(79) 15/01/05
speciale
la cultura del teatro

Speciale «La cultura del teatro»
L'editoriale di ateatro 79
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and1
 
Il critico e il professore
Alcune considerazioni a margine sulla cultura del teatro e sulla sua storia recente in Italia
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and5
 
Libri & altro: Amleto e Antigone per piantare gli occhi in faccia alla vita
Fernando Mastropasqua, Teatro provincia dell’uomo
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and11
 
Libri & altro: Anticipazioni Qualche parola dopo…
La conclusione di Teatro provincia dell’uomo
di Fernando Mastropasqua

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and14
 
Libri & altro: Appunti al ristorante con David Mamet per parlare di teatro
David Mamet, Note in margine a una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e il teatro
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and15
 
Libri & altro: Communitas saggi per Benvenuto Cuminetti
Percorsi drammaturgici e teatrali. Atti del convegno in ricordo di Benvenuto Cuminetti
di Bernadette Majorana

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and16
 
Libri & altro: Compleanni i trent'anni del Teatro dell'Elfo in un album fotografico
Elfo Bazaar, a cura di Ferdinando Bruni e Pietro Cheli
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and17
 
Libri & altro: Crudeltà le ultime parole di Antonin Artaud
Antonin Artaud, Succubi e supplizi
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and18
 
Libri & altro: Donne la regia estesa di Edith Craig
Roberta Gandolfi, La prima regista. Edith Craig, fra rivoluzione della scena e cultura delle donne
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and38
 
Libri & altro: Eduardo lautore, capocomico, attore
Tre saggi su Eduardo De Filippo
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and20
 
Libri & altro: Futuro gli slogan evolutivi di Carlo Infante
Carlo Infante, performing media. La nuova spettacolarità della comunicazione interattiva e mobile
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and21
 
Libri & altro: Intelligenza & passione i chiaroscuri napoletani di Martone
Mario Martone, Chiaroscuri. Scritti tra cinema e teatro, a cura di Ada D’Adamo
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and22
 
Libri & altro: Letteratura e teatro il testo drammatico e lo spettacolo secondo De Marinis
Marco De Marinis, Visioni della scena. Teatro e scrittura
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and23
 
Libri & altro: Organizzatore le lettere di Paolo Grassi
Paolo Grassi, Lettere 1942-1980, a cura di Guido Vergani
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and24
 
Libri & altro: Regia le sue origini e il suo sviluppo
Il teatro di regia. Genesi ed evoluzione (1870-1950) a cura di Umberto Artioli
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and25
 
Libri & altro: Rivoluzione il ritorno di Vachtangov
Evgenij Vachtangov, Il sistema e l'eccezione. Taccuini, lettere, diari
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and26
 
Libri & altro: Simbolismo l'origine delle avanguardie
Roberto Tessari e Massimo Lenzi, Maschere e musiche. Saggi, materiali e studi sul Simbolismo teatrale
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and28
 
Libri & altro: Stato della Chiesa il teatro nel regno del Papa Re
I teatri di Ferrara, a cura di Paolo Fabbri
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and30
 
Libri & altro: Teoria la voce del teatro
Antonio Attisani, L’invenzione del teatro. Fenomenologie e attori della ricerca
di Fernando Marchiori

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and31
 
Le recensioni di ateatro: Elettra di Hugo von Hofmannsthal
Un progetto di Andrea De Rosa e Hubert Westkemper, produzione Mercadante Teatro Stabile di Napoli
di Andrea Balzola

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro79.htm#79and50
 
Ballare a Berlino
Tanznacht & Tanz made in Berlin
di Mara Serina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro78.htm#79and60
 
Sabato, Domenica e Lunedì di Eduardo De Filippo su RAI2 il 25 dicembre
Ma intanto la Rai rischia di perdere i diritti sul teatro di Eduardo
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro78.htm#79and80
 
Hack.it.art a Berlino
ateatro seguirà l'evento
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro78.htm#79and82
 

 

Speciale «La cultura del teatro»
L'editoriale di ateatro 79
di Redazione ateatro

 

«webzine di cultura del teatro e dello spettacolo dal vivo», sta scritto nella testata di questa rivista. Così, per inaugurare l’anno quinto dell’era di ateatro, abbiamo immaginato un numero speciale dedicato alla cultura del teatro, con moltissime segnalazioni e recensioni di libri. Perché in Italia – e questa era una delle nostre scommesse – si fa molta cultura teatrale, il problema è riuscire a darle la giusta visibilità.
E poi... Ovviamente la cultura del teatro c’è chi la fa bene, chi la fa male e chi la fa peggio. Chi la fa superficialmente e chi ha lampi di genialità. Noi abbiamo curiosato qua e là, senza alcuna pretesa di sistematicità, tra le cose che ci hanno incuriosito e quelle che ci hanno mandato, tra quelle che si sembravano importanti e quelle che ci innervosivano.
Così potete curiosare anche voi nello scaffale di ateatro – tenendo presente che leggere questi libri ci obbliga a riflettere sulla realtà contemporanea – e su quella del nostro teatro.
Il nodo centrale è ovviamente il rapporto tra il teatro che si fa (e che si vede) e il teatro che si studia e si documenta, tra la tradizione e la pratica, tra l’utopia e la memoria. Negli ultimi decenni i due versanti si sono molto avvicinati e intrecciati, rispetto a un passato che ormai sembra lontanissimo ma che risale invece solo agli anni Settanta. E certamente in Italia la cultura dello spettacolo – dal cinema alla televisione, dalla radio al teatro – ha fatto grandi passi in avanti: una moltiplicazione di cattedre e corsi universitari, la consapevolezza del ruolo dello spettacolo e dei media nella formazione della cultura, una vivace e ricca attività editoriale (anche se il peso delle riviste è diminuito), più raffinati metodi di studio e indagine, nuove forme di documentazione e comunicazione (compreso internet...) hanno arricchito lo scenario. E' anche evidente come tutto questo si intrecci immediatamente con la pedagogia teatrale e con l'informazione sul teatro, nelle loro varie forme: insomma, è anche da qui che nasce il teatro del futuro.
Attraverso la rapida lettura di alcuni volumi pubblicati di recente, questo ateatro 79 prova a offrire qualche spunto di riflessione su questi argomenti, in maniera magari un po’ confusa e frammentaria. Però, man mano che si componeva il numero, ci siamo accorti che molti temi si intrecciavano da una scheda all’altra, che è possibile seguire qualche traccia, che tra un libro e l'altro, tra una storia e l'altra emergono assonanze e risonanze (e ogni tanto le abbiamo sottolineate).
E poi, come sempre, c’è spazio per arricchire la riflessione con altri interventi, e magari litigare e discutere. Nel frattempo, non possiamo far altro che scusarci per eventuali omissioni e dimenticanze: con il vostro aiuto cercheremo di rimediare (ma prima di lamentarvi, andate a vedere, nell’archivio di ateatro, le recensioni e le segnalazioni che abbiamo fatto in questi anni).


 


 

Il critico e il professore
Alcune considerazioni a margine sulla cultura del teatro e sulla sua storia recente in Italia
di Oliviero Ponte di Pino

 

La cultura e la documentazione del teatro – due aspetti strettamente connessi – hanno diverse articolazioni. Proviamo a tracciare un modello, che parte da un postulato implicito, quello della centralità dello spettacolo.
Esistono anche altri schemi, per esempio quelli che partono dalla storia delle istituzioni teatrali o dei testi drammatici, ma spero che risulterà chiaro perché – in questa analisi tutta sbilanciata sull’attualità – ho privilegiato questo approccio.


Una autopsia del teatro?

In principio ci sarebbero gli spettacoli – i fatti atomici, in questo abbozzo di Tractatus logico-theatralis – che però vivono solo come labili memorie nel singolo spettatore. Per lasciare una traccia, per diventare memoria condivisa, questo ricordo dev’essere tradotto in un altro linguaggio: parole, immagini pittoriche o fotografiche, immagini in movimento, grafici, suoni...
Per documentare e ricostruire uno spettacolo – e dunque la storia del teatro, anche se sappiamo bene che non è solo storia degli spettacoli – disponiamo di una ampia serie di materiali testuali, visuali, audio e audiovisivi.
In primo luogo troviamo la gamma di testi e paratesti prodotti direttamente dagli artisti: a cominciare dal copione, se esiste un testo; poi dichiarazioni di poetica, note e quaderni di regia, bozzetti di scene e costumi, partiture, e ancora programmi di sala, locandine, libri, dischi, fotografie, video, cd-rom, dvd, eccetera; inoltre lettere, autobiografie, diari e memorie di vario genere, e ancora contratti, statuti, materiale amministrativo e contabile... Tutto materiale da maneggiare con grande cura, ben sapendo che tra le intenzioni e il risultato può esserci una discrepanza, e che spesso l’immagine che vogliamo dare di noi stessi non corrisponde esattamente a ciò che siamo: e questo vale a maggior ragione per chi ha fatto della finzione scenica la propria ragione di vita.
In secondo luogo ci sono le testimonianze dirette degli spettatori: insomma, tutto il versante «giornalistico», nella doppia accezione di informazione (le interviste sulla carta stampata, in primo luogo, ma anche i servizi radiotelevisivi) e di critica (con la «forma recensione», innanzitutto). A questa ampia categoria di «testimonianze dirette», con una indubbia forzatura, si potrebbero ascrivere tutte le tracce lasciate da spettatori più o meno eccellenti e preparati, ma anche i quadri, le stampe e le immagini fotografiche che hanno accompagnato, nella storia del teatro, soprattutto gli attori, ma anche, forzando ulteriormente, le pitture vascolari, gli affreschi, i dipinti e le sculture in qualche modo ispirati da una visione diretta di un evento teatrale. Anche in questo caso, il materiale va maneggiato con precuazione: ciascuno di noi vede attraverso mille filtri culturali, storici, ideologici, porta con sé mille pregiudizi, vuole lanciare messaggi...
A metà strada tra la «testimonianza diretta»e la ricostruzione storica, come possibile spazio di mediazione e incontro, troveremmo, procedendo secondo questa direttrice, l’ampio spettro delle riviste, dal quelle più «popolari», ricche soprattutto di interviste e recensioni, a quelle più accademiche, che raccolgono saggi eruditi e ricchi di note sul teatro dei secoli passati (sulle riviste di teatro in Italia, vedi ateatro 46).
Infine, all’altro estremo della nostra linea immaginaria dovremmo mettere le ricerche, gli articoli, i saggi e i volumi degli studiosi, che operano soprattutto in ambito universitario: una sorta di autopsia, una specie di esame anatomo-patologico, dopo che il corpo vivo dello spettacolo (e magari anche quello degli artisti che l’hanno creato) ha cessato di pulsare. Tutti i materiali finora elencati costituiscono gli indizi in base ai quali lo studioso può ricostruire la storia del teatro, in tutte le sue articolazioni, nella maniera più «oggettiva» possibile. Cercando cioè in primo luogo recuperando queste fonti, inserendole nel loro contesto, valutando la loro attendibilità, costruendo una gerarchia tra di esse. In questo posso essere d’aiuto le più varie discipline, dalla letteratura alla fisiologia, dalla storia dell’arte alla psicoanalisi, dalla sociologia all’economia...


Letteratura e scena

C’è chi, ovviamente, può operare in diversi ambiti, come critico e insieme come regista o drammaturgo (gli esempi sono numerosi), o come critico e storico, ma i ruoli e le modalità operative sono sempre stati distinti. Anche perché, fino a tempi relativamente recenti (anche se sembrano passati secoli), l’accademia tendeva a non ritenere oggetto di studio e di proprio interesse il teatro «vivo», cioè quello che viene rappresentato sui palcoscenici qui e ora.
Come accadeva per la critica teatrale, c’era una forte ipoteca letteraria: lo spettacolo veniva considerato un sottoprodotto del testo (e analogamente la scenografia un sottoprodotto della pittura). Dunque il teatro veniva letto come un genere letterario – o meglio un sotto-genere della letteratura, rispetto al registro sublime della poesia e a quello medio del romanzo. Per l’università il teatro, nelle rare cattedre, era e rimaneva essenzialmente «storia della letteratura drammatica», tutto il resto era accidente, guitteria, e dunque trascurabile.
Come sempre accade, ci sono state alcune eccezioni, anche nel recente passato, seppure in forma episodica ma ugualmente emblematica. Basti pensare all’apporto di Mario Apollonio alla fondazione del Piccolo Teatro – che però poi, non a caso, è stato abilmente sottovalutato e sostanzialmente rimosso. O la collaborazione tra Zorzi e De Bosio che ha portato alla riscoperta del Ruzante, uno dei grandi eventi della cultura teatrale (e non solo) degli anni Cinquanta. E forse – anche se siamo già ben dentro gli anni Ottanta – era ancora in anticipo sui tempi, rispetto all’accademia e rispetto al teatro (e risultava eccessivamente problematico e perciò colpevole di lesa maestà), anche il più ambizioso tentativo di ricostruire la storia della regia nell’Italia del dopoguerra, I fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi di Claudio Meldolesi (Sansoni, Firenze, 1984).


Lo spettacolo come testo

La centralità dello spettacolo rispetto al testo si è affermata in Italia a partire dagli anni Sessanta, per il convergere di vari fattori.
Sul versante della scena, è esplosa – finalmente – l’invenzione di un teatro dove la dimensione non verbale aveva consapevolmente e programmaticamente la preminenza. Grotowski e il Living, e poi il teatro immagine statunitense e italiano, hanno privilegiato il teatro come corpo, tempo, spazio e suono rispetto al teatro come parola. Anche se il teatro, lo sappiamo, è da sempre tutte queste cose, quella è stata una autentica rivelazione, che ha avuto immediate ricadute sulla critica: vedi l’autentica rivoluzione capitanata da Franco Quadri e Giuseppe Bartolucci (con la nozione di scrittura scenica), non a caso presenti al Convegno di Ivrea del 1967 insieme ai maggiori esponenti del Nuovo Teatro.
In parallelo, sul versante dell’accademia, l’emergere della semiotica ha spinto a leggere l’intero spettacolo come testo. Su questo è ovviamente centrale e fondante il percorso di un critico teatrale come Roland Barthes (vedi il suo Sul teatro, Meltemi, Roma, 2002), mentre in Italia l’approccio semiotico al teatro si afferma più tardi (vedi Marco De Marinis, Semiotica del teatro, Bompiani, Milano, 1982, nuova edizione 2003).
Una impostazione rigidamente semiotica porta con sé numerosi nodi teorici difficilmente solubili, e questo approccio non gode più della voga di un tempo neppure in campo strettamente letterario; ma certamente questa metodologia ha portato a una svolta radicale nell’atteggiamento degli studiosi nei confronti del teatro e di tutte le arti dello spettacolo.
In Italia, poi, non va sottovalutata l’importanza dell’incontro tra alcuni studiosi (Fabrizio Cruciani, Ferdinando Taviani, Franco Ruffini, Claudio Meldolesi, Nicola Savarese) e l’Odin Teatret di Eugenio Barba (e soprattutto dell’ISTA e dell’antropologia teatrale), a conferma che in teatro è impossibile distinguere tra avanguardia e tradizione, perché il passato riemerge spesso in forme assolutamente imprevedibili: così il contatto con una giovane compagnia scandinava ha illuminato un gruppo di studiosi che stava cambiando radicalmente la nostra percezione dei comici dell’arte; e parallelamente che un regista d’avanguardia ha potuto cogliere e verificare il senso profondo della propria arte in antiche pratiche teatrali studiate da pochi specialisti disseminati in varie università.
Il frutto più convincente di questa ritrovata centralità dello spettacolo – seppure non in chiave esplicitamente semiotica – sono gli studi di Denis Bablet e i volumi della serie "Les Voies de la création théâtrale", la collana del CNRS francese.
Sul versante italiano, a parte qualche tentativo isolato engli anni Ottanta, si può segnalare la serie di Laterza «Teatro e spettacolo», a cura di Franca Angelini, firmati tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta da una sorta di «nazionale dei professori»: come si legge nella quarta di copertina dei nove volumi, «la prima storia generale del teatro inteso non tanto come scrittura drammatica quanto come rappresentazione e spettacolo», peraltro in una chiave riduttivamente manualistici.
Nel corso degli ultimi trent’anni, con il moltiplicarsi delle cattedre universitarie dedicate al teatro, con la progressiva apertura dell’università al mondo esterno (con forme oggi addirittura imbarazzanti di marketing, vedi la lectio magistralis del comico televisivo di successo e del calciatore famoso che finisce regolarmente sui giornali), e con una maggior attenzione agli sbocchi occupazionali dei laureati, gli intrecci tra il teatro «vivo» e quello «studiato» si sono fatti sempre più numerosi e necessari. I corsi e le tesi (di laurea e di dottorato) sul teatro contemporaneo – soprattutto sulla regia e sul teatro di ricerca – si sono moltiplicati, le riviste accademiche ospitano con frequenza crescente studi dedicati ad artisti nel pieno dell’attività, si rincorrono le monografie dedicate a registi e gruppi nel pieno della loro attività.
Fermo restando che quella italiana (tendenzialmente storicista) resta una realtà molto diversa da quella angloamericana (tendenzialmente pragmatica), dove il teatro è da sempre anche e soprattutto «il teatro che si fa» e i corsi di teatro portano spesso alla messinscena di testi classici e contemporanei, svolgendo anche una funzione di accademia e scuola d’arte drammatica. Tuttavia un maestro come Giuliano Scabia al DAMS va da sempre in questa direzione, così come in altro modo i cicli di lezioni di Eduardo e di Fo alla Sapienza di Roma, registrate in video da Ferruccio Marotti negli anni Ottanta.


Lo spettacolo e il video

A rendere in qualche misura «più studiabile» il teatro come spettacolo è intervenuta una innovazione tecnologica come il video. Un altro nodo altamente problematico, per mille motivi.
Dal punto di vista dell’università, il video offre numerosi vantaggi. In primo luogo, «depura» l’evento teatrale da buona parte della soggettività dello spettatore (le intermittenze e vaghezze della memoria), riduce i margini di casualità, rende lo spettacolo in qualche modo oggettivo (almeno in apparenza). Permette di studiare lo spettacolo come un testo, fermando lo scorrere delle immagini, rivedendo alcuni brani più e più volte, andando avanti e indietro per confrontare le diverse sequenze eccetera. Consente di lavorare sullo stesso materiale con successive generazioni di studenti, mentre uno spettacolo teatrale si può vedere in un arco molto ristretto di tempo. Ancora, per generazioni di studenti cresciuti più davanti al televisore che sui libri, il video pare uno strumento più immediato e familiare; e con il moltiplicarsi di corsi in vario modo legati alla multimedialità l’uso di materiali di questo genere è ovviamente aumentato moltissimo. E tuttavia...
L’esperienza di chi guarda e studia un video non è assolutamente riconducibile a quella dello spettatore di un evento live, la visione di un filmato non ha assolutamente niente a che vedere con l’effettiva partecipazione a uno spettacolo teatrale, con tutti i suoi aspetti rituali e collettivi – insomma, proprio quello che distingue il teatro dai media riproducibili. I video teatrali sono in genere molto più noiosi degli spettacoli da cui sono tratti, e di questo bisognerebbe tener conto prima di infliggerli a generazioni di allievi. La qualità dei video è molto spesso scadente anche perché gran parte del materiale disponibile è stato realizzato per altri scopi (documentazione interna in vista di eventuali riallestimenti, promozione dello spettacolo presso direttori di teatri e festival, eccetera) e con mezzi limitati. Spesso, se sono stati realizzati da un regista diverso da quello dello spettacolo teatrale, ne tradiscono le intenzioni e la sensibilità... (Ci sono ovviamente eccezioni, vedi il caso delle commedie di Eduardo e di Fo dirette dagli autori con la Rai.)
E’ facile intuire che l’uso indiscriminato del video come strumento di documentazione e studio susciti profonde diffidenze profonde tra teatranti e critici militanti.
(Insomma, gli studenti di corsi di spettacolo dovrebbero frequentare sistematicamente i teatri, per avere una vaga idea di quello che stanno studiando e per iniziare a formarsi un gusto.)


