(100-3) 02/04/06

Vota per l'1% alla cultura e allo spettacolo
L'editoriale di ateatro97
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and1
 
Speciale referendum costituzionale 2006: una sana e robusta Costituzione (parte II)
Un documento inedito misteriosamente recapitato alla readazione di ateatro
di Paolo Rossi di fronte alla Commissione per le Attività Anticostituzionali

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and2
 
Speciale elezioni 2006: una intervista esclusiva al Ministro Buttiglione
Le necessità e le virtù del Ministero per lo Spettacolo
di Mimma Gallina

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and3
 
Speciale Torino: cultura ad alta velocità
Dopo le Olimpiadi
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and7
 
Speciale Torino: le politiche per la cultura dell'amministrazione Chiamparino
Torino 2001-2005
di Anna Chiara Altieri

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and8
 
Speciale Torino: non solo Ronconi
I progetti culturali per le Olimpiadi 2006
di Maura Riccardi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and9
 
Speciale Torino: nasce la Casa del Teatro Giovani e Ragazzi
Interventi di Nicoletta Scrivo, Roberta Todros, Agostino Magnaghi, Fiorenzo Alfieri, Gianni Oliva
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and10
 
Speciale Torino 2006: su Ascanio Celestini, Luca Ronconi e non solo
Una lettera aperta a Oliviero Ponte di Pino (e a ateatro)
di Nevio Gambula

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and11
 
Autoritratto dell'attore da giovane (6)
Passioni d'attrice
di Monica Nappo

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and15
 
Passioni d'attrice
Giacinta Pezzana secondo Laura Mariani (e poi Adelaide Ristori e Perla Peragallo)
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and16
 
Scrivere il racconto
La bottega dei narratori a cura di Gerardo Guccini e altri testi sulla narrazione
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and18
 
PlayBeckett: folgorazione del linguaggio multimediale
Da Massimo Puliani-Alessandro Forlani, Play Beckett. Visioni multimediali nell'opera di Samuel Beckett
di Massimo Puliani

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and20
 
Beckett e Keaton: fuori e dentro Film
Da Massimo Puliani-Alessandro Forlani, Play Beckett. Visioni multimediali nell'opera di Samuel Beckett
di Alessandro Forlani

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and21
 
La cultura scenografica tra formazione e professione
L’anomalia italiana
di Paolo Felici (direttore di "The Scenographer")

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and25
 
Scene di caccia in bassa padana
Alla comunità teatrale e a tutti gli amici della Corte Ospitale
di Franco Brambilla

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and33
 
Le recensioni di ateatro: Playing the victim di Vladimir e Oleg Presnyakov
Regia di Oskaras Koršunovas
di Stefania Bevilacqua e Ido Baldasso

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and70
 
Le recensioni di ateatro: Come due gocce d’acqua di Alessandro Benvenuti e Ugo Chiti
Dalle Case del Popolo
di Sara Ficocelli

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and71
 
Le recensioni di ateatro: The Cryonic Chants. Canti e poemi oggettivi tratti da un impassibile animale
La Societas Raffaello Sanzio e Scott Gibbon
di Andrea Lanini

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and72
 
Dopo la Tragedia Endogonidia
Una conversazione con Romeo Castellucci
di Andrea Lanini

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and73
 
Un corso di imprenditoria dello spettacolo
A Bologna da aprile a dicembre 2006
di Università degli Studi di Bologna

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and80
 
Teatro di primavera a Palermo
La rassegna quinte(S)senzadiprimavera
di Giuseppe Cutino e Clara Gebbia

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and81
 
Una personale per I Sacchi di Sabbia
Il gruppo toscano in scena Pontedera
di Andrea Lanini

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and82
 
Una drammaturgia della vita quotidiana
A che punto sei? osservAZ ON Punti di vista in città
di Associazione Culturale Due Punti Aperte Virgolette

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro97.htm#97and83
 

 

Vota per l'1% alla cultura e allo spettacolo
L'editoriale di ateatro97
di Redazione ateatro

 

Ma cosa volete di più? ateatro 97 è fitto fitto di servizi, sorprese e novità.
Per cominciare un’intervista esclusiva per “Hystrio”-ateatro con il ministro Rocco Buttiglione, così completiamo il nostro speciale elezioni 2006. Mancherebbero in realtà alcune forze politiche (dalla Lega Nord alla Rosa nel Pugno), le solerti Anna Chiara Altieri e Mimma Gallina, responsabili del mappazzo elettorale, ci avevano provato, ma forse la cultura non è una priorità per tutti.
Resta invece una priorità per Romano Prodi e per l’Unione: ancora sul “Corriere della Sera” del 29 marzo, il candidato premier delle sinistre ribadiva l’obiettivo dell’1% del PIL alla cultura.
E’ stata solo l’ultima presa di posizione di un esponente politico su un tema che ci sta molto a cuore: la necessità di valorizzare e rilanciare la cultura e lo spettacolo con adeguati investimenti, dopo anni di tagli indiscriminati, perché - come dice Curzio Maltese - “non si può essere ricchi e stupidi per più due generazioni”.
Si tratta di ribaltare la prospettiva che ha caratterizzato gli ultimi anni. In questo periodo la spesa per la cultura (e lo spettacolo) è stata considerata un lusso, una sorta di spreco, del quale - in un periodo di ristrettezze, di fronte a urgenze più drammatiche - era possibile fare a meno. Invece si tratta di capire (e di far capire) che si tratta di un investimento necessario per il futuro (e per l’identità) del paese.
La cultura e lo spettacolo sono peraltro al centro del progetto politico complessivo di due importanti amministrazioni, quella di Torino. Si tratta di due progetti di città (e di due idee di cultura) ambiziose e diverse, la cui efficacia andrà verificata alla prova dei fatti. (e non solo per quanto riguarda la loro efficacia elettorale). Ma sono due progetti forti, che meritano di essere approfonditi e discussi. In questo ateatro 97 diamo per l’appunto inizio a uno “Speciale” dedicato alla città, dopo il successo delle Olimpiadi e mentre s’accende la polemica sul Progetto Domani firmato da Ronconi.

Nell’ambito di questo rilancio dell’investimento in cultura, ateatro ha proposto due possibili obiettivi: l’1% del PIL alla cultura e il ripristino del FUS (insomma, un rilancio degli investimenti); e una questione di metodo, che caratterizza da sempre il nostro atteggiamento: la trasparenza democratica delle decisioni, e dunque della distribuzione delle risorse (un tema particolarmente delicato, visto lo sviluppo di ARCUS spa).
Abbiamo approfondito questi temi a Mira, nelle Buone Pratiche, all’inizio di novembre, riflettendo sul tema “Il teatro come servizio pubblico e come valore”: da lì era uscita la parola d’ordine dell’1% del PIL alla cultura: vedi l’editoriale di ateatro 91.
Da allora, il tema (e gli obiettivi dell’1%, del ripristino del FUS e in generale il rilancio dell’investimento sulla cultura) è entrato nel dibattito politico, e ci è rimasto.
Abbiamo cercato di monitorare nella nostra webzine i più importanti interventi sul tema, per seguire l’evoluzione del dibattito ma anche per monitorare l’attività delle forze politiche dopo l’ormai incombente 9 aprile. In particolare,

# l’Unione nelle dichiarazioni dell’On. Vittoria Franco;

# l’Unione e Rifondazione Comunista (dichiarazioni di Patrizia Bortolini e Stefania Brai), nella prima puntata dello Speciale Elezioni 2006;

# l’onorevole Gabriella Carlucci (FI);

# l’onorevole Gabriella Pistone (nella scorsa legislatura Responsabile Spettacolo del PdCI);

# la Margherita;

Della necessità di un rilancio degli investimenti per la cultura e lo spettacolo abbiamo molte tracce anche nei Forum:

# ancora l’on. Vittoria Franco, parlamentare DS;

# il Presidente Carlo Azeglio Ciampi;

# l’on. Giovanna Melandri, parlamentare DS;

# l’on. Nicola Bono, sottosegretario ai Beni e Attività Culturali, parlamentare di An;

# l’ApTI (Associazione per il Teatro Italiano per Prodi Presidente).

A leggere ateatro, l'1% del PIL alla cultura ha già (quasi) vinto le elezioni!!! (non siamo mica così ingenui: ma intanto, a futura memoria, abbiamo registrato tutte queste prese di posizione).

Ma, ripetiamo, in ateatro (e in ateatro 97) non si parla solo di questo: se volete saperne di più, basta curiosare...


 


 

Speciale referendum costituzionale 2006: una sana e robusta Costituzione (parte II)
Un documento inedito misteriosamente recapitato alla readazione di ateatro
di Paolo Rossi di fronte alla Commissione per le Attività Anticostituzionali

 

La rivista teatrale online www.ateatro.it ha ricevuto, in forma anonima, questo testo.
Riteniamo si tratti del verbale d’interrogatorio dell’attore comico Paolo Rossi, condotto da una sedicente “Commissione per la Attività Anticostituzionali”, in data imprecisata, ma probabilmente pochi mesi prima dell’incoronazione di Berlusca I.
Il documento non ha alcun valore legale, ma ci sembra ugualmente opportuno metterlo a disposizione dei lettori. Ripercorre infatti la carriera del notorio sovversivo teatrale Rossi, evidenziando le sue attività estremistiche, dai tempi della prima giovinezza fino a epoche più recenti.
La lettura di questo documento e dell’allegato cartaceo, così come la visione del filmato allegato, va condotta con cautela: è riservata ad adulti che abbiano superato tutti i test di affidabilità politica del nostro beneamato Ministero per l’Ordine e la Pacificazione.

Abbiamo tuttavia ritenuto opportuno darne ampia diffusione, sia sul sito sia nelle librerie (BUR senzafiltro).

La prima parte di questo testo è stato pubblicato in ateatro 96.


Più specificamente la sua carriera nel campo del cabaret come è iniziata?

Parallelamente a quella normale, e poi si è ampliata nel periodo di Comedians. Era una situazione paradossale: buona parte degli attori che la sera facevano Comedians, che parlava di un gruppo di giovani artisti che vogliono dedicarsi al cabaret, finito lo spettacolo andavano davvero a farsi le ossa nei cabaret milanesi. A volte non ci cambiavamo neanche il costume.

Leggo dalla locandina dello spettacolo i nomi di Claudio Bisio, Silvio Orlando, Antonio Catania, Bebo Storti... Qualcuno di loro ha messo la testa a posto ed ha avuto grande successo, altri invece hanno insistito nella collaborazione con figure equivoche, come Nanni Moretti. Lei cosa ha imparato da quella esperienza?

Forse lì è nato uno stile su cui insisto molto quando parlo della mia compagnia. Per me sul palco devono comunque coesistere la persona, l’attore e il personaggio. Poi dopo, sulla scena, nel gioco delle parti, a seconda delle situazioni, verrà fuori più l'attore, il personaggio o la persona.

Ma questo equilibrio lei come è riuscito a trovarlo nel corso degli anni?

Con una reazione di ossidoriduzione! Ho cercato di mettere insieme il rigore di Shakespeare, quello che ho imparato da Cecchi, con il delirio che si respirava in un cabaret come il Derby Club o in altri locali. La mia prima convinzione, quella che forse dovrebbe essere la convinzione più semplice di ogni attore, è che devo comunicare. Non avevo appoggi o protezioni di nessun genere, l’unico sostegno che potevo trovare - l'unico che tuttora mi rimane, visto che io (come lorsignori sanno bene) non ricevo sovvenzioni statali - era quello di portare il maggior numero di persone possibile in teatro, senza per questo comunicare qualcos’altro da me stesso, senza per questo diventare commerciale.

Ho estratto dai nostri archivi alcuni ritagli sui suoi primi anni in quei sordidi locali. Qui per esempio lei viene definito “il Lenny Bruce dei Navigli”. Può spiegarmi che cosa significa?

Credo di essere stato uno dei pochi ad aver avuto la possibilità di vedere un cortometraggio originale che aveva come protagonista il comico americano. Mi colpivano molto due cose: l’energia, l’aggressività, la forza della sua comicità; e un linguaggio che usciva dai canoni del vaudeville americano o del comico alla Jimmy Durante. E’ un po’ il clima che abbiamo ripreso in Comedians. Insomma, tutto questo ha qualcosa a che fare con quello di cui stavamo parlando. Le strade principali che potevano prendere i personaggi di Comedians erano due, e la risposta l’ho trovata anche in Lenny Bruce. Perché a un certo punto è necessario scegliere quale tipo di comicità fare: una comicità che non faccia pensare la gente oppure una comicità più amara, che giochi più sul grottesco, che stia sempre sul filo tra il tragico e il comico, che parli della realtà di oggi, ma spostando i punti di vista. Questi due tipi di comicità sono come due caramelle: mentre la prima è una caramella che alla fine guasta i denti, quella che ho scelto io è una caramella balsamica. La seconda regola è una tiritera che facevamo a Comedians prima di entrare in scena. Diceva: “Trasgredire per trasgredire trasforma il trasgressore in traditore”. Vi pregherei di metterlo agli atti.

C’è un ulteriore aspetto che riguarda il procedimento a suo carico. Ci risulta che a voi attori di cabaret sia molto caro il procedimento dell’improvvisazione, che lei ha già evocato. Lei capirà che tutto questo riguarda anche l’intenzionalità o la preterintenzionalità degli atti da lei compiuti e dei reati eventualmente commessi. Questo per noi è un punto delicato. All’inizio lei parlava di stati di alterazione mentale che facilitano la comunicazione: questa condizione potrebbe eventualmente essere considerata un’attenuante o un’aggravante, a seconda del contesto e della situazione. Quando lei va in scena - o meglio, quando andava in scena a parlare della Costituzione - quanto di quello che lei diceva era preparato, prestabilito in anticipo, e quanto invece succedeva all’impronta, senza che ci fosse uno studio preventivo?

Gentile corte, quando parlo di stato di trance non parlo, come dire, di una perdita di conoscenza, parlo di un altro tipo di conoscenza..

Tenga presente che tutto quello che ci sta dicendo potrà essere usato contro di lei.

Intendo precisare che non intendo assolutamente appellarmi all’incapacità di intendere e di volere. Del resto mi sto difendendo da solo perché il mio avvocato mi aveva suggerito proprio questa strategia difensiva. Ma io mi rifiuto assolutamente di ricorrere all’incapacità di intendere e di volere. Perché dietro l’improvvisazione c’è sempre una volontà. Io ho insegnato recitazione e continuo a insegnare improvvisazione nelle scuole...

Questa già ci pare una contraddizione: che cosa vuol dire insegnare a improvvisare?

Vede, l’improvvisazione richiede una disciplina quasi militare. E’ necessaria la costruzione di regole ferree che devono essere rispettate. Se ci fosse un codice dell’improvvisazione, la prima regola in assoluto sarebbe questa: per un anno gli studenti non dovrebbero esprimersi, ma solo ascoltare. Devono prima di tutto imparare ad ascoltare. Quindi ecco perché io, quando parlavo dei miei inizi - se mi permettete questo flashback...

Non creda di intimidirci con questi paroloni! Abbiamo letto Ejzenštejn anche noi...

Per tornare indietro un attimo, al periodo in cui ho iniziato, noi artisti credevamo ingenuamente che l’improvvisazione fosse un’arte molto diffusa, estemporanea, che chiunque si potesse esprimere allo stesso livello, da artista. Di questo e solo di questo posso fare ammenda, davanti a voi. Ne ho fatto esperienza in alcune performance collettive in una chiesa sconsacrata di Brera, San Carpoforo, negli anni Settanta: in una serata dedicata all’improvvisazione e all’happening, ci fu chiesto di portare uno strumento perché eravamo convinti tutti fossero in grado di suonare. Probabilmente ho vissuto quell’esperienza in uno stato di trance - forse era diverso dallo stato di trance di cui dianzi si parlava, posso confessarlo perché ormai è prescritto: penso che i fatti risalgano più o meno al ’73. Sul momento ci parve di fare collettivamente un Requiem di Mozart diretto da Mick Jagger. In realtà credo fosse una puttanata solenne. Quella sera, quando ho faticosamente recuperato la lucidità, ho cominciato a capire alcune cose. Quindi, per rispondere alla vostra domanda, nelle mie cosiddette improvvisazioni c’è volontà e c’è premeditazione, perché comunque tutto quello che in teatro si improvvisa è il frutto di un training durissimo. A questo punto potrei aprire una discussione su questo tema: senza regole, non si può romperle.

Non divaghi, venga al punto.

Anche in questo caso, direi che c’è una cattiva improvvisazione e una buona improvvisazione. La passione che in me si è sviluppata negli anni praticando l’improvvisazione mi ha portato anche a capire, insieme con altre esperienze di vita, che alcune regole sono necessarie e che queste regole - come cercavo di spiegare in queste adunate che voi chiamate “sediziose” - vanno inserite in un contesto, in un regolamento che difende gli interessi di tutti. Nel caso dell’improvvisazione, gli interessi degli spettatori e degli attori, oltre che quelli dell’autore. Nel caso della Costituzione, queste regole devono essere fatte nell’interesse di tutti, e non solo nell’interesse di uno solo o di un paio di persone.

Non faccia allusioni! Non cadiamo nelle provocazioni, noi! Sempre attingendo ai nostri archivi abbiamo reperito una sua dichiarazione, rilasciata alla “Repubblica” nel 1992: “Io parlavo di tangenti sul pianeta Craxon nel 1983 e dicevano che esageravo. Adesso in tv è tutto troppo facile”. Lei ritiene in qualche modo di aver avuto nel corso di questi anni delle qualità profetiche?

Sarà la storia a decidere se sono stato profetico oppure ho portato sfiga. A volte - se devo essere sincero - mi sfiora il dubbio.

Ma quella profezia è stata un caso isolato o nel corso della sua carriera si sono verificati altri eventi di questo tipo di cui lei abbia memoria?

Beh, ce ne son stati abbastanza...

Può farci altri esempi?

Di corruzione, come avete scoperto, abbiamo cominciato a parlarne ben prima di Tangentopoli. Di Berlusconi abbiamo cominciato a parlarne e sparlarne addirittura prima che diventasse presidente del Milan. Una volta facemmo una volta un pezzo “profetico” - come direste voi - che ci costò e ci costa ancora molto, secondo me: Hammamet. Lo firmammo addirittura in quattordici, per dividere poi le eventuali pene, più che gli improbabili guadagni: non credo che esista una canzone con una lista di autori del testo più lunga. Però nell’occasione prendemmo una posizione che non avrebbe dovuto dispiacere neppure ai socialisti: molto tempo prima del lancio delle monetine in piazza, la manifestazione che spinse Craxi a trasferirsi in Tunisia, facemmo un nostro adattamento di un pezzo di Alfred Jarry, dove si parla di quelli che vanno a tirare la cacca ai palotini: come mia eventuale attenuante, voglio ribadire che prendemmo le distanze anche da questo atteggiamento, qualche tempo prima che si verificasse nella realtà. In Pop e rebelot (1993) parlavamo della società dello spettacolo e prefiguravamo quella che è diventata oggi la politica, che ci ha trasformato tutti quanti più in tifosi o spettatori che non in partecipanti. Però la mia non è una dote sciamanica...

Come fa? Usa l’astrologia, i tarocchi, i fondi di caffé, le ventraglie animali, i voli d’uccelli, l’I-ching? Insomma, da dove arriva questa preveggenza?

Dai bar, dai mercati, dal metrò, dal vivere in questi luoghi, senza mai chiudersi in una lobby di artisti, di attori, di teatranti, senza riferirsi a quello che accade in altri palcoscenici o, ancora meno, in televisione, anche se entrambi - teatro e tv - vanno comunque consultati. Insomma, per immaginare i miei spettacoli parto da quello che mi suggerisce la strada. Del resto, non avendo fatto una scuola di teatro e men che meno un corso di drammaturgia, per costruire i primi pezzi non avevo altro materiale che la mia vita e quello che accade quotidianamente.

C’è un altro aspetto del suo passato che ci interessava approfondire. Ci risulta che nel corso della sua carriera lei abbia subito diversi interventi censori. Insomma, hanno giustamente e lodevolmente cercato di limitare gli eventuali danni causati dal perito chimico Paolo Rossi nelle menti degli innocenti spettatori. Può illustrarci gli episodi più significativi di questa sua carriera di censurato?

Il primo episodio di censura si verificò in RAI, in una trasmissione di Antonello Falqui. Ero l’ospite, mi ricordo che c’era anche Sergio Rubini, e dovevo fare tre o quattro monologhi in tre o quattro puntate. Allora avevo un pezzo che parlava delle infiammazioni. A proposito, ecco un altro caso di preveggenza: era un po’ prima dell’AIDS. Del resto uno dei miei temi preferiti in quel periodo era la sessualità.

Si tratta di un pezzo autobiografico?

No, era un ragionamento teorico-filosofico. Ma lo ammetto, di pezzi autobiografici ne ho fatti parecchi, anche se poi da bravo chimico mischiavo le carte. Certi episodi che capitavano a me, facevo in modo di raccontarli come se fossero capitati agli altri, mentre cose che erano successe agli altri le raccontavo in prima persona. E’ un po’ lo schema di Kowalski, il protagonista dei miei primi spettacoli da autore, Chiamatemi Kowalski nel 1987 e Operaccia romantica nel 1991. Il pezzo incriminato diceva più o meno così: c’è uno che si prende un’infiammazione e fa finta di niente, va con un altro che si prende un’infiammazione e fa finta di niente, che va con un altro e fa finta di niente, si innesca tutta una catena di gente infiammata, finché l’ultimo della catena va col primo, che nel frattempo era guarito da un pezzo. Il censore democristiano vecchio stampo della RAI mi ha spiegato che “infiammazione” non è una parola che si può dire in tv, si trova nella lista delle parole che non si possono dire. Di fronte al mio stupore e alle mie proteste, mi ha dato un consiglio: “Lei non si deve preoccupare, non deve vivere la censura in questo modo. Perché a volte la censura esalta le capacità dell’artista. Sa, anche Petrolini inventò dei termini, dei modi per sfuggire alla censura fascista e in questo modo acquisì uno stile nuovo, originale, particolare. Potrebbe sostituire la parola infiammazione con un’altra, e il tutto avrebbe un tocco surreale, meno volgare”. Non so, non capisco, gli ho risposto, mi suggerisca lei una parola. “Beh, guardi, le dico la prima parola che mi viene in mente: peperone!”. Allora gli ho rifatto il pezzo: “...allora quel tizio va con un altro e si prende un peperone e fa finta di niente, che va con un altro tizio che si prende un peperone e fa finta di niente… Secondo lei peperone è meno volgare di infiammazione?”. Così in tv ho detto “infiammazione”. La seconda censura è avvenuta in teatro, ai tempi della seconda parte di Kowalski, Operaccia romantica. A un certo punto ci fu una denuncia da parte dell’Arcivescovo o di un qualche alto prelato di Carpi, che sollevò un grande clamore giornalistico; mi vennero tolti alcuni teatri in cui dovevo fare lo spettacolo: ebbi una specie di scomunica da tutti i teatri parrocchiali, e all’improvviso lo spettacolo venne vietato ai minori di diciotto anni. Devo precisare che grazie a tutto quel casino lo spettacolo guadagnò molto pubblico!

