e/o che non possano esserci rapporti d'affari fra i due organismi), essere messi in scena e percepire diritti d’autore da compagnie che si contribuisce a finanziare non sembra costituire «condizione di incompatibilità», come pure avere familiari stretti dipendenti di organismi beneficiari dei contributi.
Infine, in questo panorama, basta un titolo di studio vagamente affine, o un lontano interesse liceale per la disciplina in questione, per qualificare gli esperti. Forse è vero quello che sostiene Vittorio Sgarbi: è più utile essere stati compagni di scuola della persona giusta che essere competenti.


 


 

Una freccia nell’arco di Urbani: ARCUS-spa cultura e mattoni
da Retroscena: il sistema teatrale italiano nell'era Berlusconi in "Hystrio" 1/2004
di Anna Chiara Altieri

 

E’ entrata in vigore lo scorso 30 ottobre, la legge 16 ottobre 2003, n. 291 che istituisce la Arcus spa, una società costituita come strumento operativo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Art. 2:

´Il Ministro per i beni e le attività culturali è autorizzato a costituire, con atto unilaterale, una società per azioni, denominata "Società per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo - Arcus Spa" (…), avente ad oggetto la promozione e il sostegno finanziario, tecnico-economico e organizzativo di progetti e altre iniziative di investimento per la realizzazione di interventi di restauro e recupero dei beni culturali e di altri interventi a favore delle attività culturali e dello spettacolo, nel rispetto delle funzioni costituzionali delle regioni e degli enti locali’.

Le finalità non sono molto diverse da quelle previste dal ministro Veltroni per la Sibec (Società per i Beni Culturali), costituibile, ma mai costituita, in forza della legge 352 del 1997.
La legge, su proposta avanzata dal senatore Franco Asciutti, presidente della Commissione cultura del Senato, è stata approvata dalla stessa commissione cultura della Camera, presieduta da Ferdinando Adornato, in sede "deliberante" (cioè senza l’obbligo del passaggio in aula) e quindi in sede legislativa dalla VII Commissione del Senato il 24 settembre. Un iter sorprendentemente rapido, possibile grazie all’accordo compatto tra tutti i partiti. La società ha sede a Roma, e ha un capitale sociale di 8.000.000 euro ed è prevista la possibilità dell’ingresso di altri soci, pubblici e privati, entro il limite del 60% del capitale sociale sottoscritto dallo Stato. Il consiglio di amministrazione, composto da sette membri (di cui tre su proposta del ministro dell’Economia e della Finanza), è nominato con decreto del ministro dei Beni e delle Attività Culturali. Presidente è stato nominato Mario Caccia, ex capo di gabinetto del ministro Urbani, ex membro della Corte dei Conti e attualmente responsabile della Direzione Relazioni Istituzionali e della Direzione Stato e Infrastrutture di Banca Intesa. Arcus spa, per svolgere la sua funzione, potrà attingere a un patrimonio di circa 150 milioni di euro (300 miliardi di lire) nel prossimo triennio, pari al 3% delle risorse stanziate per le infrastrutture e le grandi opere, come stabilito dalla legge finanziaria dello scorso anno. Lo stesso provvedimento legislativo che autorizza la costituzione della società, ne anticipa in qualche misura l’operato determinando (per gli stessi scopi), stanziamenti per il 2003, 2004 e 2005 rispettivamente di 53,2, 47,8 e 51,6 milioni di euro.
La destinazione delle risorse riguarda le iniziative più disparate, dal restauro di chiese e monumenti, alla realizzazione di musei, centri sportivi, scuole: va dai 2.500.000 per i campionati mondiali di ciclismo di Verona agli interventi infrastrutturali per la beatificazione del Santo Umile di Bisignano (500 e 500). Non siamo in grado di risalire ai criteri, a meno che una chiave di lettura non sia questa informazione che troviamo sul famigerato sito dagospia:

´Riceviamo e volentieri pubblichiamo: "segnalo al punto 82 dei finanziamenti Arcus i 400.000 euro per informatizzare i Musei della Fondazione Lungarotti di Torgiano. I musei sono un’emanzione del più grande produttore umbro di vini, le Cantine Lungarotti. Torgiano è parte del collegio elettorale del Presidente della Commissione cultura del Senato, l’On. Asciutti"’.

Lasciamo ad altri verificare la residenza dei membri delle commissioni che hanno concorso alla approvazione della legge (e dei relativi collegi elettorali). Qualche finanziamento ha coinvolto anche lo spettacolo: solo 8 su 95 (ma qualche associazione non identificata potrebbe anche operare nel settore): non comprendiamo anche in questo caso con quali criteri se non che i Beni culturali sono privilegiati rispetto alle Attività e che spiccano le Fondazioni Liriche con tre soggetti. La nascita di Arcus è stata salutata dall’Agis come possibile punto di partenza per una vera ristrutturazione del Fus:

´Il punto di partenza in tal senso potrebbe essere rappresentato dalla istituzione della Arcus-Spa, di ormai imminente attivazione, con il compito di gestire i fondi derivanti dal prelievo del 3% sugli stanziamenti relativi alle grandi opere che, aprendo nuovi scenari, rende necessario un forte lavoro associativo tendente alla ottimizzazione delle risorse, cercando, prima di tutto, di evitare uno squilibrio troppo marcato a vantaggio dei Beni Culturali e a discapito delle Attività’. (Enzo Gentile, «Giornale dello Spettacolo», 14/11/2003).


 


 

Il teatro tra rivoluzione e restaurazione
La scrittura scenica nell'analisi di Lorenzo Mango
di Oliviero Ponte di Pino

 

Con La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento Lorenzo Mango ha compiuto un’ampia (oltre 400 pagine) e ambiziosa ricognizione, sia sul versante della pratica spettacolare sia su quella della teoria, avendo fin dall’inizio ben chiara la difficoltà di imbarcarsi in una simile impresa.



Einstein on the Beach di Robert Wilson fotografato da Theodore Schank (per accedere all'archivio online delle foto di Schank alla UCSD sull'experimental theatre, clicca sull'immagine).

Perché la nozione di scrittura scenica (la cui paternità è da attribuire a un brechtiano come Roger Planchon) ha due accezioni, o meglio può essere inserita in due contesti diversi. Il primo è più ampio, e comprende in pratica tutta la storia del teatro del Novecento, quando la scena inizia a rivendicare ed esplorare la propria autonomia artistica, emancipandosi sia rispetto alla matrice letteraria (superando l’approccio che Mango sintetizza nell’equazione «teatro=parola») sia rispetto alla tutela del «grande attore». In questa prospettiva, tanto i grandi teorici d’inizio secolo (Gordon Craig, Appia) quanto le varie avanguardie (dai futuristi al Bauhaus), tanto i maestri della regia moderna (da Stanislavskij in poi, passando ovviamente per Brecht) quanto drammaturghi come Beckett, praticano tutti la scrittura scenica (contrapposta a una «scrittura drammaturgica», sbilanciata sul versante testuale), declinandola a seconda delle diverse poetiche e situazioni storiche. In quest’ottica, praticare la scrittura scenica significa essere consapevoli della specificità dell’arte teatrale, senza limitarsi alla «illustrazione» di un testo, ma utilizzando i diversi elementi che concorrono all’evento spettacolare (la scena e più in generale lo spazio, il suono ovvero parola, rumori e musica, il gesto, gli oggetti eccetera) valorizzandone l’autonoma forza poetica e significante, e le diverse materialità e linguaggi.



1789 del Théatre du Soleil fotografato da Theodore Schank (per accedere all'archivio online delle foto di Schank alla UCSD sull'experimental theatre, clicca sull'immagine).

La seconda accezione è invece più specifica, e rimanda a un momento molto particolare della storia del teatro: gli anni Sessanta e Settanta, quando il concetto di scrittura scenica venne rilanciato in Italia in primo luogo da Giuseppe Bartolucci (e ripreso da Maurizio Grande), in contrapposizione proprio al teatro di regia. In quegli anni una variegata serie di esperienze ha obbligato a ridefinire lo statuto stesso del teatro: è difficile sottovalutare l’impatto – sugli spettatori ma anche sugli studiosi – dei lavori di Grotowski e dell’Odin, del Living Theatre e del Bread and Puppet, di Peter Brook e di Andrei Serban, ma anche dell’avanguardia americana di Wilson, Monk e Foreman, di Schechner e dei Mabou Mines, e in Italia l’irruzione di Carmelo Bene e di Leo De Berardinis, e la stagione delle cantine romane e il teatro immagine di Memè Perlini e Giuliano Vasilicò, fino alle provocazioni della nascente post-avanguardia di Carrozzone, Gaia Scienza e Falso Movimento...
Questa pratica teatrale si è contrapposta alla tradizione della regia, con modalità articolate e differenziate ma con molti elementi comuni. Si ricollegava consapevolmente all’esperienza delle avanguardie (gli happening e le performance degli anni Sessanta, e risalendo all’indietro dada, surrealismo e futurismo), dopo essersi emancipata dalla dipendenza da un testo pre-esistente fino a rifiutarlo provocatoriamente (salvo in alcuni casi smembrarlo e decostruirlo). Ha impostato una riflessione analitica sulle ragioni, sugli elementi e sulle modalità del «fare teatro» – sullo «specifico» del teatro. Ha superato le distinzioni tra i generi e le arti e al tempo stesso ha cercato ogni occasione per contaminare arte e realtà.



Pandering to the Masses di Richard Foreman fotografato da Theodore Schank (per accedere all'archivio online delle foto di Schank alla UCSD sull'experimental theatre, clicca sull'immagine).