La crisi della critica

Se l’accademia sta cercando di ampliare il proprio ambito di interessi, la critica teatrale attraversa invece da tempo un periodo di difficoltà e di crisi, che le impone di ridefinire il proprio ruolo (vedi il recente libro di Massimo Marino, Lo sguardo che racconta. Un laboratorio di critica teatrale, Carocci, Roma, 2004, appena recensito su ateatro 78).
Il teatro è sempre meno un rituale sociale (magari un rituale sociale borghese, ma in ogni caso riconoscibile e riconosciuto) e sempre più un sottoprodotto di altri media più «potenti» (dal cinema alla televisione), oppure un evento che coinvolge piccole élite di spettatori, piccoli gruppi che scelgono quell’artista o quel teatro o quello spettacolo. Una informazione sempre più centrata sul personaggio (e in sostanza sullo star system) porta i mass media a dare maggiore spazio alla voce degli artisti. Su giornali e mass media lo spazio per la tradizionale recensioni è diminuito in questi decenni a favore di anticipazioni e interviste. L’autorevolezza del recensore è molto diminuita: «la gente vuole sentire gli artisti», si dice, senza la fastidiosa mediazione dell’esperto. Non è un caso che molti degli attuali titolari delle rubriche di critica teatrale sui quotidiani non siano solo (e prima di tutto) critici e studiosi di teatro, ma intellettuali «a tutto tondo» per i quali il teatro rappresenta solo un interesse tra molti, e la critica una attività spesso secondaria rispetto ad altre forme di scrittura: insomma, volutamente sono stati scelti dei «non specialisti», in grado – nelle intenzioni degli editori – di interpretare meglio il gusto del pubblico.
Nelle sue forme canoniche il teatro diventa sempre più prevedibile e riconoscibile (e poco interessante dal punto di vista critico), e invece sempre più affascinante nelle sue esperienze più marginali e problematiche: che sono però quelle più difficili da far digerire a organi rivolti al grande pubblico. Dunque per presentare artisti «d’avanguardia» è spesso necessario ricorrere allo scandalismo e alla personalizzazione esasperata.
In parallelo, l’atteggiamento del critico è molto cambiato. Da osservatore neutrale e imparziale (almeno in teoria, perché anche in passato i critici hanno combattuto battaglie estetiche), è diventato – anche qui a partire dall’invenzione del Nuovo Teatro – «militante», esplicitamente impegnato a favore di una certa idea di teatro, anche attraverso l’ideazione e spesso l’organizzazione di rassegne, festival, premi eccetera. Per seguire certe esperienze del nuovo teatro non è sufficiente recarsi tra i velluti e gli ori dei teatri del centro, ma è necessario mettersi in gioco, «fare esperienze» – visitare carceri, ospedali psichiatrici, centri sociali, fabbriche dismesse, aziende agrituristiche, inseguire piccoli festival in località decentrate... Così il critico è spesso diventato un «compagno di strada» che si sporca le mani ed entra all’interno del processo produttivo dello spettacolo, con una funzione che si avvicina a quella del Dramaturg (vedi su questo la recente polemica sui «critici impuri» ospitata da ateatro 60 & 62; vedi anche gli atti dell’incontro-convegno Walkie Talkie, curato da Teatro Aperto nel 2003, Il Dramaturg, a cura di Teatro Aperto, il principe costante, Milano, 2004, con interventi tra gli altri di Ferdinando Bruni, Jens Hillje, Claudio Meldolesi, Roberto Menin, Renata Molinari, Enzo Moscato, Massimo Navone, Oliviero Ponte di Pino, Antonio Tarantino).
Di fatto gli spazi per esercitare davvero la critica teatrale, nella sua funzione tradizionale di mediazione tra artisti e pubblico, sono sempre meno (e sempre meno pagati). Questo impone – se si pensa che la critica sia una funzione necessaria al processo estetico – di cercare nuovi sbocchi (tra tutti, ovviamente, internet) e nuove modalità d’intervento (e anche nuovi mezzi di sostentamento).


La nuova università e le sue conseguenze sull’editoria teatrale

Con la riforma Berlinguer-Moratti l’università italiana è molto cambiata, e continuerà a cambiare. La necessità di aumentare il numero dei laureati (e la loro percentuale sugli iscritti), la volontà di avvicinare l’università al mondo del lavoro (e quindi alle esigenze vere o presunte della società contemporanea) e la tendenza a considerare lo studente un cliente, sta portando a una profonda trasformazione dei corsi di studio e dell’atteggiamento dei docenti (e degli studenti). All’interno delle università italiane è in corso un acceso dibattito sulla riforma (su questo vedi Gianluigi Beccaria, a cura di, Tre più due uguale zero, Garzanti, Milano, 2004, e Salvatore Settis, Quale eccellenza? Intervista sulla Normale di Pisa, Laterza, Bari-Roma, 2004; più in generale, sulla crisi della pedagogia in Occidente - e su un tema caro a molti teatranti - George Steiner, La lezione dei maestri, Garzanti, Milano, 2004), che investe anche gli studi sul teatro e sulle arti dello spettacolo. Anzi, li investe con una forza davvero dirompente.
La moltiplicazione negli ultimi anni dei DAMS e di corsi legati alla «comunicazione» (e il loro eclatante successo, vista la quantità di iscritti) sembra sospingere irreversibilmente gli studi sul teatro sempre più lontano dalle Facoltà di Lettere. Un fenomeno ugualmente clamoroso è il moltiplicarsi di corsi per operatori dello spettacolo e di economia e management della cultura, oltre che di comunicazione (che spesso vuol dire formare PR e uffici stampa). Come in altri ambiti, si assiste a un disseminarsi di nuove discipline e corsi sempre più specifici, a volte sotto insegne bizzosamente inventive, per inseguire una realtà sempre più complessa e frammentata (quando non per costruire cattedre ad hoc per i propri protetti). In parallelo, proliferano i master e le alte scuole, che dovrebbero in qualche modo sopperire all’abbassamento del livello formativo della neo-università.
Tutto questo sta portando a una intensa attività editoriale, che si somma e intreccia alla tradizionale pulsione scrittoria universitaria, ovvero la ben nota necessità dei docenti di presentare titoli per concorsi. Da un lato la neo-università – grazie al sistema dei crediti – richiede manuali di base estremamente sintetici e di grande semplicità, all’insegna della divulgazione: è un prodotto editoriale che gli studiosi più seri reputano «sconveniente» e che tuttavia fornisce la base culturale dei «neo-studenti» di questo super-liceo e svolge dunque un ruolo fondamentale. Dall’altro spinge a una proliferazione di monografie specialistiche, naturalmente anch’esse assai sintetiche, per coprire le esigenze di singoli corsi e discipline – con un evidente rischio dell’autoreferenzialità. La politica di case editrici come Bruno Mondadori e soprattutto Carocci va in questa direzione, con una produzione vasta e variegata.


Lo studioso e il recensore

Come abbiamo visto, in qualche modo l’università sta assumendo uno dei compiti tradizionali della critica, una funzione che la critica ha difficoltà sempre maggiori a svolgere, soprattutto per mancanza di spazio: raccontare e documentare quello che sta accadendo. E’ un profondo cambiamento, che coinvolge gli artisti, la critica e gli studiosi.

Ha scritto Marco De Marinis nella sua introduzione al recente Visioni della scena (Laterza, Roma-Bari, 2004):

Non esiste un solo tipo di esperienza e di comprensione del teatro, ma ne esistono almeno tre:
a) l'esperienza-comprensione dell'artista di teatro, e in particolare dell'attore, fondata su di una competenza attiva, più o meno esplicita;
b) l'esperienza-comprensione dello spettatore comune, fondata su di una competenza passiva e perlopiù implicita, intuitiva (cioè non teorica, in termini tecnici);
c) l'esperienza-comprensione del teatrologo, fondata su di una competenza passiva ma fortemente esplicita (teorica).
(...) Tutte e tre queste esperienze-comprensioni rappresentano modi diversi di fare teatro. Ciò significa che si può fare teatro non soltanto producendo degli spettacoli, ma anche guardandoli, ossia: studiandoli, scrivendo su di essi, tramandandone la memoria, facendone storia, indagandone i processi. (p. VIII)


Per certi versi, negli ultimi anni è come se queste diverse esperienze si fossero in qualche modo intrecciate, tanto è vero che si avverte la necessità di distinguerli sul piano teorico. E' stata una sorta convergenza tra diversi sguardi, così come tra alcuni critici e alcuni studiosi. E c'è stata anche e soprattutto una diversa attenzione allo spettacolo da parte di questi ultimi: emblematico l’impatto che le grandi messinscene goldoniane di questi decenni – da Visconti e Strehler a Ronconi e Castri – hanno avuto sull’interpretazione dell’opera del drammaturgo da parte di alcuni autorevoli studiosi. Vedi le notazioni di Roberto Alonge nel suo recente Goldoni, Garzanti, Milano, 2004:

Molti spettacoli della scena italiana non sarebbero sicuramente mai nati senza il lavoro preventivo e sotterraneo (e naturalmente scarsamente retributo dagli operatori...) dei docenti di Storia del teatro. Per quanto riguarda però Goldoni, necessita riconoscere che questa volta il doppio registro del dare e dell'avere è quasi completamente a favore degli artisti. Qui non sono gli universitari ad aver insegnato quacosa a registi e attori. Sì, certamente è vero che generazioni di registi (da Strehler a Squarzina a De Bosio, da Missiroli a Ronconi, da Cobelli a Castri) hanno attinto al fondamentale saggio di Mario Baratto, "Mondo" e "teatro" nella poetica del Goldoni, ma quel saggio, del 1957, si è alimentato, a sua volta, alle fondamentali intuizioni della Locandiera allestita da Luchino Visconti nel 1952. La regia, quando è grande regia, svolge sempre una funzione critica decisiva. pp. 10-11)

Queste invasioni di campo implicano anche un mutamento delle forme: non più la recensione, ma il saggio specialistico o la monografia. Indicativo può essere, in questa direzione, il rapporto tra un artista come Carmelo Bene e due studiosi come Maurizio Grande prima e Piergiorgio Giacché poi.
Pone però un ulteriore problema: perché quello che manca a molti studiosi, rispetto all’assiduità teatrale del critico, è proprio la visione diretta degli spettacoli (è noto che molti professori universitari il teatro lo frequentano pochissimo), con quello che implica anche sul versante della ricezione e della fortuna presso il pubblico, e sulla possibilità di seguire effettivamente una parabola artistica nel suo farsi: anche perché – come sa benissimo chi si occupa del nuovo teatro – la fase aurorale in cui si definisce una poetica è spesso determinante per cogliere il senso profondo di un percorso artistico.


Una nuova editoria teatrale

Ciò nonostante, si moltiplicano le collane universitarie e parauniversitarie dedicate all’analisi degli spettacoli e degli artisti di questi ultimi decenni. La situazione è molto cambiata rispetto alla sconsolata analisi di Gianadrea Piccioli, una ventina d'anni fa, sul Patalogo nove, e si presenta molto più ricca e articolata. Non ci sono più solo i tradizionali editori di nicchia come Gremese e soprattutto la Ubulibri di un critico-editore come Franco Quadri (che da 27 anni pubblica per l’appunto l’indispensabile Patalogo, una delle grandi novità della cultura teatrale italiana di questi anni: vedi su ateatro 20 la tesi di laurea di Leonardo Mello). Negli anni Settanta, quando ha incominciato a formarsi anche in Italia una autentica cultura dello spettacolo, Ubulibri e Gremese si sono rivolte soprattutto a un pubblico di appassionati e addetti ai lavori; più di recente sulla stessa scia hanno iniziato a muoversi Titivillus ed Editoria & Spettacolo. O ancora Dino Audino Editore, attento in particolare alle tematiche attoriali (vedi i testi di Michail Cechov, Decroux, Strasberg e Laban, oltre al recente Training! di Claudia Brunetto e Nicola Savarese). Queste case editrici si sono poste e si pongono su un piano molto diverso da editori tipicamente universitari come Bulzoni (con il suo ricchissimo catalogo di saggi sul teatro), Utet o Il Mulino, dalla collana di Storia dello Spettacolo della casa editrice Le Lettere, o a editori minori che hanno nel loro catalogo testi teatrali di impronta tipicamente accademica (le napoletane Edizioni Scientifiche Italiane, la lucchese Maria Pacini Fazi Editore, la Biblioteca Franco Serantini a Pisa, la gloriosa Olschki a Firenze, Vita & Pensiero, legata all'Università Cattolica di Milano e molte altre ancora...).
Oggi pare invece sempre più difficile tracciare una linea di discriminazione netta tra questi due filoni, perché molti editori, episodicamente o sistematicamente, sembrano voler puntare sia al pubblico degli appassionati di teatro e dei fan di un determinato artista, sia a un pubblico universitario. Alcuni editori lo fanno con maggiore sistematicità. Per la calabrese Rubbettino Valentina Valentini cura una collana che ha pubblicato monografie su Squat Theatre, Peter Sellars, Teatro della Valdoca e Franco Scaldati. L'Editrice Zona pubblica una collana diretta da Franco Vazzoler e Paolo Gentiluomo dedicata soprattutto a gruppi ed artisti italiani: i primi della lista sono Teatro del Lemming, Andrea Adriatico, Alfonso Santagata e Enzo Cosimi, ma ci sono anche Le Baccanti riscritte da Wole Soyinka (ateatro ne ha parlato a lungo...). Le pisane Edizioni ETS con la collana "Narrare la scena" diretta da Anna Barsotti si dedica invece ai singoli spettacoli (ma a volte ancora con una forte ipoteca letteraria), cominciando da allestimenti storici come La locandiera di Visconti o La tempesta di Strehler, e più di recente l'Amleto di Carmelo Bene.
Uno dei nodi della recente riforma riguarda proprio il rapporto tra una cosiddetta cultura generale e gli specialismi che si vanno delineando, tra una università che si configura come una sorta di superliceo destinato a sfornare frotte di laureati (e che si appoggia a una manualistica immediatamente divulgativa) e la necessità di formare contemporaneamente studiosi e specialisti di alto livello. In questo il ruolo dell'editoria universitaria è ovviamente centrale, anche se non può ovviamente supplire alle manchevolezze e alle storture del sistema universitario.


La regia critica di Luca Ronconi e Massimo Castri

L'università si è confrontata in vari modi con "il teatro che si fa", con risultati curiosamente diseguali. Vale forse la pena di esaminare alcuni casi esemplari (ad altri si accennerà nelle schede bibliografiche di questo numero speciale di ateatro).
Come tutte le etichette, anche quella di regia critica – affibbiata ai due più importanti registi di questi decenni – può apparire discutibile. Eppure voleva sottolineare la capacità di questi registi nell’utilizzare, di fronte ai copioni da mettere in scena, i moderni strumenti di analisi dei testi, quelli che suggerivano una lettura «sospettosa»: marxismo, psicoanalisi, strutturalismo, linguistica... Con maggiore consapevolezza rispetto alla generazione precedente, quella dei «padri fondatori» Strehler e Visconti, che al loro confronto paiono operare una lettura «ingenua», Ronconi e Castri hanno assimilato come fondamento del loro metodo registico proprio i metodi della critica letteraria all’epoca più à la page – rubando in qualche modo il mestiere ai critici, almeno in parte...
Se Luca Ronconi evita da sempre con cura ogni intellettualizzazione del proprio lavoro, Massimo Castri invece, fin dall’inizio della sua carriera, ha condotto una acuta e costante riflessione auto-critica: il gesto fondate, in questo senso, sono i volumi sugli allestimenti di Pirandello e Ibsen curati da Ettore Capriolo per Ubulibri. Quei volumi (che seguono nella bibliografia castriana – o castrista? – la sua tesi di laurea, Per un teatro politico pubblicata da Einaudi nel 1973) sono i primi di una serie di testi dedicati all’analisi delle sue messinscene: perché da un certo punto di vista, le messinscene di Castri sono un oggetto di studio ideale, un artista che si pone allo stesso livello culturale dei suoi esegeti, in una sfida affascinante, approdata di recente, dopo una lunga serie di studi, ai due volumi dedicati al regista toscano da Roberto Alonge (Il teatro di Massimo Castri, 2 voll., Bulzoni, Roma, 2003).
Curiosamente non è accaduta la stessa cosa con Luca Ronconi, un po’ per una straripante produttività, che rende difficile catalogare la sua opera, così ampia e faticosa da studiare nella sua completezza; un po’ per il suo già citato atteggiamento pragmatico e il rifiuto di concettualizzare, che finisce per rendere impervie e discutibili periodizzazioni e aree di interesse; un po’ perché forse manca ancora la distanza critica sufficiente a confrontarsi con la sua opera, anche perché Ronconi è da sempre regista controverso. Così i saggi che si occupano della sua opera tendono a concentrarsi su aspetti o momenti particolari. Tuttavia, per Ronconi, nessuno è finora riuscito a ricostruire in maniera credibile e autorevole un percorso artistico di assoluto valore e determinante per comprendere la storia del teatro del dopoguerra.


Lo strano caso del teatro di narrazione

Quello del teatro di narrazione è un caso singolare. Perché i primi e più acuti teorici del teatro di narrazione sono stati proprio gli inventori e i capostipiti del genere, e proprio mentre lo stavano mettendo a punto, in un work in progress insieme laboratoriale e teorico. Basta leggersi (o rileggersi) le riflessioni di Marco Baliani (Pensieri di un raccontatore di storie, Quaderni dell'animale parlante, 2, Comune di Genova, Assessorato istituzioni scolastiche, Genova, 1991) e Marco Paolini (Il quaderno del Vajont, con Oliviero Ponte di Pino, Einaudi, Torino, 1999). Poi è arrivato il grande successo di pubblico, e l’affermazione persino eccessiva di un genere (come aveva previsto Goffredo Fofi, con la sua abituale punta di snobismo).
Nelle sue punte più alte il teatro di narrazione è stato documentato in video con una inedita attenzione e puntualità (e, va aggiunto, con positivi esiti di audience e commerciali), e con una grande consapevolezza delle forze e delle debolezze del linguaggio televisivo da parte dei suoi artefici. Grazie a questa ricchezza documentaria e al suo successo mass-mediatico, i narratori sono stati in questi anni oggetto privilegiato di decine di tesi e tesine.
Un decennio più tardi, la narrazione è (finalmente?) diventata un oggetto di studio accademico, meritevole di tesi e pubblicazioni: vedi l’interessante numero monografico di «Prove di drammaturgia» Per una nuova performance epica, 1/2004 (ma è anche in preparazione un numero speciale di «Hystrio» sullo stesso tema, in una interessante convergenza). Pian piano anche in questo settore la bibliografia si sta ampliando: vedi F. Fiaschini-A. Ghiglione, Marco Baliani. Racconti a teatro, Loggia de' Lanzi, Firenze, 1988; G. Guccini e M. Marelli, Stabat Mater. Viaggio alle fonti del "teatro di narrazione", Le Ariette, Castello di Serravalle, 2004).
Con grande consapevolezza, i maestri del teatro di narrazione, che sono figure anomale di autore-attore, intellettuali colti e politicamente avvertiti, hanno compiuto una operazione culturale di notevole spessore e ricca di sollecitazioni teoriche, rubando per certi aspetti il mestiere a critici e studiosi: non è un caso che alcune delle riflessioni più interessanti siano venute di recente soprattutto dal fronte della tassonomia delle varie forme di narrazione – e che le provocazioni forti arrivino da un artista che, come Luca Ronconi, reagisce con orrore – e saggezza – alla pretesa di identità assoluta tra colui che parla, il personaggio che interpreta e ciò che dice.


I filologi del futuro

Volendo condensare in una formula quello che è successo negli ultimi decenni nell’ambito della cultura del teatro, si potrebbe dire che lo spettacolo «vivo» ha risucchiato l’attenzione di critici e studiosi.
La distanza dell’osservatore professionista, quella che Roberto De Monticelli definiva «la solitudine del critico», tende spesso ad annullarsi, per trasformarsi in adesione partecipe a un progetto artistico: è una richiesta che arriva spesso dagli stessi artisti, che sentono il bisogno di una sponda critica attenta e propositiva.
Analogamente, la distanza dello storico, quello scarto che permette di osservare agli eventi con la necessaria oggettività, tende anch’essa a ridursi fino ad annullarsi. Il teatro, del resto, per molti studenti non è solo e tanto un oggetto di studio, ma un settore lavorativo in cui entrare, forse per trasformarlo. La prospettiva dunque cambia radicalmente, gli strumenti necessari per analizzare e ricostruire non coincidono necessariamente con quelli necessari per operare nella pratica.
Esemplare, nel settore della scrittura teatrale, quello più legato alla versione "tradizionalistica" della storia dello spettacolo, l'attività di Siro Ferrone all'Università di Firenze e con la rivista "Drammaturgia".
Questa centralità dello spettacolo «vivo» ha, come abbiamo visto, varie cause: in parte è determinato da una diversa sensibilità di critici e studiosi, in parte spinte esterne, dall’evoluzione del sistema dei mass media alle esigenze dell’università. E sicuramente sta portando a un grande rimescolamento di carte, che porterà certamente a qualche contraccolpo, a qualche «richiamo all’ordine», sia sul versante della critica sia sul versante dell’università. Ma il loro effetto è tutto da verificare.
L’unica certezza è che gli storici del teatro, grazie a questa enorme messe di materiali, avranno molto materiale su cui lavorare. I filologi del futuro non potranno che ringraziarci.
Per quanto riguarda il nostro complicata presente, la speranza è che questa molteplicità di approcci, metodi, discipline possano affinare l’arte dello spettatore, del cronista e dello storico. Senza mai dimenticare che il critico non può appoggiare il giudizio solo al proprio gusto, e che lo studioso non può limitarsi a confermare valori già consolidati nascondendosi dietro l’apparente neutralità del metodo scientifico.

Altre informazioni utili

I libri di ateatro (segnalazioni, recensioni, anticipazioni & altro).

Le collane di drammaturgia contemporanea di Tiziano Fratus (da www.dramma.it).


 


 

Libri & altro: Amleto e Antigone per piantare gli occhi in faccia alla vita
Fernando Mastropasqua, Teatro provincia dell’uomo
di Anna Maria Monteverdi

 

Mi piace pensare che si vada a teatro per piantare gli occhi in faccia alla vita.
Il teatro non ha volto, ha maschere.
Fernando Mastropasqua


Il nuovo volume di Fernando Mastropasqua (edito da Federico Frediani-Arti Grafiche, Livorno, 2004) è una piccola summa del pensiero dello studioso di teatro, oggi docente di Antropologia teatrale al Dams di Torino, che ripercorre alcune delle costanti di una ricerca originale, che da sempre mostra i profondi legami tra i greci e (alcuni) maestri della scena moderna e contemporanea: Craig, il Living Theatre, Carmelo Bene.
Il tema della maschera primitiva e di quella greca, manifestazione dionisiaca, permea gran parte del volume, declinandosi in diverse e multiformi apparizioni: da Sileno a Amleto ad Antigone e in ulteriori mascheramenti (l’Antigone livinghiana da Brecht, l’Amleto di Laforgue-Bene). Sono passaggi sull’invenzione del teatro come sguardo sulla «vita perduta e rifiutata, un invito alla metamorfosi contro la stabilità innalzata una volta per sempre, contro l’omologazione del mondo».
Perché «maschera» e perché questo è il nodo centrale dell’epifania del teatro?