Pubblicità gratuita!

All’epoca non mi rendevo ancora conto delle potenzialità della televisione e in un’intervista televisiva dissi che io ritenevo di essere nel giusto, che non ero assolutamente volgare e che avrei sfidato l’Arcivescovo. E feci un’aggiunta. Siccome l’accusa mi pareva medioevale, invocai la prova di Dio in piazza a Modena. La prova consisteva nel camminare sui carboni ardenti, per vedere chi di noi due avesse la ragione di Dio. Infine spiegai che io, essendo lo sfidante, sarei chiaramente partito per secondo.

Comunicò anche data e luogo dell’ordalia?

Sì, e quel giorno ci fu chi andò in piazza del Duomo a Modena, a vedere. Ma non ci presentammo né io né l’arcivescovo: lui perché aveva timore del giudizio di Dio, io perché per me era stato solo uno scherzo. Questo fu il mio secondo incontro con la censura. Dopo di che, più che censura, c’è stata la lotta contro la censura per tutto il biennio di Su la testa! (1992-93) e Il laureato (1994).

Erano spettacoli televisivi, la Rai è sempre stata sotto stretto controllo politico, avranno avuto gioco facile nell’arginare le sue intemperanze...

Però a Raitre c’era un direttore di rete che si chiama Angelo Guglielmi, che ci faceva da scudo satellitare. Durante Il laureato ci venne chiesto che non fosse fatta Hammamet e io d’accordo con Chiambretti dissi che non l’avrei fatta ma all’ultimo secondo invece la feci. Però poi non accadde niente perché ci fu un fatto...

Era l’epoca del primo governo Berlusconi?

Esatto, complimenti per la documentazione...

La trasmissione Il laureato veniva ospitata nelle università italiane. Dove si trovava quel giorno?

Quel giorno noi stavamo a Napoli, nello stesso albergo del Presidente del Consiglio, per la precisione al piano di sotto. Era proprio il giorno in cui a Berlusconi arrivò l’avviso di garanzia. Se posso dare il mio contributo alla memoria collettiva del paese, mi permetto di ricordare la mia partecipazione a quell’evento storico. Quella sera feci una telefonata alla reception chiedendo se, per favore, si potevano sentire meno urla dal piano di sopra, perché io ero un artista, stavo lavorando e per poter lavorare dovevo dormire. Stavo proprio al piano di sotto, serviva addirittura un permesso per poter accedere alla mia stanza, perché era stata dichiarata zona rossa.

Lei aveva il permesso di penetrare nella zona di sicurezza?

Sì, sì.

Una grave falla nei nostri sistemi di sicurezza

Grave, e doppia: ce l’avevo io e ce l’aveva anche Chiambretti, il permesso per la zona rossa.

Mi sembra inutile perdersi in dettagli, attraverso i quali lei vuole gettare un’ombra sulla nostra organizzazione. Preferirei concentrarmi su episodi più recenti.

Una delle ultime due censure, le più note, coinvolge Pericle.

Un noto sovversivo, ci risulta. Un democratico estremista.

No, non si preoccupi, si tratta solo di un cabarettista ateniese a cui mi sono ispirato per un pezzo da inserire in una di queste adunate popolari sulla Costituzione. Tenga presente che il cabaret ateniese ha uno stile democratico, a differenza di quello di Sparta, molto più punk, là buttavano i bambini giù dal palcoscenico... Insomma, non erano molto moderati, gli spartani... Invece Pericle come cabarettista greco era moderatissimo. Mi chiamarono nell’autunno del 2003: “Vieni? Allora vieni? Perché non vieni a fare un pezzo a Domenica In? Bonolis vorrebbe tanto...”. Ricevemmo anche una telefonata da Bonolis in persona: era molto gentile, credo che sia tuttora all’oscuro di tutto quello che è accaduto in seguito. E io ogni volta chiedevo: “Ma siete sicuri?”. E loro: “Sì, sì”. E io: “Ma siete davvero sicuri?”, “Sì, senz’altro”, “Ma siete proprio sicuri?”, “Sì!!!”. Allora, proprio per rispettare la regola, ho deciso che non volevo trasgredire. Così mi sono detto: faccio Pericle, è un pezzo che si trova persino nelle antologie scolastiche. Mi chiesero di mandarglielo. Era un testo scritto da Tucidide, che riferisce il discorso di Pericle agli ateniesi dopo la guerra del Peloponneso. Erano cento volte che chiedevo: “Ma siete sicuri?”, “Sì”, “Ma siete proprio sicuri?”, “Sììììì”. Così gli mandai il testo e chiesi: “Ma siete ancora così sicuri?” e loro mi hanno cominciato a spiegare che “Beh, insomma, mah, non... Sai, è un momento delicato... bla bla bla”. E alla fine: “No, meglio di no”. Più che una vera e propria censura, fu un invito che poi all’ultimo venne ritirato. Per inciso, con la televisione questa cosa mi capita spesso: prima mi chiamano e dopo mi tagliano, mi chiudono, mi rimandano indietro... Per me la televisione è un po’ come una di quelle belle donne che continuano a invitarti, e tu ogni volta vai da lei speranzoso e ogni volta che arrivi a casa sua lei ti tira un cartone in faccia: ma ci ricaschi ogni volta... Però va bene così. L’ultima censura è stata quella di Questa sera si recita Molière, la più ridicola, la più problematica. Io credo molto nella possibilità di coniugare teatro e televisione e penso di esserci riuscito in diverse occasioni, soprattutto con quel Molière, che raggiunse tra l’altro uno share e un’audience pazzeschi, all’una di notte...

Perché lei venne relegato dai nostri previdenti programmatori televisivi in terza serata, sabato 8 gennaio 2005, nella serie che Raidue dedica al teatro di prosa il sabato sera.

Lo vide più di un milione di persone, al confronto dei due-trecentomila che guardano abitualmente Palcoscenico.

Metterei agli atti i dati Auditel della serata: 1.609.000 spettatori, 14,28% di share.

All’inizio, quando mi hanno comunicato il dato Auditel, eravamo tutti contentissimi. Mi sono detto: “Forse, visti i risultati, qualcuno mi chiamerà per propormi un progetto di teatro in televisione...”. Però subito dopo, quando ho visto meglio i dati, ho subito aggiunto - senza punteggiatura e senza pausa - “ma forse mi taglieranno la seconda puntata”. E così è stato: il 15 gennaio la seconda puntata non è andata in onda. Per inciso, le due puntate erano state registrate, dunque le avevano viste tutte e due prima della messa in onda.

Così hanno mandato in onda solo la prima parte dello spettacolo?

Sì, solo il primo atto.

E il secondo quando l’hanno mandato in onda?

Ci furono molte discussioni.

E stiamo ancora aspettando?

Sì, stiamo ancora aspettando.

Così i telespettatori non sanno come va a finire il suo Molière?

No, la settimana dopo hanno trasmesso uno spettacolo su Fred Buscaglione... Ma devo aggiungere - e ci tengo a ribadirlo alla corte - che non intendo assolutamente raccontare questi aneddoti per costruirmi una carriera sul piedistallo del censurato. Infatti ritengo che il rischio della censura faccia parte del mio mestiere. Quindi è certamente giusto denunciare ogni censura, e io l’ho fatto sia informando la stampa sia con denunce civili o penali. Tuttavia non credo che sia giusto indossare i panni della vittima, anche perché le vittime non siamo certo noi. In primo luogo perché comunque noi un palcoscenico e un riflettore ce lo siamo già conquistati, e comunque abbiamo un mestiere. In secondo luogo perché la vera vittima è il pubblico. In terzo luogo perché non bisogna essere ipocriti: noi comici molto spesso ci divertiamo a far casino, perché il rapporto con il potere - e dunque con la censura - fa parte della genetica del comico. Soprattutto quando abbiamo già conquistato un palco, e dunque conosciamo le regole…

Dunque perché sollevare ogni volta una gazzarra indegna?

Il fatto va comunque denunciato, e va denunciato soprattutto lo stato in cui versa il mondo dello spettacolo e della comunicazione in Italia. Anche su questo c’è un bell’articolo della Costituzione: non solo lo Stato italiano difende la libertà di espressione, ma si prende cura anche della cultura e del nostro patrimonio.

Si tratta dell’articolo 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Vede che la conosce anche lei, la Costituzione?

L’articolo 9 non è stato ancora cambiato e non ci risultano proposte in tale direzione.

Anche perché sarebbe inutile. L’articolo 9 di fatto non viene rispettato, e i più penalizzati sono i giovani, quelli che iniziano adesso, e non solo quelli che fanno satira, non solo i cosiddetti “comunisti”, ma tutti quelli che hanno idee intelligenti o quantomeno originali in un paese che ormai vive nel completo abbandono culturale. Sono loro a essere penalizzati, ancor più di quelli che subiscono il taglio delle sovvenzioni. Sono i giovani le vere vittime!

Si calmi, questo non è un comizio, questo è un interrogatorio! Riprendiamo con ordine e ripartiamo dal fatto specifico. Il suo spettacolo ha per tema la Costituzione. Prima di tutto ci è difficile comprendere come mai a un guitto di seconda fila, un perito chimico senza alcuna preparazione giuridica, abbia deciso di occuparsi della carta fondamentale della Repubblica italiana.

Posso permettermi di dire che l’unico a mantenermi è il popolo, se possiamo usare ancora questo termine: il popolo che si ritrova la sera nei teatri. Sono responsabile della scelta dei testi e dei temi dei miei spettacoli solo nei confronti di queste persone. Dunque nel scegliere di fare uno spettacolo, devo tener conto di due cose: prima di tutto devo sentire qual è il problema, il conflitto, la storia che più gli interesserebbe sentirsi raccontare.

Questa è la scusa che usa con sua moglie per passare le giornate al bar...

O per dirle: “Esco a lavorare”, e invece vado a bighellonare in giro per la città. Poi c’è la seconda parte, il mestiere, oltre alla parte sociale. E lì è necessario buttare l’occhio su un testo comico...

Secondo lei la Costituzione è un testo comico?

Assolutamente sì. Ma non perché la Costituzione sia comica. Quello che fa ridere è la frattura, lo iato, il buco nero, la sospensione, la pausa, che c’è tra la regola scritta e la vita che viviamo, o il modo in cui questa regola viene applicata. Quel buco, quella sospensione è una delle migliori pause comiche, per cui a un certo punto diventa più comico fermarsi e lasciare che il pubblico ti prepari la battuta.

Dunque lei, in quanto attore comico, trova nella Costituzione un buon materiale per i suoi spettacoli, per far divertire il pubblico. C’è tuttavia un secondo aspetto che vorrei approfondire: che legittimità ha lei per occuparsi di questioni così elevate, seppure nella sua abituale goliardica? Con tutti i professionisti seri che se ne occupano - giuristi, politici, editorialisti, intellettuali - chi le ha dato il permesso di occuparsi della Costituzione?

Il permesso me l’ha dato il popolo, come le dicevo prima. E’ solamente a lui che rispondo. Tuttavia, se dovessi scendere nei particolari, posso addurre delle spiegazioni, delle giustificazioni storiche. Nel momento in cui i parlamentari, i politici - non parlo solo di quelli di governo, quelli a voi vicini - ma...

La prego di notare che noi non siamo vicini al Governo: siamo vicini al potere, in linea di principio...

Mi consenta... Ooops, mi scusi se ho usato questa espressione... Ma - mi consenta - lei ha perfettamente ragione. Il politico oggi, se ne rendono conto tutti, in una politica che ha trasformato i cittadini in tifosi, ha un ruolo diverso. Ne stavamo parlando prima: mi pare impossibile che la politica non diventi tifo, dopo che il calcio era già entrato nella politica. E non solo da quando il Presidente del Consiglio è diventato presidente del Milan

In effetti è accaduto l’esatto contrario: il presidente del Milan è diventato Presidente del Consiglio.

Effettivamente volevo dire esattamente questo. Prima hanno portato il calcio dentro la politica, e oggi la politica rientra dentro il calcio. Perché la società ha bisogno di equilibri: è come nelle reazioni chimiche.

Un secondo cambiamento al quale ha già accennato riguarda la spettacolarizzazione della politica. Anche questa mi pare una scusante che lei usa per giustificare il suo impegno politico.

Oggi tutti ci rendiamo conto che un uomo politico può raccogliere più consensi quando va in un talk show e fa, diciamo così, un monologo. A volte una battuta detta al momento giusto nel programma giusto sposta più voti di un progetto politico, di un contenuto serio. Allora per mantenere la società in equilibrio, ecco che i comici hanno cominciato a occuparsi delle cose di cui i politici non si occupano più. Vado in giro e ne parlo. Nel caso dei politici, questo tipo di tournée si chiama campagna elettorale: ora la fanno in pullman, in camion, in bicicletta...

Perfino sulle navi da crociera.

Io vado a piedi, per strada, per sentire i problemi della gente, quindi potrei essere accusato di vagabondaggio... Detto questo, rispetto all’accusa che mi avete riferito, devo aggiungere che c’è un altro equilibrio che va sistemandosi. Un tempo, fino agli anni Cinquanta, il comico aveva studi che si potevano fermare alla terza media, più o meno, mentre chi aspirava alla carica di statista era plurilaureato, uno studioso. Oggi è molto più facile trovare un comico che si è fermato, come me, a tre esami dalla laurea, oppure un comico con due lauree due, come molti dei miei colleghi. Mentre un politico che si occupa del Ministero dell’economia o del Ministero dei trasporti può avere alle spalle studi molto più limitati.

Per quanto riguarda la sua preparazione giuridica, per lavorare a questo spettacolo che strumenti ha utilizzato? Ha chiesto aiuto, consulenze? Quali sono i suoi complici?

Non ho fiancheggiatori. E anche se li avessi non farei i nomi. Ho cominciato a capire la Costituzione alla prima replica. Come tecnica, prediligo recitare con il pubblico, e non al pubblico, come amo spesso ripetere: mi piace capire insieme agli spettatori i loro problemi. Attenzione, però: nello spettacolo io mi sono occupato solo dei principi fondamentali.

Ovvero la parte prima della Costituzione..

Sì, quella che si trova nella prima parte dello spettacolo e del DVD che ne è stato ricavato. Della seconda parte della Costituzione vengono poi tirati a sorte tre articoli, nella seconda parte dello spettacolo. Anche perché le estrazioni a sorte, in questo paese, comunque sono..

È quello che tiene in piedi l’Italia..

Tiene in piedi l’Italia, e anche i miei spettacoli. Ma torniamo ai principi fondamentali. Proprio per la loro stessa natura, sono molto semplici. Però nella loro elementarità ti fanno capire le contraddizioni, anche se insisto a dire che io non ho fatto uno spettacolo giuridico, un’opera di genere teatral-giuridico, ma ho fatto uno spettacolo che più che un genere teatrale è un genere di conforto.

Può esplicitare questo concetto, che ci rimane oscuro?

Penso che sia il dovere di un comico, quando fa una scelta come la mia. “Genere di conforto” significa portar da mangiare a chi è bloccato in autostrada, perché magari è nevicato. “Genere di conforto” significa portar da mangiare a una festa. Il genere di conforto serve comunque a tener alti lo spirito e il morale. In realtà, Il signor Rossi e la Costituzione ha fatto da traino a manifestazioni ben più serie, che hanno accompagnato la tournée in maniera collaterale. Perché chiaramente il nostro era uno spettacolo comico, e la riforma della Costituzione è un argomento molto serio. Questo non lo dico per alleviare o per aggravare il peso delle mie personali responsabilità, ma perché così è accaduto. Infatti nelle mie tournée cerco sempre dei partner seri con i quali mi posso coordinare.

Deve fare i nomi dei suoi complici, di questi cosiddetti “partner seri”. Deve nominare le associazioni o i gruppi...

Non intendo fare i nomi, ma comunque si sanno, li conoscete benissimo anche voi: sono personaggi molto esposti. Non intendo fare nomi, e ritengo che loro non faranno il mio. Stiamo parlando anche di personalità molto in vista, di associazioni di cittadini benemeriti.

Lasci giudicare a noi se sono davvero “benemeriti”. Glielo abbiamo già detto: si limiti a rispondere alle nostre domande. Mi ricollego alla questione posta in precedenza: quanto conta l’improvvisazione e quanto conta il copione nel suo lavoro? Lei non ci ha risposto, ma per noi è importante valutare l’intenzionalità del comportamento criminale.

La domanda non è pertinente. Se fossimo negli Stati Uniti potrei appellarmi al quinto emendamento. Ma mi permetto di contestare la domanda in sé, perché l’attore sopravvive grazie ai suoi trucchi. Si sa bene che in teatro, se io cado veramente, la gente si mette a ridere, mentre se fingo di cadere gli spettatori si spaventano. Quindi, senza vedere lo spettacolo più di una volta, è molto difficile capire che cosa è provato e che cosa non è provato. Credo che lo stesso problema sia stato posto anche ai comici dell’arte prima della Controriforma. All’epoca non c’era la televisione, se alle compagnie dei comici dell’arte toglievano i teatri non potevano più lavorare, e così i comici dell’arte sono andati in Francia e hanno arricchito il bagaglio di Molière... Ma siccome nel nostro mestiere rubare è legittimo, noi di recente abbiamo di nuovo rubato a Molière quello che lui aveva rubato agli attori italiani, e così via.

Per il momento accantonerei questa sua apologia di un reato come il furto. Proverei invece a formulare la domanda in un altro modo. Lei dice: “Recito con il pubblico non per il pubblico”. Dunque le diverse repliche sono molto diverse l’una dall’altra?

Se uno torna a vedere lo spettacolo dopo due o tre giorni, no. Se lo vede dopo una settimana, è abbastanza cambiato. Se lo vede dopo un mese, è notevolmente cambiato.

E che cosa cambiava nel corso delle repliche? Non mi riferisco ovviamente ai dettagli...

I cambiamenti avvenivano in una maniera abbastanza paradossale. Era il potere che ci scriveva le battute, che ci suggeriva le nuove gag e le nuove situazioni. Non andavamo a pescare solo nella cronaca, perché non credo che la cronaca vada cavalcata a oltranza. Ma nei momenti, diciamo così, d’appoggio, cioè nei momenti più deboli dello spettacolo, era la cronaca a modificare il testo. A volte, in un ragionamento comico su un articolo della Costituzione, si proponeva un tema e quel tema rimaneva lì, sospeso, per un mese, per due mesi; poi una sera, per una strana sinergia chimica tra gli attori e il pubblico, quel tema veniva sviluppato. Ad esempio la riflessione sull’articolo 4, quello che dice “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”, veniva proposta nello spettacolo in due forme. A volte veniva affrontata in maniera seria, altre volte in maniera delirante, perché era l’articolo a essere scritto in maniera complicata, e allora in questo caso il divertimento era mettersi tutti insieme, noi e gli spettatori, a cercare di interpretare un articolo scritto in una lingua un po’ troppo alta per il popolo, e quindi divertirsi a immaginare cosa si poteva intendere con quell’articolo.

Può dirmi brevemente quante, quali e dove sono state queste adunate sediziose intitolate Il signor Rossi e la Costituzione?

Siamo andati in tutta Italia, dalla Sicilia a Bolzano, ed è andata sempre bene. L’unica volta che non è andata bene è quando siamo andati a Lugano, ma non perché non capivano la nostra lingua, ma perché il problema non li riguardava. Così a quel punto abbiamo girato la partita in un altro modo, abbiamo fatto uno spettacolo sui quattro cantoni e quindi..

Dal punto di vista del numerico, mediamente queste adunate sediziose quanti ribelli raccoglievano?

Una media di un migliaio di persone.

Quindi una quantità consistente di potenziali sovversivi.

Ma non erano solo sovversivi: c’era anche gente di destra che veniva a vedere lo spettacolo.

Che tipo di reazione aveva lo spettatore di destra?

Mediamente rideva nei momenti in cui poteva permettersi di ridere. Molti alla fine venivano in camerino per dirmi: “Non la penso come lei, ma ho apprezzato molto il suo lavoro...” Penso che non bisogna limitarsi ad avere un pubblico solo di sovversivi.

Anche perché predicare ai convertiti non dà grandi soddisfazioni, immagino.

No, assolutamente no. Ma le dirò di più. Ho riempito i teatri di tutta Italia e su una certa battuta politica sulla mafia ridevano tutti. Prendiamo però la Sicilia: alla fine uno si chiede come mai i risultati elettorali siano altri... Questo lo abbiamo denunciato anche durante la serata.

E a quel punto ogni spettatore indicava il suo vicino... Adesso dobbiamo affrontare un tema delicato. Nei suoi spettacoli ha spesso preso di mira Silvio Berlusconi. Ci può dire brevemente che tipo di rapporto ha avuto con il nostro amato Premier? L’ha conosciuto? Ci sono dei motivi di risentimento personale dietro questa sua incomprensibile animosità?

No, non ci sono motivi personali. L’unico incontro è avvenuto quando io, mentre facevo Saved di Bond e non incassavo molto con i ragazzi della Civica Scuola d’Arte Drammatica, facevo il ballerino di fila in un programma che si chiamava Pop Corn.

Uno dei programmi più famosi della televisione commerciale italiana.

Facevo il ballerino di fila, con i capelli tinti

Di che colore?

Rossi..

Questo ci sembra un ulteriore indizio. Cerchiamo una foto e mettiamola agli atti!