Per rispondere a livello teorico alla radicalità di questa pratica (che sfociava spesso in una dimensione anche politica, e che poteva portare anche a una uscita, temporanea o definitiva, dal teatro) e alla sua forza di contestazione della scena «ufficiale», il concetto di scrittura scenica sembrava offrire le necessarie armi teoriche e polemiche. Beppe Bartolucci lo teorizzò in un volume, intitolato appunto La scrittura scenica (Lerici, Roma, 1968), e lo utilizzò come testata per la rivista che diresse tra il 1971 e il 1983.
Anche se poi, a quella stagione di programmatica sovversione, è seguito – sia negli Usa sia in Italia – quello che a molti è apparso un «ritorno all’ordine», ovvero a forme spettacolari in apparenza più ancorate alla tradizione e a codici più consolidati, ristabilendo le abituali divisioni dei ruoli, a cominciare da quello del regista, e si recuperano il testo, il personaggio e i ruoli (sul «ritorno all’ordine», almeno sul versante americano, vedi i fondamentali saggi di Richard Schechner e Arnold Aronson; in Italia invece le successive ondate di nuovo teatro, con le loro punte radicali, hanno tenuto vivo questo filone e la relativa riflessione teorica).
Nel mettere a fuoco il concetto di scrittura scenica, Lorenzo Mango – che come spettatore e studioso si è formato proprio in quel momento irripetibile e ora insegna Storia del teatro moderno e contemporaneo all’Orientale di Napoli – si muove dunque su un crinale assai sottile e ambiguo. Da un lato deve differenziare la pratica della scrittura scenica da quella della «normale» regia novecentesca, mantenendo fermo l’ancoraggio ai grandi teorici, compreso naturalmente Artaud (in pratica, deve privilegiare decisamente Meierchol’d rispetto a Stanislavskij, che pure è il primo riferimento di Grotowski). Ma dall’altro deve ricondurre nell’alveo della scrittura scenica una serie di esperienze recenti, sempre più vicine (almeno in apparenza) proprio al teatro di regia; anche se poi nella sua esplorazione decide curiosamente di ignorare due esperienze che avrebbero potuto fornirgli spunti interessanti: l’emergere di gruppi più giovani (il suo repertorio non va oltre la Socìetas Raffaello Sanzio, ignorando tra gli altri Marcido, Motus, Fanny & Alexander, Clandestino, Masque, eccetera) e l’impatto delle nuove tecnologie e del multimediale, cui si accenna di sfuggita.



Pig, Child, Fire! dello Squat Theatre fotografato da Theodore Schank (per accedere all'archivio online delle foto di Schank alla UCSD sull'experimental theatre, clicca sull'immagine).

La scrittura scenica si concentra dunque – in un repertorio di esempi assai ricco e articolato – soprattutto su alcuni spettacoli che tra gli anni Sessanta e Settanta hanno fatto la storia dello spettacolo, per ricavarne una gamma di elementi e di pratiche che caratterizzano una certa idea di teatro – tra tutti, i lavori del Living e di Grotowski, del Carrozzone-Magazzini e della Gaia Scienza, di Kantor e di Robert Wilson, di Carmelo Bene e Leo De Berardinis – ricollegandoli sistematicamente a precedenti teorizzazioni. Ecco così emergere, in un primo momento, la necessità di «decostruire» le forme canoniche dello spettacolo e i singoli elementi che concorrono alla rappresentazione – e qui il fulcro è ovviamente Carmelo Bene. Successivamente vengono esaminati e valorizzati i diversi elementi che concorrono all’evento teatrale: in primo luogo il testo (la parola), poi lo spazio (sulla scia del postulato di Marco De Marinis: «L’uso dello spazio quale elemento drammaturgico costituisce la vera, rivoluzionaria innovazione del teatro novecentesco»), e ancora l’oggetto, la luce, il corpo (ovvero l’attore) e il suono... Nell’ambito della scrittura scenica tutti questi diversi elementi possono muoversi in reciproca autonomia, dal momento che se ne riconosce e valorizza l’autonoma forza significante e poetica. In questo sta forse la principale contrapposizione con la tradizione della regia «classica»: la capacità della scrittura scenica di creare diversi livelli di significato senza subordinare la creazione di un senso univoco a un testo pre-scritto e alla sua supremazia (e a un principio d’autorità di cui il regista si fa interprete e garante, e che non a caso viene messo in discussione in maniera esplicita proprio nel fatidico ’68).



Nyatt School del Wooster Group fotografato da Theodore Schank (per accedere all'archivio online delle foto di Schank alla UCSD sull'experimental theatre, clicca sull'immagine).

Tuttavia per diversi aspetti la realtà rischia di rivelarsi più complessa. La «decostruzione» dell’evento teatrale è stata operata anche dalla cosiddetta «regia critica», a cominciare da Luca Ronconi (di cui peraltro Mango cita soprattutto l’uso e la reinvenzione dello spazio nel memorabile Orlando Furioso del 1968). E’ proprio dalla crisi della fiducia verso il testo, da una lettura «sospettosa» (sulla base di Marx, Freud e dello strutturalismo), che si innesca una irreversibile crisi della rappresentazione e delle sue forme, che investe sia il teatro di regia sia il nuovo teatro. Luca Ronconi – nell’ambito della regia, insieme ad altri – metterà in discussione, in particolare con il Laboratorio di Prato, alla metà degli anni Settanta, i diversi elementi della tradizionale costruzione teatrale (lo spazio, il personaggio, il testo), alla ricerca di una possibile rifondazione. Ma la crisi a cui rispondono registi come Ronconi e molti degli esponenti del nuovo teatro tra gli anni Sessanta e Settanta ha le stesse radici.
La crisi della rappresentazione, oltre che la dissoluzione del pubblico borghese e nazional-popolare, riflette peraltro alcune delle problematiche delle neo-avanguardie letterarie attive in quegli anni, con il rifiuto della narrazione, il superamento della psicologia, la supremazia dello sguardo, l’attenzione agli aspetti formali, allo statuto dell’opera e al rapporto con il fruitore. L’enigmaticità e l’opacità del segno teatrale riverbera le preoccupazioni della filosofia analitica di quel periodo e della riflessione su alcuni aspetti del pensiero di Ludwig Wittgenstein: anche qui il nodo è il rapporto tra significante e significato, nell’epoca in cui si riscoprono i formalisti e la semiotica si affermava fino ad aspirare al ruolo di «scienza totale» in grado di interpretare l’intera realtà – e non è un caso che Roland Barthes approdi alle semiotica dopo essersi a lungo occupato di teatro e in particolare di Brecht.
Dunque, fermi restando l’ampiezza e l’efficacia delle esemplificazioni prodotte da Mango nel delineare una pratica spettacolare, il nodo della scrittura scenica continua a restare assai aggrovigliato. Forse per provare a sbrogliarlo bisognerebbe andare contemporaneamente in due direzioni in apparenza indipendenti. Da un lato ritornare alle radici teoriche dell’opera d’arte totale (e dell’intermedialità); dall’altro ripensare il concetto di «straniamento» brechtiano (risalendo magari fino a Eisenstein). Forse in questa chiave il codice della scrittura scenica, più che aspirare a essere un passe-partout interpretativo, può trovare una serie di articolazioni e dialettiche interne che possono intrecciarsi con le problematiche della regia contemporanea e del suo rapporto con il testo.

Lorenzo Mango
La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento
Bulzoni, Roma, 2003
416 pagine, 27 euro.


 


 

Le recensioni di "ateatro": Peccato che fosse puttana di John Ford
Regia di Luca Ronconi
di Oliviero Ponte di Pino

 

Peccato che fosse puttana è uno spettacolo per molti aspetti tipico del Ronconi di queste stagioni. Intanto è un lavoro su commissione (dopo la trilogia classica realizzata a Siracusa e Amor nello specchio allestito a Ferrara), come se per il regista non fosse diventato troppo difficile sviluppare una autonoma progettualità al Piccolo Teatro, di cui pure è direttore artistico. Nel caso specifico, l’occasione è venuta dalle celebrazioni per il Teatro Farnese di Parma, dove lo spettacolo ha debuttato la scorsa estate. La celebre sala ha ispirato a Marco Rossi una scenografia lignea che in qualche modo riflette l’architettura che ospita lo spettacolo, come era già accaduto, per esempio, con il Teatro Argentina per Le due commedie in commedia e per il Teatro Carignano per Misura per misura.

La coppia Annabella-Puta: Nicola Russo e Riccardo Bini, Barbara Valmorin e Laura Pasetti.

In secondo luogo la coproduzione (che coinvolge, oltre al Piccolo e al Teatro Festival di Parma, lo Stabile di Torino e il Mercadante) ha permesso di lanciare un’operazione produttivamente assai ambiziosa, con lo spettacolo recitato a sere alterne da un doppio cast: uno tutto maschile, cioè con due attori a interpretare i ruoli femminili, la giovane Annabella (Nicola Russo), la più anziana Puta (un travolgente Riccardo Bini) e Ippolita (Pasquale Di Filippo), la seconda invece con i ruoli più prevedibilmente affidati a due attrici, Laura Pasetti, Barbara Valmorin e Pia Lanciotti. L’inevitabile richiamo, per il primo cast, è al teatro elisabettiano – o meglio, in questo caso carolino, visto che con questo testo scandaloso siamo alla vigilia della rivoluzione puritana – dove alle donne era notoriamente vietato salire sulle scene. Anche se poi, con il tipico pudore ronconiano, Nicola Russo non spinge affatto sul pedale del travestitismo, anzi, si abbandona sobriamente al ruolo senza ammicchi o strizzate d’occhio. Per Ronconi (e della sua mentalità sperimentale) non si tratta certo di inseguire una esperienza teatrale storicamente determinata e dunque irripetibile, quanto di proseguire l’indagine sul rapporto tra l’attore e il personaggio, seguendo il filone inaugurato dalle Baccanti con Marisa Fabbri unica interprete all’Ignorabimus per un cast tutto femminile, e proseguito – per certi aspetti – fino alla costruzione del personaggio della protagonista in Quel che sapeva Maisie.
A questo aspetto, la regia ne intreccia uno che vi è collegato, quello della coppia e del doppio, individuato come leit-motiv strutturale del testo. Come al solito, Ronconi evita ogni tentazione naturalistica o piattamente psicologica, così come ogni tentazione di attribuire al testo un significato univoco e unificante, un qualche «messaggio». La rappresentazione non mira alla mimesi del reale, ma parte da una analisi che mette in luce la forma e la struttura del testo (individuando regolarità e irregolarità). Dal punto di vista visivo, questo si traduce in due operazioni parallele. Da un lato si tratta di occupare e attraversare lo spazio con figurazioni e movimenti che rendono conto della struttura del testo e dei rapporti tra personaggi. In secondo luogo le arti visive nella loro stratificazione storica forniscono una serie di riferimenti iconografici (ma anche modelli di posture e gestualità) che sovrappongono al testo parlato un codice visivo che a volte lo sottolinea e a volte lo decostruisce.
Nel leggere la vicenda scandalosa dell’incesto tra i due fratelli, Ronconi evita il maledettismo trasgressivo e vagamente luciferino che appassionava i romantici. La coppia Giovanni-Annabella si trova piuttosto al centro di un gioco di coppie, di cui è al tempo stesso l’archetipo e la negazione. Perché le altre coppie individuate nel testo di John Ford (a cominciare da quelle che hanno per fulcro i tre pretendenti di Annabella, il giovane Soranzo e l’ambiguo servitore e mentore Vasquez, il soldato Grimaldi e il Nunzio che lo protegge, il duo comico del giovane Bergetto e del suo servo Poggio, ma anche quella tra Annabella e la sua fantesca Puta, tutte legate da rapporti esplicitamente o velatamente omosessuali, come indicano le prime scene, e via via le altre coppie) sono tutte in qualche modo sbilanciate, tra un giovane e un vecchio, un allievo e un maestro, un servo e un padrone. Questo squilibrio innesca meccanismi volutamente ambigui: perché i vecchi sono anche, al tempo stesso, invidiosi dei giovani – che per certi aspetti rappresentano un doppio perfetto, o almeno una coppia pefettamente complementare –, e in un mondo senza morale ma con molte ipocrisie (non molto diverso dalla città del caso Parmalat, verrebbe da aggiungere) la pulsione distruttiva – più o meno consapevole – di questi cattivi maestri diventa uno dei motori dello spettacolo.