«Maschera e skené sono forme di passaggio che abbracciano l’intera attività dionisiaca, non al fine di condurre a perfezionare la persona, ma per plasmarne una nuova, straniera al mondo. Non avviene un processo di evoluzione ma di trasformazione: mistero, komos, teatro, sono fasi diverse di questo viaggio».

Quale il significato della parola theatron? Contrapposta a skené è l’azione del vedere qualcosa che si tenta di celare: sguardo e velo. In cosa consistevano queste rivelazioni a teatro tanto pericolose da dover essere occultate?

«La possibilità di interrompere il ciclo – di spezzare dunque i ceppi della vita prescritta – qualificava come illegale e pericolosa la riunione a teatro. Sottrarre la visione allo sguardo significava denunciare la miseria delle cose. Il teatro parlava di libertà contro necessità: rimetteva in questione ogni credenza, ogni sistema, ogni legge».

Se il teatro è sin dai primordi luogo di negazione del mondo come immutabile, la sua funzione dovrà essere quella di mostrare la potenzialità del gesto come puro atto, non come mimesi di un «già fatto». Teatro come contrapposizione al mondo così com’è, come luogo di un’antistoria: «La storia», avverte Canetti, «presenta tutto come se niente si fosse potuto svolgere altrimenti. Invece si sarebbe potuto svolgere in cento modi. La storia si mette dalla parte di quel che è avvenuto costruendo solide connessioni. Tra tutte le possibilità si basa su quella sola che è sopravvissuta. Così agisce sempre la storia, come se fosse dalla parte dell’avvenimento più forte, cioè di quello realmente avvenuto: non sarebbe potuto rimanere non avvenuto, doveva avvenire» (Elias Canetti, La provincia dell’uomo).
Due sono le immagini scelte da Mastropasqua per definire questa dimensione del teatro che non ripete la vita, che si sottrae all’«effettivamente accaduto» e che rivela un’alternativa «possibile» fuori dalla storia, per affermare un «gesto nuovo», fondatore.
La prima è quella tratta dall’Amleto, la momentanea sospensione del gesto di morte di Priamo da parte di Pirro in quella finzione teatrale che inchioda il colpevole:

«Il teatro che apparentemente racconta le storie dei re, racconta in realtà, a chi sa guardare, le storie degli Amleti che hanno orrore di ripetere il gesto dell’omicidio, che si pongono fuori dal mondo e quindi dal gesto inevitabile, e dunque sono pazzi e sono "nessuno", perché non condividono il "teatro del mondo"».

La seconda è quella tratta da Antigone nella versione del Living Theatre (da Brecht): è il momento in cui Antigone, che si rifiuta di obbedire ai decreti di Creonte, seppellisce il fratello con la terra e contemporaneamente si nutre di quella stessa terra:

«Se nel testo sofocleo il gesto di Antigone è il primo gesto di ribellione, prima della rivolta di Emone e del popolo tutto, in Brecht è il gesto derivato da quello di Polinice (il quale, a differenza della versione sofoclea, è generale dello stesso esercito del fratello ma ha disertato e viene ucciso in quanto traditore della patria, n.d.r.). Antigone ripete il suo gesto (...) Colei che nutre è colei che è stata nutrita. Ricopre, cibandolo di terra, quel cadavere che l’ha cibata con il gesto, pagato con la vita, di una civile coscienza».

Particolarmente originale la verifica della derivazione della «maschera» di Amleto (il fool) da quella di «Ognuno» (Everyman-Mankind) delle moralità medioevali e in particolare da quella del folle Nessuno (Nobody) di cui viene data documentazione iconografica:

«La natura più profonda di Amleto, in quanto maschera, è che egli non è altro che nuovo tipo di una delle figure che contraddistinguevano un genere teatrale. Ricordando la sua discendenza da tali archetipi Amleto è il risultato di un’operazione non diversa da quella compiuta da Eduardo o da Goldoni rispetto alle tradizioni precedenti del teatro di maschere sulle quali la loro tecnica drammatica si era esercitata e affinata. L’attenzione di Shakespeare si rivolge soprattutto a Everyman in virtù della sua peculiarità di maschera dell’uomo condannato a nascere per morire. Tale condizione fa di lui un folle perché follia è questo stare nel tempo. E’ tutt’altro che stravagante che Amleto-Ognuno indossi la maschera del suo stato infelice, la maschera del folle. Ma la sperimentazione shakespeariana è ancora più sottile in quanto le allusioni di Amleto e il suo atteggiamento rimandano a una particolare forma di follia, a un tipo di folle ben noto dal XV secolo: il folle Nessuno con il dito sulla bocca che invita al silenzio. Perciò l’intuizione di Shakespeare crea un felice oxymoron poetico e drammatico: Ognuno (Somebody) assume il volto di Nessuno (Nobody). L’Essere si dichiara Non-Essere».

L’ultima e più corposa sezione è dedicata invece a Hommelette for Hamlet di Carmelo Bene (1987) – con trascrizione integrale e ampia analisi critica – in cui viene drammaticamente messa in scena la distanza tra creazione letteraria e finzione teatrale:

«A differenza delle poetiche fondate sull’entusiasmo per la regia, non si tratta qui di polemica tra ossequio al testto e autonomia ma tra ossessione filologica e delirio del poeta-attore. Si leva in tal modo dal piano della scena una visione che è propria del corpo-mito di colui che "sta" sul palco (...) Naturalmente per Carmelo Bene il suo corpo-mito non è mediazione coreutica fra mito e spettatore ma piuttosto, oltre e contro i principi della coerenza narratica e dell’azione in scena, epicentro di un terremoto dell’animo, perturbato da una malinconica "mnemotecnica". La memoria dell’attore non dà vita che a un sogno solitario. Ma i miti che la nutrono appartengono a tutti...».

Fuori dal teatro, al risveglio, scuotono le menti liberate dal torpore domande circa il senso delle maschere che popolano il nostro devastato mondo.

Fernando Mastropasqua ha proposto la tematica della maschera quale «forma liminale», «senza tempo, per annunciare un tempo nuovo, la cui radicalità sta nel proclamarsi non-tempo, non-mondo, non-ognuno», oltre che nel fondamentale volume Metamorfosi del teatro (Esi, 2000), in Maschera e rivoluzione (BFS, 2000), nella rivista «Scena», diretta da Antonio Attisani, e in «Critica d’arte».

Per informazioni su come ricevere il volume scrivere a info@ateatro.it


 


 

Libri & altro: Anticipazioni Qualche parola dopo…
La conclusione di Teatro provincia dell’uomo
di Fernando Mastropasqua

 

E’ difficile riconoscere un prima, un momento precedente in cui magmaticamente coesistevano tutte le espressioni che avrebbero successivamente dato vita al teatro come imitazione, alla maschera, ai generi teatrali. Il riso era la forma privilegiata di questa esplosione, che tornerà nella "commedia" come speranza utopica, come nostalgia di un mondo perduto.
Guardare all’indietro comporta necessariamente uno sguardo sulla realtà vivente. E’ difficile capire il senso del riso nella sua forma più arcaica, tantopiù il senso della sua perdita, se non si ha chiaro l’essere del riso nella società presente.
Se è vero, come dice Aristotele, che l’uomo è l’unico animale che possiede la proprietà del riso, dobbiamo riconoscere che da tempo essa si è estinta, rendendoci uguali a tutti gli altri animali. L’affermazione di Aristotele conduce a una tragica constatazione. Se infatti è vero che solo l’uomo ride è altrettanto vero che solo l’uomo è intelligente. Se dunque riso e intelligenza sono qualità essenzialmente umane vuol dire che l’uomo è tale in loro virtù, e non solo: che le due virtù devono avere tra loro una relazione, per cui si ha riso dove c’è intelligenza e si è intelligenti solo se si è capaci di ridere. La perdita di una delle proprietà comporta inesorabilmente anche la perdita dell’altra; la perdita del riso non può non accompagnarsi automaticamente alla perdita della intelligenza. Se "la concezione del riso", come nota giustamente Bachtin, "può essere caratterizzata preliminarmente e sommariamente in questo modo; il riso ha un profondo significato di visione del mondo, è una delle forme più importanti con cui si esprime la verità del mondo nel suo insieme, sulla storia, sull’uomo; è un punto di vista particolare e universale sul mondo, che percepisce la realtà in modo diverso, ma non per questo meno importante (anzi forse più importante) di quello serio". Ora l’epoca attuale è segnata da una forte contraddizione: avendo separato il riso dall’intelligenza, ritiene che l’uomo che non ride sia il risultato più alto del processo di conoscenza, potere e inventiva. Del resto non è stato l’uomo stesso a privarsi del riso nella sua ascesa divulgando il detto che risus abundat in ore stultorum? Non sono partoriti dallo stesso disprezzo l’odierno politically correct, che smorza ogni risata, e l’esaltazione del riso-farmaco, in cui naufraga l’antica arte del clown?
La maschera, al di là di convenzionali distinzioni di genere (tragico–comico), non può essere dissociata da una condizione: l’epifanìa. Che questa avvenga per strada in una processione o durante un carnevale, nel segreto di un rito o sul palcoscenico di un teatro ha poca importanza. L’epifania non può essere casuale né imposta dalla consuetudine. L’epifania è tale per necessità.
Ananke fa esplodere nel grembo della Notte Fanes, facendo il cupo cielo stellante di fuochi . "Sia la luce" tuona Javhè davanti alle tenebre dell’abisso. L’epifania è forma predestinata. Gli Orfici e l’autore della Genesi convergono in una comune mitopoiesi.
Tra le innumerevoli perdite della società contemporanea c’è anche quella di Ananke e quindi la rinunzia ad ogni epifania. Se così è, non solo il riso ma anche la maschera è da tempo scomparsa dal nostro orizzonte.
La maschera nasconde nelle proprie cavità le paure umane, l’angoscia di esistere, i mostri che dominano la vita, i terrori degli imponderabili eventi naturali. Potremmo dire che la maschera raccoglie in sé e rende visibile tutto ciò che sfugge al controllo dell’uomo. La sua epifania dunque si connette alla necessità di dare forma al terrore che non si conosce, nella illusione che essa sia sufficiente a superare l’angoscia di vivere senza sapere perché. Secondo le diverse mitologie le forme di tali terrori cambiano, ma mantengono una costante: appartenendo a quanto non è umano, non hanno nulla in comune con i lineamenti dell’uomo e sfuggono alla conoscibilità come al controllo umano. Una rivoluzione è in quanto documenta il cratere di Prònomos, dove accanto alla "mostruosa" maschera del satiro compaiono le maschere dell’uomo, distinte per rughe, per la condizione dunque di mortale soggetto al dominio del tempo. L’importanza di tale rivoluzione sta nell’aver colto l’orrore non come una forza esterna ma interiore all’uomo stesso, che traspare, attraverso le fasi d’invecchiamento del volto, dal suo procedere nel tempo. E’ questa rivoluzione che ha consentito il passaggio dalla maschera al tipo, al personaggio, al carattere comico, in cui si è spento il ghigno di Sileno decaduto in riso.
Annullandosi nell’istante il nostro tempo ha la hybris di avocare a sé l’eterno. Così anche l’eternità non è al di là dell’umano ma si configura come parte di una nuova umanità che in virtù del progresso ha conquistato la condizione divina. Sul volto dell’uomo scompaiono i segni del tempo e le fotografie degli "uomini illustri" – dei sopravvissuti direbbe Canetti – ci mostrano facce inalterabili, icone che neanche la morte, che puntualmente continua a fare il suo mestiere, riesce a scalfire. Una nuova razza di semidèi è sorta, ma non ascendono al cielo, non c’è un passaggio, come nella morte apparente di Maria o nell’apoteosi di Eracle; essi sono tali nel mondo. Una santità immanente. Per usare come paragone l’illustrazione di Prònomos, i volti dell’uomo sono equivalenti a quelli dei satiri. Ma questi ultimi sono nell’eternità per il ciclo naturale dell’eterno ritorno, mentre gli odierni santi sono tali perché il tempo si è annullato nell’eternità dell’istante. Nell’istante, che è istante del profitto, si annulla il dolore, l’invecchiare dei milioni di schiavi che lavorano senza volto, senza nome, nel tempo privato del tempo. La foto è il modo di fissare una volta per sempre quell’istante. Ma "la fotografia ha distrutto l’effigie".
Queste riflessioni potrebbero portare alla conclusione che non solo il mondo presente non ha bisogno di maschere (controlla ogni terrore, ha sottomesso ogni mostruosità, ha delimitato i confini della natura e può modificarla a suo talento), come non ha bisogno del ridere, ma che santo è il volto dell’uomo nell’eternità dell’istante.
Tuttavia non possiamo fare a meno, distogliendo lo sguardo da queste troppo facili conclusioni, di osservare che forse mai nella storia gli orrori si sono perpetrati oltre ogni misura umana, che mai essi hanno assunto forme non rappresentabili, che mai alla vittima è stato impedito di maledire il suo dio carnefice. Non possiamo invocare "Apollo, mio distruttore!", come Cassandra nell’Orestea , perché non sappiamo chi ci ha distrutto, né siamo in grado, vittime senza volto, di dargli un volto. Mai come adesso la formula astuta di Odisseo appare appropriata: chi ci colpisce? Nessuno. Mai come adesso la maschera del Nessuno, così popolare nel Medioevo e nel Rinascimento, potrebbe ambire a una nuova consacrazione. E pur essendo coscienti che tutto comunque deriva dall’uomo e che non si tratta di forze sovrannaturali, bensì di macchine, apparati, sistemi, leggi, il responsabile della nostra distruzione ci appare più distante e impensabile che non il terribile Fato. Le nostre angosce sono diventate, mentre le possibilità di intervento dell’uomo sul mondo aumentavano, ancora più grandi, disperate, irrisolvibili, incomprensibili. Mai come adesso l’epifania della maschera mostra la sua necessità, mai come adesso Adrastea-Ananke suona i suoi cembali sulla soglia della Notte . E con lei la necessità del riso. Non appartiene forse alla capacità di improvvisazione e a quella particolare intelligenza, tutta umana, del cogliere il valore di essere nell’istante?
Ma come si può mostrare questa epifania? Un’idea ci possono suggerire le tipologie della commedia dell’arte, uno dei repertori iconografici più copiosi della maschera comica. Il nostro tempo-istante è dominato da due forze: l’espansione dei processi economici e la loro imposizione per mezzo della violenza bellica. Non siamo in grado di dargli un volto, nonostante siano effetti del tutto umani, perché abbiamo perduto la capacità di dare volto al terrore e di riconoscerlo, come facevano i comici, nei ruoli stessi della "commedia umana"; inoltre se ricordiamo quelle tipologie non possiamo ignorare che la prima forza, che si identifica con il tempo stesso perché l’avidità si nutre dei suoi figli come il tempo che partorisce sempre nuove generazioni alla morte, è quella del mercante, mentre la seconda è quella del soldato, che ha coscienza del mondo unicamente al fine di distruggerlo. Il guerrafondaio, divorato dall’avidità di sterminio, non è che il doppio del mercante-tempo. Un uomo del Rinascimento avrebbe chiamato questi terrori con il loro nome di maschera: Pantalone e Matamoros. Volendo ricostruire un canovaccio dell’arte, Matamoros avrebbe ricoperto il ruolo del servo di Pantalone, il sosia spregevole e arrogante che gli spiana la strada. Sui palchi la loro ferocia sarebbe stata messa in ridicolo dalle trame e dalle invenzioni sceniche dei comici. Oggi quella ferocia, che non può trovare connotati simbolici adeguati se non in edulcorate e spensierate gag dozzinali, merita la nobiltà del ghigno. Non c’è più riso né maschera, ma non possiamo far finta di non sentire nelle nostre orecchie l’eco di un urlo ghignante, una nuova epifanìa del prima, come proferito dalla bocca sgangherata di Sileno: "economia militarizzata".

[da F. Mastropasqua, Teatro provincia dell’uomo, Livorno, Frediani, 2004]


 


 

Libri & altro: Appunti al ristorante con David Mamet per parlare di teatro
David Mamet, Note in margine a una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e il teatro
di Anna Maria Monteverdi

 

Esce per minimum fax l'edizione italiana di Note in margine a una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e il teatro di David Mamet a distanza di quasi vent'anni dall'originale edizione inglese (Writing in Restaurants). Si tratta di brevi o brevissime notes sulla scrittura teatrale e cinematografica (ma anche sulla decadenza dell'arte, sulla moda, sulla società americana) di uno dei più eclettici e straordinari scrittori statunitensi del secondo Novecento, da molti paragonato ad Harold Pinter, scritte per occasioni pubbliche (conferenze, commemorazioni, premiazioni) o private (appunti, annotazioni). Mamet è autore teatrale (American Buffalo, Glengarry Glen Ross, Speed the Plow) romanziere, ma anche regista (La casa dei giochi), attore e sceneggiatore cinematografico (Il postino suona sempre due volte, Il verdetto, Gli intoccabili, Hannibal). Note in margine a una tovaglia offre memorabili quanto minimali passaggi personali e appunti sulla vita nel teatro (titolo anche di una sua commedia) ovvero su quel gran teatro del mondo che si scontra quotidianamente con Hollywood e Broadway, con la celebrazione del production value, con lo star-system, con l'asservimento al produttore. Massime o pillole di «verità» che cortocircuitano arte e vita, individuo e società, etica comportamentale e etica teatrale, che sottolineano la vacuità dei «nuovi» riti metropolitani (dalla televisione commerciale alla celebrazione degli Oscar): «L'artista è un esploratore in avanscoperta della coscienza della società»; «Quando ci allontaniamo dai Principi Fondamentali del Teatro impartiamo al pubblico una lezione di vigliaccheria, una lezione di proporzioni enormi quanto il sovvertimento della Costituzione implicito nel nostro coinvolgimento in Vietnam». La varia umanità in gioco del libro (e che ha già abitato molte delle sue commedie e film) la troviamo nel racconto del dietro le quinte del film L'uomo di ghiaccio girato in Canada (con le gerarchie professionali, le idiosincrasie degli attori e la loro xenofobia, ma anche con l'inaspettata complicità di «gioco»), nel comportamento «da vere stronze» della sorella, della madre e della moglie o nella descrizione del carattere dei suoi avversari di gioco a poker nei Quartieri Alti, mentre dal modello narrativo offerto dalle barzellette sporche, o dai radiodrammi, si arriva alla denuncia sulla censura fatta passare per «preoccupazione per la fruibilità commerciale» e alla riflessione sull'attualità di Stanislavskij e del suo metodo.

David Mamet, Note in margine a una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e il teatro, minimum fax, Roma, 2004


 


 

Libri & altro: Communitas saggi per Benvenuto Cuminetti
Percorsi drammaturgici e teatrali. Atti del convegno in ricordo di Benvenuto Cuminetti
di Bernadette Majorana

 

Del bel volume di atti del convegno del 2002 in ricordo di Benvenuto Cuminetti, ora edito dalle edizioni della università di Bergamo a cura di Annamaria Testaverde, docente di Storia del teatro e dello spettacolo alla facoltà di Lettere della stessa Università, e di Graziella Dolli, moglie di Benvenuto Cuminetti, sua compagna e complice di vita teatrale, prima di tutto vorrei dire due cose.
Il libro è una testimonianza: testimonianza di persone che hanno condiviso per lungo o per breve tempo il percorso culturale e umano di Benvenuto Cuminetti. Ma è anche il documento di una scuola, di una linea di storici del teatro e di uomini di teatro di cui Cuminetti è stato uno degli interpreti più saldi e coerenti.
A questa linea, che fa capo a Mario Apollonio, e che corrisponde a una concezione del teatro – il teatro inteso come categoria dell’esistenza –, a questa linea Cuminetti ha dato un contributo originale notevolissimo, come emerge appunto dagli scritti raccolti nel volume e divisi in quattro sezioni integrate tra loro: tre tematiche e una di testimonianze.