Nelle pause andavo a dormire nella sartoria. Un bel giorno si è aperta la porta, si è illuminato l’uscio, ed è apparso. Perché lui non arriva, appare... E mi ha chiesto: “Ma questa è la sartoria?”. E io senza sapere chi fosse: “Beh, la cucina non mi sembra”. Dopo di che non so se ha sentito, se non ha voluto sentire o se ha capito chi ero. Questo è stato il nostro unico incontro fisico.

Metta la maiuscola, quando Lo nomina! In ogni caso questo equivoco non giustifica un’animosità che dura da decenni.

Beh , diciamo che non mi era simpatico, quella figura di imprenditore non mi piaceva. Ma è stato lui a rompere le scatole a me per primo, quando con un certo tipo di tv è entrato nel mondo del comico e soprattutto nel mondo del cabaret. E’ stato come Custer con il settimo cavalleggeri: ha devastato luoghi che erano palestre di follia, di originalità, di invenzioni paradossali. Una volta la televisione non era così aggressiva, i comici erano pochi e dovevano farsi una gavetta. Lui è arrivato con una centuplicazione dell’offerta sul comico, ma alle sue condizioni. Prima del suo avvento i luoghi dove ho lavorato erano davvero spazi di folle creatività..

All’epoca chi si esibiva con lei al Derby Club?

Beh, c’erano tutti. Aldo Giovanni e Giacomo agli inizi. Teocoli e Boldi che erano al massimo. Poi c’erano Faletti, Iacchetti, per un pelo l’ultimo Abatantuono. Ogni tanto veniva uno dei grandi, passava a fare una serata.

Tipo Jannacci Enzo?

No, non più. Però c’era Claudio Bisio, e veniva Alessandro Bergonzoni, che allora lavorava in duo, si chiamavano i Piccioni di Piazza Maggiore. Dopo di che è partita questa centuplicazione dell’offerta. In quelle condizioni nessuno perseguiva più uno stile personale, ma quello richiesto da chi ti commissionava il lavoro. In quel momento ero pieno di passioni e di entusiasmi, credevo in una forma teatrale, e così incominciò la mia fuga verso i locali dei Navigli. E alla fine sono approdato alla fondazione dello Zelig. Il primo Zelig...

Ripeto però che questa non mi sembra una ragione sufficiente per giustificare questa autentica persecuzione nei confronti del Premier. Lei a che squadra tiene, per esempio?

Ah beh, posso dirlo, per la seconda sempre. Che tragedia sarebbe stata la mia vita se lui avesse assunto la presidenza dell’Inter! Quando ha comprato il Milan, se ben mi ricordo, era il periodo in cui faceva Risatissima, tra l’altro. Dopo di che si è messo in testa di diventare anche Presidente del Consiglio... Insomma, sono convinto che sia stato lui per primo a occuparsi della mia vita. E io mi sono trovato costretto a reagire.

Vi siete incontrati per caso in quella sartoria. Poi Lui ha fatto tutto quello che ha fatto, mentre lei è rimasto, diciamolo, poco più che un ballerino di fila. Si sente all’altezza di confrontarsi con Lui?

Come comico assolutamente no. Io so riconoscere quando un collega mi è superiore, tecnicamente, nell’improvvisazione, nei costumi, nei modi, nella gestualità. Anche se oggi, adesso che comincia a essere in difficoltà, forse vuol farmi capire che è finita una collaborazione artistica che dura da molto tempo.

Ah, lo ammette: su questo un po’ c’è campato!

Accidenti, se ci ho campato. Però se non ci fosse stato lui ci sarebbe stato qualcun altro: ci sarebbe ancora Andreotti, o un altro democristiano. Ai tempi dei miei esordi c’era Craxi, che mi ha creato qualche problema.

Quali? Censure? Pressioni?

No, no, concorrenza sleale. Perché ha un po’ banalizzato il nostro lavoro: bastava ripetere quello che diceva lui per creare ilarità. Invece Andreotti ti costringeva a fare dei ragionamenti sottili, un po’ come accade a un certo punto in questo spettacolo. Ma devo ammetterlo: sì, ci abbiamo campato, su Silvio e compagnia. Però, lo ripeto, ci ha anche danneggiato: è stato lui il primo ad occuparsi di noi, a invadere il campo con le sue televisioni.

L’ultimo blocco di domande riguarda l’accusa specifica che le viene rivolta, cioè la sua testarda difesa di una Costituzione ormai superata. Perché si sente di dover difendere con questo accanimento terapeutico un testo ormai desueto? In fondo quella versione della Costituzione ha sessant’anni, e in questi sessant’anni son successe tante di quelle cose… Un bel remix forse la rilancerebbe.

Forse mi ripeto. Penso che un libro di regole possa essere cambiato, ma sono altrettanto convinto che sia necessario avere delle regole. E questo libro delle regole deve essere scritto e redatto nell’interesse di tutti. Quando viene stravolto e modificato per garantire gli interessi di uno o della cricca di quell’uno, diventa un problema, perché si viene a creare un’assenza di regole. Facciamo un esempio: se noi ammettiamo, come ammettiamo, che ci sono le tabelline e io dico 2+1 fa 3, nessuno può domandarmi perché, perché 2+1 fa 3, perché ci sono delle regole e queste sono le tabelline. Ma se non ci sono più le tabelline, se mi dici che 2+2 fa 4, io posso dirti: “Ma per me fa 5” e un altro può dirmi che fa 1. Questa non è quella che io chiamo libertà, che venga fatta con i numeri, con le parole, con le azioni, con le leggi o quant’altro: questo vuol dire non avere riferimenti. E allora si può dire tutto e il contrario di tutto, è vero: ma questo è patrimonio del comico.

Poter dire tutto e il contrario di tutto?

Sì, perché il comico si muove in un certo ambito, ben preciso.

Non si dilunghi, crediamo di aver capito: nell’ambito del comico la logica ha un altro valore, e le contraddizioni possono trovare spazio, fino all’invenzione surreale...

Ma se il potere comincia a copiare il nostro linguaggio, io mi difendo, reagisco. Fa parte del mio mestiere. Devo attaccare il potere sottolineando il paradosso di questo linguaggio.

In effetti questo è un filone che lei ha già sfruttato. Il 16 dicembre 1992 ha dichiarato al giornale comunista “il manifesto”: “Ormai i giornali mi chiedono l’opinione anche sulla proporzionale, si vede che in un momento di vuoto politico la linea politica la dettano i comici”. Se non è l’annuncio di un golpe, poco ci manca.

Quando il potere inventa un termine come “guerra umanitaria”, dobbiamo renderci conto che è una gag, perché la guerra non può essere umanitaria, perché l’orgia non può essere moderata, perché il nazismo non può avere un volto umano, perché lo stupro non può essere affettivo.

A proposito, a un certo punto lei ha creato spettacoli dove si parlava del nazismo anche in una maniera abbastanza curiosa.

L’ho fatto più volte. Nel 1993 ho portato in scena Jubiläum di Georg Tabori. Nel 1992, nella prima puntata di Su la testa!, facevamo un trio di nazisti, in un numero che usciva da quello spettacolo. Anche lì son stato profetico: dicevo che in realtà i nazisti avevano le camicie brune ma, visto che a quel tempo si girava in bianco e nero, sembrano verdi.

L’ultima domanda. Ha ammesso lei stesso che la Costituzione è un libro che può essere cambiato. Ma allora c’era davvero bisogno di fare tutta quella confusione? Non bastava ritirarsi con qualche amico in una baita, belli tranquilli, e tra pochi amici fidati con l’aiuto di un paio di biccheirini di grappa, mettere a punto qualche piccolo suggerimento e poi portare il risultato al nostro Silvio, che Lui senz’altro vi dava retta, nella sua infinita bontà?

Penso ci abbia pensato prima lui, a mandare qualcuno in baita a riscrivergli la Costituzione. E tra comici una cosa del genere si rispetta. Quando un collega inventa per primo una situazione, quella situazione è sua.

In questa sua opera sediziosa ha goduto di ampie complicità.

Intorno a questo spettacolo sono nate numerose manifestazioni, e ci sono molte situazioni a cui questo spettacolo si è accodato: a volte abbiamo fatto due o tre repliche del Signor Rossi e la Costituzione al giorno, perché alla mattina eravamo in una scuola, dove si affrontava il tema in un certo tono, alla sera eravamo in un teatro e lo si affrontava in maniera più divertente, e poi nel dopo-spettacolo andavamo a una manifestazione in cui se ne parlava di nuovo in maniera più approfondita....

Il reato continuato è un’aggravante…

Sì, ma io non ci rinuncio, alle aggravanti…

E che pena si assegnerebbe per i suoi delitti?

Dobbiamo fare un discorso onesto, a questo punto, guardandoci dritti negli occhi. Vede, per me la pena peggiore sarebbe mandarmi in Polinesia.

In Polinesia, in una di quelle meravigliose isole dalla vegetazione lussureggiante, popolate di fanciulle di meravigliosa dolcezza che ti accolgono con corone di fiori, corpi rigogliosi e sorrisi che ti aprono il cuore, e frutta dai sapori soavi e acque cristalline...

Sì, sì, esatto, proprio lì non mi dovete mandare. Sicuramente è una terra meravigliosa, anche se sono passati i tempi del Bounty. Però là, in quella terra così lontana e misteriosa, mi è stata posta una domanda che mi ha fatto capire perché non potrei mai restare là. A un certo punto un polinesiano mi ha chiesto che mestiere facessi. Gli ho detto che facevo il comico, ma il mio inglese non è particolarmente fluente, non mi capiva, e così ho dovuto spiegargli che cosa vuol dire comico. Sono dovuto scendere al minimo comun denominatore: “Il comico è un artista, un attore, che racconta storie, insieme ad altri o da solo, che fanno ridere la gente”. C’è stata una gran pausa. “Ma perché? Voi avete bisogno di pagare qualcuno per poter ridere?”

Allegato: Ulteriori notizie sui personaggi citati dall’imputato

Nel corso della sua deposizione, l’imputato ha citato diversi personaggi, che hanno avuto ruoli di rilievo nel corso della sua carriera criminale. Poiché molti dei nostri funzionari non hanno dimestichezza con gli ambienti frequentati dal de cuius, riteniamo utile fornire alcune informazioni ricavate dai nostri dossier.
Si noterà peraltro l’abilità dell’imputato: come potenziali complici delle sue azioni sovversive ha citato in gran parte personaggi deceduti (e dunque non penalmente perseguibili) o già ampiamente noti a questi uffici per le loro opere sediziose. Tuttavia la menzione di tali individui di dubbia fama e moralità conferma la pericolosità del soggetto e lascia ipotizzare l’esistenza di un’ampia rete di protezione e complicità.


Ariel (?-?) misteriosa figura dalla professione e dalla nazionalità indefinite (probabilmente trattasi di extracomunitario immigrato clandestinamente). Irreperibile. Sul personaggio i nostri dossier risultano purtroppo insufficientemente documentati. Da quanto ci ha rivelato un nostro informatore, si tratterebbe di un pusher attivo in un’isola imprecisata del Mediterraneo qualche secolo fa: a giudicare dalla testimonianza di tal --> Shakespeare William (acquisita agli atti con il titolo di Opera omnia), grazie all’utilizzo di sostanze di origine ignota il sunnominato Ariel era in grado di provocare allucinazione e stati di eccitazione erotica; queste esperienze sono note agli iniziati come “Tempesta”). Per quanto possa sembrare strano, non risulta deceduto. Riteniamo opportuno approfondire le indagini.

Berberian Cathy (1925-1983) cantante lirica di origine armena. Deceduta. Una anti-diva dalle straordinarie qualità vocali. Moglie del compositore Luciano Berio dal 1950, ha interpretato diversi suoi brani. Il suo repertorio andava dalla musica classica alla musica contemporanea, ma si è fatta notare anche per le sue inventive e virtuosistiche interpretazioni di brani pop, a cominciare da alcuni hit dei Beatles.

Berlusconi Silvio (1936-) chansonnier, intrattenitore e impresario. Difficilmente reperibile, in quanto orbita continuamente tra le sue numerose residenze. Per eventuali urgenze rivolgersi ai nostri servizi. In gioventù, accompagnato al pianoforte del sodale Confalonieri Fedele (secondo altre fonti dal fedele Confalonieri Sodale), debutta al Tortuga di Miramare di Rimini e in locali milanesi come il Gardenia e il Carminati; ottiene grande successo come cantante confidenziale sulle navi da crociera Costa. Di recente firma un cd di brani sentimentali con il cantante partenopeo Michele Apicella, noto nel suo ambiente come “il Posteggiatore”. Al Festival di Napoli (2002), trasmesso in diretta su Retequattro e condotto da Iva Zanicchi, viene presentato ’A gelosia (Berlusconi-Apicella): «Dinta ’stu core tengo sul'a'tte / te voglio bene ma me faie suffrî / te voglio bene ma me faie mpazzì / me guarde e rire e nun me vuò sentì». Nel tempo libero ha costruito città (Milano 2), fondato un impero mediatico (Mediaset), comperato quotidiani (“il Giornale”) e case editrici (Mondadori, Einaudi, Sperling & Kupfer, Frassinelli...), vinto numerosi derby, scudetti e coppe intercontinentali con il Milan, inventato un partito (Forza Italia), retto un paio di governi della Repubblica assumendo persino qualche interim, governato con due governi in due fasi successive l’Italia, scritto l’inno del suo partito (il suo maggiore hit come cantautore: circa quindici milioni di voti a Elezionissima), prescritto numerosi capi d’accusa a proprio carico, riscritto diverse leggi a proprio favore, proscritto una Costituzione vecchia e datata, reinventato la legge elettorale per limitare i danni di eventuali sconfitti elettorali, arrestato centinaia di terroristi, eccetera eccetera. Nel corso di una lunga carriera nello spettacolo, notevoli i suoi exploit comici: restano memorabili la gag su “Romolo e Remolo” a un vertice internazionale a Pratica di Mare, le corna al ministro degli Esteri spagnolo nel vertice di Valencia, la simpatica barzelletta sul kapò al Parlamento europeo. Insuperabile la sua interpretazione “del contratto con gli italiani”, una cover ripresa dal duo Gingrich-Bush e lanciata con enorme successo a Porta a porta, la trasmissione condotta dal “neo-con” (conservatore con i nei) Bruno Vespa. Notevoli le sue doti in uno dei ruoli più importanti e sottovalutati dell’arte comica, quello di spalla: è stato infatti applaudito protagonista di una serie di grande successo internazionale, con titoli di notevole risonanza, ottimamente recensiti dalla stampa mondiale, tra cui Il mio amico Putin, Il mio amico Bush, Il mio amico Aznar, Il mio amico Blair. Non a caso ha sposato un’attrice, Veronica Lario (alias Miriam Bartolini), da lui apprezzata nel corso di una replica dello spettacolo Il magnifico cornuto al Teatro Manzoni di Milano, da lui ovviamente posseduto.

Bond Edward (1934-) drammaturgo inglese. Formatosi in un gruppo di autori di sinistra al Royal Court Theatre di Londra, è autore di testi provocatori. La sua opera prima è intitolato Il matrimonio del papa (1962). Nella successiva Stoned (1965), un bambino viene lapidato a morte.

Bonolis Paolo (1961-) interprete di pubblicità televisive ambientate in Paradiso. Ma il Paradiso l’ha trovato qui, in Italia, ottenendo contratti miliardari dalle reti televisive Rai e Mediaset. Considerato affidabile dal nostro ufficio politico, ha tuttavia indetto - nel corso della trasmissione Domenica in, lo show domenicale di Raiuno - una sorta di referendum mediatico: alla domanda “Basta con?”, i telespettatori hanno sorprendentemente votato in massa Silvio Berlusconi. Questa iniziativa estemporanea ha dimostrato come i nostri criteri di selezione del personale siano ancora eccessivamente permissivi.

Brecht Bertolt (1898-1956) drammaturgo tedesco, comunista. Deceduto. Considerato uno dei massimi autori teatrali del Novecento. Le sue teorie sul teatro hanno influenzato generazione di registi e attori. Chiunque abbia avuto a che fare con lui o con le sue opere è da considerarsi sospetto.

Bruce Lenny (1924-1966) stand-up comedian (ovvero autore e interprete di monologhi comici) statunitense, noto per il suo umorismo irriverente, metteva a nudo luoghi comuni e ipocrisie dell’America benpensante. Vita sregolata, probabilmente paranoico (vedi il dossier FBI). Deceduto a causa dei suoi eccessi. Al personaggio Bob Fosse ha dedicato un film (Lenny, 1974), protagonista Dustin Hoffman.

Buzzati Dino (1906-1972) scrittore e giornalista italiano, ha lavorato a lungo al “Corriere della Sera”. Deceduto.

Carpoforo San Martirizzato a Como. Nulla risulta a suo carico nei nostri dossier. Irreperibile (eventualmente chiedere ulteriori informazioni a --> Bonolis Paolo, quando torna dal Paradiso).

Cecchi Carlo (1942-) regista e attore italiano. Domicilio abituale: in tournée. Nel suo repertorio, tra gli altri, --> Brecht Bertolt e --> Pinter Harold. Elemento sospetto.

Chiambretti Piero (1956-) conduttore televisivo. Attuale domicilio: La7. Per quanto riguarda l’altezza e la qualità artistica, molte sono le analogie con Rossi Paolo, del quale è stato complice in diverse occasioni, in particolare per il programma televisivo Il laureato (1994), “viaggio ai confini delle facoltà”.

Colla Gianni e Cosetta burattinai milanesi, discendenti di un’antica famiglia di marionettisti. Pur avendo a lungo gestito un teatro nelle vicinanze del carcere di San Vittore, a Milano, non risultano indagini a loro carico.

Comedians (1986) spettacolo culto del teatro e della comicità milanese. Il testo di Trevor Griffiths racconta di un gruppo di aspiranti comici che si presentano a un’audizione. Nella messinscena italiana il regista Gabriele Salvatores (successivamente Premio Oscar per il film Mediterraneo, dove figurano peraltro numerosi interpreti dello spettacolo in questione) raccolse nel cast alcuni attori allora pressoché sconosciuti e destinati a un notevole successo anche televisivo: tra loro Rossi Paolo, Bisio Claudio e Catania Antonio, e poi Orlando Silvio, Storti Bebo, Alberti Gigio, Sarti Renato, Palladino Gianni...

Craxi Benedetto detto Bettino (1934-2000) leader politico italiano, segretario del Partito Socialista (malgrado l’etichetta sospetta, quella formazione politica ha svolto un ruolo encomiabile nel rinnovamento della politica italiana di quel periodo, purtroppo interrotto da una congiura di giudici e/o comunisti). Anche presidente del consiglio. Testimone delle nozze di ---> Berlusconi Silvio con Lario Veronica. Spesso preso di mira dall’imputato nei suoi spettacoli, costretto dalla persecuzione comico-giudiziaria a rifugiarsi in Tunisia, ad Hammamet, dove ha vissuto gli ultimi anni prima della prematura scomparsa.

CTH (Centro Teatrale Hinterland) teatrino dell’off milanese, attivo negli anni Sessanta e Settanta, aveva in Gianni Rossi (deceduto) l’animatore e regista.

Ejzenštejn Sergeij (1898-1948) regista sovietico, apprezzato da Lenin e Stalin e dunque intrinsecamente sospetto. Deceduto. Il suo film più noto, La corazzata Potëmkin, è stata definito dal noto critico cinematografico Fantozzi “una boiata pazzesca”. I nostri agenti, costretti a visionare la pellicola per valutarne la pericolosità, dopo aver confermato il giudizio del critico genovese, hanno approfondito la conoscenza di questo sedicente teorico del cinema leggendo i suoi scritti sul cinema, utilizzati come manuale d’istruzione per il montaggio cinematografico da molti elementi sospetti. Lo sfoggio di erudizione dei nostri agenti può dunque essere scusato.

Derby Club storico cabaret milanese, la mamma di tutti i cabaret italiani. Stava in via Monte Rosa. Lì si sono fatti le ossa generazioni di comici: Cochi (alias Ponzoni Cochi) e Renato (alias Pozzetto Renato), Villaggio Paolo, Jannacci Enzo, Boldi Massimo, Teocoli Teo, Abatantuono Diego e molti altri. Insomma, una sorta di covo. Chiuso all’inizio degli anni Ottanta, non perseguibile causa prescrizione.

Falqui Antonello (1925-) regista televisivo, ha firmato alcuni dei maggiori successi della Rai dal Musichiere (1958-60) a numerose edizioni di Canzonissima.

Fo Dario
(1926-) attore, drammaturgo e regista, noto da tempo a questi uffici per le sue pratiche sedicenti artistiche, dietro le quali si nasconde una metodica sobillazione e istigazione estremista. Nel 1962, quando la Rai si rifiuta di trasmettere un suo sketch per Canzonissima sugli infortuni sul lavoro, che avrebbe certamente creato turbamento nei telespettatori, abbandona la televisione di Stato, da cui si mantiene lontano per anni. Per anni recita nelle fabbriche, nei centri sociali, nei Palazzetti dello Sport, con una struttura organizzativa da lui costituita allo scopo e denominata “La Comune”. Negli anni Settanta occupa e ristruttura un edificio abbandonato di Milano, la Palazzina Liberty, facendone un centro di sovversione culturale. Per queste sue attività, ha ricevuto il Premio --> Nobel nel 1997, suscitando stupore e polemiche. Spesso accompagnato in queste sue imprese dalla consorte Rame Franca (anche sulla signora e sul suo “Soccorso Rosso” i nostri archivi conservano ampi dossier).

Gugliemi Angelo (1929-) critico letterario e dirigente televisivo. Ottenuta nel 1987 la direzione di Raitre, lancia una serie di programmi di notevole successo e di chiara ispirazione sovversiva, tra cui Un giorno in pretura, pericolosa apologia dell’attività giudiziaria e della legalità, Chi l’ha visto?, con l’obiettivo di catturare pericolosi latitanti, Telefono giallo, Io confesso e soprattutto Samarcanda, affidato alla conduzione del notorio Santoro Michele. Di recente è stato avvistato a Bologna, dove svolgerebbe l’attività di assessore alla Cultura con il sodale Cofferati Sergio, meglio noto come “il Cinese”, il quale in seguito a un colpo di Stato della sinistra si è proclamato di recente sindaco della città. In questo quadro, la sua complicità con il Rossi Paolo pare confermare l’esistenza di un progetto eversivo di ampio respiro.