Questa dinamica strutturale dei personaggi innerva i loro movimenti nello spazio. La scenografia, dove Luca Rossi ha ripreso la struttura del praticabile articolato e digradante già sviluppato nel Candelaio, consente nel suo ampio sviluppo in profondità di costruire movimenti quasi cinematografici tra primi piani (quando l’attore si spinge in proscenio), campi medi e campi lunghi. Anche i percorsi degli attori seguono cinematograficamente le linee guida della scenografia: zoomate nella direttrice che scende verso il pubblico e carrellate quando la scena viene attraversata; ma anche percorsi circolari per creare nei dialoghi campi e controcampi.
E’ un articolazione che (grazie anche all’accurata e sciolta traduzione di Luca Fontana, che alterna versi e prosa) valorizza alla fine l’intelleggibilità dell’intreccio, di un meccanismo romanzesco che – quasi partendo da un fatto di cronaca nera – procede verso l’immancabile massacro finale. Anche se di questa «tragedia della vendetta» Ronconi non privilegia certo gli aspetti truculenti, sottolineando piuttosto gli intrighi amorosi quasi da commedia.
Peccato che sia una puttana è uno spettacolo che illustra perfettamente il «metodo Ronconi», con la presa d’atto della crisi della rappresentazione, le sottigliezze di una dissezione analitica del testo e la capacità di reinventarle in una dinamica scenica. Quasi a compensare la crisi della rappresentazione con l’invenzione di macchine teatrali affascinanti e stupefacenti, alla continua ricerca di effetti speciali che – più che commuovere ed emozionare – spiazzano e affinano la percezione dello spettatore.

Peccato che fosse puttana
di John Ford
Regia di Luca Ronconi
Milano, Teatro Studio


 


 

Le recensioni di "ateatro": L'anomalo bicefalo
di Dario Fo
di Oliviero Ponte di Pino

 

L’anomalo bicefalo di Dario Fo è naturalmente – prima di tutto – un testo di satira e controinformazione politica. Lo spunto surreale intorno a cui ruota lo spettacolo è presto riassunto: un attentato lascia Berlusconi e Putin mezzi morti, ma un’équipe di chirurghi russi riesce a rammendare il cervello del leader italiano con quello che resta del cervello del collega, irrimediabilmente moribondo. Il risultato è prevedibile: un po’ di confusione mentale e una mezza amnesia, che obbliga un Berlusconi un po’ stranito a ristudiare – con l’aiuto della consorte – alcune delle teppe della sua resistibile ascesa. Sì, perché da sempre la satira non è solo risate: è anche informazione e memoria collettiva. Anche se poi, quando un potente finisce nel mirino di un maestro della satira, le battute e le gag non possono mancare. Per restituire il look del leader del Polo della Libertà (Provvisoria), Fo rispolvera il vecchio e infallibile trucco utilizzato a suo tempo (1975) nel Fanfani rapito (a proposito, la satira a volte è anche profezia, o quasi): grazie a un mimo nascosto dietro di lui che muove le braccia e a un paio di scarpe che indossa come guanti, sceso in una trincea che gli nasconde le gambe, Fo diventa un irresistibile «nano bicefalo», in un balletto esilarante e scatenato.



Dario Fo nel Fanfani rapito, 1975...



...e nell'Anomalo bicefalo, 2003 (foto di Paolo Ruffini).

La realtà e la satira continuano a inseguirsi, e nelle repliche lo spettacolo continua a modificarsi e arricchirsi. Dunque, piuttosto che rubarle o riassumerle, le battute e le gag è meglio godersele dal vivo (anche se la tournée, organizzata all’ultimo intorno a un testo nato e cresciuto all’impronta, per motivi di urgenza politica dopo l'Ubi Bas dello scorso anno, offre meno date del richiesto). Vale invece la pena di riflettere sulla struttura drammaturgica che Fo utilizza per trasformare in spettacolo quella che è poco più che una trovata da sketch comico. In scena per oltre due ore con la sola Franca Rame (più tre mimi-servi di scena), Fo continua infatti a entrare e uscire dal gioco teatrale con un mestiere tanto sapiente da risultare inavvertito.
Lo spettacolo vero e proprio è preceduto – al solito – da un prologo, con l’attore in proscenio a illustrare la genesi dello spettacolo e le sue ragioni; parallelamente, calato il sipario, Franca Rame e lo stesso Fo inviteranno a sostenere una delle loro campagne, in questo caso un ampliamento dell’impegno a favore degli handicappati cui hanno devoluto l’ammontare del Premio Nobel. Sono due situazioni di soglia, che guidano lo spettatore prima nello spettacolo e poi fuori da esso, in un passaggio «morbido». Al tempo stesso ribadiscono il legame tra la compagnia e il suo pubblico: un vincolo fatto di un sentire condiviso, ma (ormai) anche di storia comune: è una sorta di «riconoscersi» che trascende il singolo spettacolo ma rimanda all’intero impegno artistico e politico della coppia.
Dopo di che, lo spettacolo è costruito su un continuo slittamento tra tre coppie. Al cuore della finzione ci sono ovviamente Silvio e Veronica, cui tocca ricordare al consorte smemorato un discutibile passato fatto di amici mafiosi, P2, casalinghe e pensionati prestanome, paradisi fiscali). Poi il regista-attore e l’attrice che, nella finzione, stanno girando un film che ha per soggetto L’anomalo bicefalo. Infine gli stessi Dario Fo e Franca Rame, che continuano a entrare e uscire dalle parti con notazioni e commenti sullo spettacolo che stanno recitando, ma anche con informazioni personali («Il 24 giugno prossimo io e Dario festeggiamo 50 anni di matrimonio»). Sono tre livelli di realtà che si riverberano di continuo: la realtà privata della coppia di attori (che sono tuttavia personaggi pubblici, le cui vicende sono note agli spettatori; va anche aggiunto che molte delle gag – l’improvvisazione di Dario che spiazza Franca, scatenando il suo fou rire, e il successivo battibecco, oppure i commenti sulla loro vita coniugale – fanno ormai parte integrante dei soggetti della compagnia); i due attori al centro della fiction, lui antiberlusconiano, lei polista (prima clandestina e poi dichiarata), che devono interpretare l’improbabile pellicola; infine Veronica e Silvio, che sono finzione nella finzione al tempo stesso rimandano alla realtà esterna, al mondo reale della politica. A questi livelli di realtà corrispondono anche – in sintonia con il soggetto della pièce in quanto magnate del piccolo schermo – una serie di proiezioni televisive, sullo schermo che cala dall’alto a chiudere la scena davanti a un sipario dipinto: sono frammenti delle riprese del film che i due stanno interpretando (riprese in diretta e successivamente in una sorta di premontaggio), un brevissimo blob di trasmissioni Fininvest, un finto discorso parlamentare dell’«anomalo bicefalo», impersonato dal Fo «nanificato» ma inframmezzato dalle immagini di politici «veri»...
Fino al colpo di scena finale, quando in un effetto tipo Chorus Line dalla cabina di regia – dietro e oltre il pubblico – una voce fuori campo mette fine a una situazione che era diventata talmente intricata da diventare ingestibile. E’ un intervento chiaramente fittizio, e che mette fine a tutti i giochi della coppia, quelli veri e quelli recitati.

L’anomalo bicefalo
di Dario Fo
Con Dario Fo e Franca Rame
Milano, Teatro Strehler, e poi in tournée.


 


 

Le recensioni di "ateatro": Filò
di Andrea Zanzotto interpretato da Silvio Castiglioni
di Mara Serina

 