Prima di tutto, allora, la riflessione sul teatro e sulla pratica teatro come condizione della esistenza della comunità, anche e soprattutto in un tempo – quello degli ultimi quarant’anni – di grave crisi della communitas.
Su questo aspetto si sono soffermati in ispecie gli autori dei contributi della I parte. Sisto Dalla Palma, Ulderico Bernardi, Claudio Bernardi, da angolature diverse e vicine, danno conto di tale vicenda. E della relazione fra rito e teatro, che dà il titolo alla sezione, rivelano tutta la problematicità e persino la drammaticità nel presente. D’altra parte confermano la necessità di non tradire tale relazione, che Claudio Bernardi, in particolare, incardina nella nozione di coro, traendola da Apollonio e riferendola all’impegno concreto di Cuminetti, per il quale il teatro corale è attualità che impegna e crea il rapporto fra individui, gruppo e istituzioni, e quello tra persone e comunità. Il coro inteso come esperienza partecipativa e responsabile.
Questi contributi mettono in campo molti dei problemi affrontati da Cuminetti, che aveva una capacità straordinaria di vedere (e spesso di anticipare) il nodo delle questioni. Fra queste, sempre nella linea teatrale di Apollonio, l’importanza della parola teatrale che dà voce al coro, cioè alla comunità permeata di conflitti, perdite, attese; e ancora la ricerca di un nuovo linguaggio rituale, nuovo perché antico, dove l’arcaico è inteso come contemporaneo, secondo una indicazione di Victor Turner ricordata da Ulderico Bernardi e da altri; la narrazione, la narrazione di sé e la finzione narrativa teatrale, come trama del tessuto comunitario; la possibilità di una drammaturgia rituale, capace di rivelare il sacro alla comunità per reinventarla.
Qui si innesta la visione storico-antropologica di Jean Verdeil, che rivà alla matrice del legame fra teatro e rito (la possessione e i culti) attraverso la nozione del mostrarsi nell’atto di diventare «un altro». Verdeil fa emergere la disponibilità a modificare il proprio assetto psicofisico quotidiano, a trasformarsi, a non essere se stessi come necessaria e propria dell’attore, sia dell’attore-sacerdote e dell’attore-iniziato delle società tradizionali, sia dell’attore-artista delle società moderne, all’origine delle quali, secondo Verdeil, sta l’implicazione pedagogica, e quindi gli obiettivi trasformativi individuali e sociali del teatro scolastico, e in ispecie del teatro di collegio gesuitico.
Il rapporto tra stato cosciente, dominio razionale ed esperienza inconscia che, ancora secondo Verdeil, fa da cerniera della condizione attoriale è l’oggetto anche del breve intervento di Pilar Latini.
È evidente, già in questa prima sezione, il riferimento a una serie di titoli e di letture, che finiscono col formare una mappa delle predilezioni di Benvenuto Cuminetti. È un filo rosso che in più parti del volume fa affiorare una capacità precipua di Cuminetti: quella di contagiare gli altri delle sue letture, che erano immense e sempre aggiornate, e di condividerne i frutti.
D’altra parte – come dice Antonio Martinelli nella sua importante ricostruzione del percorso formativo di Benvenuto Cuminetti – la lettura era intesa da Cuminetti come atto fondante della coralità e della socialità, della relazione.

Altra prospettiva in cui Cuminetti si poneva, come emerge in particolare dalla II sezione, intitolata a teatro e letteratura, è quella della centralità della parola, della parola poetica. Questa convinzione pure si lega al magistero di Apollonio, e trova nell’attività di Cuminetti uno sviluppo costante, una fede appassionatissima, che è, a parer mio, il forte del suo pensiero, e spiega anche il suo interesse per figure di attori come Louis Jouvet, a cui Cuminetti ha dedicato pagine molto belle.
Credo che sia stata questa la via maestra del coinvolgimento di colleghi e collaboratori della facoltà di Lingue lungo molti anni. Lo attestano in particolare il contributo di Nina Kauchtschischwili (una grande artefice di quella che presto è stata considerata ‘la tradizione di studi’ dell’Università di Bergamo) e quello di Sergio Signorelli, stretto collaboratore di Cuminetti nell’attività didattica universitaria.
La Kauchtschischwili propone la biografia interiore di un Michail Bulgakov essenzialmente uomo di teatro, e ne dispone l’immagine in un campo di tensioni laceranti, tra la spinta verticale della spiritualità russo-ortodossa che gli apparteneva e gli ostacoli opposti a questo volo dal regime; una immagine interiore che si chiarisce nel parallelo con il Molière raccontato autobiograficamente dallo stesso Bulgakov.
Signorelli lavora con grande finezza sul Savinio di Capitano Ulisse e sull’antitesi con il Pirandello del coevo riallestimento dei Sei personaggi in cerca d’autore al Teatro d’Arte: due risposte diverse alle domande sul tragico (attuali nel 1925 e attualissime oggi), con lo sguardo fermo al rapporto tra persona e personaggio, tra attori e spettatori.
In questa direzione si muove fra l’altro anche Ilaria Crotti nel suo lungo saggio, quando coglie nella scrittura de La locandiera goldoniana l’istanza attoriale presente nel personaggio.
Le testimonianze di Matilde Dillon Wanke (che ha coordinato il convegno di cui il volume raccoglie gli atti), di Rosanna Casari, di Stefano Ghislotti, sulla ricchezza e la varietà di iniziative e progetti di Cuminetti, sul coinvolgimento dei colleghi nella riflessione attorno agli spettacoli presentati al Teatro Donizetti negli anni della sua responsabilità artistica, danno la misura di quello che Cuminetti seminava nell’università e di come riuscisse a suscitare interesse verso un’idea di teatro niente affatto letteraria – nel senso di meramente testuale – ma invece profondamente radicata nell’uomo vivente (nell’attore e nello spettatore), nella comunità, che era appunto quella cittadina nella quale tanto l’istituzione teatrale quanto quella universitaria dovevano avere un ruolo altamente responsabile.

Infatti nella III sezione del libro e in molte testimonianze si disegna la figura di Cuminetti organizzatore e promotore di teatro: in particolare nell’analisi di Mimma Gallina, come sempre lucidissima, e nel breve intenso intervento di Micaela Bertoldi, l’assessore di Trento che ha collaborato con Cuminetti nel periodo della sua attività al Tetaro Santa Chiara di quella città.
In questa parte dell’attività di Cuminetti c’è la capacità di cogliere nelle istituzioni il valore strutturante, anche politico, della comunità; e dall’altra parte la capacità parimenti spiccata di agire coraggiosamente nella proposta rivolta alla collettività.
Mimma Gallina mostra di Cuminetti l’autonomia e intelligenza nelle scelte, la serietà impareggiabile nell’ascolto degli artisti, lo sguardo e l’azione mai demagogici o paternalistici, l’invenzione di criteri e percorsi del tutto nuovi e in seguito imitati.
Qui, davvero, il coro – che per Apollonio era rimasto un’aspirazione – trova il suo inveramento. Lo si sente anche negli scritti di Roberto Cavosi e di Gabriele Allevi, che con Cuminetti hanno avuto un incontro di segno profondamente creativo. E in quello di Beatrice Gelmi che presenta il Cuminetti attivo nella città dalle pagine de «L’Eco di Bergamo».

Infine, insieme con il rapporto fra teatro e città, nella stessa III sezione, c’è la questione della formazione, la questione cruciale della pedagogia e quindi della scuola, che ha nel testo di Pierre Voltz un contributo ulteriore alla riflessione che questo importante esperto francese ha condotto lungamente con Benvenuto Cuminetti. Mentre le testimonianze di Mafra Gagliardi sulla ricezione del teatro nello spettatore-bambino, e quelle di Walter Fornasa, il cui incontro con Cuminetti risulta importantissimo per l’ideazione del percorso di studi in Scienze dell’educazione della Università di Bergamo, di Maria Grazia Panigada e di Alessandra Mignatti sul teatro nella scuola dal punto di vista degli insegnanti, ne mostrano gli aspetti applicativi all’interno delle esperienze locali, e le indicazioni vitali in questa direzione.

Volendo guardare a questa raccolta nel suo insieme, quello che appare non è solo il profilo di un uomo – anzi di una persona come dice Anne Machet, pensando alla complessità etimologica del termine – di una persona, dunque, formidabile; ma anche una vita vissuta all’insegna della generosità: generosità intellettuale, umana, concreta fuori dell’ordinario. Una vita e un’opera davvero esemplari.

Benvenuto Cuminetti guardava con vivo senso di responsabilità all’insegnamento di Storia del teatro e dello spettacolo nell’università di Bergamo; e auspicava che la continuità fosse salvaguardata e alimentata nella linea del magistero di Apollonio e dei molti rivoli che di qui si sono dipartiti. Spero che il lavoro condotto da Annamaria Testaverde e da me costituisca un contributo al patrimonio da lui lasciato all’Università.
Ma voglio chiudere con una riflessione personale. Quando mi propose di partecipare al concorso per ricoprire, dall’a.a. 2000-2001, l’insegnamento che lui aveva ricoperto alla facoltà di Lingue per più di trent’anni, e che veniva bandito a contratto in vista del suo ritiro, avevo chiarissima l’ineludibilità di ciò che mi invitava a condividere, ma d’altra parte ero certa che qualunque idea di imitarlo sarebbe stata velleitaria. Questo nonostante la radice comune (dato che io pure, anche se indirettamente, in quanto allieva di Sisto Dalla Palma, mi colloco nella linea segnata da Apollonio alla Università Cattolica), la sensibilità comune per molti temi, l’antica e franca conoscenza, l’esperienza diretta maturata a mia volta nella vita teatrale cittadina e nella gestione artistica e organizzativa, grazie ai dieci anni di attività che ho svolto al CRT-Centro di Ricerca per il Teatro di Milano.
Il primo obiettivo che mi sono data, allora, è stato quello di mettere a frutto l’eredità del suo insegnamento accogliendo le richieste di tesi di laurea in Storia del teatro e dello spettacolo che mi venivano dai suoi studenti.
Dal 2001 ho diretto nel lavoro di tesi una quindicina di giovani allievi di Benvenuto Cuminetti: in tutti aveva suscitato non solo un interesse profondo per il teatro, ma anche il senso dell’avventura intellettuale e personale, e la serietà del desiderio di conoscenza.
Nella mia prospettiva, che nel succedere a Cuminetti nell’insegnamento universitario è prima di tutto quella della responsabilità pedagogica e scientifica, questa esperienza è stata di gran lunga la più sentita e utile; e da parte mia – attraverso la cura e l’impegno verso i suoi studenti – il più sincero omaggio a un uomo davvero notevole.

Percorsi drammaturgici e teatrali. Atti del convegno in ricordo di Benvenuto Cuminetti, a cura di Graziella Cuminetti Dolli e Anna Maria Testaverde, Bergamo University Press Edizioni Sestante

indice

Alberto Castoldi Presentazione degli atti

I Teatro e rito

Sisto Dalla Palma La scena rituale e gi orizzonti della comunità
Ulderico Bernardi Rito e comunità
Jean Verdeil L'attore il rito
Claudio Bernardi Teatro come coro
Pilar Latini La deformazione dei Rituali di morte e resurrezione: tre storie

II Teatro e letteratura

Nina Kauchtschishwili Dal testo alla biografia interiore
Ilaria Crotti I chiasmi teatrali della Locandiera
Elvio Guagnini Un mondo a schegge. Sul Timmel di Claudio Magris, a proposito della Mostra
Bernadette Majorana Lo spettacolo della parola
Sergio Signorelli Alberto Savino, Capitano Ulisse: le ragioni di un'avventura mancata

III Teatro per la città. Educazione/formazione

Pierre Volcz Le classi culturali artistiche dei "Theatrales": riflessioni sulla pedagogia delle arti
Mafra Gagliardi La risonanza dl teatro nello spettatore bambino
Mimma Gallina L'organizzatore: il "nuovo" compatibile e il "modello" Teatro Donizetti
Roberto Cavosi Il teatro come liturgia contemporanea

IV Testimonianze

Anne Machet Una persona
Antonio Martinelli Un itinerario formativo
Rosanna Casari Ricordo di Benvenuto Cuminetti
Matilde Dillon Wanke "Dire la poesia, dire i poeti"
Walter Fornasa Incontri inattesi. Un ricordo di Benvenuto Cuminetti
Alessandra Mignatti Teatro e processi educativi: la formazione degli insegnanti
Beatrice Sacchiero Gelmi Sulle tracce di Benvenuto Cuminetti
Maria Grazie Panigada L'ufficio Teatro-Scuola: storia di un'intuizione
Gabriele Allevi Benvenuto Cuminetti, o del Sacro teatro
Micaela Bertoldi Trento e il teatro: lo spettatore protagonista


 


 

Libri & altro: Compleanni i trent'anni del Teatro dell'Elfo in un album fotografico
Elfo Bazaar, a cura di Ferdinando Bruni e Pietro Cheli
di Oliviero Ponte di Pino

 

E’ il regalo che il Teatro dell’Elfo si è fatto per celebrare i suoi trent’anni. Un volume di grande formato (diciamo grande come una locandina) con tantissime foto a colori e in bianco e nero, con le loro didascalie, qualche citazione (una frase qua e là dai documenti programmativi della compagnia, una frase da tre-quattro critici non di più) e tre brevi testi (una affettuosa prefazione di Franco Fabbri, e poi i brevi appelli dei tre padri fondatori, Elio De Capitani e Ferdinando Bruni, che ancora reggono il timone della compagnia milanese, e Gabriele Salvatores, che ha da tempo spiccato il volo per il cinema).
Nel loro testo, una sorta di manifesto programmatico a posteriori, De Capitani e Bruni rilanciano lo slogan "More Ethics, Less Esthetics". Ma quale etica può emergere da un libro pieno soprattutto di immagini? Quelle di Elfo Bazaar sono soprattutto foto d’attori, e foto con una particolare qualità: molte di loro sono immagini da manifesto, o da locandina (e infatti sono state spesso usate per scopi promozionali). E in una compagnia da sempre attenta all’immagine e alla comunicazione, questa è una scelta senz’altro indicativa. Perché l’Elfo, al di là dei suoi registi, in primis quelli citati sopra, è da sempre prima di tutto un collettivo di attori – e anche De Capitani e Bruni sono stati attori prima che registi. E non è un mistero quanto abbiano pesato, nelle scelte di programmazione e repertorio dell’Elfo, la volontà, le necessità, le ambizioni degli attori, che costituiscono il nucleo portante del collettivo e dei suoi organi decisionali.
In questo senso, uno dei postulati etici della compagnia è proprio questo: la centralità dell’attore rispetto alla regia, alla drammaturgia, persino al repertorio (anche se è ovvio che la compagnia costruito e sviluppato una poetica coerente). E poi, attraverso la loro immagine oltre che con la presenza in scena, sono stati proprio gli attore a fondare e mantenere quello stretto rapporto con il pubblico che è tuttora uno dei grandi capitali della compagnia.
Così, in Elfo Bazaar, più delle scenografie, più delle riflessioni intellettuali, più delle storicizzazioni, a parlare sono i volti e i corpi degli attori, con una pulsione spesso esplicitamente o beffardamente erotica, a volte sparati in primissimo piano e ingranditi come per intercettare lo sguardo del lettore, a stabilire un contatto emotivo diretto con chi guarda, a innescare una sensazione, un turbamento. A punteggiare questi ritratti, queste figure spesso scontornate, sono alcune immagini di gruppo, altrettanto emblematiche.
Insomma, quello che conta di più nell’etica dell’Elfo, sembra dire il libro, non sono gli spettacoli, di cui è possibile cogliere appena un frammento, un «totale» quasi rubato, ma noi: noi attori e voi spettatori, nel contatto che possiamo stabilire all’interno del gioco della finzione scenica. Ecco, questo darsi così direttamente al pubblico presuppone un’etica, una sorta di onestà intellettuale, o meglio una innocenza anti-intellettualistica, che a tratti sfiora l’ingenuità, perché altrimenti il contatto risulterebbe ben presto falso, forzato, stonato. Ecco, quella che ispira l’Elfo è prima di tutto un’etica del volto e del corpo, ancora più importante della cultura, dei principi, della coerenza. Un’etica che implica, prima di tutto, la fedeltà a sé stessi.

Elfo Bazaar, a cura di Ferdinando Bruni e Pietro Cheli, il Saggiatore, Milano, 2004, 108 pagine, 35 euro.

Per chi vuole approfondire la storia della compagnia:

Gli spettacoli dell'Elfo nelle recensioni di Oliviero Ponte di Pino per "il manifesto".

I 25 anni del Teatro dell'Elfo, raccontati per "Diario" (19 gennaio 2001).


 


 

Libri & altro: Crudeltà le ultime parole di Antonin Artaud
Antonin Artaud, Succubi e supplizi
di Oliviero Ponte di Pino

 

Che dire? Artaud è il padre di tutti noi che amiamo il teatro, anche se in Italia è ancora troppo poco tradotto, letto e compreso (a parte il frequentatissimo Il teatro e il suo doppio). Suppôts et Suppliciations è uno dei suoi testi più violenti, profondi, poetici, disperati ed euforici, troppo pieno di vita e di morte. Un testo estremo, raccolto e ordinato dallo stesso Artaud negli ultimi mesi, dopo aver riacquistato la libertà al termine di un lungo internamento negli ospedali psichiatrici. Jean-Paul Manganaro e Renata Molinari - che hanno curato questo volume - non solo sanno moltissimo di Artaud, ma l’hanno anche vissuto sulla proprio pelle, nella propria carne, nella lingua.
Misurarsi con l’ultimo Artaud non è facile (il tentativo più compiuto, in questa direzione, è Teatro e corpo glorioso di Artioli e Bartoli). E’ uno dei grandi folli visionari della cultura occidentale, con Hölderlin e Nietzsche, Campana e Nerval, e tutta la sua opera lavora consapevolmente lungo il confine che separa il dicibile dall’indicibile, il pensabile dall’impensabile. Leggere Artaud (non osiamo pensare che cosa possa significare tradurlo) significa mettere alla prova il proprio sistema nervoso (prima ancora che la psiche o la ragione), andare in cerca di una auto-destabilizzazione.
Significa scontrarsi con l’enigma.

Antonin Artaud, Succubi e supplizi, edizione italiana a cura di Jean-Paul Manganaro e Renata Molinari, traduzione di Jean-Paul Manganaro, Adelphi, Milano, 2004, 520 pagine, 35 euro.


 


 

Libri & altro: Donne la regia estesa di Edith Craig
Roberta Gandolfi, La prima regista. Edith Craig, fra rivoluzione della scena e cultura delle donne
di Oliviero Ponte di Pino

 

Edward Gordon Craig è giustamente considerato uno dei creatori del teatro moderno, e dunque la sua biografia e il suo percorso creativo sono ampiamente studiati e analizzati (vedi anche gli saggi dalla mitica amm, La maschera volubile, Corazzano-Pisa, Titivillus, 2000). Mentre il destino di sua sorella Edith – figlia come lui di Ellen Terry, la grandissima attrice dell’Inghilterra vittoriana – è rimasto nell’ombra, malgrado gli stretti vincoli con il fratello e una carriera di sorprendente interesse. A portare in primo piano questa figura di donna e di artista è stata – almeno in Italia, ma anche all’estero non esistono ricostruzioni di questo respiro – Roberta Gandolfi, che le ha dedicato uno studio appassionato, che dopo essere stato la sua tesi di dottorato è divenuto il sesto volume della serie Culture Teatrali, diretta da Marco De Marinis per Bulzoni.
Nei suoi successi e nelle sue ritrosie, in quello che ha fatto e in quello che non ha potuto o voluto fare, Edith Craig (1869-1947) offre l’oggetto ideale per uno studio «al femminile» di un esemplare percorso umano e artistico. Edith Craig aveva senza dubbio notevoli doti d’attrice, regista, scenografa, pittrice, costumista... Aveva gusto e curiosità, tanto che fu la prima a far conoscere in Gran Bretagna autori come Paul Claudel e Nikolaj Evreinov. Se suo fratello è stato tra i primi e più conseguenti teorici della regia, lei è stata la prima regista britannica. Sulla sua sensibilità femminile, basti dire che è stata la prima donna a riportare sulle scene i drammi di Rosvita, la suora-drammaturga del X secolo. Aveva anche notevoli capacità di organizzatrice culturale: ha fondato e diretto una compagnia longeva e importante come i Pioneer Players e formato personalità come Sybil Thorndike e Joan Littlewood. Ha raccolto l’eredità del teatro suffragista e ha avuto un ruolo di primo piano nella grande stagione dello spettacolo sindacal-politico britannico della prima metà del secolo. Ormai matura, quando animava il Barn Theatre (un «teatro nel fienile» nella campagna inglese) è stata – forse – l’ispiratrice di un personaggio dell’ultimo romanzo incompiuto di Virginia Woolf, Between the Acts...
Insomma, una personalità ricchissima, una grande e generosa pedagoga, che però non ha lasciato un corpus di scritti di riflessione programmatica. Protagonista piuttosto di un’attività febbrile, in mille direzioni – quasi all’opposto dell’eterno teorizzare del fratello – si è mossa praticamente sempre ai margini della scena ufficiale – con cui peraltro si incrociava spesso – e in molti casi è stata attiva fuori dai teatri: è stata perciò una figura troppo ricca e sfaccettata perché la si potesse schedare e catalogare con facilità.
Un indiscutibile merito della Prima regista consiste proprio nel raccogliere i vari fili di una biografia e di una attività artistiche così complesse. Il secondo merito è il tentativo di dare un fondamento teorico alla diversità – e in qualche modo alla marginalità – di Edith Craig nella storia del teatro del Novecento: una marginalità determinata anche dalle difficoltà per una donna, in quel momento storico, ad affermarsi come regista teatrale, e poi dalla difficoltà degli storici a cogliere il senso di un percorso eccentrico. Ma in qualche modo questa diversità è stata anche il frutto di una scelta precisa: quella di intervenire, all’interno del teatro del suo tempo, muovendosi tra modernità e tradizione, ma senza mai rompere con quest’ultima, a differenza del fratello; e considerando la regia più come una evoluzione e un arricchimento della direzione di scena, come un alto artigianato in grado di proiettare il teatro nella società per mobilitare energie politiche e attivismo sociale. Insomma, una figura registica molto lontana da quella che si andava delineando all’inizio del secolo, il demiurgo in grado di mediare autorevolmente – e in definitiva autoritariamente – con la sua soggettività forte, tra il drammaturgo, gli attori e il pubblico.
Insomma, c’è anche, nelle ambizioni di Roberta Gandolfi, il desiderio di contrapporre una pratica registica assai diversa da quella «autoriale» affermatasi con i Padri Fondatori nel corso del Novecento – e dunque un modello considerato da Gandolfi implicitamente «maschile». Questa pratica alternativa è quello che l’autrice definisce «regia estesa», una ipotesi da ricostruire, più che rileggendo qualche scritto programmatico, nella pratica scenica. Perché è assai difficile trovare una definizione rigorosa di regia estesa, ma è piuttosto necessario lavorare per negazioni e approssimazioni:

«Edith Craig non concepì mai la regia come gesto definitivo e fondante, come punto di non ritorno della storia teatrale, spartiacque tra un "prima" e un "dopo" irrimediabilmente divisi; non muoveva dall’utopia visionaria dei teorici della civiltà teatrale del Novecento, quali furono suo fratello o Adolphe Appia o Antonin Artaud. (...) Per questo è regia estesa, per questo suo stare a cavallo fra Otto e Novecento, fra arte e vita, fra teatri d’arte e teatri politici. E’ un’altra strada del Novecento teatrale, che mette l’accento, più che sull’autonoma potenza creativa del teatro, sul suo valore d’uso: regia come istanza ideologica che mette in movimento il teatro nella società, nella cultura, dentro alla vita». (p. 195)

In tutto questo sono ovviamente centrali il ruolo e il peso della tradizione teatrale, e il rapporto che possiamo intrattenere con il passato e la sua forza esemplare. E trasmettere una memoria perduta, che possa tornare a essere viva e feconda, è probabilmente il terzo obiettivo di un saggio come questo.