Jarry Alfred (1873-1907) drammaturgo e scrittore francese. Deceduto a causa dei suoi eccessi. Ha inventato, ispirandosi a un suo professore di liceo e al Macbeth di ---> Shakespeare William, il personaggio di Re Ubu, sovrano dei polacchi tanto stupido quanto tirannico. Nella sua corte i “palotini” solo la versione parodistica dei prodi paladini.

Lotta Continua movimento politico di estrema sinistra di ispirazione confusamente marxista, attivo in Italia negli anni Settanta. Deceduto. Pubblicava il quotidiano omonimo, che ha avuto come direttori responsabili, tra gli altri, Pasolini Pier Paolo (elemento purtroppo assai noto ai nostri tribunali, deceduto) e Mughini Giampiero (elemento purtroppo assai noto ai nostri teleschermi, reperibile in molte trasmissioni dedicate al calcio, dove si distingue per apologia di Juventus aggravata e continuata). Alcuni dei suoi leader, tra cui Sofri Adriano, sono stati condannati per l’omicidio del commissario Calabresi, perpetrato a Milano nel 1973. Insomma, questi li abbiamo già incastrati, inutile insistere.

Marocco Club se la moglie è in vacanza, fateci un giro.

Molière (1622-1673) drammaturgo, attore e capocomico francese. Deceduto. Come molti altri suoi colleghi agiva sotto falso nome: si chiama in realtà Poquelin Jean-Baptiste. A causa della sua attività, ebbe diversi problemi ma fu sempre tratto d’impiccio dal sovrano Luigi XIV.

Nobel Alfred (1833-1896) chimico. Perito a Sanremo (prima dell’inizio del Festival). Inventore della dinamite, ricavò dalla scoperta una notevole fortuna economica. Attraverso il premio che da lui prende il nome finanzia noti sobillatori : vedi --> Fo Dario e --> Pinter Harold.

Osiris Wanda (1905-1994) attrice e cantante, regina del varietà italiano dagli anni Trenta agli anni Cinquanta. Si esibiva sotto falso nome (all’anagrafe risulta registrata come Menzio Anna). Deceduta. Non risulta che abbia avuto contatti con l’indiziato.

Pericle (495 ca-429 a.C.) cabarettista e uomo politico ateniese. Deceduto. Come molti altri comici dopo di lui, ha intrapreso la carriera politica nel partito democratico, governando la città per diversi anni. Patrono della cultura, fu protettore di drammaturghi (Sofocle) e scultori (Fidia). Processato per peculato. Allo scopo di valutare la pericolosità del soggetto, ecco il suo numero di cabaret ateniese, nella trascrizione di --> Tucidide.

Ateniesi! Il nostro governo qui ad Atene favorisce i molti invece che i pochi, è per questo che viene detto “Democrazia”. Qui ad Atene noi facciamo così. Le leggi assicurano una giustizia uguale per tutti nelle loro dispute private. Ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo stato, non come un atto di privilegio, ma come una ricompensa al merito, e la povertà non rappresenta un impedimento, anzi. Qui ad Atene noi facciamo così. La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana. Noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro, e non infastidiamo mai il nostro prossimo se il nostro prossimo preferisce vivere a modo suo. Noi siamo liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie vicende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le proprie questioni private, perché noi ad Atene facciamo così. Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere chi riceve un’offesa. E ci è stato insegnato anche che dobbiamo rispettare tutte quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede solo nell’universale senso di ciò che è giusto, di ciò che è buon senso. Perché noi ad Atene facciamo così. Un uomo che non si interessa allo stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile benché soltanto in pochi siano in grado di dar vita ad un’azione politica tutti qui a d Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia, noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, e che la libertà sia il frutto del valore. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade, e che ogni ateniese sviluppando in sé una felice versatilità cresce e con lui cresce la prontezza ad affrontare le situazioni e la fiducia in sé stesso, ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.

Pinter Harold (1930-) drammaturgo, attore e scrittore inglese. Ha spesso assunto, con prese di posizione pubbliche, posizioni violentemente anti-americane. Ha vinto il Premio --> Nobel nel 2005. La frequentazione dell’autore e delle sue opere è da considerarsi un’aggravante, anche se praticate in epoca in cui le sue sparate pseudo-politiche non erano ancora note.

Pressburger Giorgio (1937-) regista teatrale e scrittore nato a Budapest, ma attivo in Italia. Ha diretto importanti istituzioni culturali (Teatro Stabile di Trieste, Mittelfest di Cividale, Istituto Italiano di Cultura di Budapest) e dedicato alcuni testi narrativi ai suoi problemi dentari. Dimostra una familiarità sospetta di alcuni scrittori poco raccomandabili. Nel 1981, quando era direttore dello Stabile di Trieste, ha curato la regia di Karl Valentin Kabarett, omaggio a --> Valentin Karl, altro guitto di dubbia fama.

Puecher Virginio (1927-) regista teatrale, attivo soprattutto al Piccolo Teatro di Milano, noto covo di sovversivi gestito dai socialisti Strehler Giorgio e Grassi Paolo. Nel 1980 ha diretto Happy End del notorio sovversivo --> Brecht Bertolt, con musiche di Weil Kurt e la consulenza musicale di --> Berberian Cathy.

Shakespeare William (1564-1616) drammaturgo, attore e impresario inglese. Deceduto. Il suo nome ricorre nei dossier di alcuni individui sospetti. Autore del summenzionato Sogno di una notte di mezza estate. Andrebbe inserito nella lista degli autori da trattare con precauzione.

Simonetta Umberto (1926-1998) scrittore e drammaturgo milanese. Deceduto. La sua opera più nota, Tirar mattina, evidenzia fin dal titolo la scarsa attitudine alle attività produttive del nostro e dei suoi complici.

Stravinskij Igor (1882-1971) compositore di origine russa. Non risultano precedenti a suo carico. In ogni caso, deceduto.

Tabori Georg (1914-) regista e drammaturgo di origine ungherese, attivo soprattutto in Germania e negli Stati Uniti. E’ stato tra l’altro sceneggiatore per Hitchcock Alfred. Di questo autore l’imputato ha portato in scena il testo Jubiläum, ma Tabori è anche autore di una pièce dal titolo Mein Kampf. Personalità ambigua, da approfondire.

Teatro dell’Elfo compagnia teatrale milanese, con cui si è spesso esibito l’imputato. Agli esordi, negli anni Settanta, la compagnia si compiaceva di recitare in centri sociali, case occupate e in generale in situazioni cosiddette militanti. Successivamente, avendo ottenuto la gestione della sala teatrale omonima, ha continuato a proporre spettacoli; spesso propone situazioni scabrose, compiacendosi in pruriginose allusioni ad attività sessuali non regolamentari.

Teatro Greco di Taormina ammasso di ruderi millenari al quale paiono particolarmente ed inspiegabilmente affezionati alcun intellettuali, che ogni estate vi organizzano un festival teatrale a spese dello Stato. Se siete in vacanza da quella parti, mandateci moglie e figli con la scusa che è educativo. Liberi dalle molestie di consorte e pargoli, potrete andate a farvi una eccitante serata al più vicino --> Marocco Club.

Tucidide (460 ca - dopo il 404 a.C.) storico greco. Deceduto. Non risultano imputazioni a suo carico. Come critico teatrale, ha trascritto la nota gag di ---> Pericle.

Valentin Karl (1882-1948) attore e drammaturgo tedesco. Deceduto. All’anagrafe Valentin Ludwig Feyl. Per anni ha avuto grande successo nei cabaret di Monaco di Baviera. Il noto sovversivo --> Brecht Bertolt lo considerava uno dei suoi maestri. Il regista --> Pressburger Giorgio gli ha dedicato uno spettacolo.

Zelig
nato come palestra del cabaret negli anni Ottanta, è diventato con gli anni una fabbrica di comici a uso e consumo televisivo. Una volta era una saletta con poche centinaia di posti, che ospitava comici volgari, puzzolenti e sediziosi; adesso va in prima serata su Canale 5 e ha un’audience di milioni di telespettatori. Non si capisce come l’imputato possa rimpiangere il sordido e miserabile Zelig di una volta.


 


 

Speciale elezioni 2006: una intervista esclusiva al Ministro Buttiglione
Le necessità e le virtù del Ministero per lo Spettacolo
di Mimma Gallina

 

Nell’ambito dello Speciale elezioni 2006, l’inchiesta sullo spettacolo in questa campagna elettorale curata per “Hystrio” e ateatro da Anna Chiara Altieri e Mimma Gallina, presentiamo in esclusiva questa intervista al Ministro Rocco Buttiglione.



Lei si è trovato a coprire la carica di ministro per i Beni Culturali per un periodo relativamente breve, nella finale della legislatura e in un momento particolarmente difficile. La Finanziaria del 2006 ha operato un taglio al Fus senza precedenti, con una severità di gran lunga superiore a quella adottata in altri settori. Lei ha cercato di opporsi, minacciando perfino le dimissioni, ma senza successo. Che lettura da oggi di questa vicenda?

I tagli prospettati all’inizio erano molto più drastici ma alla fine sono stati contenuti, per quanto comunque dolorosi. La battaglia non si è conclusa con la Finanziaria, abbiamo lavorato e lo stiamo ancora facendo per ridurre i disagi. Proprio in questi giorni è stato dato il via libero definitivo del Senato ai 10 milioni per il Maxxi che facevano parte di quelle garanzie politiche. È un provvedimento che al Senato ed alla Camera è stato sostenuto da tutta la maggioranza. Mi guardo bene dal cantar vittoria, però si dimentica troppo spesso che la Finanziaria è severa ma non cancella il sostegno ai beni culturali. Ricordo ad esempio che sono stati dati fondi per 15 anni per la Domus Aurea. Sarebbe stato comunque assurdo pensare che quando a dover tirare la cinghia sono le famiglie (quelle che poi finanziano con le tasse i beni culturali) tutti gli altri non facciano altettanto.

Come mai lo spettacolo gode di una così scarsa considerazione?

Lei dice che lo spettacolo ha scarsa considerazione? Io le rispondo: sì è vero, ma non va dimenticato che avevo e ho la responsabilità anche di settori che non hanno la stessa capacità di mobilitare la pubblica opinione: mi riferisco ad archivi e biblioteche che dal mio punto di vista sono al primo posto. Detto questo, anche per lo spettacolo vale la regola di fare di necessità virtù, cercando di fare meglio con meno. Allora, incominciamo a tagliare gli sprechi, e sfido chiunque a dire che non ci siano sprechi, a razionalizzare l’organizzazione e così via. Cito ad esempio la lirica: è mai possibile che un allestimento faraonico debba essere usato una sola volta e da un solo teatro? È reato fissare un tetto ai compensi di artisti certamente insigni ma che all’estero accettano senza battere ciglio la metà di quello che in Italia pretendono senza discussione? Questi atteggiamenti penalizzano i più deboli non meno dei tagli. Allora: io sono il primo a lamentarmi dei tagli, e su questo ho messo la mia faccia, ma dico anche che adesso basta, me compreso, continuare a piangersi addosso. Vediamo insieme come fare ad uscire con il minor danno possibile da questa difficile congiuntura.

Le sue posizioni personali e quelle del suo partito sono certo più articolate e complesse. Porebbe riassumerle, indicandoci pricipali obiettivi e priorità rispetto all’attività di spettacolo e al teatro in particolare?

La ringrazio di riconoscere l’apertura mia personale e dell’Udc sui temi culturali. In questa sede, senza scendere troppo nei particolari, dico solo che il nocciolo della questione è di dare più soldi al mondo della cultura, ad archivi e biblioteche come dicevo prima, spettacolo e teatro e così via. Ho detto in piena Finanziaria, e lo confermo ora, che rimanendo ai livelli attuali si rischierebbe di chiudere baracca e burattini. Non aiuta però un atteggiamento per cui lo spettacolo ed il teatro appartengono ad una parte soltanto: è il primo argomento che viene fornito ai nemici del teatro e dello spettacolo. Quando si lancia una battaglia su questi temi, tutte le forze devono convergere, sfuggendo da strumentalizzazioni partigiane. Ricordo, al riguardo, lo sforzo compiuto per far sospendere l’ostruzionismo in Parlamento così da approvare i provvedimenti urgenti sul cinema dopo la sentenza della Corte Costituzionale. Ringrazio quanti, anche nell’opposizione, non si sono tirati indietro, ma è tutto il mondo politico e sociale che deve mobilitarsi con maggior convinzione a favore di cultura e beni culturali.

Quale ritiene siano state le azioni più significative della sua attività di Ministro?

Sono stato pochi mesi al ministero, ma penso in maniera molto intensa. Mi piace pensare che quello fatto per il più sperduto dei musei di provincia possa avere la stessa dignità delle cose che hanno riempito i giornali. Sono contento comunque di aver legato il mio nome a provvedimenti come l’eliminazione del silenzio-assenso per i beni culturali; il via libera all’archeologia preventiva, estendendola anche ai privati; aver impostato il piano di monitoraggio per la salvaguardia del Palatino; aver firmato, dopo una trentina di anni di contezioso, l’accordo con il Metropolitan Museum di New York, e di averlo sostanzialmente fatto anche con il Getty di Malibù ed anche di aver chiuso un fondamentale accordo con uno dei principali paesi europei di cui non posso ancora dire il nome per rispettare le procedure. Mi fermo qui.

Tutti i partiti, centrodestra e centrosinistra, sembrano apprezzare l’istituzione di Arcus spa, ma non il suo operato, chiedono un regolamento, e in alcuni casi di riportarne la logica e il controllo ad un unico Ministero. Lei che valutazione ne da e che evoluzione prospetta?

Una cosa mi sento di dirla: Arcus è uno strumento fondamentale per poter intervenire su progetti specifici. È illusorio che con un patrimonio sterminato come quello italiano, lo Stato da solo, possa farcela con gli strumenti tradizionali. Serve la collaborazione di tutti, di enti ed istituzioni, ma anche di privati. Arcus è uno dei luoghi dove questa collaborazione può essere messa a frutto. Non deve essere l’alibi per tener fermi gli altri strumenti d’intervento, semmai deve integrarli sfruttando la sua maggior flessibilità e operatività.


 


 

Speciale Torino: cultura ad alta velocità
Dopo le Olimpiadi
di Redazione ateatro

 

Non è vero che - tagli governativi a parte, di cui ora del resto come abbiamo visto dallo Speciale Elezioni 2006 sembrano tutti pentiti - non succede niente nel teatro italiano.
A scale diverse, in diverse città, si stanno tentando esperimenti: uno dei laboratori più significativi, prima, durante e dopo le Olimpiadi e il Progetto Domani, si sta rivelando Torino.
Cosa sta succedendo? Gli amministratori della Comune, sostenuti dalla Regione e dalla Provincia, hanno scelto e pianificato da alcuni anni un ripensamento e una ristrutturazione della città postindustriale che vede nella cultura - e nel teatro - un punto di forza, forse anzi IL settore strategico. Così, seguendo l'esempio di altre capitali europee, come Barcellona e Manchester, gli investimenti pubblici per la cultura sono cresciuti progressivamente (in controtendenza rispetto all'andamento nazionale), fino a quasi raddoppiare negli ultimi 5 anni; la Regione Piemonte ha raggiunto la spesa pro capite più alta fra quelle a statuto ordinario. Gli amministratori torinesi - forse unici in Italia - hanno fatto una scommessa importante, che non possiamo che augurarci vincente.
In questo le Olimpiadi senso costituiscono la più esplicita occasione per concretizzare e manifestare questa politica, ma non sono che un inizio. La scommessa - che i torinesi, usciti dal letargo e dall'abituale understatment per godersi in pieno inverno le notti bianche, sembrano condividere - è fatta di tante specifiche scelte che riteniamo utile analizzare nel dettaglio: non tutte ci sembrano condivisibili, e molte sono forse ancora in fase di elaborazione.
Già in altre occasioni abbiamo criticato ad esempio l'eccessiva concentrazione di funzioni nelle mani del Teatro Stabile e l'eutanasia praticata su formazioni storiche come il Gruppo della Rocca o Teatro Settimo.
Il forum di ateatro è entrato in fibrillazione per Progetto Domani: il kolossal ronconiano ha stimolato giudizi contrastanti e suscitato polemiche, come era giusto. E' tuttavia opportuno collocare questa esperienza in una prospettiva corretta e interpretarla alla luce della strategia complessiva in cui si colloca (almeno così ci sembra).
In questo numero proponiamo alcune prime schede informative: la base per uno "speciale Torino" a puntate (e aperto ad ulteriori contributi).
Una sintesi della politica della giunta Chiamparino (assessore per la Cultura Fiorenzo Alfieri) ci offre un quadro d'insieme, che approfondiremo nel prossimo atearo anche analizzando gli studi economici che hanno confortato queste scelte.
Va inoltre sottolineato che il rapporto fra Olimpiadi e spettacolo non si è esaurito con Progetto domani: in ateatro 97 troverete una sintesi del programma culturale di Torino 2006. Tra le novità già in dirittura d'arrivo c'è la Casa del Teatro Ragazzi, su cui troverete ampuia documentazione.
Ma stiamo lavorando a più mani su alcuni nodi strategici:
- innanzitutto il FUTURO (artistico e organizzativo) del TEATRO STABILE DI TORINO;
- tempi e i modi del progetto di FUSIONE fra Stabile e Regio (sarebbe la prima volta in Italia che una fondazione lirico-sinfonica e un teatro stabile si unificano sul piano giuridico e gestionale);
- il panorama delle sale - vecchie, nuove, ristrutturate e in ristrutturazione - e della loro gestione
- in questo quadro, la possibile strategia delle compagnie e la funzione di qull'anomalo organismo (in quanto unico) che è il Sistema Teatrale Torino;
- il ruolo dei festival: quelli che si stabilizzano e quelli che crescono;
- la funzione metropolitana e quella regionale, il CIRCUITO, da poco reso autonomo dal Tetro Stabile e già in grave crisi (perché?);
- le residenze, che in Piemonte costituiscono un "sistema" più articolato avanzato e coordinato che altrove.


 


 

Speciale Torino: le politiche per la cultura dell'amministrazione Chiamparino
Torino 2001-2005
di Anna Chiara Altieri

 

Il 1 dicembre 2005 si è svolto a Torino un incontro voluto dall’Amministrazione Comunale per esporre le politiche culturali della città a partire dal 2001 (giunta Chiamparino, ass. Fiorenzo Alfieri), illustrando i risultati ottenuti e i progetti in fieri realizzati con l’intervento totale o parziale della Città di Torino.
Ci sembra interessante sintetizzare la relazione dell'ass. Alfieri, per quant risalga a qualche mese fa, per inquadrare i rapidi cambiamenti (avvenuti e in corso) e le particolarità della situazione teatrale torinese che ateatro intende analizzare.

MUSEI E MOSTRE
Per quanto riguarda l’attività espositiva e museale, la novità più rilevante è l’affidamento della gestione dei Musei Civici, da tre anni a questa parte, alla Fondazione Torino Musei.
Tra gli interventi strutturali sugli spazi in questo campo sono da ricordare:
 Riapertura del Museo di Arte Antica di Palazzo Madama (con il decisivo apporto della Fondazione CRT), che si concluderà integralmente nell’ottobre 2006 
 Acquisizione – nel prossimo futuro – della Cavallerizza Reale con l’intenzione di utilizzarne il pian terreno per mostre temporanee di arte antica 
 Risistemazione della GAM (Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea), alla quale verranno concessi alcuni spazi di Torino Esposizioni (novembre 2006) 
 Ristrutturazione di Palazzo Mazzonis, che ospiterà il Museo d’Arte Orientale (ottobre 2007) 
 Conferimento del Museo Egizio alla neonata Fondazione per le Antichità Egizie di Torino (soci il Ministero, la Regione, la Provincia, il Comune, la Compagnia di San Paolo, la Fondazione CRT), che provvederà alla ristrutturazione dell’edificio e al riallestimento delle collezioni. E’ probabile che la fondazione gestirà anche il Palazzo a Vela per la creazione di un vero e proprio “parco tematico” sulla civiltà egizia
 Trasferimento del Museo del Cinema negli edifici dell’ex teatro Scribe e del Palazzo della Radio della Rai. 
La Fondazione Torino Musei ha anche la responsabilità operativa di organizzare le mostre proposte dai direttori dei suoi musei (approvate da Comitato scientifico e Cda)
Tra le iniziative dedicate alla contemporaneità ricordiamo: la prima edizione della Triennale (che coinvolge i diversi musei permanenti della città), Nuovi Arrivi (dedicati ai giovani artisti, presso l’Accademia delle Belle Arti), Luci d’Artista , In Sede.

MUSICA E DANZA
Le novità più consistenti sottolineate dall’Amministrazione sembrano essere quelle riguardanti gli spazi e le sale. Dal punto di vista strutturale infatti, va menzionata la riapertura dell’Auditorium Rai, sede permanente dell’Orchestra Sinfonica della Rai, mentre l’Auditorium del Lingotto resterà disponibile per grandi concerti e congressi; è stata riaperta in gennaio anche la sala del Conservatorio.
E’ probabile che – al termine della ristrutturazione – una parte della Cavallerizza sarà concessa al Teatro Regio come sala prove.
Anche le Olimpiadi lasciano un’eredità: alcuni dei grandi impianti sportivi realizzati per l’occasione (come il PalaIsozaki) saranno convertiti per ospitare la lirica rivolta al grande pubblico, alla quale lavoreranno il Teatro Regio in sinergia con il festival Torino Settembre Musica.
Per quanto riguarda poi la danza, il rilancio di Torinodanza avverrà con l’entrata in funzione del Teatro Astra, nel quale si concentreranno la maggior parte degli appuntamenti.

Un discorso specifica la Fondazione Teatro Regio: in questi ultimi anni infatti sono entrati a far parte delle sue attività ordinarie il festival Torino Settembre Musica, Torinodanza (già citati), Sintonie, il punto verde dei Giardini Reali che ospita musica e danza.
L’Amministrazione rigetta l’accusa di far del Regio un nuovo “centro di potere”: si ritiene invece che questa politica ottimizzi le risorse, concentri le cariche e i luoghi di lavoro e infine garantisca coerenza e sinergia: “La questione della concentrazione del potere non esiste. Il potere è saldamente in mano a chi è stato eletto dai cittadini e cioè, nel nostro caso, sia del Sindaco, che per di più è anche Presidente del Teatro Regio, sia del Consiglio Comunale che approva ogni anno i bilanci. I teatri pubblici sono stati creati proprio per far sì che il potere democratico disponga di strutture operative efficienti e qualificate”.