Filò, un corpo magmatico di materia e sentimento, di poesia che prende forma nel tempo, con fatica, con sofferenza, in un lento distillarsi di ricordi personali e generazionali. Questo il traguardo cui è giunto Silvio Castiglioni che ha di recente elaborato in forma definitiva uno spettacolo cui sta lavorando da lungo tempo. Il risultato è splendido, emozionante, e la generosità dell’attore in scena è forte, viva, come non capita spesso di incontrare.
La parola materica, il "vecio parlar" di Andrea Zanzotto, autore del poemetto Filò cui la messinscena si ispira, attraversa in modo discreto tutto lo spettacolo, divenendone l’anima ma senza ostentazioni, grazie alla capacità di ritrovare tutto il fango, tutta l’acqua, tutta l’energia visionaria e la nostalgia di quei versi nel filo rosso di una vita che porta il protagonista dal paese natale di Barabò alla grande Milano negli ambienti universitari e poi a Buenos Aires, per un incontro sconcertante, un incontro con la storia, di quelli che ti restano dentro.
E non dimentica il clima caldo delle veglie di stalla Filò, anzi, lo ricrea mettendo gli spettatori in una particolare disposizione di ascolto e di condivisione. L’accoglienza ha infatti i profumi e i sapori della terra che ospita lo spettacolo, come se fosse la terra, col suo linguaggio antico di tradizioni, di cibi, di memorie, a parlare da subito con chi ha deciso di andare ad un incontro prima ancora che ad uno spettacolo. E l’effetto è immediato: come in una moderna veglia gli spettatori si fanno più solidali, le timidezze si sciolgono e scatta il magico meccanismo di consorteria tipico del cenare insieme. Lo spazio si lascia abitare con serenità e gli spettatori, giunti alla spicciolata da vite lontane, condividono un’esperienza che, seppur piccola, li rende un poco comunità. L’orologio e il tempo quasi scompaiono e la serata prende il ritmo naturale delle cose ed è l’energia che nasce dal pubblico a stabilire il momento giusto in cui lo spettacolo trova il respiro per partire. La veglia ha così inizio; durerà il tempo di un risotto antico, cucinato con cura mentre si ascolta una storia che guarda dritta negli occhi della Storia.
Come un ricordo che arriva da lontano e poi si mette a fuoco, Castiglioni entra in scena dal fondo, preceduto dalla fisarmonica di Beppe Chirico. E’ il cammino di uno e di tutti, sono le immagini ingenue dei ricordi d’infanzia costellati di personaggi tanto improbabili quanto veri e reali, è l’affacciarsi al circo della vita dalla finestra del grande schermo, "il cine". Il "cine" che fa paura, il "cine" irresistibile, istrionico, il "cine" che "al me strassina" e che "me fa spavento", scrive Zanzotto. Un’attrazione che diventa il filtro della vita, lo spirito e l’inquadratura attraverso cui passerà ogni cosa:

ne ciùcia, ‘l cine, ‘l ne fa a tòch,
co la so fórfese ‘l ne strazha, ‘l ne reinpéta,
inte le so moviole ‘l ne straòlta,
al ghe roba ‘l so proprio DNA
al grop che é pi scondést de noaltri stessi
dó inte ‘l pos senzha fondi.
Ci succhia, il cine, ci fa a pezzi, con la sua forbice ci straccia, ci riappiccica, dentro le sue moviole ci stravolge, ruba il suo proprio DNA al grumo più nascosto di noi stessi giù nel pozzo senza fondo.


E la drammaturgia segue un raffinato montaggio cinematografico, in cui la parola diventa immagine e non solo, diventa inquadratura con primi e primissimi piani sui personaggi di Barabò (lo zio Siro che ride sempre, la maria Cucaiona, il leone, la Devige…), con un montaggio alternato per le telefonate con la madre che iniziano in italiano e si sciolgono calde nel "vecio parlar", il dialetto di casa. E alla fine è un magistrale controcampo a dare il senso di un incontro, quello tra le parole di un poeta e le azioni di morte di un terrorista, disseppellite dalla memoria e ancora vive come lo è il dolore di un pugno nello stomaco.
Ma il legame più viscerale con il cinema, con i versi di Zanzotto, con la lingua madre e con il ricordo di Federico Fellini, contrappunto felice di tutto lo spettacolo, passa attraverso il teatro e in particolare attraverso le maschere della Commedia dell’Arte, affascinanti e spaventose come il cine e come la "gorgone" che descrive Zanzotto in Filò:

ò vist la gran testa
testa de tut quel che noaltri són, tirada su desmat e desbón
tirada su e po’ dopo, cascar dó
tra sacrabòlti dizhion, prima, regina, et quidvis amplius
omnibus…(…)
Dia, tu me sé tornada – in – qua
Da l’aldelà de ciaro mort e morta celuloide mal tu me à fat, mal tu me à fat
In laguna in calivo e dentro aljazh
Ma de volerte no ò podést far de manco.
Ho visto la grande testa testa di tutto quello che noi siamo, sollevata per scherzo e sul serio sollevata e dopo cascar giù tra imprecazioni, panico, spavento – questa testa che è la nostra salvezza e perdizione, primigenia, regina e qualunque cosa di più grande per tutti…
Dea, mi sei rinvenuta dall’aldilà di luce morta e morta celluloide: male mi hai fatto, male mi hai fatto in laguna in nebbia e dentro il ghiaccio, ma di volerti non ho potuto fare a meno.


E questo desiderio di attrazione viscerale è proprio la maschera che s’impossessa quasi dell’attore. E’ strumento di lavoro ma diventa voce di un sapere arcano, insopprimibile ed è lai a parlare il vecio parlar, sedotta e seduttrice, falsa e sincera, immagine esteriore e anima intatta. Maschera memoria, ponte tra il passato e il presente, unico linguaggio per conoscere e rivelare la storia, umile pezzo di cuoio che ha aperto lo sguardo su verità che non sempre si ha il coraggio anche solo di sussurrare.
Così lo spettacolo riesce a tessere fili lontani: la gioventù, la storia personale, la strage di piazza Fontana, il cinema, il circo, la Commedia dell’Arte, scatenando un’emozione potente e raffinata insieme, legando ricordi e nuove veglie, veglie di spettatori che fanno mensa e iniziano a tessere i loro "parlari", di filo in filo:

si i fii, si i fii
del insoniarse e rajonar tra lori se filarà,
là su, là par atorno del ventar de le stele
se inpizharà i nostri mili parlar e pensar nóvi
inte ‘n parlar che sarà un par tuti,
fondo come un basar,
vert sul ciaro, sul scur,
davanti la manèra inpiantada inte ‘l scur
col só taj ciaro, ‘pena gua da senpre
se i fili, se i fili del sogno e della ragione tra loro si fileranno, lassù nei dintorni del tirar vento di stelle si accenderanno i nostri mille parlari e pensieri nuovi in un parlare che sarà uno per tutti, fondo come un baciare, aperto sulla luce, sul buio, davanti la mannaia piantata nel buio col suo taglio chiaro, appena affilato da sempre.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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In anteprima dal video di Transpermia di e con Marce-lì Antúnez Roca
Il progetto Dedalus a Torino per Malafestival 2003
di Giacomo Verde

 

Per vedere in anteprima il video dello spettacolo Transpermia, clicca qui (1180 KB per 1' 01'').

Dall’inizio del 2003 Marcel.lí Antúnez Roca lavora al progetto "Dedalus", un nome significativo, vista la difficoltà e la tensione che lo circonda. Il progetto consiste nell’agire, filmare e produrre micro-performances nella gravità zero, un livello raggiunto grazie ai voli effettuati da Marcel.lí e la sua equipe nel centro CGTC-Yuri Gagarin Cosmonautic. In totale finora sono state realizzate 25 micro-performances, frutto di lunghi ed elaborati esperimenti.
Questa esperienza di conquista dello spazio è stata significativa per comprendere quanto sia difficile abitare un mondo nuovo, un mondo in cui differenti piani si sovrappongono.
Nell’evento spettacolare presentato da Marcel.lí le performances dal vivo, con il corpo dell’attore, vengono composte e completate grazie ad una trasposizione video-grafica. La proiezione virtuale, unita all’azione reale, compone una nuova realtà, come nelle scene stradali dei film anni ’50.
Questa ricerca di un universo in cui "naturale" e "artificiale" possono comunicare, il sogno di un mondo nuovo e la costruzione di mezzi in grado di abitarlo accompagnano tutto il progetto "Dedalus". Marcel.lí, sorprendente artista di fama internazionale si spinge, anche in questa occasione, oltre le umane possibilità per trovare ciò che cerca.

"Certamente noi tutti, artisti inclusi, sogniamo un nuovo universo, una terra che attende di essere arata, dove tutto è possibile. Per creare nuove cosmogonie, mitologie straordinarie, cerimonie insospettate"
Marcel.lí Antúnez Roca, 2003.

Marcel.lí Antúnez Roca (Moià 1959) è riconosciuto nella scena internazionale per le sue incredibili performances tecnologiche e le sue istallazioni robotiche. Membro fondatore della Fura dels Baus, ha lavorato all’interno della compagnia come regista, musicista e performer dal 1979 al 1989, nelle macro-performances Accions (1984), Suz/o/Suz (1985) e Tier Mon (1988). Negli anni novanta le sue performances tecnologiche combinavano Bodybots (robots controllati dal corpo), Systematugy (narrazione interattiva) e Dresskeleton (l’interfaccia esoscheletrica). I temi esplorati nel suo lavoro includono: l’uso di materiali biologici nella robotica, come in JoAn, l’uomo di carne (1992); controllo telematico da parte dello spettatore di un corpo alieno nella performance Epizoo (1994); l’espansione dei movimenti del corpo con dresskeletons nella performance Afasia (1998) e Pol (2002); coreografia involontaria con il Bodybot Requiem (1999); e trasformazioni microbiologiche nell’installazione "Rinodigestio" (1987) e "Agar" (1999). Attualmente sta lavorando al progetto artistico/spaziale DEDALUS.
Nei primi anni novanta la sua performance Epizoo ha sconvolto la scena artistica internazionale. Per la prima volta i movimenti del performer potevano essere controllati dal pubblico attraverso un computer.
Dagli anni ottanta il lavoro di Antúnez si è basato sulla continua osservazione del modo in cui i desideri umani si esprimono e in quali specifiche situazioni si manifestano. Per tale ragione egli ha prodotto, negli anni novanta, una nuova cosmogonia di temi tradizionali come affetto, identità, morte, espressa attraverso l’utilizzo di elementi scientifici e tecnologici. I suoi lavori raggiungono così una dimensione umana estrema che provoca una reazione spontanea del pubblico.
Antúnez ha presentato i suoi lavori in numerosi convegni internazionali: La Fundación Telefónica in Madrid, the P.A.C. in Milano, the Lieu Unique in Nantes, the I.C.A. in London, SOU Kapelica Ljubljana, Cena Contemporanea in Rio de Janeiro, the Barcelona MACBA and the DOM Cultural Center of Moscow. Ha presentato le sue performances all’International Festivals EMAF Osnabruc Germany, al Muu Media Festival, Helsinki, al Noveaux Cinema Noveaux Medias Montreal, al DEAF Rotterdam, allo Spiel.Art Munich.
Il lavoro di Antúnez è apparso nelle seguenti pubblicazioni: Il Corpo Postorganico di Teresa Macrì; Body Art and Performances di Lea Vergine; Marcel.lí Antúnez Roca performances, objetos y dibujos di Claudia Giannetti, e il catalogo Epifania published della Fundación Telefónica. Ha ricevuto i seguenti riconoscimenti: First Prize al Festival Étrange, Paris 1994; Best New Media Noveaux Cinéma Noveaux Médias Montreal 1999; Max New Theatre award, Spain 2001; FAD Award Barcelona 2001, e Honorary Mention al Prix Ars Electronica 2003.