Roberta Gandolfi, La prima regista. Edith Craig, fra rivoluzione della scena e cultura delle donne, Bulzoni, Roma, 2003, 512 pagine, 25,00 euro.


 


 

Libri & altro: Eduardo lautore, capocomico, attore
Tre saggi su Eduardo De Filippo
di Oliviero Ponte di Pino

 
L’attenzione storico-critica per il teatro di Eduardo De Filippo rappresenta per quantità e qualità un’eccezione nella nostra cultura teatrale. Alla «Memoria di Eduardo» è dedicata addirittura una collana di Bulzoni (o meglio, una sottocollana della Biblioteca Teatrale), curata da Agostino Lombardo e Ferruccio Marotti e sostenuta dall’Università di Roma «La Sapienza» e dal Ministero dei Beni Culturali.
I primi tre titoli affrontano aspetti molto diversi dell’attività del maestro napoletano. Come a concerto. Il Teatro Umoristico nelle scene degli anni Trenta di Antonella Ottai ricostruisce l’affermazione su scala nazionale di una compagnia dialettale come quella napoletanissima di Eduardo, Peppino e Titina: il racconto mette dunque in primo piano le scelte di repertorio e i rapporti con gli autori, innanzitutto Pirandello a Bontempelli, ma anche Lucio D’Ambra e Gino Rocca. Emergono così le strategie insieme commerciali e culturali con cui la giovane compagnia conquistò il pubblico di tutta Italia.
O capitano, mio capitano! Eduardo maestro di drammaturgia di Maria Letizia Compatangelo si concentra invece sulla Scuola di Drammaturgia che Eduardo – che all’epoca aveva già più di ottant’anni – tenne all’Università di Roma su invito di Ferruccio Marotti dal 1981 per tre anni, e di cui l’autrice fu allieva. Le lezioni di Eduardo alla Sapienza – «primo professore scritturato dell’Università italiana» – furono per l’epoca un vero e proprio evento, accolto con entusiasmo dagli studenti ma giudicato con qualche severità dai docenti vecchia maniera: «questo "incontro con un uomo straordinario"», ricorda nella sua Prefazione lo stesso Marotti, «è stato mal interpretato da taluni, che hanno creduto di dover smascherare le losche trame di un accademico reo di aver portato un "autore popolare" a insegnare all’università, rilevando come in realtà siano una pura banalità le idee e le affermazioni di Eduardo a lezione, che a me e ai miei studenti erano parse illuminanti – ricordo, ad esempio, quando spiegò che "l’attore, quando entra in scena, viene da lontano, sempre"». Maria Letizia Compatangelo racconta il corso di Eduardo – peraltro già ricco di bibliografia – in prima persona, come un romanzo di formazione, e facendo scoprire un uomo di teatro molto diverso dall’Eduardo duro e difficile di molta pubblicistica.
In Eduardo dietro le quinte. Un capocomico-impresario attraverso cinquant’anni di storia, censura e sovvenzioni (1920-1970) Maria Procino Santarelli affronta invece la parabola di Eduardo in una prospettiva insolita. Dopo aver collaborato con lui ed essersi a lungo occupata del suoi archivio (o meglio di alcuni degli archivi disseminati e ordinati in varie sedi, come si scopre da una delle appendici del volume), usa la corrispondenza e i documenti amministrativi come filo conduttore di una vicenda dai risvolti artistici, politici, amministrativi, imprenditoriali, organizzativi... I capitoli che ripercorrono questo mezzo secolo sono scanditi in tre sezioni. Prima una sintetica ricostruzione della situazione politico-culturale dell’Italia in quel momento storico, poi un’analisi della situazione del teatro e infine le scelte del capocomico e impresario Eduardo di fronte alle varie situazioni: dai rapporti con il regime fascista e i suoi censori più o meno comprensivi (ma Eduardo ebbe problemi anche nell’Italia post-fascista) alla difficile e costosa avventura del Teatro San Ferdinando, dalla sfortunata joint-venture con Paolo Grassi e il Piccolo Teatro di Milano alla vergognosa vicenda della direzione dello Stabile di Napoli, un miserabile capolavoro di ipocrisia italiana di piccolo cabotaggio – e un intrico che in qualche modo riverbera ancora sul Mercadante-Stabile di Napoli. Da un lato emerge tutto quello che Eduardo ha fatto, tra mille difficoltà; dall’altro si capisce quello che avrebbe voluto e potuto fare, se avesse trovato un paese – e una città – in grado di valorizzare le sue qualità. Anche se evidentemente nel nostro teatro la coerenza e la fedeltà ai propri principi difficilmente paga. A un amico che gli chiedeva di cedere al compromesso per salvare il progetto, Eduardo rispondeva:

«L’ambiguità non può portare ad altro che a confusione, e confusione a Napoli ce n’è già tanta. Quello che a me interessa è fare il mio mestiere e cioè fare del teatro. Se accetto dei compromessi, teatro come dico io, come lo intendo io, non ne potrei fare, e sarei costretto a diventare un politicante che si barcamena tra le varie correnti; questo francamente non mi interessa [...] Lo statuto [dello stabile napoletano, n.d.r.] che avevo elaborato dopo lunga riflessione, con l’assistenza dei miei legali e della commissione, mi dava garanzie sufficienti di poter lavorare con serietà, di poter estromettere i ladri e i profittatori, e perciò di poter finalmente creare a Napoli un teatro degno di un popolo civile. Come lei vede il mio proposito sta per fallire e io non posso farci niente.» (Lettera di Eduardo De Filippo a Domenico Petrocelli, Roma, 15 giugno 1965)

Eduardo dietro le quinte spazia insomma dai grandi nodi della politica culturale di quegli anni alla minuta attività quotidiana di una compagnia capocomicale, con tutte le sue difficoltà ma anche con l’ingegno imprenditoriale di un artista che sapeva anche essere ottimo amministratore e uomo di marketing – salvo rischiare di essere travolto dai debiti dal sogno di ogni teatrante, quello di avere un «suo» teatro. Ovviamente è solo un primo sguardo su un materiale molto più ampio, ma è anche una prospettiva affascinante per interpretare l’evoluzione di una compagnia (e di un artista). A conferma di questo fascino, in appendice sono raccolte alcune brevi interviste-conversazioni con alcuni dei collaboratori di Eduardo – quelli che lavoravano dietro le quinte, direttori di scena, sarte, amministratori... Sono squarci sulla materialità del teatro – di un teatro che non c’è più, probabilmente – e sulla capacità di mantenere viva e rinnovare la tradizione. Attraverso una serie di aneddoti, queste testimonianze offrono un ritratto spesso toccante di una personalità certo difficile e complessa. Tra tutte, assai toccante nella sua sintetica immediatezza è la voce di Anna Troiano, l’ultima sarta della compagnia. A un certo punto, racconta, Eduardo la chiamò vicino alla sua gatta.

«"Vuo vedè na cosa?" Pallina era lì, lui iniziò ad imitare il miagolio dei gatti e Pallina gli rispondeva, gli faceva il verso a tal punto che io dissi: "Direttò, non è possibile, voi fate recitare pure i mobili".» (p. 244).

Maria Letizia Compatangelo, O capitano, mio capitano! Eduardo maestro di drammaturgia, Bulzoni, Roma, 2002, 340 pagine, 25,00 euro.

Antonella Ottai, Come a concerto. Il Teatro Umoristico nelle scene degli anni Trenta, Bulzoni, Roma, 2002, 360 pagine, 25,00 euro.

Maria Procino Santarelli, Eduardo dietro le quinte. Un capocomico-impresario attraverso cinquant’anni di storia, censura e sovvenzioni (1920-1970), Bulzoni, Roma, 2003, 344 pagine, 25 euro.

 


 

Libri & altro: Futuro gli slogan evolutivi di Carlo Infante
Carlo Infante, performing media. La nuova spettacolarità della comunicazione interattiva e mobile
di Oliviero Ponte di Pino

 

Che cosa sono i perfoming media che danno il titolo al libro di Carlo Infante? Sono l’ultimo (o forse non lo sono già più...) «slogan evolutivo» coniato da Carlo Infante. E che cosa sono gli «slogan evolutivi»? Sono «delle formulazioni che sembrano quasi degli slogan, indicazioni per qualcosa che deve ancora accadere in modo compiuto anche se si raccolgono già da tempo segnali e conferme». Insomma, gli «slogan evolutivi» rappresentano un efficace strumento divulgativo, che opera attraverso la diffusione di una serie di parole d'ordine da riempire di contenuti e intenzioni.
Infante (che insegna e collabora con diverse università e istituzioni) sa da sempre che il futuro è in arrivo. Allora si mette lì dove si presenterà il progresso – perché quello che gli interessa in primo luogo sono gli sviluppi delle tecnologie della comunicazione – e prova a raccontare quello che sta per succedere e a immaginarne le implicazioni a livello sociologico o addirittura antropologico. Lo fa coltivando in sé un entusiasmo simpaticamente adolescenziale, anche se sa benissimo che ogni innovazione può avere dei contraccolpi, o degli aspetti negativi – però sapendo anche la tecnologia ha una forza ineluttabile, soprattutto quando è sorretta dal mercato.
I suoi libri, compreso questo, sono le ampie narrazioni di una vedetta a un posto di frontiera, il racconto di quello che succede, degli esploratori e delle tribù che incontra, e che a volte va a scovare nei suoi giri di pattuglia. Il tempo verbale è di norma il presente, perché il futuro è già qui e non ce ne siamo ancora accorti. Il passato remoto viene utilizzato quasi solo alla prima persona singolare – per ricordare le avan-scoperte fatte e le bandierine piantate negli scorsi decenni in quella terra incognita che era (allora) il futuro.
Insomma, performing media è uno sguardo in avanti, un giro d’orizzonte che intreccia il teatro e gli SMS, la rete e il marketing del territorio, la pedagogia online e le eterne promesse della realtà virtuale, il videoteatro e la cittadinanza digitale. Nella consapevolezza che la tecnologia, l’estetica, la politica e l’economia sono strettamente intrecciati, e con la speranza che alcuni dei marginali di oggi domani potranno essere domani al centro della scena.

Carlo Infante, performing media. La nuova spettacolarità della comunicazione interattiva e mobile, novecentolibri, Roma, 2004, 192 pagine, 15 euro.


 


 

Libri & altro: Intelligenza & passione i chiaroscuri napoletani di Martone
Mario Martone, Chiaroscuri. Scritti tra cinema e teatro, a cura di Ada D’Adamo
di Oliviero Ponte di Pino

 

Chiaroscuri raccoglie una serie di testi scritti da Mario Martone nell’arco della sua carriera ormai quasi trentennale di regista teatrale e cinematografico e in generale di attento operatore culturale. Dunque testi d’occasione, comunicazioni a incontri e convegni, documenti programmatici (come quello per la fondazione di Teatri Uniti nel 1987), prefazioni, i toccanti ricordi di un amico come Antonio Neiwiller, gli omaggi a maestri come Rossellini e Pasolini, un’intervista sulle sue messinscene della tragedia greca... Con due nuclei forti, a punteggiare il libri, lo scambio epistolare con la «invisibile» Elena Ferrante, l’autrice del romanzo L’amore molesto, da cui Martone ha tratto forse il suo film più intenso; e i testi relativi alla stagione in cui diresse il Teatro di Roma, con gli editoriali della rivista pubblicata in quel periodo dallo stabile romano, «La porta aperta», e la lettera al sindaco di Roma con cui Martone si vedeva costretto a porre fine a quella intervista. E, a chiudere, la problematica recensione di Marco Lodoli al recente L’odore del sangue, il film tratto dal romanzo postumo di Goffredo Parise.
Insomma, una serie di testi con varie genesi e destinazione, che però mantengono una grande unità di ispirazione, di tensione, e persino di tono. A cogliere con esattezza la nota caratteristica del regista napoletano sono, inevitabilmente, le altre voci – debitamente autorizzate dall’interessato, che dunque si riconosce in questo ritratto. A cominciare da Elena Ferrante, quando parla della «passione e dell’intelligenza con cui s’è buttato in questo suo lavoro», appunto la trasposizione cinematografica del romanzo. E’ proprio l’intreccio di passione e intelligenza a caratterizzare il percorso del regista napoletano, evitandogli sempre le due trappole simmetriche dell’estetismo e del cinismo, portandolo sempre a tenere presente la dimensione civile – prima ancora che politica – del lavoro artistico (e in questo si specchia la sua predilezione per la tragedia greca).
Marco Lodoli porta invece in primo piano il rovescio di questa medaglia: da un lato «l’arte deve avere un ruolo sociale, deve avvicinarsi ai problemi della realtà per raccontarli e spiegarli. E’ l’atteggiamento illuminista, ma anche coraggiosamente partigiano, di chi senza preconcetti osserva la miseria e la combatte». Ma, nota Lodoli, «in Martone c’è un lato torbido, limaccioso (...) una scaletta viscida che cala nel buoi di una cantina privata e universale». Insomma, «Martone sa cos’è l’impegno civile, ma sa anche quanto potente è nell’uomo occidentale – in lui, in tutti – la tentazione dell’annullamento». Ecco, in questo doppio legame di intelligenza e passione, di intelligenza e passione civile, ma anche di intelligenza e passione personale, si possono cogliere i «chiaroscuri» del percorso e della personalità di Martone. E forse anche le ragioni profonde di quel passaggio dal «regista chiassoso che ero nei primi anni della mia attività teatrale, e il regista bisognoso di un po’ più di silenzio che credo di essere diventato in seguito».

Mario Martone, Chiaroscuri. Scritti tra cinema e teatro, a cura di Ada D’Adamo, Bompiani, Milano, 2004, 264 pagine, 18,00 euro.

Per chi voglia saperne di più sul periodo più «chiassoso» della parabola di Martone, vedi su www.olivieropdp.it l’intervista apparsa su «Il nuovo teatro italiano», a cura di Oliviero Ponte di Pino. E naturalmente sulla vicenda del Teatro di Roma e sui più recenti spettacoli di Martone, fai una ricerca in questo sito.


 


 

Libri & altro: Letteratura e teatro il testo drammatico e lo spettacolo secondo De Marinis
Marco De Marinis, Visioni della scena. Teatro e scrittura
di Anna Maria Monteverdi

 

Il volume Visioni della scena di Marco De Marinis, direttore del Dams di Bologna e docente di "Semiologia dello spettacolo", uscito a distanza di pochi anni da In cerca dell’attore (2001) che partiva, auspice Fabrizio Cruciani, dall’idea dell’invenzione linguistica ed espressiva di una "drammaturgia dello spazio scenico" a opera dei fondatori della regia moderna, raccoglie testi e saggi presentati in antologie, riviste, atti di convegno internazionali sul rapporto tra teatro e letteratura. Un rapporto che ha dato vita a quell’infinita querelle recentemente ritornata in grande auge, tra la superiorità del testo (testocentrismo) o della scena di cui De Marinis tratta nel capitolo Il testo drammatico: un riesame. L’affinità tra novella e dramma in Pirandello, la poesia a teatro (Brecht e Beck; il repertorio del primo Living Theatre, Bene e De Berardinis), l’avanguardia teatrale "post Brecht" negli scritti critici di Barthes, le autobiografie o mémories degli attori: il libro accoglie in maniera originale, proprio questa varietà di scritture che abitano il luogo teatrale: un luogo di inedite e feconde intersezioni tra testi drammatici, saggi critici, teorie, memorie, autobiografie, accomunati -come ricorda l’autore- nello stesso statuto di scritture teatrali e di visioni della scena.
Nell’introduzione viene efficacemente chiarito il compito e il campo di indagine del teatrologo: si tratta innanzitutto di comprendere cosa si intenda per "esperienza teatrale", ridimensionando (o rovesciando) quell’estraneità o superficialità o addirittura incomprensione rispetto al fatto artistico di spettatore e studioso spesso ingiustamente denunciata dagli artisti. Il punto di partenza di queste considerazioni è una frase di Stanislavskij ripresa da Barba:

Quando Stanislavskij parla di inconscio, Mejerchold del "ricamo sul canovaccio dei movimenti", o Craig di "Uebermarionette" gli equivoci non nascono dall’imprecisione o dal carattere figurato dell’espressione, ma dal fatto che solo pochi hanno esperienza dell’arte tra coloro che ascoltano o leggono. E’ difficile capire il riferimento tecnico, concreto, circostanziato di queste espressioni che diventano volubili metafore. (E. Barba, La canoa di carta, 1993).

De Marinis sulla base proprio dell’esperienza diretta dell’ISTA International School of Anthropology fondata da Barba, indagando la dimensione della conoscenza-comprensione del teatro e del suo diretto uso (la teoria e la pratica teatrale), ridimensiona il giudizio di Barba e propone una (re)visione del fare teatro in base al quale i tre elementi chiamati in causa (attore-spettatore-studioso) sono necessari l’uno all’altro, non uno senza l’altro:

Si può fare teatro non soltanto producendo degli spettacoli, ma anche guardandoli, ossia: studiandoli, scrivendo su di essi, tramandandone la memoria, facendone la storia, indagandone i processi... Lo spettatore non è un attore fallito, o mancato: è, in quanto tale, l’altro indispensabile protagonista della relazione teatrale (così come il lettore non è, ovviamente, in quanto tale, uno scrittore fallito o mancato). Ma se vedere teatro è uno dei vari modi di farlo, allora "esperienza dell’arte" significherà non soltanto praticarla direttamente, in maniera attiva, ma anche, appunto, guardarla, tramandarne la memoria, studiarla e così via.

Il teatrologo indaga i processi (creativi e ricettivi) dalla sorgente alla foce, ha dell’arte sia esperienza pratica diretta che indiretta e il suo obiettivo dovrebbe essere quello di "combinare l’indagine sulle tecniche con l’indagine storica" ma anche "esortare gli artisti a una maggiore consapevolezza culturale e intellettuale".
Queste premesse introducono ai diversi saggi che prendono l’avvio dal rovesciamento del presunto retaggio letterario e antispettacolare che da Aristotele sarebbe giunto sino a noi (attribuibile piuttosto, secondo lo studioso, alla cultura classicista): attraverso il riesame della Poetica relativamente alla teoria dello spettacolo (opsis), De Marinis dimostra infatti la sostanziale infondatezza del presunto "disconoscimento di ogni dignità estetica allo spettacolo drammatico e alla rivendicazione, di retroguardia, del carattere esclusivamente letterario del teatro".
Rousseau (con l’esaltazione della festa en plen air nella Lettre à D’Alembert e le oscillazioni sul suo uso come strumento pedagogico pubblico o spontaneo-collettivo nelle Considérations) ispira l’importante capitolo dedicato alla Festa: alla decadenza della Festa popolare in epoca settecentesca incompatibile con la nuova economia di mercato e le cui pratiche vengono condannate in pieno clima Illuminista, si affianca l’utopia della ricerca di una festa "altra" quale "autorappresentazione di una comunità unanime". La "festa iconoclasta" (secondo la definizione di Starobinski) immaginata da Rousseau e il suo "uso ideologico-pedagogico" (con le quattro "abolizioni": della rappresentanza, delle immagini-oggetti di spettacolo, del profitto, delle disuguaglianze) secondo De Marinis, in contrasto con le tesi di Duvignaud e Jesi, ne farebbe un preludio alle Feste della Rivoluzione francese ( alle quali Fernando Mastropasqua aveva dedicato un libro Le feste della Rivoluzione francese-1790-1794--Mursia 1972). Il capitolo Barthes e il teatro: il dis-piacere della scena è incentrato invece sulla parabola teatrale di Roland Barthes quale spettatore e critico militante, letteralmente folgorato sin dall’epoca del lavoro di scrittura per la rivista "Théatre populaire", dalla visione de La madre di Brecht a Parigi nel 1954, evento che, insieme all’adesione incondizionata alla teoria epica-dialettica e al procedimento dello straniamento, lo porterà a scagliarsi contro il teatro e l’attore occidentale (a cui contrapporre la marionetta e in generale il teatro orientale). Le manifestazioni di consenso alle regie brechtiane si contrappongono al silenzio sui gruppi della neoavanguardia degli anni Sessanta: dal Living theatre a Grotowski, all’Odin Teatret, atteggiamento che secondo De Marinis sarebbe da attribuirsi all’"ortodossia brechtiana" che dagli anni Cinquanta influenza la visione di Barthes del teatro, e al "presbitismo intellettuale" che lo conduce all’aspro giudizio sia dell’avanguardia (e ai suoi "miti": l’"attore posseduto ovvero l’ipernaturalismo espressionistico, lo stile come "tecnica d’evasione") quale creazione della borghesia, sia del nuovo teatro accusato di non incarnare quell’ideale di superamento della rappresentazione, nella sua utopica visione di Testo e Musica:

"Amo il Testo perché per me è lo spazio raro di linguaggio da cui ogni "scena" (nel senso domestico, coniugale, del termine, ogni logomachia, è assente. Il testo non è mai un "dialogo": nessun rischio di finta, di aggressione, di ricatto, nessuna rivalità d’idioletti (...) Sulla scena del testo, niente ribalta: non c’è dietro al testo qualcuno di attivo (lo scrittore) e davanti qualcuno di passivo (il lettore); non c’è un soggetto e un oggetto (...) Non è una parlata, una funzione, il sistema vi si trova superato, disfatto" (1955).