TEATRO
Anche qui le novità più rilevanti riguardano interventi strutturali, e cioè i nuovi spazi a disposizione del Teatro Stabile di Torino. Oltre al Carignano (che chiuderà per ristrutturazione nell’estate 2006) e al Gobetti, vi sono il Teatro Vittoria (200 posti), le Fonderie Limone di Moncalieri (con 2 sale) e tre spazi teatrali alla Cavallerizza.
E’ stata appena conclusa la costruzione della Casa del Teatro Ragazzi, che sarà gestita dalla Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani (di cui fanno parte Teatro dell’Angolo, Assemblea Teatro, Uno Teatro e Onda Teatro).
Ma al di là degli spazi, in primo piano c’è il rapporto tra il TST e il resto del teatro torinese, in prospettiva della costruzione di un “sistema Torino”. L’aumento degli spazi dati in gestione (più o meno diretta) al TST è giustificato con l’obiettivo – come per la musica – di ottimizzare le risorse e sfruttare al massimo le potenzialità dello Stabile ma anche – a detta dell’Amministrazione – per rispondere alla richiesta di spazi da parte di tante compagnie che ne sono sprovviste: il Teatro Stabile sarebbe dunque tramite e garante di questa domanda, sostenendo nuove produzioni: “Mai prima d’ora le compagnie private avevano ricevuto dal TST tanta collaborazione. C’è però ancora molta strada da percorrere per arrivare ad un sistema veramente equilibrato […]
Il TST supporta inoltre il Festival delle Colline Torinesi e il “punto verde” di c.so Taranto.
Il Comune ci tiene a sottolineare alcuni dati di presenze di pubblico: gli abbonati del Regio e dello Stabile superano di gran lunga quelli – rispettivamente – della Scala, dell’Arena e dell’Opera di Roma, e del Piccolo di Milano, e conclude dicendo: “Le stagioni in corso, che definiamo eccezionali in quanto coincidenti con il periodo olimpico e, per quanto riguarda il TST, anche con il suo cinquantesimo compleanno, non hanno confronto per quantità e qualità con le altre stagioni italiane e non si vede perchè non dovrebbero restare eccezionali anche in futuro”.
Si accenna poi – velatamente – anche ad un’ipotesi che da qualche tempo è più di una semplice voce, quella della futura fusione di Teatro Regio e Teatro Stabile: “E’ proprio per cercare di non arretrare dalle posizioni raggiunte che si studieranno le modalità per creare a Torino un modello nuovo di teatro pubblico che, pur nel rispetto delle diversità tra lirica e prosa, ottimizzi le risorse disponibili eliminando doppioni e ridondanze amministrative, organizzative e operative.

CINEMA
Una delle più forti connotazioni culturali di Torino negli ultimi anni è di essere “città del cinema”. E’ infatti sede di:
 Scuola Nazionale di Cinema (sezione di animazione) 
 Museo Nazionale del Cinema 
 Virtual Reality &Multimedia Park (parco tecnologico per la produzione di cinema e televisione) 
 Film Commission 
 Torino Film Festival 
Esiste un borgo del centro che da tempo manifesta una sempre maggiore vocazione cinematografica e per questo è stato chiamato Cineborgo.

LIBRI E LETTERATURA
La manifestazione più rilevante da ricordare è la Fiera del Libro, appuntamento molto amato dal pubblico e cresciuto di anno in anno, tanto che l’Unesco ha dichiarato Torino prossima capitale mondiale del libro: in vista di questa occasione verranno messe in rete numerose realtà del settore (dal Premio Grinzane Cavour alla scuola Holden etc.)
Va poi ricordata il progetto di costruzione della nuova Biblioteca di Spina 2, che si articolerà in quattro tranche, da qui al 2008.


 


 

Speciale Torino: non solo Ronconi
I progetti culturali per le Olimpiadi 2006
di Maura Riccardi

 

Oltre agli spettacoli del Progetto Domani, la Torino olimpica ha proposto un vasto cartellone di inziative passate sotto il titolo di Olimpiadi della Cultura.
Le Olimpiadi della Cultura sono state finanziate dal Ministero per i Beni Culturali, dalla Regione Piemonte, dalla Provincia di Torino e dal Comune di Torino.
Il programma delle Olimpiadi della Cultura è stato suddiviso in cinque grandi sezioni: arti visive, musica, teatro e danza, storia e società, cinema e letteratura.

Teatro e danza
“Dance Break”, performance e intermezzi danzati in luoghi non teatrali, a Torino e nei siti olimpici. A cura di TorinoDanza.
“Il Colore Bianco”, ideato da Giorgio Barberio Corsetti e dalla coreografa belga (ma originaria del Mali) Fatou Traoré. Una fantasmagorica epopea sul tema dei miti nordici, al Chapiteau del Parco della Tesoriera a Torino. A cura di TorinoDanza.
Ultimi appuntamenti della rassegna promossa dal Circuito Teatrale del Piemonte “Le montagne del fare anima”: “A me occorrono precipizi/Il Valico” di Onda Teatro / Fondazione Luigi Bon, “La gabbianella e il gatto che le insegnò a volare” di Assemblea Teatro, “Café Maritornes” della Compagnia 3001, “Chatwin, il gusto di viaggiare” di Nonsoloteatro, “Ecclesiaste” con Vincenzo Cerami di Angeli Custodi Management. Due spettacoli di nouveau cirque (“Nomade” del Cirque Eloise e “Ocelot”) sono stati annullati. Tutti gli spettacoli sono stati proposti in Comuni interessati dalle Olimpiadi.
“Un sogno per tutti”, spettacolo di teatro danza tratto da una favola cinese interpretato esclusivamente da artisti disabili
“Interferenze tra la città e gli uomini”, un progetto di Gian Luca Favetto, sdoppiato in due spettacoli presentati alla Cavallerizza Reale per la regia di Paola Rota e Michele Di Mauro. Gli spettacoli hanno debuttato durante le Paraolimpiadi. Organizzazione a cura di Assemblea Teatro.
“AK, Il Canto dei Catari” con Eugenio Allegri. Quest’ultimo spettacolo ha debuttato il 24 marzo, quando ormai sia le Olimpiadi sia le Paraolimpiadi erano terminate.

Altre occasioni di spettacolo sono state Le Notti Bianche Olimpiche. Comici cittadini e attori locali hanno intrattenuto il pubblico con letture, narrazioni e sketch.


Arti visive
The Five Rings
Inuit e popoli del ghiaccio
Viaggio alle Alpi, alle origini del turismo alpino
Viaggio all’oro. L’immaginario del Klondike
Paesaggio e veduta da Poussin a Canaletto
Alpi di sogno. Dal mito all’ascensione
Riflessi di pietra
La vita quotidiana nell’Antico Egitto
Paesaggi verticali. La fotografia di Vittorio Sella 1879 – 1943
La scoperta del corpo elettronico. Arte e video negli anni ‘70
Pittura sotto Zero. Gordon Halloran – Ice painting project
Luci d’artista e ManifesTO
METROPOLIS: la città nell’immaginario delle avanguardie1910-1920
The Snow Show
Corti e città. Arte del ‘400 nelle Alpi occidentali
Eroi ed Atleti. L’ideale estetico nell’arte da Olimpia a Roma, a Torino 2006
Il Papiro di Artemidoro
T1 Triennale Torino. Tremusei – la syndrome di Pantagruel
Cristo crocifisso di Michelangelo
Leonardo Da Vinci capolavori in mostra
Echoes from the Mountains –suoni in Alta quota
Carlo Magno e le Alpi
Dialogo nel buio
Metropolitanscape. Paesaggi urbani nell’arte contemporanea
Piemonte Share Festival II Edizione

Musica
Mozart: pianoforte e orchestra
Sintonie
La bohème
La Tempesta
Una città per Vivaldi
Arvo Pärt per la Sindone
Italian Melting Pot
Passaggio a Nord Ovest
Manon Lescaut
Rai Nuova Musica 2006

Storia e società
Una stagione romantica. Marche automobilistiche torinesi dal 1900 al 1937
Olimpiadi: dalla storia dello sport alla storia degli uomini
Auto-Mobile: un tratto che ha cambiato la vita
Experimenta muscoli intelligenti tra sport e montagna. Accetti la sfida?
Sport a Torino
Il mistero della Sindone
Forza Motrice – protagonisti del design e della tecnologia automobilistica italiana
Torino al lavoro. Dalla ricostruzione allo sviluppo
Piemonte Torino Design
Glocalmap.to. Un progetto di performing media: mappa attiva per il social tagging
Motore! Mostra cinematografica Fiat in collaborazione con il museo nazionale del Cinema

Cinema e letteratura
Venti classici del cinema italiano
Cene letterarie del Grinzane. Storie e ricette di montagna
Cabiria & Cabiria

 


 

Speciale Torino: nasce la Casa del Teatro Giovani e Ragazzi
Interventi di Nicoletta Scrivo, Roberta Todros, Agostino Magnaghi, Fiorenzo Alfieri, Gianni Oliva
di Redazione ateatro

 
Il progetto della Casa del Teatro Ragazzi e Giovani
a cura di Nicoletta Scrivo e Roberta Todros

LA CASA DEL TEATRO RAGAZZI E GIOVANI
CITTA’ DI TORINO
in collaborazione con la Regione Piemonte
Ex Officina A.E.M. di Corso Galileo Ferraris 266/C




Foto di Bruma Biamino.

2006, anno della Torino Olimpica, della Torino Capitale Mondiale del Libro: nasce La Casa del Teatro Ragazzi e Giovani, un nuovo edificio teatrale dedicato all’infanzia e alla gioventù.
Situata a fianco del rettangolo olimpico che comprende il Pala Isozaki e lo Stadio Olimpico, la Casa si propone di condurre il giovane pubblico ad uno scambio di conoscenze, di curiosità e di aggregazione, offrendo una miscela originale di divertimento intelligente, formazione espressiva culturale e civile, educazione e intrattenimento.
E’ un ambiente teatrale utile ad approfondire un progetto di integrazione e connessione culturale, in uno spazio architettonico polifunzionale tale da divenire un terreno fertile di confronto fra generazioni differenti; dove l’incontro artistico favorisce lo scambio fra attori, danzatori, musicisti italiani e stranieri che alimentano il terreno di un’arte partecipata. La Casa del Teatro Ragazzi e Giovani costituirà una piattaforma comune artigianale ed artistica, per marcare le differenze ed arricchire la qualità degli stimoli culturali nella pratica teatrale, per nutrire un reale confronto in spazi che vanno oltre la tradizionale messinscena, con la volontà di creare le condizioni più adatte per un’esperienza di conoscenza e di ‘entertainment’ intelligente per varie fasce sociali.
La Casa, uno spazio fisico necessario alla trentennale tradizione torinese del Teatro Ragazzi e Giovani che coniuga le esperienze di alcune tra le più importanti compagnie teatrali italiane ed europee; un luogo per raccogliere il frutto di mille iniziative, dai laboratori alle rassegne di spettacolo, ai corsi di aggiornamento, ai festival che sono stati realizzati a Torino e che hanno visto la partecipazione di migliaia di spettatori grandi e piccoli.
La Casa, un riferimento vivace dell’attività teatrale piemontese grazie anche all’energia e alla costanza del Progetto Teatro Ragazzi e Giovani; una dimora adeguata per alcune delle più dinamiche realtà teatrali della città di Torino: la nuova Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani (che dal 2005 prosegue l’attività della storica compagnia del Teatro dell’Angolo), Unoteatro, con le sue due formazioni Il Dottor Bostik e Stilema, Assemblea Teatro e Onda Teatro. Un luogo che saprà dare spazio e stimolo creativo anche alle nuove generazioni di professionisti che intendono dedicare la propria attività creativa al giovane pubblico.
La Casa del Teatro Ragazzi e Giovani, grazie alla costante collaborazione con gli enti pubblici e privati, sarà un punto di riferimento, un’ancora per tutte le compagnie e gli artisti che si dedicano da sempre alla crescita culturale dei giovani spettatori di oggi e di domani.

I numeri della Casa del Teatro

SALA GRANDE
Superficie 400 mq; Posti a sedere 300; Palco di m.16 per m.10
La sala, per ospitare vari tipi di spettacoli, è progettata per poter variare la propria configurazione grazie ad una gradinata telescopica e ad una piattaforma mobile.

SALA PICCOLA
Superficie 132 mq; Posti a sedere 100
Locale per spettacoli di piccole dimensioni, mostre, riunioni, conferenze, ecc.

ANFITEATRO ALL’APERTO PER SPETTACOLI ESTIVI
Superficie 200 mq; Posti a sedere 120

SALE PER PROVE, LABORATORI E CONFERENZE
4 sale – superficie 350 mq

SPAZI PER IL PUBBLICO
Foyer, biglietteria, guardaroba, bar, caffetteria, book shop – superficie 700 mq

Note del Prof. Arch. Agostino Magnaghi
capogruppo progetto di riutilizzo dell’ex cabina A.E.M.


La Casa del Teatro Ragazzi e Giovani si trova all’interno della ex cabina AEM di Corso Galileo Ferraris a Torino. La costruzione della cabina AEM (Ing. Clemente Bornati 1927-‘28) si inserisce all’interno del quadro delle culture tecniche che generarono i grandi stabilimenti torinesi del Novecento […].
[…] Il progetto di recupero dell’ex cabina AEM in sala teatrale, ad uso del Teatro Ragazzi e Giovani, ha avuto come obiettivi, da un lato, il restauro del fabbricato preesistente attraverso l’istruzione di procedure che ne rispettassero l’impianto pure alla luce delle nuove necessità di localizzazione funzionale; dall’altro, l’integrazione della preesistenza in funzione della nuova destinazione d’uso. Il tema cardine dell’intera operazione di recupero è la suscettività alla trasformazione della preesistenza. Per suscettività alla trasformazione si intende la capacità dell’immobile di essere trasformato senza però essere stravolto nei suoi caratteri essenziali (struttura, distribuzione orizzontale e verticale, composizione di facciata). Secondo questo principio, è stato possibile garantire un idoneo restauro e conservazione del fabbricato preesistente parallelamente alla realizzazione degli spazi teatrali.
[…] La sfida del progetto è stata quella di inserire all’interno di una preesistenza rigida come quella della ex cabina AEM, spazi teatrali che si caratterizzassero per flessibilità e trasformabilità della scena. L’impianto planimetrico della ex cabina AEM ha reso possibile la realizzazione di uno spazio teatrale “elastico” e in grado di assorbire le diverse esigenze teatrali in quanto il suo impianto basilicale bene si è prestato per questo scopo. A questo proposito, né la spazialità né la struttura si sono opposte alla sistemazione delle attrezzature pesanti di scena, né ai complessi impianti tecnologici, che sono oggi condizione indispensabile per il comfort e l’uso del teatro.
Così la Casa del Teatro Ragazzi e Giovani offre oggi, dopo l’intervento di recupero e integrazione, la possibilità di mettere in scena spettacoli nelle due sale ricavate all’interno della ex cabina che all’esterno, nella cavea ricavata nell’area libera di pertinenza.

Perché aprire una Casa per il Teatro Ragazzi
di Fiorenzo Alfieri (Assessore alle Risorse e allo Sviluppo della Cultura della Città di Torino)



Foto di Bruma Biamino.

La tentazione di raccontare il mio personale vissuto nel teatro per bambini e ragazzi è molto forte. Cercherò di resistere. Solo qualche flash. Giovane padre, nella seconda metà degli anni '60, portavo la mia prima figlia il sabato pomeriggio al Teatro dell'Angolo di via Chiomonte 3, la affidavo ai giovani teatranti e l'andavo a riprendere dopo qualche ora adeguatamente “teatrata”. Giovane insegnante elementare, nella primavera del '69, ricevetti con la mia classe quarta la visita di Franco Passatore e Silvio De Stefanis che ci portavano lo spettacolo Ma che storia è questa?: per la prima volta non era la scuola che andava a teatro ma era il teatro che andava nelle scuole. Ne derivò un lungo processo di ricerca per inserire il teatro nella didattica del MCE (Movimento di Cooperazione Educativa). Giovane assessore, nel '76, mi occupai di destinare ad ognuno dei ventitré quartieri della città un gruppo di animazione culturale che operasse sia nelle scuole sia nel territorio allo scopo di facilitare l'accesso all'espressione e alla cultura dei bambini e dei cittadini in generale. E infine, non più giovane assessore al sistema educativo, nel '95, accolsi la proposta di Graziano Melano di verificare il destino della ex centrale dell'AEM di corso Galileo Ferraris angolo corso Sebastopoli visibilmente abbandonata da tempo, allo scopo di eventualmente collocarvi il teatro per ragazzi della Città di Torino.
Tra questi punti di repere una vicenda fittissima di momenti di formazione, di collegamenti in Italia e all'estero, di produzioni originali, di accese discussioni sull'attualità del teatro, sul raccordo tra l'interesse del bambino per il gioco teatrale e i possibili modi di messa in forma di quella propensione specie-specifica (come direbbe Chomsky) dell'essere umano, sulla speciale professionalità del “teatrante per ragazzi” e così via.
Come ha gridato Valentino Castellani durante la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Torino, anche noi possiamo dire: “Ce l'abbiamo fatta!”. Abbiamo un complesso teatrale bellissimo tutto dedicato ai ragazzi e ai giovani e per di più affidato per la gestione alle compagnie specializzate della Città; compagnie che hanno interagito costantemente con i progettisti e le imprese costruttrici per adeguare il più possibile “i mattoni ai neuroni”, come si usa dire.
Cosa posso aggiungere? Sono contento. Raramente lo sono stato così.

Uno spazio per il gioco del teatro
di Gianni Oliva (Assessore alla Cultura e alle Politiche Giovanili della Regione Piemonte)



Foto di Bruma Biamino.

Un nuovo dunque quanto naturale spazio per il Gioco del Teatro, la rassegna annuale del teatro per le giovani generazioni, che si è ormai evoluta in vero e proprio festival, ospitando ogni anno le più interessanti compagnie della scena europea e riuscendo a conciliare il proprio ruolo di vetrina-mercato della migliore produzione regionale con le finalità di iniziativa aperta anche a un pubblico allargato di giovani e di famiglie.
E’ una programmazione variegata e articolata, che ci fa conoscere ed apprezzare i differenti codici espressivi del teatro attraverso spettacoli pensati e realizzati appositamente per gli spettatori più giovani: per fare in modo che incontrino la magia del teatro, ne scoprano il fascino e si appassionino ad esso.
Da sempre vero e proprio laboratorio sperimentale nell’ambito dell’animazione, la nostra città riesce a valorizzare le varie voci di quanti operano in questo particolare ambito dell’attività teatrale, che oggi dimostra tutta la vitalità dell’originaria carica creativa e della sua preziosa capacità di aggregazione, continuando ad offrire inedite occasioni e nuovi spunti di confronto e di dialogo.

Il programma dell'inaugurazione della Casa del Teatro



Foto di Bruma Biamino.