 


 

Il volto e la maschera nelle fotografie di Tommaso Le Pera
Il volume fotografico dedicato alle messinscene pirandelliane
di Oliviero Ponte di Pino

 

Tommaso Le Pera è senza dubbio uno dei maggiori fotografi teatrali italiani, uno dei pochi che sia riuscito a fare della fotografia di scena una professione cui è rimasto sempre fedele, a differenza di molti altri colleghi al teatro hanno dedicato solo un periodo della loro attività professionale o hanno affiancato la fotografia teatrale ad altri terreni di lavoro e di ricerca.





Mariangela Melato.

Andrebbero forse indagate le caratteristiche che hanno portato a questa eccezionalità. Forse la prima è che Le Pera è prima di tutto un fotografo di attori. Le sue sono in genere immagini di assoluta nitidezza, tecnicamente impeccabili, che usa con grande parsimonia effetti che affascinano altri suoi colleghi (le immagini mosse per cogliere la dinamica del gesto, i fuori fuoco, le sovra e sottoesposizioni d’atmosfera, i controluce per evidenziare cromatismi e resa grafica dello spettacolo), per restituire immagini di cartesiana nitidezza, bene illuminate, ripulite da ogni margini di ambiguità percettiva. Dal punto di vista dell’interprete, tuttavia, le immagini di Le Pera hanno un altro pregio, che in apparenza contraddice le caratteristiche di queste immagini: grazie a questa lucidità, a questa freddezza quasi scientifica, quasi, riesce a cogliere il momento forse più «caldo» dell’arte dell’attore, quello impalpabile in cui il volto diventa maschera. E’ una consapevolezza che lo spettatore teatrale – immerso nel buio di una platea, lontano spesso diverse decine di metri dagli attori, a inseguire un corpo in movimento nella luce spesso incerta della scena – può avere solo vagamente, in maniera labile, persa nel flusso della percezione e della memoria. Nelle fotografie di Le Pera questa intuizione, spogliata da ogni ambiguità, si scolpisce come un’evidenza indiscutibile.



Monica Guerritore e Gabriele Lavia.

Si capisce dunque perché i soggetti dei suoi ritratti di scena abbiano apprezzato e continuino ad apprezzare il lavoro del fotografo calabrese, e come la qualità delle sue immagini, accompagnata da una indiscutibile affidabilità, abbiano potuto sostenere la sua lunga carriera: più o meno quarant’anni di lavoro, con oltre 4000 spettacoli fotografati, e la costruzione di uno straordinario archivio che documenta in maniera straordinaria la recente storia del teatro italiano.
Da questo archivio, Guido Talarico Editore ha deciso di ricavare una collana di libri ampiamente illustrati. Il teatro nelle fotografie di Tommaso Le Pera, un progetto assai ambizioso che prevede per ora una dozzina di volumi di circa 400 pagine e 700 immagini ciascuno, è ordinato per autori. Il primo è dedicato al teatro di Pirandello, con una galleria di interpreti che va da Eduardo a Randone, da Scaccia a Stoppa,, da Salerno a Pagliai, da Orsini, Mauri e Tieri a Bosetti e Bucci, Rigillo e Micol, passando per Paola Borboni, Anna Maria Guarnieri, Lina Sastri, Mariangela Melato... Insomma, se lo sguardo privilegia l’interprete, i criteri di scelta e di ordinamento privilegiano l’autore (anche se a volte Le Pera ha fotografato anche gruppi di ricerca) rispetto, per esempio, alla regia.

Il teatro nelle fotografie di Tommaso Le Pera
1.Pirandello
Guido Talarico Editore
400 pagine, 78 euro


 


 

Tre CD (audio) teatrali
Gramsci Bar, Pasolini, Calvino-Paolini-Fresu
di Redazione ateatro

 

Gramsci Bar, nun entertainment

Valerio Peretti Cucchi era mille cose: collaborava a Striscia la notizia, faceva un sacco di radio, andava a Cuba con David Riondino scriveva libri con titolo come Buon Natale bastardi divertenti e cattivi, scriveva testi teatrali (Buongiorno Bruno è stato uno dei successi della Maratona di Milano: ne trovate notizie sul sito di teatri 90). E naturalmente amava molto la musica.
Un anno fa, se n’è andato, all’improvviso.
Tra i mille progetti che aveva lasciato in sospeso, una vita di John Belushi per la radio (è andata in onda nelle scorse settimane su Radiotre, con Paolo Rossi che faceva Belushi) e uno strano disco: una serie di canzoni che sono dei classici della canzone popolare e politica (dall’Internazionale a Gorizia, dai Morti di Reggio Emilia a Addio Lugano bella) ma riarrangiati e rimixati con rispetto e ironia da Mirella Baccari e Mauro Sabbione. Insomma, adesso c’è il disco e nel disco c’è molto di Valerio e del suo modo di vedere il mondo. A Cesare Bermani (massimo rispetto) il brano che è piaciuto di più è una versione swing-disco-techno-word musica di Sebben che siamo donne.


Pier Paolo Pasolini. La via smarrita ideato e diretto da Rosario Tedesco, Nuovo Teatro Nuovo

Una serie di brani poetici pasoliniani, tratti dall’Usignolo della chiesa cattolica, Le ceneri di Gramsci, La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa, Empirismo eretico, Trasumanar e organizzar, reinventati dai giovani attori che lavorano da tempo con Antonio Latella. Un lavoro sulla poesia, naturalmente, ma anche sul suono e sulla voce.
Per info lusama@supereva.it


Marco Paolini - Tanit, Marcovaldo ovvero le stagioni in città di Italo Calvino, Full Colour Sound, 12 euro

Sono quattro brani (uno per ciascuna delle quattro stagioni) tratti dal celebre romanzo di Italo Calvino, raccontati da Marco Paolini con le musiche di Tanit (ovvero Paolo Fresu, Fulvio Maras, Carlo Mariani, Massimo Nardi e Gialuca Ruggeri). Calvino+Paolini+Fresu. Che aggiungere?


 


 

Dall'archivio di "ateatro": Così fan tutte di Wolfgang Amadeus Mozart
Regia di Giorgio Strehler, Teatro Strehler, Milano, 1997
di Oliviero Ponte di Pino

 

Doveva essere l’inizio di una nuova avventura, il Così fan tutte di Mozart nella messinscena di Giorgio Strehler. L’avventura dove iniziare con l’inaugurazione, dopo vent’anni di lavori, tangenti e polemiche, dopo le false e ridicole inaugurazioni "padane" dello scorso anno, della nuova sede del Piccolo Teatro. E con il primo appuntamento del Piccolo 2000, ovvero quell’utopico "Teatro d’Arte Totale" in cui far incontrare teatro, musica, opera lirica, danza, televisione, arti visive… Un progetto ambizioso, quello delineato dal regista per la "rifondazione" del suo teatro, volto al culto del Bello ma pronto a confrontarsi e scontrarsi con l’attualità e con le moderne forme di comunicazione, che offra la possibilità di partecipare a quella "straordinaria avventura dello spirito che è il teatro", e rivolto soprattutto ai giovani (malgrado i prezzi dei biglietti al Nuovo Piccolo Teatro – 65.000 e 60.000 lire – non siano proprio popolari, e più in linea con quello dei concerti dei megagruppi rock).
Invece l’opera di Mozart, andata in scena un mese dopo l’improvvisa morte del regista (che ne aveva abbozzato l’impianto in una prima intensa sessione di prove), assume inevitabilmente il valore di un testamento, e insieme di un punto di riferimento per chi voglia in qualche modo raccoglierne l’eredità, dentro e fuori dal teatro milanese.
Allora, forse, più che sullo spettacolo in sé (che dopo la scomparsa del regista è stato "realizzato", come si legge nel programma di sala, dal direttore Ion Marin, da Carlo Battistoni, Marise Flach, Ezio Frigerio e Franca Squarciapino), vale la pena di riflettere sui motivi di una scelta insolita per un teatro di prosa. Aprire con un’opera significa innanzitutto rompere con la divisione in generi, a favore di una nuova sintesi. Significa soprattutto misurarsi con la tradizione, nelle sue punte più alte, per cercare di porsi – noi contemporanei – alla sua altezza: e questa è una sfida lanciata sia agli artisti che al pubblico, e che presuppone un maestro in grado di trasmetterne il senso riposto, e i segreti (e magari anche i trucchi).
Poi c’è naturalmente la decisione di partire dall’amatissimo Mozart: e la scelta punta con decisione verso la leggerezza (vengono in mente le Lezioni americane di Calvino), confermata anche dai frizzi ironici degli straniamenti e delle gag, soprattutto nella prima parte dello spettacolo. E’ una leggerezza nutrita di musica, che punta alla vertigine, all’ebbrezza sensuale, forse anche al sublime, e che però non sembra mai poterla raggiungere. Viene interpretata alla perfezione dai costumi di Franca Squarciapino: vaporosi e quasi indecenti, pastelli chiarissimi che si fanno accarezzare dalla luce e alludono a una intimità popolata di fremiti e inquietudini.
Lavorare sulla leggerezza e procedere per sottrazioni significa anche condensare l’orizzonte dello spettacolo, quel teatro del mondo che è il palcoscenico, in pochissimi segni. È la lievità monumentale della scena di Ezio Frigerio, anch’essa accarezzata da un chiarore morbido, mai abbagliante: due quinte mobili, un fondale che diventa cielo, orizzonto o parete, un molo dietro il quale sfila una barca… E pochi arredi, a caratterizzare gli interni, nell’astrattezza di uno spazio dove far vibrare i corpi e le voci.
Tutto questo implica – è chiaro – l’accettazione di tutte le convenzioni del gioco teatrale. E’ solo all’interno di questo codice e delle sue regole, contro ogni tentazione realistica, che per Strehler è possibile trovare la verità sulla scena: ma forse solo nel momento in cui la convenzione viene forzata fino all’estremo, bruciata dall’interno con il fuoco della poesia – o della vita. Quando un gesto, un’intonazione, lo sfiorarsi di due corpi, possono finalmente rivelare la loro autentica essenza. Da questo punto di vista la scelta di lavorare con dei giovani (il trentasettenne direttore Ion Marin, l’Orchestra Giuseppe Verdi di Milano, il coro della Civica Scuola di Musica di Milano, gli allievi della Scuola del Piccolo, e soprattutto il cast dei cantanti) offre più flessibilità rispetto alle grandi istituzioni. E soprattutto una freschezza e duttilità, un gusto d’avventura e uno slancio esistenziale che promettono di bilanciare il peso dei classici e riempiono di significati la trasmissione del sapere dell’anziano maestro.
Infine c’è il senso più profondo nella scelta di questa opera, di Così fan tutte, intimamente legata al percorso dell’ultimo Strehler e alla sua riflessione sulla natura profonda del teatro e del lavoro del regista. Perché al centro del libretto di Da Ponte – un apologo dagli accenti vagamente misogini sull’incostanza femminile – sta il meccanismo tutto teatrale dei travestimento. Per scommessa, istigati dal più anziano ed esperto Don Alfonso (Alexander Malta), gli ufficiali Ferrando (Jonas Kaufman) e Guglielmo (Nicolas Rivenq) vogliono dimostrare la fedeltà delle loro amanti, le sorelle Fiordiligi (Eteri Gvazava) e Dorabella (Teresa Cullen). I due uomini seguiranno le istruzioni di Don Alfonso, che vuol dimostrare loro la leggerezza degli affetti: fingeranno di partire per la guerra, torneranno travestiti da esotici albanesi e si presenteranno alle due fanciulle. A quel punto, dopo un incrocio di coppie, ciascuno dei due metterà alla prova la fedeltà della donna dell’amico.
La maschera e la finzione – il teatro – offrono dunque ai due ufficiali il modo di conoscere la verità sulle loro innamorate. Ma al tempo stesso svela proprio la verità che non vorrebbero conoscere: la fragilità dei sentimenti – anche dei loro stessi sentimenti, travolti dalla febbre della sensualità, dalla vertigine del doppio, dall’imprevedibilità del desiderio. Al di là del lieto fine, è una lezione amara, quella cercata attraverso il gioco divertito e leggero del teatro, evocata dal potere della musica e della sensualità, e trovata sul palcoscenico. Il teatro non offre un’occasione di liberazione. Non regala il magico fascino del gioco spettacolare. Piuttosto è un cammino di conoscenza (e soprattutto autoconoscenza) che non necessariamente porta gratificazioni e consolazioni.
Questo percorso paradossale (perché conduce a una sconsolata verità attraverso la mistificazione) ha naturalmente un demiurgo. Il fulcro della vicenda è Don Alfonso – uno dei tanti alter ego "registici" che popolano gli spettacoli di Strehler, in particolare gli ultimi. Esperto delle cose del mondo, disilluso quanto basta, è lui (con la complicità della serva Despina di Soraya Chaves) che mette in moto e governa, passo dopo passo, gesto dopo gesto, parola dopo parola, la partita dei travestimenti. Quella che offre questo maestro del disincanto può apparire come una educazione al cinismo e alla leggerezza, o una superiore e disincantata forma di saggezza. Il punto d’approdo, una amorevole comprensione della natura umana e delle sue debolezze.