Marco De Marinis, Visioni della scena. Teatro e scrittura, Laterza, Roma-Bari, 2004, pagine XV+195, 22 euro.


 


 

Libri & altro: Organizzatore le lettere di Paolo Grassi
Paolo Grassi, Lettere 1942-1980, a cura di Guido Vergani
di Oliviero Ponte di Pino

 

Nel campo dello spettacolo dal vivo Paolo Grassi è stato con ogni probabilità il primo «operatore culturale» moderno in Italia: la fondazione, la gestione e la direzione del Piccolo Teatro (per circa un quarto di secolo), la direzione della Scala in un periodo travagliatissimo, e infine la presidenza della Rai, per tre anni, fino alle polemiche dimissioni «Mi ritiro dalla vita pubblica perché sono disgustato dall’iperpoliticità e dalla partitocrazia», sono stati una guerra ininterrotta per affermare il valore di servizio pubblico della cultura. Non in astratto, ma dirigendo alcune tra le maggiori istituzioni culturali del nostro paese.
Certamente per chi legge queste Lettere, i brani più gustosi sono senz’altro quelli rivolti a Giorgio Strehler, in un irripetibile sodalizio umano e artistico – anche se dal punto di vista storiografico le bizze strehleriane non sono solo il sintomo della sua geniale sregolatezza, ma riflettono anche le impasse i vicoli ciechi del metodo registico da un lato e della pratica del teatro pubblico dall’altro, e dunque non possono essere ridotte a mere impennate e depressioni. Poi ci sono naturalmente le gustose reprimende del periodo scaligero, contro le canotte che sbucano dalle corazze, il sipario che si muove prima dello spettacolo o gli orologi del teatro che segnano tutti ore diverse, rendendo affatto misteriosa la proverbiale puntualità scaligera... E anche qui, vale l’attenzione e la cura per i dettagli, che fanno parte di una lezione che Grassi amava ripetere spesso, quasi parola per parola: «prevedere e non aspettare, fare al mattino ciò che si può fare il pomeriggio; fare il lunedì ciò che si può afre il martedì, essere addosso alle cose, essere ineccepibili sul piano della correttezza, dello stile, ecc.». Anche questa è una lezione che Grassi cercava di applicare prima di tutto a sé stesso: infatti in un paio di queste lettere chiede scusa per aver ecceduto, con scenate rimaste memorabili scenate. Però ribadisce con puntiglio la validità dei motivi che l’hanno indotto a sostenere quella posizione – pur senza essere stato nell’occasione ineccepibile sul piano dello stile.
Insomma, da queste lettere si può cogliere il carattere dell’uomo – anche nel tenerissimo rapporto, fatto si stima e di affetto, che lo lega, nel corso di tutta la sua carriera e soprattutto della sua vita, a Nina Vinchi, l’irripetibile «segretaria generale» del Piccolo Teatro.
Si può anche intuire che dietro a una figura che oggi appare titanica ci fossero una precisa visione politica (con la militanza socialista, via via meno salda dopo l’arrivo di Craxi alla segreteria), artistica e culturale, forgiate negli anni della guerra. Restano inevitabilmente in secondo piano i problemi, assai complessi, che si muovono dietro la parabola di Grassi e del Piccolo Teatro (e forse qualche apparato in più, sulla consistenza e ubicazione dell’epistolario, avrebbe potuto essere utile): un percorso straordinario, di ineccepibile modernità, e tuttavia una eccezione, all’interno del sistema Italia. In questo i trionfi e le difficoltà di Grassi e Strehler risultano emblematiche, non tanto delle loro eccezionalità – che sicuramente ci furono – quanto dell’impossibilità rendere sistema la loro «buona pratica».

Paolo Grassi, Lettere 1942-1980, a cura di Guido Vergani, Skira, Milano, 2004, 346 pagine, 24,00 euro.


 


 

Libri & altro: Regia le sue origini e il suo sviluppo
Il teatro di regia. Genesi ed evoluzione (1870-1950) a cura di Umberto Artioli
di Anna Maria Monteverdi

 

L’importanza degli studi di Umberto Artioli, recentemente scomparso, sulla regia teatrale del Primo Novecento è in larga misura legata al fondamentale Teorie della scena. Dal Naturalismo al Surrealismo (dai Meininger a Craig) pubblicato da Sansoni nel 1972 e mai più riedito (se non parzialmente come contributo alla monografia di Attolini su Gordon Craig), e ad alcune efficaci varianti di esso: Teoresi scenica del Primo Novecento raccolto nel volume di Cruciani-Faletti Civiltà teatrale del Ventesimo Secolo, 1978 e Teatro ed esoterismo tra simbolismo e avanguardia nel volume curato da Roberto Alonge e Guido Davico Bonino per la Storia del teatro moderno e contemporaneo (Einaudi, 2000). L’evoluzione della scrittura scenica (con la "fortuna" e con la diversa connotazione o spessore che questo termine ha assunto nel primo e nel secondo Novecento), l’affermazione dell’autonomia del regista rispetto alla materia poetica che per Artioli si incarnava fondamentalmente nella figura grandissima ("profetica") di Gordon Craig, ma anche la definizione di una nuova idea di scena quale "sintesi registica" che traeva suggestione dalla temperie artistica avanguardistica (il Simbolismo soprattutto) sono alcuni dei fili che si intrecciano all’interno di un volume che rimarrà nella memoria di quella storia del teatro intesa come storia del pensiero teatrale.
E’ proprio all’analisi della cinetica-visiva di Craig nel testo sopra citato che Artioli dedicherà alcune delle pagine più importanti (insieme ai volumi di Ferruccio Marotti) sul regista inglese, andando a rintracciare il senso profondo della sua opera in una ricognizione delle costanti visive delle sue regie, dalle giovanili opere in musica Dido & Aneas, The Masque of Love a Rosmersholm e infine all’Amleto di Mosca: l’essenzializzazione segnica delle figure e delle architetture di scena – le cui regole compositive sono messe in relazione significativamente con lo spazio pittorico astratto di Kandinskij – e l’ossessiva ricerca di unità nelle potenti e geometriche forme, nel simbolismo dei colori e nelle suggestioni visive, preoccupazioni tipiche delle sue prime giovanili prove (1900-1902). La "totalità espressiva" del teatro di Craig, secondo una bella definizione di Denis Bablet, era votata alla ricerca dell’epicentro emotivo del dramma, al nodo di tensione dinamica "cercando di non allontanarsi mai dallo spirito dell’opera in cerca di variazioni sceniche". Così Artioli:

Ogni singolo allestimento appare votato alla sottolineatura di una pronuncia emotiva dominante, in forza della quale le vibrazioni del testo poetico o musicale conoscono il proprio corrispettivo nell’organizzazione simbolica delle linee, delle luci, dei colori, dei movimenti. L’unità globale della rappresentazione viene mantenuta attraverso un’operazione di contenimento delle varianti all’interno di un unico tema, che rappresenta il nucleo originario di tensioni, l’asse privilegiato dell’intero dramma.

Il volume Il teatro di regia della collana «Le dimensioni del teatro» diretta da Roberto Alonge, con chiara finalità divulgativo-didattica come nella linea editoriale della Carocci, raccoglie saggi di autori diversi (Paola Degli Esposti, Elena Adriani, Elena Randi, Simona Brunetti, Cristina Grazioli) che propongono una (veloce) lettura proprio di quest’epoca primonovecentista (e delle poetiche annesse) spesso definita della "riteatralizzazione teatrale" e delle singole personalità teatrali coinvolte, e lo fa in apparenza proprio sulla falsariga del citato volume Teorie della scena: dunque Maeterlinck, i Meininger, Stanislavskij, la scena simbolista, i "padri fondatori" (Fuchs, Appia, Craig), il futurismo, il costruttivismo e il Bauhaus, il teatro politico di Piscator e la nascita della regia in Italia.
Ma il libro privilegia, piuttosto a vantaggio di un pubblico universitario, un percorso fondamentalmente storico-biografico talvolta non sufficiente a chiarire l’importanza rivoluzionaria di talune teorie e pratiche teatrali: ci saremmo aspettati per esempio, sulla scorta del precedente illustre di Artioli, un maggior spazio dedicato proprio alla scena di Gordon Craig, la cui scarna bibliografia esclude persino le storiche monografie di Innes, Bablet, gli studi della Eynat-Confino e quelli di Molinari.
La sintesi obbligata del manuale stringe anche su un personaggio centrale come Wagner, sui cui principi del Gesamtkunstwerk si sono confrontati artisti e teorici del Novecento accettando o rifiutandone l’utopia, filosofica, sociale ed estetica (tra gli altri, Dujardin e il discusso e ambiguo wagnerismo post mortem della "Revue wagnérienne", 1885-1888), trovando inadeguata la riforma scenica o proponendo una nuova interpretazione-rilettura dell’unione delle arti. L’opera d'arte totale (o comune o unitaria secondo le diverse traduzioni) ha suscitato posizioni e interpretazioni divergenti e opposte nei registi rifondatori del teatro moderno, ma fondamentalmente – secondo Denis Bablet e lo stesso Artioli – tradiva e prefigurava una comune aspirazione a un'ideale di accordo ed unità delle parti dello spettacolo sviluppatasi nella "sintesi scenica astratta" di Wassily Kandinsky, nel teatro sintetico futurista, nel "teatro della totalità" del Bauhaus di Laszlo Moholy-Nagy e di Oskar Schelmmer.
Artioli si sofferma poi sulla parabola di Copeau: l’incontro-folgorazione con Craig, Appia e Dalcroze, il tema dell’improvvisazione intesa come "spontaneità controllata", il teatro-festa. E soprattutto affronta ancora una volta Artaud cui aveva dedicato (con Bartoli) il volume Teatro e corpo glorioso:

Col Teatro della Crudeltà Artaud aveva creduto di sciogliere le impurità che affliggono lo Spirito tutte le volte in cui, entrando in contatto con le forze gravitazionali della Materia, tende a raggrumarsi e ad acquisire spessore. La Crudeltà coincide ora con l’opera di persecuzione di cui è oggetto il proprio corpo dolente, infestato dai mostri dello psichismo che ne suggono la linfa vitale. Di qui l’estremo appello al teatro, questa volta inteso come luogo di edificazione di un corpo di gloria, precluso agli assalti del dio e capace di sfidare la morte.

Il manuale dunque offre uno scorcio – forse troppo sintetico – di quel teatro che ha predicato e praticato, in opposizione al Naturalismo descrittivista, una scena rinnovata, astratta, straniata, stilizzata, autonoma dalla letteratura e non più schiava dei fondali dipinti. Un periodo in cui si delinea l’idea di una progettazione a teatro di uno "spazio di relazione", come affermava Fabrizio Cruciani (1985):

Le ricerche estetiche si sostanziano di una estesa tensione etica: determinare, attraverso il teatro, un rapporto con gli uomini che abbia "valore", che assuma "significato", recuperando una necessità che la cultura non riesce più ad avere. Dalle diverse poetiche e sperimentazioni si giunge nei teorici del teatro, alla prefigurazione di una società che del teatro abbia bisogno.

Il teatro di regia. Genesi ed evoluzione (1870-1950) a cura di Umberto Artioli, Carocci, Roma, 2004, 199 pagine, 16,60 euro.


 


 

Libri & altro: Rivoluzione il ritorno di Vachtangov
Evgenij Vachtangov, Il sistema e l'eccezione. Taccuini, lettere, diari
di Anna Maria Monteverdi

 

La casa editrice ETS di Pisa ha inagurato insieme con la Fondazione Pontedera Teatro, la riproposta della collana Oggi, del teatro, diretta da Roberto Bacci e Carla Pollastrelli e originariamente fondata per la Casa Usher da Fabrizio Cruciani con il Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera. Oltre a una selezione dei volumi più significativi già pubblicati nella vecchia collana e da tempo esuriti - strumenti fondamentali per lo studio delle pratiche teatrali del Novecento - si affiancheranno anche nuovi titoli.
Il primo volume pubblicato è quello di Evgenij Vachtangov, Il sistema e l'eccezione. Taccuini, lettere, diari.
La poderosa introduzione di Fausto Malcovati (80 pagine; datata 1984) illustra e contestualizza puntualmente la straordinaria biografia artistica di Vachtangov, soffermandosi sulla pedagogia e sulle regie (tra cui la Turandot, con scenografia di Nivinskij, considerata una pietra miliare nel teatro russo novecentesco). Ci offre inoltre, una chiave di interpretazione per adentrarci adeguatamente nella lettura dei testi selezionati, chiarendo per esempio i rapporti con il maestro Sulerzickij, quelli controversi con Stanislavskij e il suo “sistema” rivisto e corretto dallo stesso Vachtangov a partire già dal 1918, quelli con Mejerchold, e infine l'adesione - sia pur non immediata - alla Rivoluzione.
I testi di Vachtangov in forma di lettere, conversazioni, pagine di diario e note di regia raccolti in questo straordinario volume, ripercorrono la vita del regista-attore fondatore del Terzo Studio (Studio Vachtangov) del Teatro d'Arte e poi direttore anche del Primo Studio (carica affidatagli proprio da Stanislavskij), nonché direttore della Sezione di regia del TEO e dello Studio Habima e che fino all'età di 39 anni non smise mai di fare progetti (la costruzione di una Casa del Teatro per un Teatro del Popolo) e soprattutto di sollecitare la “studietà” per i ragazzi che entravano nel suo Studio e che non avevano alcuna esperienza teatrale: disciplina, mutuo soccorso e mutuo rispetto, dedizione assoluta per il teatro, amore per l'arte:

“Voglio allestire uno Studio dove si possa studiare. Dove il principio fondamentale sia qullo di raggiungere tutto da soli. Dove il maestro sia tutto. Tutti coloro che entrano nello Studio devono amare l'arte in generale e quella del teatro in particolare. Cercare la felicità nell'opera d'arte. Dimenticarsi del pubblico. Creare per sé. Divertirsi per proprio conto. Giudici di se stessi “.

Evgenij Vachtangov, Il sistema e l'eccezione. Taccuini, lettere, diari, Pisa, Ets, 2004.

Vedi anche:

Evgenij B. Vachtangov, La gioia della scena. Diari, lettere, appunti di lavoro, il principe costante, Milano, 2002.


 


 

Libri & altro: Simbolismo l'origine delle avanguardie
Roberto Tessari e Massimo Lenzi, Maschere e musiche. Saggi, materiali e studi sul Simbolismo teatrale
di Anna Maria Monteverdi

 

Massimo Lenzi e Roberto Tessari, l'uno studioso di teatro legato alla drammaturgia e alla regia russa, il secondo una delle più autorevoli voci della critica teatrale del Novecento, hanno dedicato questo volume ad alcuni temi e autori che, ad inizio secolo, hanno portato alla frantumazione del teatro tradizionale. Il volume è, infatti, un'attenta lettura di una corrente artistica quale il Simbolismo, vista come "progenitrice" di tanta avanguardia teatrale contemporanea.
Lenzi nella prima parte del volume parla di Aleksander Blok, di cui si dà un'analisi del dramma Roza i Krest del 1912, summa dell'opera blokiana, per dimostrare la "centralità del linguaggio poetico in un contesto drammaturgico", ovvero, la "funzione drammaturgica del ritmo versificato", scendendo a scandargliarne sin nei dettagli varietà, costanti e musicalità, nella prospettiva dello studio "metricistico" di Rudnev. Materiali di studio sono stati i Diari e i Taccuini blokiani relativi alla pièce, da cui è stato possibile verificare la genesi creativa, l'ipotesi di messa in scena, le diverse "redazioni" del testo, l'elaborazione del tema dei "conflitti sociali ed individuali ingenerati nel mondo cristiano dall'eresia catara".
Tessari propone invece un excursus che va dal Wagner di Bayreuth (che congeda il Duca di Meininger e il suo "realismo ricostruttivo e archeologico") al Jarry del dissacrante Ubu Roi (che dà inizio al Simbolismo teatrale) al blokiano Balagàncik (La baracca dei saltimbanchi) con la regia del capofila dell'avanguardia teatrale sovietica, Vsevold Meyerchol'd, soffermandosi sul significato della maschera nella teatrologia simbolista, percorso che conduce alla "tentazione teatrale della visionarietà", ma fors'anche (e con questo crediamo di giustificare il titolo del volume) attraverso quella polarità di cui parla nel 1871 Nietzsche, quando coniuga Apollo e Dioniso: i personaggi sono maschere (laddove nello spettacolo naturalistico sono "personaggi verosimili") e il ritmo è una danza:
"Qualora volessimo restare a livello di metafore", ricorda Tessari, "dovremmo dire che il Dioniso manifestatosi attraverso Ubu Roi e Balagàncik non è quello della tragedia, bensì quello della commedia: non il nume di uno stile rappresentativo teso a riflettere intorno al mistero della sua morte e resurrezione, ma il puer aeternus delle Lenee e del Komos – lo spirito "infantile", dissoluto e scapestrato, negatore di qualsiasi certezza, devoto della confusione, amante del turpiloquio e della denigrazione senza limiti, di cui possiamo trovare chiare tracce nelle opere di Aristofane. Come aveva intuito Yeats, il teatro 'vivo' del Novecento non nasce da una improbabile sintesi di estenuate forme moderne e di astratte speranze nel recupero d'una "sacra barbarie" primigenia. Si profila invece attraverso lo sberleffo (goliardico o accorato, poco importa) che oltraggia e scompone tutte le certezze accreditate senza eluderne il peso concreto".
Ubu roi (1896) e Balagàncik (1906) sconvolgono le regole e le convenzioni del dramma, del personaggio (che diventa maschera), dell'attore (che nella profezia di Craig dovrebbe assurgere al rango di Supermarionetta), sconvolgendo equilibri e certezze e anticipando la ricerca del Secondo Novecento, da Carmelo Bene al Living Theatre.

Roberto Tessari e Massimo Lenzi, Maschere e musiche. Saggi , materiali e studi sul Simbolismo teatrale, mpf Editore, Lucca.


 


 

Libri & altro: Stato della Chiesa il teatro nel regno del Papa Re
I teatri di Ferrara, a cura di Paolo Fabbri
di Oliviero Ponte di Pino

 

Ferrara, con la corte estense, è stato uno dei poli del teatro rinascimentale, ospitando feste e spettacoli memorabili e contribuendo in maniera determinante alla «invenzione del teatro» che segnò la prima età dell’oro nella storia della scena moderna. Non sorprende dunque se finora proprio il periodo estense sia stato quello studiato con maggior attenzione. Il presupposto implicito di questa attenzione è che l’annessione forzata di Ferrara allo Stato della Chiesa, alla fine del Cinquecento, avendo posto fine, più o meno bruscamente, alla vita di corte, avesse anche trascinato con sé la rovina dei teatri. Partendo da una serie di studi e ricerche (spesso confluiti in tesi di laurea), questa ampia ricerca a più voci evidenzia invece la continuità dell’attività teatrale a Ferrara, seguendo la programmazione (e la costruzione dei luoghi di spettacolo) per due secoli.
Insomma, anche nei retrivi domini pontifici l’attività teatrale – con difficoltà più o meno grandi – è in ogni caso proseguita, costituendo uno degli ingredienti significativi della vita della città, ma anche un importante momento di apertura e di scambio con l’esterno.

I teatri di Ferrara, a cura di Paolo Fabbri, 2 voll., Libreria Musicale Italiana, Lucca 2002, 742 pagine, 80 euro.