7 - 8 - 9 - 10 aprile 2006

venerdì 7 aprile 2006

Emanuele Luzzati alla Casa del Teatro
Installazioni e bozzetti in mostra
Ogni giorno è possibile rimettere in gioco il mondo: questa la filosofia condivisa con Emanuele Luzzati, cui abbiamo chiesto di lasciarsi contagiare dagli spazi della Casa del Teatro. Cresciuti con lui, con gnomi, orchi ed eroi disegnati per Rodari e Calvino, crediamo nel talento raffinato di questo maestro dell'illustrazione italiana - anche scenografo e costumista teatrale corteggiato dai principali teatri italiani e stranieri, scrittore di testi per bambini, ceramista, progettista di parchi e di filmati d’animazione - capace di sedurre alla poesia ciò che il mondo intorno mette a disposizione. Così come il teatro insieme costruito.
La mostra di bozzetti appositamente realizzati per la Casa del Teatro, le sette installazioni legate all’illustrazione di fiabe note, e la sua rutilante Commedia dell’Arte sono dunque un augurio condiviso, non solo un allestimento di legno, stoffe e pizzi ricamati.
Progetto realizzato con il sostegno di Compagnia di San Paolo

ore 17.30
Racconti fiabeschi a cura dell’Associazione Bonaventura
Un pomeriggio di festa. Un gioco teatrale che, trovando ispirazione nelle illustrazioni e serigrafie di Emanuele Luzzati, ci conduce nel mondo fantastico e leggendario di Cappuccetto Rosso, Cenerentola, Biancaneve, La bella addormentata, Hansel e Gretel e del Principe Rana. Per chi crede ancora che nulla sia più vero delle favole.
www.la-bonaventura.it

Seguirà brindisi

ore 17.00 e 18.30
Visite guidate teatrali a cura di C.A.S.T.
La Casa si racconta
E lo fa indossando il vestito della festa, quello del teatro.
Scegliendo musicisti e attori come compagni di viaggio, suggerisce percorsi e destinazioni, interpreta la storia e le rinnovate destinazioni del luogo. Svela ciò che il suo sogno racchiude.
Accompagna lungo un percorso di visita guidata teatrale chi desidera entrare ma non osa, e chi tutto sa di graticci, tiri di scena, sottopalchi, e sale prova.
Repliche: sabato 8 aprile ore 15.30 e 17.30 - domenica 9 aprile ore 11.00 e 15.30

ore 20.30 - Sala Piccola
Stilema / Unoteatro
Strip
Di e con Silvano Antonelli
Lui arriva trafelato, come al solito è in ritardo. Vestito in modo spropositato, si muove goffamente e, ricercando una penna stilografica, provoca la rovinosa caduta di un mucchio di fotografie fatte nel passato. Qui ha inizio un improbabile varietà sull'idea di memoria, che raccoglie un ampio spettro di declinazioni dell’immaginario infantile e giovanile, dai ricordi quotidiani più intimi a quelli più condivisi: ogni oggetto e ogni abito di scena, rappresentano per lui un ricordo, un’occasione per ripescare nella memoria voci, visi, colori. La comica spoliazione via via prosegue, costringendo il nostro personaggio a ritrovare un poco alla volta se stesso, mentre i segni di questo percorso rimangono aggrappati alle reti che disegnano la scena: è il mondo conquistato.
Per tutti

ore 21.30
- Sala Grande (debutto nazionale)
OM casateatro
Racconto e drammaturgia: Remo Rostagno; Messa in scena: Pasquale Buonarota e Alessandro Pisci; Collaborazione artistica: Graziano Melano; Canti: Antonio Pizzicato; Scenografia: Iole Cilento; Con Francesca Brizzolara, Pasquale Buonarota e Alessandro Pisci e con la partecipazione de I Piccoli Cantori di Torino diretti da Carlo Pavese e coordinati da Luigina Dagostino
Una casa trasparente fatta solo di porte aperte anche quando sono chiuse. Una casa senza strada, senza pareti, senza numero civico, senza TV, senza il gatto, ma con una gabbietta e un vaso di fiori. Qualcosa suggerisce che quella casa è piazzata sulla riva di un fiume. C’è un uomo in scena: cerca da mangiare, ha fame. Cibo, non ce n’è. E dall’acqua arriva un altro uomo. Che ha fame, che ha sete. I due sono in difficoltà. E le difficoltà aumentano quando la corrente dell’acqua trasporta lì una donna. Che ha fame, che ha sete. E lei ha una mela: la lotta è inevitabile.
Gli attori in scena agiscono con il corpo e con la voce. Ma non parlano una lingua conosciuta. Non usano parole. Comunicano attraverso sorprendenti vocalità sonore. Raccontano una storia di fame e d’amore, antica come il mondo e, al tempo stesso, di sicura attualità.
Dai 6 anni
Repliche: sabato 8 aprile ore 20.30
- domenica 9 aprile ore 20.30


Sabato 8 aprile 2006

ore 16.00
– Sala Piccola
A scatola chiusa Onda Teatro
Di Bobo Nigrone e Silvia Elena Montagnini; Con: Silvia Elena Montagnini; Musiche: Marco Baccino; Regia: Bobo Nigrone
In una città in cui i cortili non sembrano essere fatti per giocare insieme, in una società che produce giochi e passatempi da consumare in modo solitario, accade che i figli rimangano a casa da soli: spesso, da quei silenzi non condivisi, nasce il bisogno di inventarsi un mondo speciale. A Silvia basta mettere in fila quelle vecchie scarpe nello sgabuzzino per far sì che si materializzi un pubblico pronto ad ascoltarla e a giocare con lei. Per incontrare personaggi e animali di ogni tipo, e immaginare di avere tanti amici e amiche disposti ad ascoltare le sue storie. Prima tra queste, “Il brutto anatroccolo” di Andersen.
Dai 4 anni

ore 17.00/18.00/19.00/20.00 – Cortile
Tof Théâtre (Genappe – Belgio)
Bistouri !
Ideazione, regia, scenografia e pupazzi: Alain Moreau; Scrittura scenica e interpretazione: Alain Moreau, Maxime Durin e Dimitri Joukovsky; Musiche: Max Vandervorst
Uno spettacolo che, senza parole, scatena comicità e ironia. All’interno di un piccolo ospedale da campo, il pubblico assiste ad una strampalata operazione chirurgica condotta da due medici improbabili, ma armati di attrezzi all’avanguardia, grazie ai quali si avventureranno nelle viscere tumultuose del loro paziente verso nuove e straordinarie scoperte. Ma a chi appartiene questa pancia smisurata? Chi è il celebre e misterioso paziente?
Dai 6 anni
Attenzione:
Lo spettacolo viene rappresentato all’interno di un piccolo tendone riscaldato. Capienza massima 60 spettatori a recita. Durata 35 minuti.
Repliche: domenica 9 aprile ore 17.00/18.00/19.00/20.00

ore 21.30 - Sala Grande
Presentazione editoriale animata
Animazione teatrale. I luoghi, le idee, i protagonisti

A presentare il volume edito da Carocci - con la partecipazione di alcuni dei principali fautori di un’avventura teatrale lunga più di trent’anni come Fiorenzo Alfieri o Giuliano Scabia - è l’autrice stessa, Loredana Perissinotto, protagonista storica di quel movimento di rinnovamento teatrale ed educativo noto come "animazione teatrale". Un po’ di amarcord, forse, ma solo per ritrovare le radici delle attuali prospettive, in una festa fatta insieme in cui il passato venga letto in funzione di un complesso presente culturale.

Domenica 9 aprile 2006

ore 11.30
– Sala Piccola
Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani
Orsetti
Ideazione, movimenti coreografici, concezione visiva e selezione musicale: Mariachiara Raviola; In collaborazione con: Vanni Zinola e Erica Guarino; Consulenza Registica: Nino D’Introna; Con Vanni Zinola e Erica Guarino; Si ringrazia per la Consulenza Pedagogica il Centro Studi Teatro Ragazzi “Gian Renzo Morteo”
Grattarsi, annusarsi, corteggiarsi, coccolarsi e azzuffarsi. Nascere e crescere, mangiare ed avere paura, essere timido e dispettoso, ingelosirsi del fratellino e volere mamma e papà tutti per sè, divertirsi al circo e conoscere tanti amici. Infine, addormentarsi: queste le prime avventure di ogni bambino, ma anche dei peluche con cui egli condivide i suoi primi passi, in una relazione affettiva e sociale intensa e significativa. In scena dunque, insieme a un attore e una danzatrice, i veri protagonisti dello spettacolo: i loro Orsetti ormai consumati e gli altri piccoli amici che i bambini avranno portato a teatro con sè. Seduti insieme, gli uni accanto agli altri, non resterà che lasciarsi avvolgere dall’azione fantastica e ricca di colpi di scena, capace di evocare al tempo stesso momenti quotidiani e sensazioni magiche ed archetipiche.
Dai 3 anni

ore 16.00 - Sala Grande
Assemblea Teatro Il piccolo principe
Voce recitante: Gisella Bein; Suoni e composizioni: Matteo Curallo; Illustrazioni su sabbia: Licio Esposito; Regia: Renzo Sicco
Una lezione fantastica, quella di Saint-Exupery, che induce ad ascoltare, ad osservare, a prendersi cura dell’altro, ad essere responsabili del mondo attorno a sé. Uno spettacolo che, con apparente semplicità - seguendo il filo rosso della nascita di un’amicizia tra un pilota di aereo e un principino extraterrestre - racconta la bellezza del confronto dialettico, dell’educazione etica, della competenza sociale. Lo scenario lieve e rarefatto del deserto, sospeso tra gli infiniti mondi possibili, è evocato dalle performance luminose di sabbia di Licio Esposito. Il valore poetico della scrittura respira grazie alla misurata narrazione di Gisella Bein.
Dai 6 anni

ore 17.30 – Sala Piccola
Il Dottor Bostik / Unoteatro
Acqua
Testo, regia e animazione: Dino Arru; Scene: Fulvio Massano; Costumi: Anna Gillardi; Aiuto fuori scena: Raffaele Arru
Una barchetta di carta sospinta da un soffio d’alito, un rubinetto d’ottone sospeso nel vuoto, un catino pieno: inizia così un viaggio fantastico sui sentieri della memoria che ci racconta che l’acqua è anche odore, paura dell’abisso, abbraccio estatico di un’onda. Le magie visive e le continue invenzioni che si susseguono si imbattono in piovre e grondaie, pesci sega e bacinelle, acqua vera e oceani fantastici. Il particolare rapporto instaurato tra animatore e pupazzo, l'idea di fondo mista al gusto per l'assurdo e il surreale, concorrono poi a delineare uno stile netto che si articola lungo l'arco dell'intero spettacolo, facendoci salpare verso mari da salvare.
Per tutti



Lunedì 10 aprile 2006

ore 9.30
Tavola rotonda Edifici Teatrali per le Nuove Generazioni
In una Torino che - dopo trent’anni di teatro per, dei e con i ragazzi - ha scelto di dotarsi di uno spazio adeguato e all'avanguardia destinato a queste iniziative, la nuova Casa del Teatro Ragazzi e Giovani si confronta con le strutture similari di Bruxelles, Ginevra, Lione, Cascina, Parma e Bologna. Per raccontarsi e sentir raccontare. Per mettere a confronto percorsi di progettazione, edificazione e funzionamento di alcuni tra i più significativi spazi teatrali europei dedicati alle nuove generazioni.
Sono previsti interventi di
Roger Deldime e Jeanne Pigeon - Théâtre La Montagne Magique (Bruxelles)
Dominique Catton - Am Stram Gram Le Théâtre (Geneve)
Nino D’Introna - Théâtre Nouvelle Géneration (Lione)
Alessandra Belledi - Teatro delle Briciole (Parma)
Lucio D’Amelio - La Baracca Teatro Testoni (Bologna)
Alessandro Garzella - La Città del Teatro – Fondazione Sipario Toscana (Cascina)
Graziano Melano - Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani (Torino)
Ugo Perone – Dir. Dip. Studi Umanistici Università del Piemonte Orientale (Vercelli)

Modera Sabrina Grassi Fossier, Direttrice del Centre Culturel Français di Torino



INFORMAZIONI E PRENOTAZIONI:
www.fondazionetrg.it
Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani – Via Industria, 2 – 10144 Torino
Tel. 011.4731276 – 011.489676 – Fax 011.4733102
prenotazioni@fondazionetrg.it


BIGLIETTI:

Per tutti gli spettacoli e per le visite guidate: ingresso libero, prenotazione obbligatoria
Per le recite dello spettacolo Bistouri!: Posto unico € 5


 


 

Speciale Torino 2006: su Ascanio Celestini, Luca Ronconi e non solo
Una lettera aperta a Oliviero Ponte di Pino (e a ateatro)
di Nevio Gambula

 

Caro Oliviero,
io parlo ormai una lingua minoritaria; ogni mia frase, anche la più diplomatica, palesa il mio distacco dai discorsi comuni. Conversare, in queste condizioni, è frustante; espone a una miriade di malintesi, per chiarire i quali bisognerebbe scrivere almeno dieci libri. Da sempre dico che il teatro di narrazione è il nuovo conservatorismo, o che Ascanio Celestini è penoso (teatralmente parlando). Tutti mi guardano sgranando gli occhi, come se venissi da un altro mondo. E non conta quanto io sia in grado di articolare su ciò un discorso ampio e con riferimenti precisi alle tecniche e alla storia del teatro; conta di più il fatto che, dicendo quello, intacco un equilibrio. Ciò mi rende inquieto. È come se, svelandomi, io mi esponga alla lapidazione. La voce può essere tranquilla e cordiale (e la mia solitamente lo è), ma è come se stessi delirando. Io, poi, ci metto del mio, coltivando una certa testardaggine: mentre tutti trovano sensate le ragioni di Israele al pari di quelle della Palestina, io insisto nel dire che solo i palestinesi hanno ragione. Tant’è che le mie posizioni sono spesso considerate aride, banali, persino irrispettose, abitate da utopie di altri tempi, già fatte naufragare dalla storia. Ma tutto sommato, al di là del tormento momentaneo, faccio finta di niente; in fondo, la mia inattualità è voluta. Certo che, quando si vive con questa consapevolezza, si diventa insofferenti a tutti i compromessi, si diventa arroganti, inconciliabili, sgradevoli; si diventa ancora più soli. E si corre il rischio di esagerare. Ma, davvero, non avendo io terre promesse da indicare, né, tanto meno, posizioni da difendere o da conquistare, resto felice nel mio estremismo, considerandolo plausibile oltre ogni castigo. In ciò che dico c’è una oggettività che trascende il mio velleitarismo: c’è una verità (una verità faziosa, magari, ma certa, o comunque verificabile). Chi la riconosce potrà trovarmi disposto alla conversazione, per gli altri solo sputi. Non mi importa delle ricadute, anche in termini di ostracismo, per quello che dico apertamente; non mi è mai importato, né mi importa ora che sono fuori da ogni possibile salvazione. Continuerò apertamente a dire che il teatro di Ascanio Celestini è vergognosamente e scandalosamente reazionario; se mi verrà dato modo di articolare un discorso compiuto, lo farò con cognizione di causa, altrimenti lo farò lo stesso.

Ho scritto, nel forum, diverse cose legate all’affaire Ronconi, le più delle quali fraintese. Non ho mai pensato che l’artista debba stare fuori dal mercato; né che non debba avere a che fare col denaro. Non l’ho mai pensato anche perché, molto semplicemente, non può, essendo la nostra società “una immane raccolta di merci” e basata sulla “mediazione del denaro”. Credo invece che l’artista debba disporsi per non subire il mercato. Ma di ciò ho già scritto in diversi post, cui rimando. Sulle virtù del mercato (e delle “istituzioni”), probabilmente la pensiamo in maniera diversa. Immagino che le tue posizioni non siano molto diverse da quelle che Andrea Porcheddu esprime nella sua risposta al sottoscritto. Per lui “mercato” vuol dire “produrre economie”, e quindi anche opportunità; per me vuol dire prima di tutto produrre esclusione. Chi ha ragione? Probabilmente entrambi; la differenza dipende solo dal punto di osservazione che adottiamo. Intanto alcune precisazioni. Per prima cosa, con “mercato” intendo nient’altro che il meccanismo complesso che regge la produzione e la distribuzione di spettacoli, compresi gli aspetti di scambio “politico”; nel mercato teatrale la “libera contrattazione” convive con il sostegno statale, la ricerca di sponsor con il supporto di istituzioni locali, l’arte di arrangiarsi con la fortuna di disporre dei canali “giusti”. Inoltre, com’è risaputo, si tratta di un mercato bloccato, essendo “scambi” almeno i ¾ dei movimenti, molti dei quali avvengono tra i fortunati che hanno accesso ai finanziamenti ministeriali; gli altri si giocano quel che resta. È ovvio, quindi, che il mercato non può accogliere tutto ciò che viene prodotto. Su 100 spettacoli diciamo che ne accoglie 20, pertanto altri 80 restano tagliati fuori. Non è, allora, il mercato, anche questo gioco al massacro tra esclusione e inclusione? E gli inclusi sono davvero i “migliori”? Quali criteri stabiliscono chi è dentro o chi è fuori? Chi stabilisce i criteri? Ormai tutti i teatri fanno a gara per ospitare Ascanio Celestini … Perché nessuno (o quasi) vuole ospitare Danio Manfredini? Insomma, se è illusorio scagliarsi contro il mercato tout court, è altrettanto illusorio non sottolinearne l’assoluta incapacità di fare emergere quel teatro di cui oggi avremmo bisogno. È una contraddizione interna all’idea stessa di mercato, il quale non può che influenzare spietatamente le merci che lo abitano, chiedendo ai produttori (pena il crescere dell’invenduto) di adeguarsi alla sua lingua principale, che è una lingua consolante, gradevole, riconoscibile, non inquietante, svuotata di ogni critica e di ogni ferocia linguistica. Non ti nascondo che trovo questo atteggiamento remissivo (questo adeguarsi alla lingua del mercato) il problema più grosso del teatro contemporaneo. Chi oggi produce spettacoli non rischia, mira al garantito (spettacoli sicuri da piazzare, nomi di richiamo, testi classici, stile para-televisivo, musical), adeguando i modi di essere della scena (la sua “lingua” specifica) alle richieste poste dalla necessità di essere presenti sul mercato. La crisi del teatro, allora, è anche il logorio della sua lingua, incapace di andare oltre il semplice adagiarsi a ciò che prescrive la norma. Oggi tutti, in un modo o nell’altro, omaggiano questa lingua imposta, a partire dal privilegio dato al “testo” e alla “messa in scena” (anziché al corpo e all’evento), per non dire poi della recitazione (naturalistica, nella stragrande maggioranza dei casi, quando non disdicevole anche solo come livello tecnico) o dei principi della “coerenza narrativa” e dello “svolgimento lineare”, come se la nostra migliore “ricerca”, in parte già storicizzata (la tradizione del nuovo), non sia mai nemmeno esistita. Perché? Perché le codificazioni giunte sino a noi non sono verificate, ma accettate supinamente come se non esistesse alternativa? Perché il teatro contemporaneo non la smette di agitare il suo fastidioso “servilismo”, la sua “vocazione cortigiana”? Come dice Franco D’Ippolito nel suo intervento nel forum, il teatro è insieme “arte e impresa” … Io credo che i teatranti abbiano dato troppo peso al secondo termine, accantonando quasi del tutto le attenzioni riposte al primo (è più comodo, economicamente parlando, accettare la lingua media – quella che insegnano nelle scuole di teatro, per capirci – che sperimentare una lingua grezza, informe, ancora non codificata). Certo, una serie di concause hanno determinato questa situazione, a partire dall’irrisolta crisi economica. È facile constatare il dirottamento di ingenti risorse dall’ambito sociale (scuola, sanità, servizi, etc.) a quello industriale; ciò ha ridotto le disponibilità finanziarie per la cultura. E ha aperto una trasformazione, anche antropologica, negli abitanti di questo mondo particolare: ha fatto emergere la cultura dell’imprenditorialità diffusa. Metamorfosi dovuta quindi alla necessità di correre dietro le poche risorse messe a disposizione e alla necessità di arrivare prima di altri, visto che non sono sufficienti per tutti. Poteva, il teatro, restare immune da questa ideologia della competizione? Non poteva, e non potrà salvarsi neanche domani; anche perché, almeno nell’immediato, a questa ideologia non c’è scampo, e proprio perché è espressione di un meccanismo ben più profondo, che è prima di tutto economico, e che è diventato culturale senza che voci discordi si siano levate (quanta responsabilità ha su ciò la “sinistra”?). Oggi il teatro è questo fracasso … E il mercato è la causa prima di una situazione ormai insostenibile; è la causa reale della chiusura di spazi d’azione di un teatro “altro”; è il vero movente dell’attuale crisi … Credo veramente che la situazione odierna sia giunta ad un punto di non ritorno, dove ogni tentativo di “riformare” il teatro è destinato a fallire. O si avrà la forza di ripensare in termini radicali (oserei dire sovversivi) se stessi e il proprio stare al mondo, o si è destinati ad essere parte di un ingranaggio che è stritolante, che non può, per come è fatto, che riportare all’ordine ogni escrescenza (o lasciarla marcire ai margini). Viviamo insomma una situazione che vede il sistema-teatro svilire costantemente il prodotto teatrale a mero intrattenimento dopo-lavoristico, avanzando ai teatranti richieste “al ribasso”, dove ogni ripensamento delle tecniche e delle gerarchie dei codici è bandito. In questo contesto, c’è chi si adegua e c’è chi si rivolta. Ascanio Celestini per me si adegua; Ronconi?

Per anni mi sono tenuto lontano dagli spettacoli di Ronconi. Ne ho visti tanti, non ne ricordo nessuno. Mi sono clamorosamente addormentato ad una replica di Strano interludio, sono uscito a metà dello spettacolo L’uomo difficile, ho trovato Gli ultimi giorni dell’umanità una estetizzazione qualunquistica dello splendido testo di Karl Kraus. Certamente il suo è un lavoro di alta perizia e qualità, ma ben oltre la mia sensibilità. Insomma, Ronconi non rientra nell’idea di teatro che mi sono fatto, e dunque non posso amarlo. E poi non mi basta più che uno spettacolo sia “bello” o di qualità eccelsa; non credo insomma che bastino spettacoli “di qualità” per mettere in crisi la società dello spettacolo; anzi: questi spettacoli, nel momento in cui si rivolgono ad un pubblico preciso (gli abbonati degli stabili, quel che resta della borghesia intellettualizzata, il ceto medio di centro-sinistra), e dunque sono parte di una data modalità produttiva e distributiva, non fanno che confermare, di fatto rafforzandolo, quello stesso sistema che vorrebbero trasformare. Accettare le regole del gioco senza aprire momenti di scarto (senza ribellione, direbbe Artaud) è fare il gioco di chi determina quelle stesse regole. Tutto ciò non mi interessa più. Lo trovo noioso e servile (e su ciò, per lo meno nel fondo, più che nello stile, condivido la posizione espressa da Fofi nell’ultimo numero de Lo straniero, apparsa anche nel forum). Ora, Ronconi è definito da Andrea Balzola (articolo sul Progetto Domani nel numero precedente) come “uno dei pochi resistenti”. Trovo questa definizione alquanto bizzarra. Mi chiedo: a cosa “resiste” Luca Ronconi? Da quanto mi è dato di sapere (e invero il vocabolario mi viene in aiuto), resistente è colui che, opponendosi ad una azione contraria, conserva le sue caratteristiche. C’è qualcuno o qualche istituzione che sta impedendo a Ronconi di fare il suo teatro? Sinceramente, non mi pare proprio; mi pare anzi che il regista Luca Ronconi goda di privilegi che nessun altro in Italia può vantare. Definirlo “resistente” è davvero esagerato. Resistenti sono semmai quei teatranti che quotidianamente fanno fronte allo scadimento di quest’arte senza neanche disporre dell’immenso potere (e scrivo proprio potere) di cui invece dispone Ronconi. È ormai diventato facile resistere al clima di inciviltà creato dal berlusconismo; lo fanno un po’ tutti, anche Montezemolo (e ho detto tutto). Ma come si fa – mi chiedo, sapendo di rivolgere una domanda probabilmente senza risposta – come si fa, dicevo, a rendere autonomo il momento della scena dal contesto organizzativo in cui sorge? È sensato – teoricamente, politicamente, eticamente – separare il momento della produzione da quello del prodotto realizzato? Se Ronconi, con il suo comportamento (e il comportamento, per un materialista come me, conta ben più di mille proclami), aderisce, approva, sottoscrive, esprime consonanza, si adatta, è conciliante con quel sistema organizzativo che è espressione del patto sociale che rende il teatro quello che è, mi chiedo: non siamo di fronte ad una grande ambiguità? Davvero è sufficiente che Ronconi affronti temi “di sinistra” per non renderlo parte dell’establishment? Il teatro non è soltanto “linguaggio”, è anche “sistema”; davvero si pensa che il momento dell’organizzazione, in casi come questi, sia neutro? E se non è neutro – e immagino che per te non lo sia – come si fa a sostenere una organizzazione che, nel mentre permette a Ronconi di realizzare i suoi progetti, ne costringe all’angolo altri cento? Lascio in sospeso queste domande, essendo mia intenzione dire a questo punto qualcosa in merito all’editoriale del numero 96 di ateatro, che ho trovato leggermente indigesto.