Questo testo è stati oroginariamente pubblicato sul "manifesto", gennaio 1998.


 


 

Lettera aperta al teatro italiano
(e a un paese che ci sta vomitando)
di Fanny & Alexander

 

Ravenna, 23 dicembre 2003

Cari colleghi,

Fanny & Alexander sta forse tirando le cuoia. La possibilità che questa evenienza non si verifichi è legata a se e come riusciremo a creare entro le prossime settimane un gruppo di coproduttori per il nostro prossimo progetto teatrale, e a come risponderanno le forze produttive di Ravenna sul sostegno alla nostra attività cittadina. Come accade con sempre maggiore regolarità da alcuni anni, le speranze vengono quasi esclusivamente dall'estero e da Ravenna. Oltre la nostra città, al di qua delle Alpi, si stende per noi una mappa geografica teatrale che recita "hic sunt leones", fatta eccezione di quando in quando per poche benedette isole di accoglienza temporanea.

E siamo fortunati, perché molti riterrebbero ­ con validissime ragioni ­ che il livello di generale apprezzamento per il nostro lavoro raggiunto in più di dieci anni di vita operosa costituisca di per sé una garanzia contro il pericolo di oblio.

Di fatto, questo Paese ci sta vomitando. E più delle kafkiane vicende legate ai contributi pubblici, che sono pochi, spesso vincolati al superamento di moderne ordalìe, in perenne colpevole inimmaginabile ritardo, ma che comunque alla fine arrivano, quello che ci danneggia e ci addolora è la vostra assenza, la difficoltà estrema di avere un rapporto professionale con voi, di partecipare ai vostri progetti.
Inoltre ci sembra che il livellamento generale delle scelte e delle tendenze, che ci spinge sempre più a cercar fuori gli interlocutori, nonostante i rapporti apparentemente amichevoli, contribuisca e alimenti un clima di cordiale indifferenza e, ci si passi la parola, di ipocrisia culturale. Tutto questo è il contrario di quello che ci si dovrebbe aspettare da persone che lavorano in nome di un'idea, e che operano per far nascere e crescere tessuti di cultura.

Nessuno è obbligato evidentemente ad interessarsi a qualcun altro per statuto ­ ci mancherebbe ­ ma per quello che riguarda, ad esempio, il nostro caso personale, francamente, dopo aver mostrato quest'estate in contesti assai visibili uno spettacolo che ha ricevuto elogi di critica e plausi dal pubblico quasi impudicamente unanimi, non dico che ci aspettassimo di trovare in un sol colpo cento piazze italiane, ma di avere una prospettiva di date future leggermente superiore al numero zero, questo sì. E non siamo purtroppo soli, ci giungono voci amiche molto preoccupate: Danio Manfredini, Teatrino Clandestino, Valdoca, Motus, Masque, Alfonso Santagata... siamo cortesemente invitati a scomparire? Non si parla mai di Raffaello Sanzio, perché sono ricchi e famosi, ma perché gli artisti di teatro italiano più celebrati nel mondo faticano a trovare due date in croce all'anno in Italia? Perché i migliori danzatori italiani vivono e lavorano quasi tutti all'estero (o in Toscana)?

Siamo tutti in gravi difficoltà finanziarie, lo sappiamo, ma questo non impedisce evidentemente di continuare a fare delle scelte artistiche, di inventare e proporre teatro. Cari colleghi assassini, ci mancate, quanto ci mancate! Peccato che non vi manchiamo un pochino anche noi.

Buon Natale e Felice Anno Nuovo,

Luigi de Angelis
Sergio Carioli
Marco Cavalcoli
Chiara Lagani
Marco Molduzzi


La lettera aperta di Fanny & Alexander ha suscitato un ampio dibattito nel forum Fare un teatro di guerra?. Se vuoi leggere commenti e pareri (e magari dire la tua), clicca qui.


 


 

Oltre l'"italiese"
Teatri delle lingue, quarta edizione
di Angela Felice

 

"Italiese" pareva a Italo Calvino l’italiano da dizione pettinatissima praticato da molto teatro di routine. Lì una sorta di sindrome della Crusca scenica inclinava (e in molti casi inclina ancora) al museo della parola pregiudizialmente perfetta, perciò da preservare dalle impurità del parlato. A questa comunicazione artificiale, mortuaria e certo autoreferenziale, ha però reagito dagli anni Ottanta molta parte del più vitale teatro giovane di ricerca, che invece proprio nella sporcizia o nella verità dell’uso, anche dialettale, ha voluto mettere le mani, recuperandovi suoni, colori, vita. Sono allora riaffiorate lingue sporche, dalla cintola in giù, compromesse con il corpo, il sudore, la saliva; lingue della memoria, non della nostalgia; lingue private degli affetti, della cucina, del lavoro, non del patetismo oleografico; lingue dei nonni con cui i nipoti attori-autori giocano al gioco delle generazioni; lingue tagliate, assediate oggi da un montante anglocrazia o dalla tentazione di gerghi giovanili anoressici, nel minimalismo post-pinteriano di una scena da sms; lingue anche perdute nella pienezza dei loro suoni, ma recuperabili come partiture su cui inventare echi proustiani di remote sensibilità. Un vistoso e frastagliato fenomeno, dunque, da vera devolution della lingua teatrale, su cui dal 1999 indaga il Convegno Nazionale "Teatro delle lingue", promosso su idea di chi scrive e di Mario Brandolin dal Teatro Club e dall’Ert, con una fitta cordata di partner locali e nazionali, impegnati a sostenere una manifestazione che nel tempo ha fatto di Udine la sede di un appuntamento annuale davvero privilegiato e unico nel settore.
Dopo le prime tre edizioni, la quarta, da poco conclusa, ha inteso perciò tirare le fila dei risultati fin qui raccolti e discutere insieme agli amici della prima ora, studiosi e critici, se e in quale direzione proseguire. Questo spirito da seminario senza paracadute ha animato presso la "Nico Pepe" una vivace tavola rotonda, cui hanno partecipato Paolo Puppa, che ha disegnato la vitalità sempre attuale della scena dialettale, sullo sfondo di quell’autentico laboratorio di metamorfosi linguistica che è stata ed è ancora la pluristratificata comunicazione italiana; Antonio Calbi, puntuale osservatore delle esperienze più recenti del teatro di ricerca; Nico Garrone, attento a cogliere le fertili contaminazioni tra le lingue popolari e il teatro d’avanguardia; Renata Molinari, Dramaturg e guida sensibile di attori, invitati sempre a coniugare verità di sentimenti, ricchezza di parola, organicità della performance; Paolo Patui, che con passione da polemista ha tracciato i rischi di strumentalizzazione del teatro in friulano, se sovvenzionato e garantito, a fronte della prospettiva più vitale di una più urgente compromissione con i temi e le lingue dell’oggi; Elio Bartolini, incantevole esploratore delle suggestioni implicite già nel titolo del Giardino dei ciliegi, entro una concezione della lingua che anche a teatro serve a riconfigurare una cultura, non a consolidare o a irrigidire una identità.
Da tutti, inoltre, un forte invito a tenere aperto l’osservatorio udinese, in cui continuare a sondare il senso profondo della scena attuale. Non uno stop, dunque, ma – come suonava il motto di questa edizione 2003 all’insegna dei lavori in corso – il "punto e a capo" di un quaderno di appunti sempre aperto a un permanente aggiornamento.