 


 

Libri & altro: Teoria la voce del teatro
Antonio Attisani, L’invenzione del teatro. Fenomenologie e attori della ricerca
di Fernando Marchiori

 

L’affascinante e ambizioso delinearsi, negli studi di Antonio Attisani, di un discorso sul teatro come ramo di una storia naturale della conoscenza trova nelle pagine di L’invenzione del teatro. Fenomenologie e attori della ricerca (Bulzoni, Roma, 2003), un’apertura d’orizzonte teoretico che è raro incontrare nell’ambito delle discipline dello spettacolo.
Ponendo la questione epistemologica della natura di una scienza, "o meglio una euristica dei teatri", Attisani fissa in prima battuta un cardine metodologico del suo contributo alla definizione di una teatrologia che a noi appare come una possibile ecologia del teatro: il sottrarsi all’ostentazione del "minaccioso dover essere del teatro", la "rinuncia a legiferare, limitandosi a evidenziare le costanti generative dei molteplici processi osservati e tenendo ben presente quale sia il ruolo della teoria e della critica rispetto alla effettiva operatività della scena".
Ne consegue non la presunta oggettività di uno sguardo asettico sui fenomeni in esame, ma al contrario un mettersi in gioco con la consapevolezza ermeneutica dei propri pre-giudizi, dichiarando con onestà intellettuale il "luogo da cui si parla", e nel contempo un disporsi ad attraversare e a lasciarsi attraversare da sollecitazioni, differenze, interferenze che spostano e rimodellano costantemente il campo d’indagine e di confronto, senza che perciò venga meno la tensione a una visione d’insieme che alimenti il nostro prendere la parola.
Discorso vuol dire appunto questo: lo scorrere vivo di una voce che tracima dagli argini normativi della lingua, secondo la lezione di Meschonnic che qui forziamo a intendere il linguaggio disciplinato della cultura teatrale, canonizzata da una storiografia scientifica così spesso avulsa e feticista. Discorso che risponde all’oralità dell’accadimento scenico, che ne interroga l’entropia.
Si direbbe che, accogliendo l’invito wittgensteiniano, Attisani abbia gettato la scala sulla quale è pazientemente salito, quella della critica e della storiografia, per provare a guardare su un piano diverso le questioni fondamentali del teatro, campionando elementi di una critica della critica e di una controstoria, o meglio antistoria – discontinua, plurale, che parta dal presente e ponga al suo centro l’organicità e l’autonomia creativa – della scena. Se della critica rifiuta la vocazione al giudizio, l’impronta ideologica, alla storiografia corrente rimprovera la separatezza, effetto e causa insieme dell’emarginazione secolare del teatro quale espressione e intelligenza del mondo: «il teatro è sottratto alla storia proprio attraverso la creazione di una storia del teatro intesa come materia a parte, definita da un proprio lessico».
Così per esempio, nel capitolo dedicato a Mejerchol’d, la forma grottesco viene inserita e fatta reagire all’interno di una teoria culturale che, mentre si ancora saldamente alla disamina dei caratteri e delle funzioni dello "straniare la realtà", ne trascende il dato tecnico e i confini spazio-temporali, illuminando una filosofia d’artista, formatasi sul terreno delle pratiche, come controcanto "allo schematismo utopico e realistico del potere". Un’invenzione, un Canto storicamente determinato ma universale, e perciò in dialogo non solo con le voci coeve (Stanislavskij, Craig, Pirandello, Salvini, la Duse e la tradizione grandattorale italiana idealizzata dal maestro russo, ecc.) e con chi del grottesco e di quelle voci si è occupato (Ripellino, Picon-Vallin, Beltrame, ecc.) ma anche con la testimonianza di Benjamin e con le corrispondenze dalla Russia di Cardarelli, con Brecht e con Poe, con il pensiero mistico di Simone Weil e con la poesia di Bernard Noël.
Questo procedere – giova sottolinearlo – è il contrario dell’eclettismo quanto dell’esercizio erudito. Da una parte, infatti, Attisani si inoltra con rigore filologico in questioni ancora poco frequentate negli studi su Mejerchol’d, come il milieu culturale più mitteleuropeo che russo, l’influenza reciproca con Marinetti, la prefigurazione di uno spettacolo senza teatro. Dall’altra emerge sempre l’umiltà intellettuale e la generosità pedagogica di chi cerca di confrontarsi "con la vicenda teatrale intesa non come cumulo di nozioni ma come inappagabile ricerca di senso, tanto dell’arte scenica quanto della vita". Non a caso, l’eredità mejercholdiana che lo studioso indica alle generazioni future è "non soltanto un paradiso delle forme e una continua festa di invenzioni", ma anche un patrimonio di "riferimenti essenziali concernenti l’etica e la ricerca spirituale del creatore teatrale".
Si potrebbero portare molti altri esempi: lo sforzo di chiarezza semantica e concettuale intorno ai "millenari equivoci" sulle origini del teatro, con un’arcata che sbalza subito il lettore dallo sciamanesimo e dalla ritualità agli elementi suggestivi di una riflessione cross-cultural pienamente in atto; l’intenso corpo a corpo con "il presente di Grotowski" che serve allo studioso anche come messa a fuoco del proprio metodo critico; la definizione di un teatro poetico attraverso le eccezioni della Duse e di Carmelo Bene, attori-autori la cui arte è comparabile per la carica autopoietica ed emergenziale, per l’importanza data allo sviluppo delle tecniche del corpo, per la tensione verso un "pensare incarnato". Anche in quest’ultima partita teorica, Attisani non esita a far entrare in gioco una pluralità di punti di vista, in particolare quelli di Artaud e Mejerchol’d. En passant notiamo il rilievo dato nel libro, proprio per i casi di Bene e della Duse, all’analisi della scrittura scenica attraverso il suo precipitato filmico: Cenere e Nostra Signora dei Turchi. Dalle ombre del teatro che le pellicole ci restituiscono – e da questa sorta di sguardo del teatro su se stesso – muove un’analisi delle teknai attorali e delle partiture mimico-gestuali, ma anche una potente ipotesi che abbraccia le poetiche dei due più grandi attori della scena italiana del XX secolo: "che la declinazione beniana della crudeltà, in quanto altro estremo del medesimo sentire, si ricongiunge alla compassione dusiana".
E ancora, la caparbietà con la quale torna a interrogare la figura di Francesco d’Assisi "dal punto di vista del comportamento performativo", conduce Attisani a un tentativo di definizione della "teatralità francescana" che ne ribadisce la cesura rispetto alla tradizione europea rinascimentale e post-risorgimentale, e al suo sistema di rappresentazione, e lo indica, dopo un serrato confronto con le fonti meno manipolate dai commentatori e dalla vulgata agiografica, quale esempio di una performatività in cui attore artifex e attore pontifex non sono ancora divaricati. "Teatralità come un’attività filosofica e cognitiva, come gioco e insegnamento nel quale ciò che conta non sono le forme come risultato, ma un’azione che trasforma il corpo-mente di attori e spettatori".
In questo senso, la figura del "folle di dio" viene ricollocata dall’autore laddove la storiografia non lo ha mai riconosciuto: alle radici dell’albero teatrale occidentale. Non modello da imitare (la sua essendo una rivoluzione inimitabile) ma riferimento propulsivo, esempio della possibilità di essere le due cose insieme: attore ma anche autore e protagonista della (propria) esistenza"
Come il mitico fondatore del teatro tibetano, Thaangtong Gyalpo, anche Francesco mette in secondo piano la forma scritta, convinto che "l’essenziale si potesse trasmettere soltanto nella relazione individuale".
Come si vede, l’alternativa alla separatezza storiografica non è una storia spuria delle arti sceniche, quanto il riconoscimento dell’esistenza di un teatro pensante e di un pensiero teatrante che già da sempre si confrontano dando vita a un theatrum philosophicum nel quale gli specialisti della storia del teatro mettono piede tanto raramente quanto nei luoghi fisici della ricerca in atto. La forza dell’approccio di Attisani non risiede perciò nel recupero di un più ampio contesto storico e nell’analisi incrociata delle connessioni sincroniche e degli sviluppi diacronici dei fatti teatrali – ciò che lo condannerebbe allo storicismo – ma nel mediare un incontro e instaurare un fecondo dialogo tra i maestri e i protagonisti della scena, soprattutto novecentesca, e anche gli storici, i poeti, il pensiero orientale (il buddhismo e il taoismo, in particolare tibetano, di cui l’autore è profondo conoscitore), la ricerca scientifica e la filosofia, privilegiando autori indisciplinati come Benjamin, Derrida, Varela, Nancy, Deleuze-Guattari.
Il metodo è dunque transculturale, transdisciplinare e comparativo, la forma quella dell’essai. L’obiettivo: andare "oltre il teatro con il teatro". Dove con il teatro significa attraverso il pensiero del teatro – la costante verifica delle coordinate culturali che s’incrociano nel teatro sia come territorio delle forme, sia come esperienza di verità e processo di trasformazione – ma anche attraverso la concreta creazione teatrale in quanto allegoria, ovvero, nell’accezione benjaminiana, strutturazione possibile di "qualcosa di non detto né dicibile" altrimenti.
Qui infatti la teoresi aderisce intrinsecamente, stabilendo rapporti di interdipendenza reciproca, al suo presunto contrario, la prassi scenica, in un percorso che ha da tempo assunto una decisione, uno spostamento d’asse teorico che vuol essere fondativo senza mai perdere di vista la materialità di quelle forme e di quei corpi-mente in trasformazione, ossia le fenomenologie e gli attori che il sottotitolo del volume precisa essere i protagonisti dell’invenzione del teatro.
Così, per esempio, nell’intento apparente di applicare all’indagine teatrologica il concetto di allegoria, e destreggiandosi strada facendo con le implicazioni della più controversa tra le figure retoriche, non solo Attisani affronta di petto uno dei luoghi più ostici dell’opera di Benjamin, il saggio sul Trauespiel, ma ne ricostruisce criticamente la ricezione, specie in Italia, e non solo negli studi teatrali (Solmi, Cases, Schiavoni, Masini, Desideri, Calasso...), per poi giungere al confronto con l’esperienza del Théâtre du Radeau. Sono pagine intense e di grande finezza esegetica, che affinano lo sguardo su una realtà, quella del gruppo francese, cui Attisani da tempo rivolge una particolare attenzione. Ma, ciò che più importa, Attisani non "applica" semplicemente il concetto preso in esame all’oggetto del suo studio, non cede alla pigrizia intellettuale – alla violenza intellettiva – di una estensione del tropo all’analisi della produzione del Radeau, ma perviene, al contrario, proprio attraverso il dialogo con l’arte di Tanguy e compagni, a una prossimità insondata con "l’essenza interiore dell’allegoria", una "allegoria distesa nel tempo, che svanisce mentre si fa", che risveglia la percezione e la mente, perché non tramette un’idea, ma mette "in contatto un mondo con una sua immagine, all’interno della quale, e a partire dalla quale, si svolge un’azione".
Come la grandezza – l’autenticità – di autori consacrati come Eleonora Duse, Antonin Artaud, Jerzy Grotowski, Tadeusz Kantor o Carmelo Bene, viene riconsiderata alla luce della categoria interpretativa "aperta" dell’invenzione del teatro ("La loro attività non consiste nella creazione di spettacoli, ma nella invenzione del teatro"; "Ognuno dei loro spettacoli anziché appartenere a un genere sembra fondarne uno"), così lo studioso è chiamato al superamento dei limiti tanto dell’assolutismo quanto del relativismo critico "usando il metodo della prima persona" e cioè facendosi terreno di confronto ma anche, diremmo, di invenzione della critica, stemperando l’inevitabile giudizio in una "danza tra idee diverse". E l’immagine – parafrasi della danza degli opposti che l’antropologia teatrale pone a fondamento dell’equilibrio instabile del corpo-in-forma dell’attore – rende bene sia l’idea della libertà della critica (ma anche del suo intrecciarsi in rapporti sempre nuovi con i segmenti vivi nel corpus della tradizione e del sapere), sia della concezione dello studio del teatro come dialogo con i fenomeni scenici che giunge ad avere in comune concetti e metafore (quasi che questa opera di invenzione possa rivelarsi infine, pur nella distinzione dei ruoli, come il portato di un "lavoro d’arte comune" – per estendere un’espressione cara all’autore).
Se il teatro è sempre inteso da Attisani, grotowskianamente, quale mezzo di ricerca e superamento di sé, cammino di conoscenza e trasformazione (il paradigma dell’invenzione farebbe cadere la distinzione tra arte come presentazione e arte come veicolo), anche lo sforzo teorico-critico risulta un affinamento, progressivo e sempre radicato nell’ethos, del linguaggio interpretativo. Lo studioso stesso viene inteso come "luogo di transito e di trasformazione" di un lessico e di una mappa concettuale raggiunte precariamente "attraverso una doppia verifica, da una parte identificando le fonti del linguaggio artistico e dall’altra mettendole in prospettiva insieme ad altre". Può valere anche per un autore misterioso come Grotowski, se si riesce a "orientare il timone in base alle medesime domande che si poneva lui". Accertamento della matrice lessicale e attenzione alle motivazioni fondamentali – ma si direbbe anche una compassione, un intonarsi al quel canto che scompare affinché i suoi echi possano continuare a risuonare altrove, sia pure in tonalità e composizioni diverse e magari lontane.
Come il teatro, anche il discorso sul teatro può farsi cioè luogo di un’inquietudine, di una creazione di differenza rispetto alle superfici della realtà, di una "trascendenza dell’immanenza" (ethos di trascendimento, dice anche Attisani citando De Martino). Il fuoco di paglia che è il teatro ("Ogni teatro che tocca il cuore e fa pensare, inventa il teatro e muore con esso", dichiara l’incipit del libro), si spegne solo un po’ più lentamente, ma inesorabilmente, nelle descrizioni degli spettacoli. Resta cenere nelle urne eleganti dell’aridità filologica. Ma il suo riflesso può continuare a brillare nel cuore e nei pensieri – talvolta perfino nella scrittura – di chi ne è rimasto toccato.


 


 

Le recensioni di ateatro: Elettra di Hugo von Hofmannsthal
Un progetto di Andrea De Rosa e Hubert Westkemper, produzione Mercadante Teatro Stabile di Napoli
di Andrea Balzola

 

La terribile sorte di Elettra che ha tanto appassionato i drammaturghi greci (Sofocle ed Euripide) e successivamente Alfieri, von Hofmannsthal, O’Neill e Giraudoux, autori di testi ad essa ispirati, continua ancora a suggestionare l’immaginario registico contemporaneo. Questa figura che vuole vendicare il re padre uccidendo la madre adultera e usurpatrice per mano del fratello Oreste, fedele fino all’estremo sacrificio, dedita all’amore e all’odio con la stessa assolutezza, tanto da trasformare e forse da confondere l’uno nell’altro, vittima e carnefice nello stesso tempo, schiava e principessa, violenta e sensibile, di vocazione casta e incestuosa, barbara e sofisticata, è la regina dei contrasti e perciò personaggio di straordinaria potenza drammatica, un mito archetipico (e scusate il neologismo, "arche-edipico", al femminile).
Elektre, testo scritto da von Hofmannsthal nel 1903, poco dopo la pubblicazione dell’ "interpretazione dei sogni" di Freud e sull’onda lunga del disfacimento dell’impero asburgico, proietta le inquietudini profetiche del Novecento sul passato, ispirandosi direttamente alla versione di Sofocle (del 425 a.C.) ma trasfigurandola in una visione barbarica e pulsionale della grecità, ben lontana dai modelli neoclassici; già innestata sul futuro di una drammaturgia "decadente" e "psicologica". La versione musicata da Strauss (tra il 1906 e il 1908) renderà celebre questa riscrittura della tragedia, facendone un capolavoro del neoromanticismo musicale.
Il giovane regista napoletano Andrea De Rosa, di area martoniana, e Hubert Westkemper, uno dei più creativi e sofisticati sound-designer della scena europea (collaboratore degli spettacoli più complessi di Ronconi, ma anche di Wilson, Corsetti e altri), hanno voluto riportare in scena questo testo – non molto frequentato in Italia - con una scelta rigorosamente minimalista sul piano della regia e con una soluzione inedita sul piano della fruizione sonora dello spettacolo. Tramite una tecnica innovativa di ripresa del suono, l’olofonia, che prevede l’uso di una cuffia stereofonica da parte dello spettatore e un isolamento acustico tra palco e platea (risolto scenograficamente con una parete trasparente che accentua la dimensione claustrofobica di Elettra), Westkemper ha sapientemente creato una "soggettiva" sonora della protagonista Elettra: lo spettatore sente la sua voce, le voci degli altri personaggi e i rumori d’ambiente come se fosse dentro la testa di Elettra, con effetti acustici di spazializzazione e di dettaglio particolarmente efficaci, dove l’ascolto diventa immersione nei suoni e nelle sfumature vocali più sottili. Inoltre anche tutto l’universo sonoro "fuori campo" rispetto all’azione, sia nei suoi valori ambientali (la vita del castello) sia nei suoi momenti simbolici (l’inseguimento della regina da parte di suo figlio Oreste), riempie il vuoto di una scena ridotta a pura geometria di quinte e di luci e ombre. Se Carmelo Bene per primo in Italia aveva sostenuto e sperimentato la straordinaria potenzialità dell’uso delle tecnologie di amplificazione sonore applicate alla scena e poi molti altri ne avevano sperimentato le molteplici risorse espressive (dallo stesso Ronconi ai Raffaello Sanzio), la tecnica olofonica rappresenta un ulteriore salto di qualità perché – come dimostra questa Elettra – soggettivizza l’emissione vocale e intensifica l’immedesimazione dello spettatore producendo un’identificazione tra questi e l’attore che non è solo emotiva ma anche "fisiologica". Un potenziamento che è indotto dalla tecnologia ma che non si riduce a essa, perché sposta i parametri della recitazione verso l’interiorità, sperimentando i diversi gradi di sensibilità vocale ed emozionale dell’attore.
La scelta dell’attrice francese Frédérique Loliée quale interprete di Elettra, operata dal regista De Rosa, assume così un valore emblematico, non solo la Loliée nonostante il percepibile accento dimostra un’intensità e una versatilità particolarmente convincenti, ma la sua recitazione anticanonica, non accademica, molto umorale e consapevolmente "sporca" riempie di molteplicità significanti il flusso del suo quasi-monologo, risonante come una sorgente in costante ebollizione direttamente dentro la nostra testa di spettatori-testimoni. Questo rovello interno di un’anima che si consuma nell’attesa del ritorno di Oreste, in un’inestinguibile angoscia, in un bilico costante sugli inferi, in una distillata ma insieme inappagabile sete di vendetta, si dispiega molto bene nei momenti di solitudine di Elettra, sottolineati da un uso molto mirato e originale della luce, d’impronta cinematografica e con richiami all’estetica espressionista. Tra gli altri interpreti, oltre ai validi Moira Grassi (Crisotemide) e Paolo Briguglia (Oreste), è molto forte la presenza di Maria Grazia Mandruzzato (Clitennestra), solenne e tragica nella sua consapevole e contraddittoria dannazione (l’antefatto del mito originario, qui non raccontato, è che lei fa uccidere il marito Agamennone dall’amante, al ritorno dal trionfo di Troia, non solo per passione di quest’ultimo ma anche per vendicarsi del sacrificio dell’adorata figlia Ifigenia, immolata dal suo stesso padre alle ragioni della guerra). Il feroce dialogo tra Elettra e Clitennestra è sicuramente uno dei momenti più intensi dell’intero spettacolo.
La relazione della protagonista con la sorella Crisotemide, unica depositaria col suo grembo gravido di una speranza di rigenerazione, che il regista vuole marcare mediante una tensione incestuosa ed erotica, così come lo stupore di ritrovare Oreste in uno sconosciuto venuto dalla tempesta per compiere la vendetta, sono le scene chiave che chiudono l’acuminato triangolo famigliare e preludono al delitto annunciato della regina, drammatizzato molto efficacemente da un inseguimento tra figlio e madre che noi non vediamo, ma che seguiamo in un percorso immaginario e terrifico che si consuma nel nostro udito, fino all’improvviso lampo del sacrificio finale consumato invece sotto i nostri occhi. Oltre è pura tenebra. Un spettacolo che funziona come un teorema, essenziale e intenso, senza sbavature e sostanzialmente fedele all’atto unico originario. Ciò che segna la differenza è il connubio riuscito tra l’acuto minimalismo della regia teatrale, la ricchezza delle sfumature interiori della voce protagonista e la ricchezza di stimoli percettivi e immaginari prodotti dalla regia sonora olofonica. A me, che sono tra gli studiosi, i fautori e gli autori di un rapporto organico tra ricerca teatrale e innovazione tecnologica (relazione tanto inspiegabilmente ignorata o temuta dal mondo teatrale italiano), questo lavoro lascia anche il desiderio di ritrovare future ed anche più sperimentali applicazioni del sistema olofonico alla messinscena.

Elettra
di Hugo Von Hofmannsthal
Un progetto di Andrea De Rosa e Hubert Westkemper
Con Frédérique Loliée, Maria Grazia Mandruzzato, Moira Grassi, Paolo Briguglia.
Regia di Andrea De Rosa; suono di Hubert Westkemper; scene di Raffaele Di Florio; costumi di Ursula Patzak; luci di Enrico Bagnoli; musiche di Giorgio Mellone.