L’editoriale fa chiaro riferimento alla discussione che “divampa” nel forum in merito al “Ronconi olimpico”; si rivolge ai partecipanti con toni tutt’altro che teneri, al limite dell’irrisione: “sfoghi” e non “veri contributi”, “vuoto moralismo”, “squittii da verginelle” … Ora, non ti nascondo la perplessità per questo modo di impostare la cosa, senza per altro “entrare nel merito”, non dicendo cioè apertamente a chi vi riferite. È automatico, per il lettore del forum, individuare il bersaglio polemico principalmente nel sottoscritto, non foss’altro perché sono colui che si è esposto più di chiunque – e col proprio nome – nella critica del progetto ronconiano. Del resto, se così non fosse vi sareste presi la briga di distinguere ciò che è solo insoddisfazione esibita, peraltro legittima, da ciò che è invece chiara posizione politica (e la differenza, nel forum, è ben riconoscibile). Un indizio chiarificatore di questo sottinteso è là dove dite che non si è trattato di spettacoli “all’insegna dell’arte per l’arte”, che è guarda caso una delle critiche rivolte a Ronconi nella mia lettera aperta, pubblicata nel forum. Ma tant’è; mi tengo il sentimento di insofferenza e vado avanti lo stesso, sottolineando, anche qui, quella difficoltà di comprendersi di cui dicevo all’inizio. La questione Ronconi è una questione, per quanto mi riguarda, di politica culturale; il teatro c’entra perché è l’oggetto materiale con cui questa politica si è evidenziata, ma solo per questo. Nel primo punto dell’editoriale difendete la scelta fatta dallo Stabile di Torino di assegnare la direzione dell’impresa teatral-olimpica a Ronconi; chi meglio di lui (“il miglior regista attualmente in attività”) potrebbe assumersi questo compito? In pratica, dite che nel momento in cui questo evento è dato, e non ha potuto prendere una piega diversa, magari come quella da te proposta nella famosa lettera firmata con Mimma Gallina, tanto vale sostenerlo, non sia mai che qualcosa di decisivo per il teatro contemporaneo finalmente sorga. È un atteggiamento che non mi convince. Mi ricorda molto quei distinguo allucinanti di chi, opponendosi a parole alla guerra contro la ex Jugoslavia, continuava a partecipare al governo per immettere germi di pacifismo (e nel mentre i “nostri” aerei bombardavano città e treni e hanno smesso di farlo soltanto quando la NATO ha ritenuto opportuno farlo). Se l’evento è criticabile nelle sue premesse, perché accettarlo quando ha luogo o è terminato? Sono cambiate le premesse? Gli esiti prevedibili erano tali da aprire una speranza per risolvere la crisi del teatro italiano? Nessuno potrà mai smentire adeguatamente il fatto che l’evento-olimpiadi ha avuto come centro fondante non lo sport o la competizione tra pari, ma il profitto. Attenzione: io dico “profitto” perché provengo da una cultura ben precisa, ma possiamo definirla, se preferisci, “esagerata presenza dei marchi economici”, come ha fatto un telecronista durante la finale del pattinaggio artistico. Sono solo due modi diversi di dire la stessa cosa; di dire cioè che lo sport è solo la maschera con cui si nasconde una essenza ben diversa. In questo contesto, nel contesto di una olimpiade che è diventata nient’altro che una occasione di business, qual è stato il ruolo delle “olimpiadi della cultura”? Vedi, Oliviero, queste domande così generali sono valide anche “a bocce ferme”; anche perché potrebbero, se se ne discutesse realmente, permetterci di evitare di cadere nelle stesse trappole domani, quando altri eventi di questo tipo verranno proposti. Io mi sento in diritto, anche oggi, ex post, di criticare l’impianto ideologico che regge quella operazione, così come mi sento in diritto di criticare la Bossi-Fini nel suo impianto di base senza dover per questo entrare nel merito dei risultati (che è un lavoro certamente da fare, ma non capisco perché stabilire una gerarchia così netta e escludente tra i due momenti). Ti dirò anzi che mi preme di più affrontare questa questione in termini politici che non “entrare nel merito” degli spettacoli ronconiani (d’altra parte, rifiutandone le premesse, e non piacendomi affatto i suoi spettacoli, trovo davvero poco interessante discuterne). Insomma, per quanto mi riguarda, più che confermare Ronconi come “il candidato numero uno”, sarebbe stato più opportuno scegliere di astenersi: nessun candidato sarà mai il nostro candidato. Questa posizione è uno “squittio da verginella”? E anche se fosse? Che cos’hanno di così deprecabile le vergini? Pentesilea lo era, e strepitava con la voce anche a costo di mettere in crisi il suo stesso popolo; ciò non toglie che era ugualmente regina e grande amante … In sintesi, chiamali squittii, chiamalo se vuoi facile estremismo, chiamalo come credi; per me è solo il nucleo di una posizione che reputa eticamente più rilevante, in questi che sono tempi di decadenza generalizzata, non partecipare al gioco dei compromessi con l’imbarazzante società dello spettacolo.

Un salutone,
Nevio Gàmbula


 


 

Autoritratto dell'attore da giovane (6)
Passioni d'attrice
di Monica Nappo

 

Prosegue con Monica Nappo la serie di Autoritratti dell'attore da giovane. Nelle precedenti puntate (e nell'archivio di ateatro trovate Michela Cescon, Paolo Pierobo, Elena Russo Arman, Alessandro Genovesi, Federica Fracassi e Andrea Cosentino.



(foto di Marcello Norberth)

Perché ho scelto il teatro.

Mi sembrava la forma di fuga dalla realtà più interessante che avessi mai incontrato, e ovviamente di sublimazione del dolore… Eh eh eh...
Ho cominciato molto presto, a 18 anni: con dei compagni del liceo formammo una vera e propria compagnia, gestivamo un miniteatro di 50 posti, ci occupavamo di tutto: biglietti, pulizie, luci, costumi… Questo miniteatro si chiamava Il Bardefè. Eravamo aiutati e guidati da un professore del liceo Umberto Serra, gli piacevano soprattutto i testi contemporanei, sarà stato lui a passarmi quest’amore.
Ricordo che restavamo lì delle ore a improvvisare, a leggere, a mettere su spettacoli. Con i soldi dei biglietti, oltre che cantando nei locali e con altri lavoretti, riuscivo a contribuire al mio mantenimento e a quello del Bardefè. Ecco, stare chiusa lì dentro con altre persone che come me si sentivano a loro agio a scambiarsi i ruoli e a dimenticarsi di quelli reali… Poi per fortuna è diventato anche altro…
Adesso sento che mi piacerebbe fare teatro anche in luoghi diversi: gallerie d’arte, musei, locali notturni… Mi piacerebbe mischiare sempre più tutto, mischiare questi mondi e le persone che ci sono dentro, farli comunicare. Vedere sempre più quanto sono labili i loro confini.

Il mio percorso di formazione.

Sostanzialmente recitare, fare teatro. Credo sia l’unica cosa che ti fa entrare e misurare con la complessità del tutto.
Ho partecipato anni fa a un corso tenuto da Renata Molinari, “Parole in azione”, e lì ho incontrato lei e Marco Baliani, Giorgio Barberio Corsetti, Cesare Lievi, Marco Martinelli… Insomma, come formazione quella è stata la mia esperienza più lunga. Ma sostanzialmente fare teatro, quante più esperienze diverse, fare dei laboratori… Mi aiuta moltissimo cambiare approccio.
L’ultimo seminario è stato di danza butoh, con il maestro Masaki Iwana. Fondamentalmente non mi interessa vedere un attore che usa solo la tecnica, che non usa anche qualcosa di animale in scena, che non si prende il rischio di cadere, senza mostrarmi il lato schizofrenico della cosa, il privato e il pubblico contemporaneamente. Mi ha colpito molto una cosa su cui si lavorava molto nel butoh con Iwana. Lui dice sempre di prestare attenzione al muoversi (con il corpo e con le proprie sensazioni) da essere umano e non da persona, o almeno a essere consapevoli della differenza (e io pensavo all’abbrutimento da tournée): lasciarsi sorprendere, insomma, anche da se stessi, dalle proprie resistenze… Nel suo lavoro il piano fisico e quello spirituale camminavano sempre insieme. Diceva: “E’ meglio non conoscere niente, così trovi te stesso.” Ma anche lui ci ha confessato che ha trovato se stesso solo dopo i cinquant’anni. Certo, credo che per arrivare a questo ci voglia una forza, tenere sempre aperta una finestra che sia sempre il tramite per te, per gli altri, per il mondo...

Gli incontri professionali che mi hanno segnato.

Nel teatro sicuramente quello con Toni Servillo. Credo che una delle qualità che più apprezzo di lui sia la sua schiettezza, una schiettezza anche nel senso di onestà, nel porsi per quello che è: limiti e pregi, ma sempre in modo diretto. Anche per questo credo abbia un metodo da artigiano, per la cura e l’amore del particolare.
Ma ho incontrato tantissime persone. Penso a Carlo Cecchi, al suo particolarissimo modo di fare teatro, con i suoi amori-odi vivissimi. Ho lavorato con Pierpaolo Sepe in 4:48 Psychosis di Sarah Kane: aver lavorato insieme a un testo cosi bello e ricco, e ci siamo andati a fondo insieme… ecco… mi piacciono i rapporti quando sono alla pari come possibilità di esprimersi…



4.48 Psychosis (foto di Ferruccio Nobile Migliore).

Ma non posso non pensare anche al cinema. Ho lavorato per tre mesi in Estate romana, il film di Matteo Garrone, senza sceneggiatura, solo su improvvisazioni… Ricordo come ci siamo conosciuti: un giorno mi telefona e mi dice: “Senti, non ci conosciamo ma ti ho vista lavorare due mesi fa a delle prove aperte di Pene d’amor perdute (in quel periodo provavo con Werner Waas), vorrei farti vedere i miei lavori. La tua prova mi è piaciuta moltissimo… Ti va di lavorare insieme?” Ho detto subito di sì.
Penso anche a Silvio Soldini, al suo modo di guardare alla realtà, alle persone, a quando si provava prima di girare, a quel modo per me bellissimo di stare insieme, a come mi sia divertita con Beppe Battiston...
Ma ci sono tante altre cose che mi hanno segnato: lavorare per anni come modella per pittori, la radio... E naturalmente gli spettacoli che ho visto: mi ricordo ancora il Pinocchio di Carmelo Bene, avevo otto anni.

Gli esempi che ho seguito.

Sinceramente nessuno. Ci sono sicuramente alcuni artisti il cui lavoro e modo di porsi mi incoraggia e stimola tantissimo. Penso a Pippo Delbono, a Danio Manfredini, a Maria Paiato, al loro mondo interiore, a quello in cui credono… Trovo che malgrado la loro grandezza artistica abbiano ancora un grado di umiltà e leggerezza incredibili.

Il rapporto con la nuova drammaturgia made in Italy.

Quest’estate un mio amico inglese mi ha chiesto più o meno la stessa cosa. Voleva sapere che rapporti ci sono in Italia tra attori e registi e i drammaturghi. Gli ho risposto che bisognerebbe fare una seduta spiritica per saperlo, perché nella stragrande maggioranza dei casi gli autori italiani che vengono rappresentati attualmente sono morti da un pezzo, quindi…
Ci sono delle realtà che si confrontano con la drammaturgia italiana contemporanea, ma circolano poco, non sono difese. Ma adesso è un paese intero che sta in agonia, e chissà allora cosa si potrà rappresentare…



East Coast (foto di Laura Ocelli).

L’Italia si muove con lentezza. Quando lavoravo al testo di Tony Kushner East Coast, mi chiedevano perché avessi scelto un autore così poco conosciuto (e ha vinto il Premio Pulizer, è l’autore di Angels in America!) e un testo così strano e poco commerciale… Ovviamente c’erano anche altre persone che mi dicevano l’opposto... In teoria la società italiana sarebbe variegata, ma non è sempre così. Molti lavori hanno difficoltà a circuitare, se nessun critico di potere se ne innamora (lo so, sto dicendo che l’acqua bolle a 100 gradi: ma è vero, l’acqua bolle a 100 gradi!).
Sinceramente non capisco quando si giudica quanto reale o strana possa essere una storia, un testo… Il teatro mi sembra il posto ideale per poter rappresentare e parlare di tutto (e siamo sempre sui 100 gradi...). Voglio citare un autore inglese contemporaneo che amo molto, Dennis Kelly: “Non mi sembra molto sano parlare di quanto sia reale o no una storia che viene rappresentata in una stanza piena di gente seduta tutta in un'unica direzione, che guarda uno sparuto gruppo di persone che fanno finta di essere altro da sé circoscritte da un cerchio di luce abbagliante”.

Il mio ruolo all’interno del teatro italiano.

Non so quanto mi piace la parola ruolo in questa domanda, mi dà l’idea del posto fisso...
Sento che voglio sempre più lavorare su registri diversi, che voglio anche ritornare alla comicità. Penso che mi interessa mischiare i linguaggi. Per me è importante provare e giocare con tutto quello che vuol dire: espormi, sporgermi…



Giovanni Ludeno e Monica Nappo in Mettiteve a fa' l' ammore cu me di Eduardo Scarpetta.

Adesso sto lavorando a un progetto fotografico con Cesare Accetta: ci costruiamo insieme il set per le foto, partiamo da un’idea, da un sogno che ho fatto, da quello che mi fa paura e da quello che mi attira.
Sta per uscire a breve (si spera!!!) un CD musicale da un progetto condiviso con Marco Messina e Michelangelo Dalisi, poesia e musica elettronica: abbiamo scelto le poesie che ci piacevano e ci abbiamo lavorato con Marco.


 


 

Passioni d'attrice
Giacinta Pezzana secondo Laura Mariani (e poi Adelaide Ristori e Perla Peragallo)
di Oliviero Ponte di Pino

 

“Interpretando Otello, [Ernesto] Rossi, nella foga, colpisce involontariamente la guancia di lei; la Pezzana reagisce come se fosse stata colpita apposta, con un’esplosione di collera e di pianto che entusiasma il pubblico, nel quale si trova Dumas padre. L’attrice così si manifesta dietro il personaggio e, grazie a una maggiore presenza scenica, lascia intravvedere qualcosa di sé: una linea che si esprimerà pienamente con la Duse.”

Così nella densa introduzione a L’attrice del cuore. Storia di Giaicinta Pezzana attraverso le lettere (Le Lettere, Firenze, 2005, 620 pp., € 65,00) Laura Mariani fa riergere e commenta un episodio casuale, forse marginale e tuttavia emblematico nella carriera di una delle “grandi attrici” dell’Ottocento italiano. Quello di Laura Mariani sull’attrice italiana - lo si vede dalla mole del volume e dai suoi apparati - è stato un lavoro poderoso, quasi maniacale, che ha richiesto anni di ricerche e studi. Il frutto di questa sorta di ossessione può trovare diverse chiavi di lettura.



La prima è ovviamente quella suggerita dal sottotitolo: la biografia di una grande protagonista delle scene attraverso le sue lettere (tenedo presente che in gran parte le risposte degli interlocutori non sono più disponibili, bruciate dopo la morte della destinataria).
E’ inutile ricordare che Giacinta Pezzana fu personaggio straordinario: la sua è la storia di un’attrice di successo, apprezzata e conosciuta anche fuori d’Italia (vedi l’accenno a Dumas), protagonista di memorabili tournée in Sud America. Ma la sua fu anche la lotta di un’allieva rifiutata dall’accademia, che si trovava a suo agio nel repertorio dialettale, e che avrebbe poi cercato di uscire dal consueto repertorio teatrale dell’epoca per ritagliarsi serate dantesche, anche se con esiti altalenanti, almeno a livello di pubblico. E che, come Sarah Bernhardt, avrebbe vestito i panni di Amleto, sconsigliata peraltro dal leader socialista Filippo Turati, che l’ammoniva: “il cervello del pubblico corre su binari e fra arginature da lingo tempo tracciate, e dove il misoneismo impera, come in tutte le razze decrepite e disfatte”, e dunque prevarrà la “curuosità malsana” di vedere l’attrice “a far da uomo” (la lettera di Turati a Giacinta Pezzana è del 18 maggio 1886).
Un’altra chiave di lettura del volume curato da Laura Mariani riguarda la tradizione del grande attore italiano, in un punto di svolta: in questa prospettiva l’incontro umano e artistico tra la Pezzana e la Duse, la loro amicizia e la loro rivalità, è senz’altro il fulcro del libro. In Teresa Raquin tra le due furono scintille. Ecco l’emozionato e scoppiettante resoconto di Giuseppe Primoli, quando ricostruì la carriera della Duse nel 1897 per “La Revue de Paris” (Laura Mariani lo riporta nell’originale francese a p. 28):

Nella gran scena tra le due donne, Eleonora, trascinata dalla foga della passione, osò sollevare la fronte e tenerle testa: sentì allora che la Pezzana la fissava negli occhi con il suo sguardo di leonessa, e sembrò provare più orgoglio che invidia vedendo che la propria allieva la fronteggiava in quel modo. Quest’ultima, dal canto suo, era consapevole della rivoluzione che accadeva dentro di lei; scambiava con l’avversaria risposte che fendevano l’aria come lame di coltello; Zola sarebbe stato felice. Gli occhi negli occhi, la bava alla bocca, furono sublimi ed era impossibile dire chi l’aveva vinta.

Ancora, l’attrice fu impegnata sia sul versante politico, sia su quello dell’emancipazione femminile: un’ampia fetta dell’epistolario riguarda proprio la corrispondenza con le sue quattro grandi amiche, la filantropa Alessandrina Massini Ravizza; Gualberta Beccari, la direttrice di “Donna”, la rivista che dava voce all’emancipazionismo italiano; la mazziniana Giorgina Crauford, moglie di Aurelio Saffi; e la scrittrice Sibilla Aleramo. Attraverso l’epistolario e il ricco apparato di note, emerge così una pagina rilevante della storia delle donne italiane e della conquista di una consapevolezza politica e civile destinata a trasformare nel profondo l’intera società italiana.
Pezzana fu anche scrittrice in proprio e drammaturga, e seppe ritagliarsi un ruolo importante non solo all’inerno del teatro ma nell’intera società italiana: anche se - come accade nel nostro paese a troppe persone di sani principi e piene di buone intenzioni, inserite in una di quelle “minoranze intelligenti” e volonterose, ma poco ascoltate, che punteggiano la nostra storia - anche lei si trovò spesso sospinta ai margini dall’élite, e magari messa sotto accusa dall’ipocrisia dei cosiddetti benpensanti.
Forse la chiave di lettura che può unificare tutte queste possibilità di incontrare Giacinta Pezzana riguarda il rapporto così complesso e stratificato tra la donna e l’attrice. E’ un intreccio problematico e profondamente radicato nel suo tempo, ma non solo in quello. Basti pensare, per affinità e contrasto, alle parabole di altre due attrici cui sono stati dedicati di recente altrettanti volumi, Adelaide Ristori (Adelaide Ristori. Ricordi e Studi artistici, a cura di Antonella Valoroso, Dino Audino Editore, 2005, pp. 222, € 20,00; ma all’attrice è stato di recente dedicato un convegno: vedi ateatro 96), e Perla Peragallo (Maximilian La Monica, Il poeta scenico. Perla Peragallo e il teatro, Editoria & Spettacolo, 2002, pp.232, € 8,00).
Attrici diversissime, vissute in tempi e ambienti lontani, e tuttavia entrambe - come Giacinta Pezzana - costrette a un certo punto della loro carriera ad abbandonare il palcoscenico. Si potrebbe indagare a fondo - ma forse più attraverso le ipotesi romanzesche che con una ricostruzione storiografica - sulla natura e sulle diversità di queste “costrizioni”, che paiono dettate tanto da necessità interiori quanto da pressioni esterne, in un viluppo inestricabile di ragioni e passioni. Ma è un nodo che può aiutarci a capire che cosa significhi davvero essere attrice e donna insieme. Se e come sia possibile trovare un filo rosso, o un nucleo profondo, che accomuni personalità ed esperienze così diverse.