 


 

Alla ricerca di un teatro di ricerca
Il teatro sperimentale a Pistoia negli anni Settanta
di Roberto Niccolai

 

Sin dalle rivolte antifascite genovesi del 1960 una nuova generazione di giovani si fece avanti e da lì per almeno vent’anni fece sentire la propria voce. Quella voce, che oggi piace a molti inquadrare in banali e ideologici stereotipi, forse non fu la miglior gioventù ma certamente cambiò una parte di quel mondo che si era proposta di voler trasformare completamente in maniera collettiva, dialettica e in gran maggioranza pacifica: dalla musica alla scuola, dal cinema alle carceri, dalla psichiatria ai fumetti, dalla religione alla politica moltissimi furono i temi affrontati. Il teatro fu tra questi e non solo a livello internazionale o nazionale: la necessità di rivoluzionarlo andò oltre le classiche città universitarie in cui nacque il movimento che oggi viene definito del "Sessantotto" e tale esigenza fermentò anche in "tranquille" città come Pistoia.
Il capoluogo toscano non è però citato a caso perché a Pistoia nacque, tra il 1966 e il 1968, il primo Centro di Documentazione Nazionale che contemporaneamente documentava ma che era anche al servizio dei Movimenti di quegli anni: la raccolta e la diffusione delle riviste, dei bollettini, dei ciclostilati, dei volantini e dei saggi prodotti dalle varie correnti di quella tellurica, multiforme, onda sociale contribuì allo scambio delle idee di questi "cento fiori" italiani e non solo italiani.
Ed è a distanza di oltre trent’anni che il Centro Documentazione di Pistoia, con l’importante contributo dell’assessorato alla cultura della Provincia di Pistoia, ha iniziato una complessa ricerca sugli anni Sessanta e Settanta estesa all’intero territorio provinciale attraverso la raccolta di una cinquantina di testimonianze orali e alla comparazione con i documenti conservati al Centro o rintracciati presso i privati; un lavoro che porterà alla produzione di un saggio nel 2004 e alla creazione di un archivio digitale che sarà possibile consultare presso il Centro di Documentazione di Via degli Orafi 29.
Da questo lavoro, coordinato dal sottoscritto, sta emergendo una profonda ricchezza di attività e di tematiche svolte e sviluppate in quegli anni, una collettiva poliedricità che difficilmente può essere racchiusa nel cliché del "Sessantotto" fatto "solo" di studenti e operai. Di tale ricchezza abbiamo avuto modo di parlare giovedì 18 dicembre 2003 al Centro Interculturale del Comune di Pistoia, durante il secondo incontro di Agitazioni Culturali, organizzato dalla Cooperativa Pantagruel, dal Centro Interculturale del Comune di Pistoia e dalla Regione Toscana all’interno del progetto regionale Portofranco, strutturato a livello di Provincia di Pistoia in Tracce in movimento 2003 e intitolato Alla ricerca di un teatro di ricerca.



Pistoia, anni Settanta: Stefano Arrighi.

Con questo incontro sul teatro, come per quello precedente dedicato alla musica e quello successivo sulla via pistoiese al fumento, abbiamo cercato di far incontrare le idee, le speranze e i progetti dei giovani degli anni Sessanta e Settanta con quelle dei giovani del nuovo millennio. Il teatro stava infatti dentro i movimenti giovanili di allora e di oggi ed entrambi possono collocarsi nel teatro di ricerca e/o sperimentale. Abbiamo quindi collegato un certo tipo di teatro internazionale qual era quello del Living Theatre con quello sorto con i collettivi teatrali pistoiesi degli anni Settanta. La serata è stata aperta da Anna Maria Monteverdi, che ha parlato delle caratteristiche teatrali e filosofiche del Living Theatre e della "bella rivoluzione anarchica non violenta" come veniva definita da Julian Beck. Dopo di lei la scena si è spostata su Pistoia e le esperienze di teatro sperimentale sorto in città dopo il 1973, una data che segna una sorta di primo riflusso dei Movimenti di contestazione sorti nel decennio precedente. Non è un caso che molti di coloro che faranno teatro sperimentale a Pistoia provenissero da gruppi come Servire il Popolo, il circolo anarchico Franco Serantini o altri gruppi marxisti-leninisti come il Circolo Lenin. L’idea della rivoluzione si trasferisce nel cambiamento dell’individuo e nell’arte, dove vengono rappresentati spettacoli con testi di Heinrich Böll o Fernando Arrabal.



Pistoia, anni Settanta: Andrea Gamboni.

Nonostante a Pistoia ci fossero stati tentativi di teatro politico anche negli anni precedenti (come uno spettacolo per bambini con regia di Pierluigi Zollo e interpretato da molti militanti di Lotta Continua) è Andrea Gamboni che nell’inverno tra il ’73 e il ’74 porta in città le sue conoscenze del teatro povero di Grotowski e del lavoro dell’attore con un occhio verso Giuliano Scabia. Con Gamboni fondano il Collettivo Teatro Documenta Marco Morelli, Massimo Ieri, Alda Niccolai, Stefano Arrighi ed altri ancora. Dopo un paio di spettacoli Morelli e Arrighi creano il Collettivo Teatro Ovunque e cominciano a lavorare, racconta Stefano Arrighi, in stage con l’Odin Theatre, i Fratelli Colombaioni e teatro balinese mentre Massimo Ieri si trasferisce a Roma con la Cooperativa Ruota Libera e poi a Parigi nella compagnia di Yves Lebreton. Luciano Baldini, in arte Baldovino, ha creativamente parlato dell’Arci pistoiese del ’75, da lui diretta, e nella quale entrarono molti esponenti del gruppi di teatro sperimentale cittadino; un interesse per il teatro continuato con il Teatro di Baldovino e con l’esperienza con Leo De Berardinis agli inizi degli anni Ottanta. Vanni Menichi fondò invece il Centro Studi e Ricerche Espressive che seppe "clonarsi" anche in altre città italiane mentre Piero Corso, oggi attore del gruppo di Pippo Delbono, ha descritto insieme a Stefano Frosini il Teatro di Ricerca Affettiva fondato a Pistoia da Ronald Bunzl alla fine degli anni Settanta. Alla serata ha partecipato anche Luca Privitera, della più recente Compagnia Ultimo Teatro e che ha permesso un confronto serrato e di rottura tra il teatro di oggi e quello rappresentato tre decenni orsono.

Studioso pistoiese di storia contemporanea, si occupa di storia dei Movimenti degli anni Sessanta e Settanta e di emigrazione italiana (ha pubblicato Quando la Cina era vicina per i tipi della BFS edizioni, Parlando di Rivoluzione per i tipi del Centro di Documentazione editrice e E tutti va in Francia, in Francia per lavorare per i tipi della Nuova Toscana Editrice). È uno dei responsabili del Centro di Documentazione di Pistoia, collabora con il Centro Pistoiese di Documentazione per l’Emigrazione "Mario Olla" e con il Centro Interculturale del Comune di Pistoia.


 


 

Giulio Bosetti e otto amici comprano il Teatro Carcano
La sala milanese rischiava di chiudere
di Redazione ateatro

 

Giulio Bosetti e otto amici hanno deciso di comperare lo storico Teatro Carcano di Milano, fondato due secoli fa. "C'e' chi con i soldi che ha messo da parte si compera un motoscafo - spiega Bosetti, 73 anni - e chi, come me e i miei amici, si compera un teatro. La nostra e' una scelta per rimanere fedeli a quel che sognavamo quando, a 20 anni, decidemmo di calcare le scene. Adesso finalmente io e i miei colleghi potremo continuare a lavorare con più serenità , portando avanti l' idea del teatro di prosa, che amiamo e in cui crediamo, in un momento in cui tutti sembrano lanciarsi solo sul musical".
Prima di decidere di acquistare il teatro, che il suo gruppo gestisce dal ’97, Bosetti ha cercato, invano, aiuto dagli enti pubblici, dopo che, tre anni fa, era stato chiesto alla compagnia il raddoppio del canone di affitto. «Ci avevano annunciato un aumento da 300 a 600 milioni di lire l’anno, una cifra per noi impossibile» spiega l’ attore e regista. «Così per tre anni abbiamo versato un anticipo di 150 milioni annui avviando le pratiche per l’acquisto. Abbiamo intanto battuto alle porte di Regione, Provincia e Comune, ma invano. Ombretta Colli, presidente della Provincia in verità si è detta disponibile ad aiutarci, ma ci voleva l’assenso anche degli altri enti. Eppure noi non chiedevamo elemosina ma proponevamo un affare, gli enti pubblici avrebbero infatti acquistato le proprietà. Anche con le banche abbiamo avuto difficoltà, perché se chiedi un mutuo per la casa te lo danno, ma se lo chiedi per un teatro evidentemente ti prendono per matto... Poi, finalmente, la Popolare di Milano ci ha concesso il mutuo".
Accanto a Bosetti si sono gettati nell’iniziativa Sergio Fantoni, Marina Bonfigli, Fioravante Cozzaglio, Riccardo Pastorello, Graziano Nevi, Luigi Stipelli e Primo Daolio.


 


 

Clic parade 2003
Le pagine più viste dell'anno
di Redazione ateatro

 

Qui sotto i link alle pagine più viste del 2003 (la prima è la più cliccata). Scopri quali sono (e se vuoi commenta...).

http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=53&ord=2
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=47&ord=5
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=47&ord=11
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=46&ord=8
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=54&ord=14
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=60&ord=94
http://www.trax.it/olivieropdp/mostrashakespeare.asp
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=56&ord=32
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=55&ord=90
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=53&ord=1
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=14&ord=5
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=55&ord=51
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=38&ord=8
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=59&ord=2
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=58&ord=1
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=45&ord=7
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=60&ord=82
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=42&ord=10
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=52&ord=22
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=55&ord=1
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=46&ord=3
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=45&ord=4
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=56&ord=1
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=45&ord=6
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=60&ord=88


 


 

Assegnato il Premio Internazionale di Architettura Teatrale
A tre progetti di uso e riuso del contenitore teatro
di Redazione ateatro

 

Il Premio Internazionale di Architettura Teatrale, Promosso dalla Fondazione Carima e dall’Associazione "Summa Cavea", è dedicato ai quei progetti che dimostrino attenzione mirata agli interventi di nuovi impianti o alla restituzione alla collettività degli edifici teatrali.
Il Premio intende segnalare ed evidenziare, attraverso le indicazioni della Giuria, progettisti, imprese, ed Enti locali che hanno attuato le migliori iniziative di restauro e di recupero, di Uso e Riuso, o di nuova costruzione del contenitore Teatro, attraverso interventi operativi applicabili al settore dell’ARCHITETTURA TEATRALE.