Torino, Teatro Stabile – Cavallerizza Reale
7-19 dicembre 2004

Napoli, Teatro Mercadante
19-16 gennaio 2005


 


 

Ballare a Berlino
Tanznacht & Tanz made in Berlin
di Mara Serina

 

Il meglio dei giovani coreografi berlinesi tutto in una notte, dalle 18 all’alba in una non stop che non poteva che chiamarsi "Tanznacht". Ci siamo andati sabato 11 dicembre 2004 per osservare un panorama in continua evoluzione e avere il polso di come si danza in una delle più frizzanti capitali europee. Ospitata nella sede dell’Akademie der Künste, edificio austero immerso nel verde, la notte berlinese della danza è un’iniziativa nata nel 2000 e poi riproposta con successo ogni due anni. Occasione preziosa per un incontro e un confronto fra artisti, produttori, organizzatori e giornalisti, Tanznacht si è affermata come un evento importante nella vita culturale di Berlino ma anche come un network per stimolare la circuitazione di coreografi più o meno emergenti. Nel corso della maratona viene anche distribuito il catalogo dei coreografi e delle compagnie, uno strumento utilissimo organizzato in ordine alfabetico in cui di ognuno viene fornita la biografia, le produzioni attuali, il repertorio e i progetti futuri. Alla fine del volumetto c’è l’indirizzario con tutti i contatti dei coreografi e delle compagnie di stanza a Berlino, dei teatri e luoghi culturali e dei festival. Sfogliandolo scopriamo ben 9 danzatori italiani che lavorano nella capitale tedesca.
Il successo ottenuto nelle due edizioni precedenti ha reso possibile un ampliamento della vetrina costituita da Tanznacht ed è nato un festival nel festival, Tanz made in Berlin, dal 2 al 12 dicembre in 7 spazi diversi tutti consociati per sostenere l’evento, con 14 compagnie e 8 prime assolute.
Tanz made in Berlin è diventato così un marchio che sostiene la giovane danza berlinese e favorisce nuove produzioni o esperimenti coraggiosi come la neo nata Coop 3 Plus, un progetto di coproduzione fra coreografi dell’Europa dell’Est e di Berlino per creare un dialogo tra spiriti ed estetiche spesso differenti, entrambe caratterizzate da estrema professionalità e rigore creativo ma l’una più empatica ed emozionale, lacerata da un’eterna nostalgia e da un soffuso dolore, l’altra più cerebrale e attenta al farsi corpo del pensiero.
Il ventaglio a disposizione dell’osservatore è stato ampio: Two Fish, Christoph Winkler, Martin Nachbar, Cie.Toula Limnaios, Tanzcompagnie Rubato, NTTL, Anna Huber e Kristina Lhotàkòva, Trava, Thomas Lehmen e Mart Kangro, Wilhem Groener e Katrin Essenson, Laborgras, David Hernandez, Lìgia Soares, Joanna Dudley & Juan Kruz Diaz De Garaio Esnaola, Frédèric Gies, Isabelle Schad, Nuno Bizarro, Bruno Pocheron, Anja Hempel, Riki von Falken, Luc Dunberry, Christina Ciupke, Juan Dominguez, Felix Ruchert, Jochen Roller, Wilhem Groener, Alex B, Hans-Werner Klohe, Ami Garmon, Eszter Salamon.
In quattro giorni di immersione piena nelle performances dei giovani berlinesi, comprese mattinate alla Sophiensaele per assistere alle prove di nuove coreografie, l’impressione è che realmente esista una sorta di "Berlin style", ossia che questi giovani crescendo insieme e confrontandosi continuamente, in un clima più collaborativo e leale di quello italiano, abbiano individuato una linea di ricerca collettiva, spesso a scapito di una maggiore creatività e originalità individuale. Tappeti sonori fatti di rumori e ritmi distorti, movimenti sincopati e molto minimalisti, abiti quotidiani e tanta, tanta parola, una parola che dà l’impressione di inondare lo spettatore per raccontargli quello che forse la danza da sola non ha la forza di dire. Ma si tratta, crediamo, di un’illusione perché poi, quando ad esprimersi è solo il corpo ecco che le emozioni arrivano forti e dirette.



Two Fish.

Ci sono dei tentativi molto interessanti, come la ricerca condotta dai Two Fish che in Irre e ancora di più in Christiane Müller zieht um, per 15 spettatori in un appartamento, cercano di creare una totale continuità fra il quotidiano e l’azione artistica presentata come un tutt’uno di dialogo e movimento in cui si vuol arrivare ad una vera confidenza con lo spettatore non più solo osservatore esterno ma energia presente e dialogante con i danzatori. Il percorso è buono, i risultati invece sono poco convincenti, in particolare per Irre, spettacolo scontato e gratuito che ha momenti anche divertenti ma con un ritmo troppo blando e senza verve. In questa direzione è stato sicuramente valido The application, il lavoro di Juan Dominguez presentato nel corso del Tanznacht, una riflessione comica sulla fatica di creare uno spettacolo senza avere alcuna idea in merito. I danzatori/attori dialogano e i loro pensieri più intimi appaiono scritti su di una lavagnetta magnetica. Autoironico e scanzonato è un work in progress che attraversa i dubbi, i progetti, il lavoro a tavolino e le improvvisazioni da fissare, secondo alcune delle più consuete modalità di creazione di una performance. Nella stessa linea lavora anche Jochen Roller, a Tanznacht con un estratto da Perform performing una triologia sul senso/nonsenso di considerare la danza come una professione. Applicando alcuni assunti dell’economia neo-liberale, della pubblicità e della sociologia, il danzatore calcola il costo medio del suo spettacolo e suggerisce divertenti spunti sui benefit della danza per la società contemporanea. Siccome finisce due minuti prima del previsto è disponibile a rimborsare gli spettatori di alcuni centesimi di euro! Tante parole e gesti minimal anche nella prova di Ligia Soares, laureata in economia che racconta la sua storia, il suo percorso di studio e di lavoro fino ad arrivare alla grande passione per la danza, alle difficoltà economiche e non solo che questa scelta professionale comporta perché la fatica nel trovare sovvenzioni per produrre con serenità è ormai una situazione diffusa con cui anche la ricca Germania si sta scontrando.
Il dramma dei tagli pubblici alla cultura si può toccare con mano, e in proposito sono particolarmente significative le note che si leggono nel breve saggio dal titolo "Perpetuum mobile" che la giovane critica Costanze Klementz scrive nell’introduzione del catalogo sui coreografi e le compagnie.
Nella nostra esplorazione ci siamo imbattuti anche in performances di grande raffinatezza come Double sens di Cie. Toula Limnaios e Triple bill di Christoph Winkler.



Toula Limnaios.

Toula Limnaios si è formata a Bruxelles e dal 1997 vive a Berlino dove ha fondato una sua compagnia collaborando con danzatori e musicisti, nel 2003 ha aperto un suo teatro, Halle, uno spazio che si è fortemente consolidato nell’arco di un solo anno. Il suo Double sens è un viaggio poetico tra anima e corpo in cui ogni cosa non è quel che sembra ma si trasforma in altro da sé nella magica relazione con un altro corpo. E la metamorfosi si dà nella magia di penombre e velari, tra lunghi pantaloni pronti a diventare gonne, maniche ondulatissime e abiti che non ricoprono corpi ma li creano, nuovi e fantastici, senza soluzione di continuità e con la delicatezza di un soffio.



Christoph Winkler.

Winkler lavora a Berlino dal 1998 e ha creato più di 20 performances fra assolo e di gruppo, ha partecipato alla Tanzplattform Deutschland nel 2002 e nel 2004, è stato ospite di molti festival internazionali e ha lavorato in residenza al Tanzfabrik Berlin, e a Nancy mentre il suo penultimo spettacolo Homo sacer è stato realizzato nell’ambito delle celebrazioni della danza alla Maison de la Dance a Lione. Trilogia molto varia, Triple Bill parte con un assolo ispirato alla figura dello scrivano Bartleby, con giganteschi cuscini trasparenti che si muovono nell’aria, e prosegue con il meno convincente The Long Song, fitto di dialoghi tra un gruppo di personaggi alle prese con la difesa personale e i sistemi di protezione elaborati dalle pubbliche istituzioni. A conclusione una coreografia di grande effetto con 8 danzatrici in scena per un pezzo ispirato agli scritti di Michael Foucault sulla sessualità. Sexualität und Wahrheit pt1 ruota attorno ad una domanda/provocazione: "perchè gli europei non conoscono l’amore ma amano tanto la conoscenza?" con uno sfondo blu e uno spazio privo di scenografie, solo qualche immagine video proiettata, le danzatrici si incontrano e i loro corpi si misurano prima con piccole schermaglie e poi con vigore e forza, costruendo relazioni d’intesa. Sembra proprio che il meglio di sé Winkler lo dia nelle forme più tradizionali e non nel confronto con la parola.
Una tappa fondamentale per completare la panoramica resta il festival TANZTAGE BERLIN in corso fino al 14 gennaio alla Sophiensaele, giunto ormai alla sua 14^ edizione. Si tratta di una delle più vivaci realtà di scouting in cui ci siamo imbattuti, due settimane in cui coreografi giovanissimi, appena usciti dalle scuole o neppure mai entratici, incontrano il pubblico nel corso di performances di breve formato. Un’organizzazione ottima, firmata Barbara Friedrich garantisce una vetrina originale e frizzante, onesta e di grande livello con esordienti che spesso sono delle vere promesse.


 


 

Sabato, Domenica e Lunedì di Eduardo De Filippo su RAI2 il 25 dicembre
Ma intanto la Rai rischia di perdere i diritti sul teatro di Eduardo
di Redazione ateatro

 

La commedia di Eduardo De Filippo del 1959 è diventata un film per la televisione diretto da Paolo Sorrentino a partire dall’allestimento teatrale realizzato da Toni Servillo.



Sabato Domenica e Lunedì, prodotto da Teatri Uniti per Raidue Palcoscenico e RaiTrade, andrà in onda in prima visione assoluta il 25 dicembre su RAI2, alle ore 23.50. Reduce dai successi de Le conseguenze dell’amore, unico film italiano in concorso all’ultimo festival di Cannes, con Toni Servillo nel ruolo del protagonista, ancora in programmazione con sorprendenti risultati (oltre un milione di euro incassati secondo i recenti dati Cinetel), Paolo Sorrentino si accosta per la prima volta al mezzo televisivo attraverso il capolavoro eduardiano ‘riletto’ per il piccolo schermo.
"Il motore primario – dichiara il regista napoletano - che mi ha spinto a filmare Sabato Domenica e Lunedì è stata la fascinazione a misurarsi, rispettandola, con la scrittura perfetta di Eduardo, un'occasione per me rara e stimolante, allo stesso tempo pericolosa e rassicurante. C'era poi l'annosa questione di riuscire a rompere attraverso la dinamica delle immagini l'aspetto più statico del teatro, una bella sfida che ho affrontato scegliendo di stare il più possibile sul palcoscenico, condividendo lo spazio degli interpreti e abbandonando il punto di vista dello spettatore in platea".



Da sinistra, Francesco Silvestri, Anna Bonaiuto e Toni Servillo.

Una sfida resa ancor più interessante dal fatto che proprio questo sia l’unico dei grandi capolavori eduardiani di cui non resti traccia filmata, essendo purtroppo andate perdute le immagini della trasposizione televisiva che lo stesso Eduardo realizzò per la RAI nel 1963. Con la produzione di Sabato, domenica e lunedì, ripreso durante le repliche al teatro Mercadante di Napoli, Teatri Uniti prosegue inoltre un proprio peculiare percorso particolarmente attento alle relazioni fra cinema e teatro, che ha già portato alla creazione di opere filmiche legate a spettacoli particolarmente significativi quali Rasoi, Finale di partita e Teatro di guerra di Mario Martone e L’uomo di carta di Stefano Incerti.
Sabato, domenica e lunedì, nella versione tv così come in quella teatrale unisce in scena, ad Anna Bonaiuto e Toni Servillo nei ruoli di Rosa e Peppino Priore, una folta compagnia di attori napoletani di diverse generazioni (Alessandra D’Elia, Roberto De Francesco, Enrico Ianniello, Gigio Morra, Monica Nappo, Betti Pedrazzi, Tony Laudadio, Marcello Romolo, Francesco Silvestri, Mariella Lo Sardo, Salvatore Cantalupo, Ginestra Paladino, Antonello Cossia e Antonio Marfella). La regia teatrale è di Toni Servillo, quella televisiva di Paolo Sorrentino, la fotografia di Mario Amura e Pasquale Mari, il montaggio di Giogiò Franchini e Maria Valerio, le scene dello stesso Servillo e di Daniele Spisa, i costumi di Ortensia De Francesco.
La versione teatrale di Sabato, domenica e lunedì, prodotto da Teatri Uniti, con il sostegno della Regione Campania, ha raccolto unanimi consensi di pubblico e critica in Italia e all’estero, raggiungendo i vertici degli incassi ed ottenendo i più importanti riconoscimenti. Tra essi quattro Premio Ubu, il Premio della Critica Teatrale, il Premio Hystrio, il Premio Flaiano, due Premi ETI/Olimpici del Teatro. Dopo aver inaugurato, nello scorso mese di ottobre, le stagioni teatrali del Garibaldi di Santa Maria Capua Vetere e del Mercadante di Napoli, lo spettacolo sarà nuovamente in tournèe nazionale, al Piccolo Teatro di Milano dall’1 febbraio 2005 (fino al 6 marzo), poi a Verona, Lucca, Roma e Prato.
Nel frattempo la Rai rischia di perdere i diritti per 27 commedie negli allestimenti televisivi curati dallo stesso Eduardo, tra cui Filumena Marturano, 'Non ti pago, Uomo e galantuomo: il contratto è infatti scaduto circa un anno fa e non è ancora stato rinnovato. Secondo il "Giornale dello spettacolo", «le contrazioni di budget imposte dai vertici aziendali hanno determinato la rinuncia ai prodotti meno redditizi. Ed il teatro di Eduardo è diventato un "lusso" insostenibile. Tanto che in mancanza di accordo, nemmeno un fotogramma può essere utilizzato».


 


 

Hack.it.art a Berlino
ateatro seguirà l'evento
di Redazione ateatro

 

Si terrà a Berlino nelle prossime settimane hack.it.art, la megamanifestazione organizzata da Tatiana Bazzichelli, hacktivista e collaboratrice di ateatro.
La nostra webzine seguirà i lavori con corrispondenze (quasi) quotidiane.




hack.it.art
Hacktivism in the Context of Art and Media in Italy
Dal 14 gennaio al 27 febbraio 2005
Operning: 14 gennaio, 2005 7pm, Kunstraum Kreuzberg/Bethanien
Orario d'apertura: da martedi' a domenica dalle 12 alle 7 pm

L'evento hack.it.art presso il museo Kunstraum Kreuzberg/Bethanien consiste in una rassegna sull'attivismo politico, tecnologico e artistico in Italia. Hack.it.art vuole porre l'attenzione sulle forme indipendenti di produzione artistica e mediatica italiana, riflettendo su un percorso collettivo di un movimento che dagli anni Ottanta si batte per un uso libero e auto-gestito dei media e tecnologia. Queste attivita' non sono sempre identificabili con il termine "arte", ma piu' facilmente individuabili con il termine "pratica, azione". Piu' specificatamente, il termine corretto per indicare questo tipo di pratiche e' la parola "hacktivism". Hacktivism e' la fusione di hacking e activism, attivismo tecnologico e politico. Hacktivism e' una pratica rizomatica e open-source.
Hack.it.art, presso il Kunstraum Kreuzberg/Bethanien, vuole riflettere sulle possibilita' di costruire nuovi modelli sociali e culturali, portando l'esperienza di un Paese come l'Italia in un contesto internazionale. Oggi lItalia e' al centro delle discussioni sul ruolo e il potere dei media, per la sua anomala situazione di monopolio mediatico. Ma mentre a livello istituzionale il sistema mediatico italiano appare piuttosto rigido e verticistico, sin da venti anni attivisti e artisti hanno prodotto diversi modelli di produzione e fruizione dellinformazione, dando vita a una rete capillare di progetti. Questi, con una forte componente comunitaria, sembrano essere un fenomeno tipicamente italiano.

Il modello che propone hack.it.art vede il net come uno spazio aperto, in cui fioriscono attivita' decentralizzate, autonome e gestite dal basso. L'accesso all'informazione senza barriere, l'uso consapevole, non commerciale e libero dell'hardware e tecnologia, i concetti base dell'etica hacker, sono presentati in questo evento come forme di azione politica. Opponendosi alla logica dei crackers, che si introducono nei sistemi informatici distruttivamente, il concetto di hacktivism abbraccia una moltitudine di pratiche il cui scopo e' quello di costruire nuove forme di azione politica e produzione creativa. Una eterogeneita' di esperienze che si manifesta attraverso l'uso e l'interconnessione di diversi media (video, computer, radio, televisione). Considerando la vasitita' di tale network italiano, hack.it.art vuole offrire spunti salienti di riflessione attraverso l'attivita' di alcuni soggetti che in si battono per un uso aperto e critico della tecnologia, consapevole dell'azione di sintesi effettuata.

Questi sono alcuni dei diversi interrogativi a cui hack.it.art vuole rispondere.

Per sei settimane, dal 14 gennaio al 27 febbraio l'evento si svolgera' presso il Kunstraum Kreuzberg/Bethanien di Berlino. Ci saranno workshop e diversi eventi sul tema Hacktivism. Parte dello spazio espositivo diverra' un medialab attivo, nel quale avranno luogo laboratori e dibattiti.



Con: Betty/Sexyshock, Agnese Trocchi/Candida TV, Asbesto/Freaknet Medialab, Fabrizio Manizza/Disco Volante TV dal network Telestreet, Alessandro Ludovico/Neural, Pi-radio e Displaced Dilemma/SuperfactoryTM, Cornelia Sollfrank/Old Boys Network, Diana McCarty/Bootlab, Tina Lorenz/Chaos Computer Club, Sebastian Lütgert/Textz.com, Nikky e Francesco "Warbear" Macarone Palmieri/PHAG OFF, Federico Bucalossi/Not Human, Giacomo Verde/Eutopie, Tommaso Tozzi/Hacker Art, Franca Formenti/Bio Dolls, Nomad & Miss Riel/Gata, Tatiana Bazzichelli/AHA, Alexandra Weltz e altri.

Presentato da: AHA: Activism-Hacking-Artivism
Curato da: Tatiana Bazzichelli e Alexandra Weltz

Organizzato da: Kunstraum Kreuzberg/Bethanien con la cooperazione dell'Istituto Italiano di Cultura di Berlino e della Bundeszentrale für politische Bildung. In partnership con la rivista d'arte "U-Spot", con la rivista periodica "Zitty", il quotidiano "Taz", il settimanale "Jungle World", Data-Recovery e con il media art festival "transmediale.05". Con il Patrocinio della Cattedra di Antropologia Culturale, Facoltà di Scienze della Comunicazione, Università "La Sapienza" di Roma e della "Fondazione Bevilacqua La Masa".

Kunstraum Kreuzberg/Bethanien | Mariannenplatz 2, 1o997 Berlin |
Tel.: (o3o) 9o298-14 55 | Fax: -14 53 |
bethanien@kunstraumkreuzberg.de.de | www.kunstraumkreuzberg.de |
Direttore: Stéphane Bauer, Collaboratrici: Ulrike Ettinger, Katharina
Ballhausen, Julia Schonlau.

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PROGRAMMA:

Mostra-evento Hack.it.art
Hacktivism in the Context of Art and Media in Italy
(Hacktivism nell'arte e media in Italia)

Dal 15 gennaio al 27 febbraio 2005
Orario d'apertura: da martedì a domenice dalle 12.00 alle 19.00

Inaugurazione
14 gennaio 2005, 7.00 pm
"SuperFactory (TM)" con: Pi-radio & Displaced Dilemma
(Berlino, D)
"PHAG OFF" con: Nikky e Francesco "Warbear"
Macarone Palmieri (Roma,
IT) e Bernardo "Noisy Pig" Santarelli (Berlin, D)

Mostra-evento (15 gennaio - 27 febbraio)
La mostra-evento connette quattro concetti hacktivisti in quattro diverse aree:
- Hack gender! action pink e sexyshock; con: il collettivo Betty

(Bologna, Italia)
- Hack the frequency! telestreet e produzione video sovversiva; con:
Disco Volante TV dal Network Telestreet (Senigallia,
Italia).
- Hack the code! progetti di hacker art e net.art dalla comunità hacker
italiana
(Italia).
- (Wall)paintings di Nomad e Miss Riel (Berlin, D).
- Hack the reality! l'arte dell'hacktivism; con: video sull'hacktivism
di Candida TV
(Roma, Italia) e punto informativo con i magazine
italiani (Neural , Simulteneita', ecc.).
Installazione "Inconsapevoli Macchine Poetiche" di Giacomo Verde
(Lucca, IT)

Workshop
5/6 febbraio 2005
Hacking TV: How to build a Telestreet
Durate il workshop verranno date le istruzioni per costruire una TV di quartiere (telestreet); massimo 20 partecipanti. 5 febbraio 2005
(2.00-6.00 pm)/ 6 febbraio (12.00 am-3.30 pm).
- Agnese Trocchi, Candida TV ( Roma, IT)
- Federico Bucalossi, Nothuman ( Firenze, IT)
- Alexandra Weltz, filmmaker (Berlino, D)

Dibattiti/Panels

6 febbraio, 4.00 pm
Hacking the Body
panel sul cyberfemminismo: uso ironico della tecnologia attraverso copri radicali.
prima sessione (4.00-5.30 pm)
- Cornelia Sollfrank, artista and cyberfemminista ( Amburgo, D)
- Agnese Trocchi, Candida TV ( Roma IT)
- dibattito con il pubblico
Proiezione video (5.30 pm)
- "Bio Doll's Baby" di Franca Formenti (
Varese, IT)
seconda sessione (6.00-7.30 pm)
- Diana McCarty, Bootlab ( Berlino, D)
- Betty, Sexyshock ( Bologna, IT)
discussione con il pubblico
- Moderatrice: Tatiana Bazzichelli, AHA ( Roma,
IT/Berlino, D)

8 febbraio, 7.00 pm
Hacktivism. Was tun?/Che fare?
panel sul futuro dell'hacktivism; con:
- prima sessione:
- Tina Lorenz, Chaos Computer Club ( Berlino, D)
- Tommaso Tozzi, Hacker Art ( Firenze, IT)
- seconda sessione:
- Sebastian Lütgert, Textz.com ( Berlino, D)
- Asbesto, Freaknet.org ( Catania, IT)
- dibattito con il pubblico
- Moderatore: Alessandro Ludovico, Neural ( Bari, IT)


Kunstraum Kreuzberg/Bethanien | Mariannenplatz 2, 1o997 Berlin |
Tel.: (o3o) 9o298-14 55 | Fax: -14 53 |
bethanien@kunstraumkreuzberg.de.de | www.kunstraumkreuzberg.de |
Direttore: Stéphane Bauer, Collaboratrici: Ulrike Ettinger, Katharina Ballhausen, Julia Schonlau.


 



Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
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