AMBITI DI VALUTAZIONE
· Nuovi Complessi Teatrali
· Restauro Architettonico Teatrale
· Restauro Decorativo
· Restauro Arredi
· Progettazione Arredi Nuovi
· Interventi di Tecnologia Acustica
· Macchine e Strutture di Scena
· Ricerca e Sperimentazione (ambito Universitario e/o Istituti Ricerca, ecc.)
· Si intendono opere e strutture realizzate e ultimate negli ultimi 3 anni:dal 2001 al 2003.

La giuria, coordinata dal prof. Paolo Marconi (e composta, tra gli altri, dal presidente INARCH Adolfo Guzzini, dal prof. Marino Folin, dallo scenografo Giancarlo Basili, ecc.) ha esaminato più di 50 strutture teatrali e ha poi così deciso per i 3 premi principali

Aldo Rossi Associati, per la Fenice di Venezia
Valeriano Trubbiani per il Sipario Tagliafuoco del Teatro delle Muse di Ancona
Architetti: Stanislaw Fiszer (Parigi) e Jan Raniszewski (Danzica), e al direttore Maciej Nowak per il Teatro Carbonifero di Danzica


Per la categoria PROGETTISTI, il Premio è andato allo Studio Arassociati di Milano, per il Progetto di ricostruzione del Teatro La Fenice a Venezia, lavoro racchiuso nell’idea di Aldo Rossi e portato a compimento dagli architetti: Arch. Marco Brandolisio, Arch. Giovanni Da Pozzo, Arch. Massimo Scheurer, Arch. Michele Tadini – unitamente al Maestro Mario Carosi per l’apparato decorativo.

PREMIO per MACCHINE E STRUTTURE DI SCENA allo scultore Valeriano Trubbiani, per il Sipario Tagliafuoco del Teatro delle Muse di Ancona:
quando la struttura tecnica diventa opera d’arte.


La giuria ha così motivato : per aver dotato un moderno teatro di un’opera d’arte, unica nel panorama europeo, che coniuga sapienza e bellezza con perfezione tecnica e funzionalità. Una grande ed intrigante macchina barocca, evocatrice e rassicuratrice, custode dell’illusione scenica.

PREMIO per PROGETTISTI Architetti: Stanislaw Fiszer (Parigi) e Jan Raniszewski (Danzica), e al direttore Maciej Nowak, per ristrutturazione ed adeguamento del Teatro Carbonifero di Danzica, ai sistemi tecnologici moderni di avanguardia internazionale, in particolare per gli impianti di acustica e scenotecnica.
Il Teatro occupa un ruolo preminente a livello europeo e di massima eccellenza a livello polacco. Degno di nota è l’accostamento, all’interno del teatro, degli elementi stilistici di epoche diverse e di varie provenienze. Le attività teatrali sono rivolte esclusivamente al genere di rappresentazioni drammaturgiche classiche e moderne. L’attività si ispira sul modello di quella svolta a Milano dal Piccolo Teatro di Giorgio Strheler. Il Premio a Fiszer, giunto con volo privato da Parigi, è stato consegnato da Beata Jachiewicz, membro della Giuria, che ha curato i rapporti con l’Ambasciata Polacca.

5 MENZIONI per SPECIFICHE PROFESSIONALITA’

MENZIONE PER DITTE SPECIALISTICHE: Teatro Globe di Roma - collocato a Villa Borghese- a Claudio Devoto, per la ricostruzione del Globe Theatre di Londra, un autentico duplicato di quello shakespeariano, con lo stesso assemblaggio del legno di quercia materia prima della costruzione. Uso esclusivo del legno.
MENZIONE per IMPRESE e management: Alla Fondazione Cassamarca e al suo presidente Dino De Poli
per la costituzione della TEATRI SPA e per il relativo progetto imprenditoriale, quale modello ideale per la valorizzazione architettonica e gestionale del bene culturale Teatro, per la sua migliore fruizione e destinazione d'uso.
MENZIONE per Enti Locali-Al Comune di Pollenza- Teatro Giuseppe Verdi
Due meriti fondamentali: un primo aspetto riguarda il rapporto tipico dei teatri marchigiani con il territorio e con la città, mantenendo una propria riconoscibilità urbana. Il secondo perché si rende omaggio alla figura del suo architetto progettista Ireneo Aleandri, l’architetto dello Sferisterio di Macerata e di molti tra i più bei teatri delle Marche e dell’Umbria.
MENZIONE per recupero e riuso strutture teatrali- TEATRINO DI VETRIANO- Il Teatro più piccolo del mondo recuperato dal FAI (località Carraia-Comune di Pescaglia, prov. di Lucca).


A LOREDANA CIPRIANI CIABATTI, presidente Delegazione di Lucca del Fai, Sovrintendente del Teatrino di Vetriano. Per avere condotto in porto celermente e sapientemente, l’operazione di recupero, dopo anni di incuria e di abbandono. Intervento di restauro architetto progettista Guglielmo Mozzoni.
MENZIONE SPECIALE per Enti Locali -Al Comune di Bitonto e agli architetti progettisti
Arch. Domenico Pazienza, Arch. FrancescoCarbone, Ing. Modesto Lo sito, Ing. Vincenzo Galliani, Ing.Giovanni Tatulli. Il recupero del Teatro Umberto I ha consentito il ritrovamento dei resti della cinta muraria normanna e di un antico accesso alla città (la Porta Cupa). I ritrovamenti archeologici, coperti da lastre di cristallo,sono oggi collegati al rinnovato teatro.


Il Premio Internazionale di Architettura Teatrale, ideato dall’architetto Giancarlo Capici insieme con Gabriella Papini, che ne è anche il direttore, ha la finalità di valorizzare e mettere in luce la capacità progettuale e le professionalità di quanti concorrono alla realizzazione, conservazione e gestione del bene culturale Teatro. Il Premio intende segnalare ed evidenziare, attraverso le indicazioni della Giuria, progettisti, imprese, ed Enti locali che hanno attuato le migliori iniziative di restauro e di recupero, di Uso e Riuso, o di nuova costruzione del contenitore Teatro.


 


 

Biennale: Urbani sceglie Davide Croff?
Le voci sul nuovo presindete dell'ente
di Redazione ateatro

 

Franco Bernabè (seppur nominato dal ministro) e il suo cda hanno (pare) fatto il loro tempo. Con la riforma dell'ente, si fanno sempre più insistenti le voci sulla nomina dell'imprenditore Davide Croff, 54 anni, presidente della Fondazione Levi, già direttore finanziario della Fiat e amministratore delegato della Bnl.
"Come mi sono battuto per la difesa dell'autonomia della Biennale, così ora rispetto quella del ministro Urbani nella scelta del presidente dell' istituzione". Così il sindaco di Venezia Paolo Costa ha risposto ai giornalisti, che gli chiedevano se fosse vero che dietro alla possibile candidatura di Davide Croff al posto di Franco Bernabè vi fosse un proprio diretto interessamento con il ministro.
L'intervento è in linea con l'auspicio di un presidente veneto espresso dal governatore veneto Giancarlo Galan. Nelle scorse settimane, prima che uscisse il nome di Croff, Galan aveva espresso una indicazione a favore dell'editore veneziano Cesare De Michelis.

Per saperne di più sul caso Biennale.


 


 

Beppe Grillo testimone sul crac Parmalat: ma forse era meglio affidare la CONSOB a un comico
Quando la satira è (anche) informazione
di Oliviero Ponte di Pino

 

Beppe Grillo è stato sentito in qualità di testimone per il caso Parmalat. In un suo spettacolo qualche tempo fa il comico genovese aveva illustrato con dovizia di particolari la difficile situazione della multinazionale del latte. Insomma, quello che le grandi banche italiane e straniere, la Consob e la Banca d’Italia non dicevano ai risparmiatori, un «buffone» lo raccontava ai suoi spettatori, facendoli sganasciare dalle risate.
"Tanzi ha commesso un unico errore. Avrebbe dovuto fondare Forzalat e scendere in politica", ha detto Grilllo, che ha consegnato alla magistratura anche materiali su Telecom e Fiat.
Ovviamente da tempo Beppe Grillo (come molti altri) in televisione non ci va, perché – dicono – il «rischio querele» è troppo alto e i pubblicitari minacciano il boicottaggio. Sulla cosa dovrebbero riflettere (almeno un secondino) tutti coloro che hanno attaccato Raiot, il programma di Sabina Guzzanti su Raitre, in base al principio della divisione tra i generi: da un lato c’è la satira, dall’altra l’informazione, che devono restare ben separate: e il comico che osa fare informazione deve essere censurato perché esce dal suo specifico, senza operare la necessaria elaborazione linguistica e senza ottemperare alla par condicio.
Naturalmente se tutti facessero bene il loro mestiere, i comici non dovrebbero fare gli analisti finanziari, gli storici o i commentatori politici. Ma in un paese dove non si può dire la verità, e dove la verità fa troppo spesso sganasciare dalle risate (per non piangere), possiamo solo ringraziare i comici che continuano a fare quello che hanno sempre fatto: farci ridere mentre ci danno il loro punto di vista sulla realtà – e magari regalarci qualche informazione che i media ci nascondono.
Visto quello che vicenda Parmalat i vari organi di controllo, le banche e i media non sono stati in grado di spiegare quello che stava succedendo,forse è il caso di dare a Beppe Grillo un ruolo di controllo e di garanzia dei piccoli risparmiatori: facendone magari il super-presidente della CONSOB, oppure il garante della nuova autorità di garanzia ipotizzata dal ministro Tremonti. Forse non riuscirà a fare molto meglio dei controllori professionali, ma almeno si ride.

PS Se volete sapere qualcosa sulle storie di Berlusconi, Dell'Utri e la mafia, leggete i libri di Marco Travaglio e andate a vedere gli spettacoli di Dario Fo e Franca Rame (se ne parla in questo numero di ateatro e nei forum). In fretta, prima che il senatore Dell'Utri vinca la causa miliardaria che ha intentato ai due attori, chiedendo un milione di euro di danni e l'immediata sospensione dello spettacolo in tutte le sue forme.


 



Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: info@ateatro.it

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