 


 

Scrivere il racconto
La bottega dei narratori a cura di Gerardo Guccini e altri testi sulla narrazione
di Oliviero Ponte di Pino

 

La bibliogafia sulla narrazione e sui narratori continua ad ampliarsi: la cosa non sorprende, visto il successo del genere ma anche la sua natura in qualche modo problematica. La narazione è insieme una forma arcaica e allo stesso tempo - per così - dire “post-post-moderna”, nel senso che rappresenta una risposta consapevole alla crisi del post-moderno. Dunque il suo rapporto con gli altri “teatri che si fanno” (o meglio, diversi teatri che si sono fatti negli ultimi decenni) è assai complesso e ricco di implicazioni.
La bottega dei narratori (Dino Audino Editore, Roma, 2005) è uno dei primi tentativi di mappatura, di analisi organica e di storicizzazione del fenomeno. Il volume è curato da Gerardo Guccini, che è per certi aspetti parte in causa (avendo collaborato tra l’altro come drammaturgo con Marco Paolini), ma è da tempo anche dei più attenti studiosi del fenomeno: vedi per esempio i dossier della rivista “Prove di drammaturgia” da lui impostati e curati.
La bottega dei narratori raccoglie materiali diversi per origine e genere: due saggi introduttivi del curatore, poi interviste, testi, diari... Al centro dell’attenzione i capofila del genere (Baliani, Celestini, Curino, Paolini) più Gabriele Vacis, che nella vicenda ha avuto un ruolo determinante di catalizzatore (nota pignola: in copertina questo elenco segue l’ordine alfabetico, all’interno del volume le monografie sono ordinate diversamente).
Temi centrali della riflessione di Guccini sono la natura del teatro di narrazione e le sue origini Ovvero da un lato, come s’è anticipato, il rapporto dei narratori con l’ecologia del teatro di questi decenni, e dunque le affinità e le contrapposizioni con le avanguardie. Dall’altro con la sua necessità, ovvero con i motivi che ne hanno determinato la messa a punto: e qui è centrale il riequilibrio tra i diversi elementi costitutivi del teatro: l’attore rispetto alla regia, ma anche alla drammaturgia; e anche i motivi dell’affermazione dei narratori, che vanno cercati soprattutto fuori dal teatro, nel rapporto con il pubblico (e con l’orizzonte dei media).
Guccini individua correttamente il paradosso di autori-attori che si formano in un ambiente teatrale anti-narrativo e sperimentale e fanno però ricorso a una forma e a un sapere arcaici. Anche se va ricordato che tutto il teatro di ricerca, a cominciare dal “grado zero” individuato da Grotowski, si è trovato costretto a interrogarsi sugli propri elementi costitutivi - e in prospettiva originari - del teatro: sintomatica in Italia l’anima "analitica" del Carrozzone.
E giustamente si indicano Dario Fo e Giuliano Scabia come primi riferimenti. Ma si dovrebbe aggiungere anche Carmelo Bene, non tanto per il suo attacco decostruttivo ai testi e per il lavoro sulla voce, quanto come prototipo di attore svincolato da dipendenze registiche. Ma si potrebbero tracciare paralleli, per esempio, con un Paolo Rossi e con i cabarettisti monologanti, la cui esperienza riprende in qualche modo proprio l’esempio di Fo.
A proposito della necessità del teatro, e di questo teatro, è utile ripercorrere gli intrecci con l’animazione, ovvero con un teatro che ha trovato fuori dai teatri (nelle scuole, nelle carceri, nei manicomi, tra gli emarginati e i diversi) una propria funzione sociale e un valore civile (e qui il riferimento resta ovviamente Scabia).
Interessanti sono anche gli spunti sul rapporto oralità-scrittura, un altro dei nodi per certi versi ancora da approfondire. Perché un altro dei nodi che sottendono è il rapporto dei narratori con i testi che per l’appunto ci raccontano: spesso lavorano su testi pre-esistenti (esemplare il lavoro sul Kohlhaas di Kleist e su Tracce di Bloch da parte di Baliani, sul Petit Nicholas di Goscinny e sul saggio di Tina Merlin sul Vajont), a volte lavorano su testi che per così dire si cuciono addosso (vedi il lavoro sulla fiaba e sulla memoria di Ascanio Celestini), mentre in altri casi si appoggiano alla collaborazione con drammaturghi (o scrittori) professionisti. Su questo versante, rientra in qualche modo nella bibliografia sul teatro di narrazione (pur avendo un suo autonomo valore narrativo) il volume di Francesco Niccolini Racconti civili, d’amore e di guerra (presentazione di Marco Paolini, Manni, San Cesario di Lecce, 2005, € 13,00, pp. 160). Come scrive nella sua nota introduttiva lo stesso autore, “alcuni di questi racconti sembrano esistere di per sé, indipendentemente dagli spettacoli che ne sono seguiti e ne seguiranno”. Se molti di questi testi sono nati su commissione, e sfruttando le doti di ricercatore dell’autore, oltre che le sue capacità di scrittura, in ogni caso sono diventate storie. Ma, ancora, con una particolarità: “non posso”, annota sempre Niccolini, “far finta di esserne l’unico autore: senza gli stimoli e la complicità degli artisti co cui hoi lavorato, molto probabilmente ben poco di quanto segue esisterebbe” (per la cronaca, oltre Paolini, coautori-destinatari di questi testi sono anche Sandro Lombardi, Enzo Toma, Renzo Boldrini, ma anche il coreografo Marco Becherini).
Per valutare il valore letterario dei testi dei narratori, basti pensare al romanzo di Baliani, Nel regno di Acilia (per certi versi una risposta agli Album di Paolini), e Le storie di uno scemo di guerra di Celestini: e con questo,è come se il cerchio tra oralità e scrittura potesse chiudersi.
Su tutti questi temi, La bottega dei narratori fornisce un utile serbatoio di spunti e suggestioni, che si affianca così alle numerose monografie: tra lo studio di Silvia Bottiroli (Marco Baliani, Zona, Civitella Val di Chiana, € 17,00, pp. 160) e la raccolta di saggi su Ascanio Celestini a cura di Andrea Porcheddu (L’invenzione della memoria. Il teatro di Ascanio Celestini, il Principe Costante, Milano, 2005, pp. 220, € 15,00).


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
 > scrivi a amm
 

PlayBeckett: folgorazione del linguaggio multimediale
Da Massimo Puliani-Alessandro Forlani, Play Beckett. Visioni multimediali nell'opera di Samuel Beckett
di Massimo Puliani

 

Questo articolo è tratto dal volume PlayBeckett – visioni multimediali nell’opera di Samuel Beckett di Massimo Puliani e Alessandro Forlani, Halley Editrice, Matelica 2006.




L’iniziazione di Beckett alla grammatica radiofonica, filmica, video-televisiva avviene ... per caso (per caso? Con Beckett la parola assume un valore filosofico). Come all’origine del suo percorso drammaturgico avvolto da un’enigmatica illuminazione. Già dalla stesura di Aspettando Godot Beckett annuncia il limite della sua prosa e la necessità di superarla con la drammaturgia: “Ho cominciato a scrivere Godot per distendermi, per sfuggire all’orribile prosa che scrivevo a quel tempo. Non ho scelto di scrivere una pièce. Si è trovata così.” .
Ora, se volessimo trovare la parola giusta per indicare quest’iniziazione di Beckett alla grammatica radiofonica, filmica, video-televisiva potremmo considerare questo percorso come una ... folgorazione. Certa inquietudine e curiosità intellettuale – la stessa che in gioventù lo interessò per esempio al severo studio di Dante, Vico, Joyce ma, anche, alle comiche di Charlie Chaplin e Buster Keaton, Stanlio e Ollio, dei Fratelli Marx – spinge Beckett, quand’anche in principio diffidente o poco interessato alla radio, al cinema e la televisione se non da spettatore fruitore, ad accettare per “provare a produrre qualcosa, oppure no: non ho mai pensato prima alla tecnica del dramma radiofonico” , la commissione “senza condizioni” della BBC per Tutti quelli che cadono (1956); la richiesta di una sceneggiatura cinematografica che diverrà Film della Grove Press di New York (1963); la proposta di videodramma (tele-play o video-teatro), ancora da parte della BBC, di Dì Joe (1965).
Se questo può apparire in contraddizione con la spavalda affermazione di Beckett del rifiuto di lavorare su commissione, o di “insegnare ad altri ciò che io stesso non so”, è d’altra parte interessante e fattiva conferma di un’intelligenza poetica pronta a superarsi ed a mettersi in discussione.
Folgorazione che, dopo la storica “prima” di Aspettando Godot nel 1953 al Thétre de Babylon e dopo il corpus drammaturgico composto dai più noti, rappresentati, re-interpretati e discussi capolavori del Teatro del Novecento (da Finale di partita a Giorni felici a L’ultimo nastro di Krapp, eccetera) giunge nel 1965 con Film a un punto di non ritorno. Oppure, per dirla con Franco Quadri, “all’inevitabile termine” della pièce multimediale.
Con i Dramaticules l’opera di Beckett approda ad un’idea dell’arte che attraversa e si nutre dei linguaggi più svariati, fino a costituirsi “genere a sé”. I Dramaticules sono sceneggiature in-finite, découpage o story-boards, pensieri letterari e microromanzi; materiali poetici per progetti sonori, visivi, materiali/immateriali come i sogni e gli incubi.
Perché questo sperimentare di Beckett coi linguaggi multimediali? Perché, nella ricerca che gli è propria di perfezione, egli “dismette” a un tratto il linguaggio teatrale (nel momento, si potrebbe affermare, in cui coi Dramaticules ne comprende e addirittura supera, per sempre, lo statuto) e si arrischia ad apprenderne di più (della radio, del cinema, del video: che sono fra loro ben differenti), e nuovi? Ove il rischio avrebbe potuto essere l’incapacità di comprenderli (o comprenderli solo in parte, e male) e di padroneggiarli; con conseguente banalizzazione, appiattimento o perdita di incisività di contenuti e principi. Forse, è la risposta, per lo stesso motivo per cui egli, di lingua e cultura anglosassone, decide di abbandonare la prosa in inglese e di scrivere un dramma in francese. Ovvero per un avvertimento di insufficienza al proprio sentire strutturale e linguistico; l’anelito a un superiore grado di esattezza, definizione, necessità.


Se la parola è ormai superflua, svuotata, “menzogna” (secondo una conversazione di Beckett con il cameraman Jim Lewis) e tale è il tessuto, il ritmo, il luogo privilegiato, la forma e il modo di trasmissione della parola, la via che Beckett percorre è quella dell’immediatezza dello sguardo, dell’immagine rivelata o dato visivo, del suono in sé non mediato né altrimenti tradotto.
Beckett notò, assistendo in televisione a riprese delle proprie opere teatrali, che lo strumento televisivo non era semplicemente un tramite, bensì un nuovo mezzo espressivo, che poteva raggiungere livelli diversi rispetto a letteratura e teatro e generare suoi propri significati. Si trattava di uno spazio “altro”, specifico; differente dalla pagina e dal palcoscenico per il quale elaborare appropriati testi da redigere in una lingua appropriata. Pièces, opera artistica tuttavia, non adattamento teatrale televisivo, non fiction. Uno strumento che offriva soprattutto il totale controllo della forma drammatica: non solo la possibilità di definire, con assoluta precisione, i movimenti della telecamera e degli interpreti (consapevolezza già evidente in Eh Joe); l’intensità e la durata di un suono, di un’immagine (ovvero il potersi esprimere in un linguaggio ritmico, numerico, quasi sensoriale); ma che anche determinava i modi dello sguardo. Proprio dello sguardo e allo sguardo certo, per esempio, attraverso la telecamera, era ormai l’avvertire di quel senso di tragico, di disperata ineluttabilità della fine e di impotenza delle grigie ombre dai lunghi capelli: che troppo, nell’evocare “vecchi sfatti” lasciati all’immaginazione, all’interpretazione di registi e costumisti, aveva forse già detto (scritto) senza mai comunicarlo abbastanza.
Beckett intuì la spietatezza della telecamera: che – per ferocia, brutalità, voracità ferina che proprie le sono (abitudine oggi del linguaggio mediale) – appropriatamente definì “Occhio Selvaggio”. Così come intuì il senso del replay all’apice che è Quad della produzione televisiva. Realizzato per la Scuola di Danza di Stoccarda nell’81, a pochi anni dalla fine, il videodramma è in un certo senso un testamento multimediale, una profezia di Beckett sul destino del nostro rapporto con i molti media (come, ancora nel 1958, predizione è il magnetofono personale di Krapp acceso “una tarda sera, nel futuro”), e un’entropia. Il tempo non è più ritorno eterno, forse Salvezza, come in Godot; il ripetere non è più parodia, destrutturazione - come in Commedia - in funzione di nuove, diverse possibilità; bensì replica, modulare e algoritmica. E seriale diviene ciò che si ripete; riproduzione, consumo. Il gioco (appunto play) è reiterato e ripreso all’indietro (play-back), da capo (re-play); ma non ha né protagonisti né soluzione. Quad può solo avere spettatori e, in definitiva, neppure questi sono necessari. Si chiede a chi gioca, e a chi guarda, di conformarsi e di rispondere ad uno schema, di entrarvi, accettarne le regole e assecondarne il ritmo. E inesorabilmente di divenire, infine, parte integrante di quello schema. La poetica, romantica condanna a “trovare il modo di passare il tempo, darsi l’impressione di esistere” di Vladimiro ed Estragone, nel passaggio attraverso le nuove tecnologie è svuotata di ogni lirica consapevolezza: diviene piuttosto un avvertire contemporaneo, reale, di una condizione che sa di meccanica e robotica ma pur sempre di natura antropologica.
Interessante è l’analisi – e questo è in parte l’intento del presente volume – dell’evoluzione di questa alfabetizzazione multimediale, da parte di Beckett e dei suoi più immediati e costanti interlocutori (quali per esempio Alan Schneider), nel trentennio dal ’57 (l’esordio in radio con Tutti quelli che cadono) alla morte; che lo sorprende – pare – a metà di un progetto di remake di Film il cui protagonista avrebbe dovuto essere Vittorio Gassman.
Si pretende nella ricerca linguistica beckettiana “una coerenza e padronanza rigorosa, sempre ed immediatamente tesa a cogliere l’essenza del mezzo che usa, a basare l’espressione soprattutto, se non esclusivamente, su ciò che lo definisce e lo caratterizza; una scrittura che privilegia il suono nelle pièces radiofoniche e l’immagine in quelle per la televisione” . Ma questo è vero in parte; nei lavori più maturi: mentre – come per esempio si può ancora scoprire nel testo scritto di Tutti quelli che cadono, o nello script di Film – a principio di ogni tentativo con l’inusuale, altro medium rispetto al teatro, alla prosa, incertezze impedimenti e ripensamenti (di natura tecnica, soprattutto) se ne trovano. Che però non sminuiscono o mettono in dubbio il valore dell’opera; anzi – come le gag dei tre cappelli o i “passaggi di palla” di Vladimiro ed Estragone – dichiarano le intenzioni di Beckett circa lo specifico linguaggio adottato. Definiscono di passaggio in passaggio cosa è superfluo e cosa no; cosa è necessario.
Il numero e il movimento delle camere, la diffidenza nei confronti dell’effetto speciale, l’intensità (il buio) delle luci, la combinatoria delle entrate ed uscite di macchina, i passi, le percussioni: ognuno di questi elementi è portatore di significati e contenuti; ognuno, nella produzione multimediale di Beckett, ha assunto eloquenza “geroglifica” o, se vogliamo, geometrico-ontologica.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
 > scrivi a amm
 

Beckett e Keaton: fuori e dentro Film
Da Massimo Puliani-Alessandro Forlani, Play Beckett. Visioni multimediali nell'opera di Samuel Beckett
di Alessandro Forlani

 

Questo testo è tratto dal volume PlayBeckett – visioni multimediali nell’opera di Samuel Beckett di Massimo Puliani e Alessandro Forlani, Halley Editrice, Matelica 2006.



Il rapporto Beckett-Keaton principia con un rifiuto: quello di Buster alla parte di Lucky nella prima statunitense di Aspettando Godot. Tocca a Schneider ritentare l’approccio: si reca ad Hollywood nel giugno del ’64 per offrire a Keaton il ruolo di protagonista.
I presupposti non sono dei più felici. La scelta del popolare comico americano, in quegli anni benché non dimenticato ormai sul viale del tramonto, pare dettata da necessità economiche; di produzione più che scelte artistiche. E’ in effetti un approdo di ripiego:

“Avevamo pensato a Chaplin o a Zero Mostel per la parte di Og. Chaplin, come ci aspettavamo, era assolutamente inavvicinabile; Mostel, non disponibile. Puntammo su Jackie MacGowran, un attore amato sia da Beckett che da me. Jackie è un attore brillante, ed era stato più volte interprete delle commedie di Beckett in Inghilterra e in Irlanda; comprese e sentì la parte senza bisogno di una parola di spiegazione. Inoltre era appena stato acclamato nel piccolo ma gustoso ruolo del bandito in Tom Jones, ed era diventato improvvisamente “vendibile”. (…) Poi, come sempre succede, cominciarono a nascere difficoltà. (…) Perdemmo il nostro operatore per un qualche colossal hollywoodiano (…); Jackie aveva ricevuto una parte in un lungometraggio che riduceva pericolosamente la sua disponibilità per l’estate. (…) Mentre tutti noi eravamo presi dal panico per l’improvvisa crisi del cast, Sam suggerì tranquillamente Buster Keaton”.

Schneider non sa neppure se Keaton sia “ancora vivo”. Scopre che lo è, in buona salute ma in difficoltà economiche. Tanto che nel biennio 1964-1965 l’attore partecipa in America e in Europa a produzioni di vario genere non sempre di qualità, dichiaratamente per bisogno di denaro . Né lo entusiasma l’opera di Beckett:

“Keaton aveva letto la sceneggiatura e non sapeva bene cosa si potesse fare per adattarla cinematograficamente. La sua opinione era che eravamo tutti matti, Beckett incluso. Ma aveva bisogno di denaro, una bella somma per un lavoro di meno di tre settimane, perciò accettava la parte. Si, si ricordava della faccenda di Godot, ma neanche quello l’aveva capito bene.
Keaton non faceva nessuno sforzo per nascondere la sua generale perplessità. La sceneggiatura non solo non era chiara, confessò, ma non era neppure divertente (…). Mi confidò che ai suoi tempi aveva fatto molti film e non vedeva come questo qui avrebbe potuto durare più di quattro minuti. Aveva calcolato i tempi (…). Avrebbe fornito volentieri – dietro compenso – qualche idea. Del 1927”.

L’incontro fra i due, “atteso e temuto”, è fonte di aneddoti. Schneider lo riporta come una scena da teatro di Beckett; un dialogo negato. Al di là del suggestivo episodio, è evidente il disinteresse di Keaton per il lavoro dell’interlocutore; il reciproco imbarazzo nello stabilire un rapporto – non uno scambio – che non è artistico ma solo economico e professionale:

“Uno di quegli avvenimenti che sembrano inevitabili prima di aver luogo, impossibili quando avvengono, e incredibili in seguito. Sam aveva atteso l’arrivo di Keaton con ansia; conosceva e rispettava il suo lavoro fin dal tempo dei vecchi film muti. Keaton, conoscendo la fama di Sam come drammaturgo e romanziere, era incuriosito, ma non sapeva bene cosa pensare di un uomo come Beckett. I saluti furono tiepidi, forse senza volere, leggermente imbarazzati. I due si scambiarono pochi convenevoli, era soprattutto Sam a parlare, poi si misero a sedere in silenzio. Ogni tanto Sam, e io, cercavamo di dire qualcosa per mostrare dell’interesse verso Keaton, o solo per tenere in piedi una conversazione inesistente. Tutto inutile. Keaton rispondeva a monosillabi.
Non ha domande da fare su qualche punto della sceneggiatura, Buster?
No. (Pausa).
Cosa ha pensato del film quando l’ha letto?
Beh… (Lunga pausa).
E così via. Era straziante. E senza speranza. Semplicemente non avevano nulla da dirsi, niente da spartire. E tutta la buona volontà di Sam e i miei accaniti sforzi per iniziare una conversazione non riuscirono a stabilire tra loro alcun contatto”.

Pure, ammette Schneider, Keaton “era lì e dovevamo tenercelo”. Sebbene non entusiasta in principio, o forse proprio per questo, Keaton tenta da subito di imporre a Film il proprio stile. Suggerisce a Schneider, che normalmente non aggiungeva nulla al materiale di Beckett, di moltiplicare le gags; l’inserimento di uno sketch in cui avrebbe continuato ad affilare una matita che diventava sempre più piccola, qualche maniera particolare di camminare e insiste per mantenere il suo vecchio cappello Stetson che considera come il suo “marchio di fabbrica”. Richiesta che Beckett accoglie senza obiezioni (la sceneggiatura prevede in fondo che Og indossi un cappello), suscitando la sorpresa della troupe ma soprattutto preoccupazione da parte di Schneider: il film sarebbe diventato un film di Buster Keaton anziché di Beckett? Timore fondato se consideriamo la fortuna della pellicola:

“Incontrammo delle difficoltà nel vendere il film. Poi, nell’estate del 1965 , giunse un’offerta inaspettata dal New York Film Festival. Amos Vogel ne aveva vista per caso una copia e pensava che valesse la pena mostrarla – come parte di una retrospettiva dedicata a Keaton. Il film stava già diventando di Keaton, non di Beckett. Combattei un’altra battaglia persa per impedire che venisse inserito fra due cortometraggi di Keaton, una comica che aveva girato molti anni addietro e un cortometraggio pubblicitario sulle ferrovie appena ultimato. Erano entrambi divertenti, anche se non eccezionali, e mostravano il Keaton tradizionale. Avevo paura di ciò che sarebbe successo quando sarebbe apparso il Keaton inatteso. Poi Film cominciò. Il pubblico specializzato dei festival cinematografici, composto da critici e studenti di tecnica cinematografica, cominciò a ridere dal momento in cui apparvero i titoli di testa, e le risate divennero fragorose di fronte a quel magnifico grottesco primo piano della palpebra di Buster. Un attimo dopo smisero di ridere. Definitivamente. Per tutti i ventidue minuti successivi stettero là seduti, annoiati, seccati, perplessi e defraudati del Keaton che erano venuti a vedere. Naturalmente i critici ci diedero addosso o ci ignorarono. Quanto al “messaggio” – esse est percipi – nessuno lo afferrò minimamente.
Finalmente Film venne proiettato in vari festival cinematografici europei. Dovunque veniva rappresentato, a volte anche insieme ad altri film di Keaton, riceveva una rispettosa attenzione e il suo significato veniva almeno parzialmente colto. Cominciò ad acquistarsi quello che può essere definito un pubblico underground di ammiratori di Beckett e di Keaton”.

Nella visione di Beckett il film doveva possedere una comicità leggermente stilizzata simile a quella del cinema muto. Più ancora che per “libera interpretazione del testo da parte di attori e regista” Film rischia però, per la troppo ingombrante presenza di Keaton, di mutare carattere. Soprattutto nella ricezione del pubblico. Per tacere dell’equivoco autorale.
Le circostanze hanno costretto Schneider a sostenere – ed egli par di questo accorgersi solo alla risposta a Film delle platee – un pericoloso confronto fra due complessi strutturati immaginari: quello di Beckett e quello del cinema muto; nel volto (tanto più onnipresente in quanto evitato sino alla fine; perciò troppo atteso, indovinato) di uno dei suoi assoluti protagonisti. Certo non è permesso a Keaton di “danzare il tip tap per rendere la sceneggiatura più interessante”; ma Beckett come si è visto acconsente alla Stetson e gli concede di esprimersi “con la sua propria poetica mescolanza di grazia e goffaggine”. Quanto, nella sequenza del marciapiede, è “furia, comica e disordinata precipitazione” come da script o “particolare maniera di camminare” di Buster? Senza che sia nel testo specificato, Schneider gira più volte una sequenza di “corsa ad ostacoli lungo il muro”; anzi continua ad aggiungere impedimenti per esaltare quella buffa andatura. Si dà a Keaton carta bianca nella sequenza con gli animali, ov’egli “si trovò nel suo elemento”: al punto di riprendere molto ma ritrovarsi infine a non poter utilizzare tutto il materiale:

“Alcune delle riprese eliminate, con Keaton che fa le boccacce agli animali e li caccia via, erano fra le più divertenti del film. Il guaio era che, a causa della rigida dicotomia fra le due visioni, non potevamo tagliare dove volevamo e montare assieme parti di due riprese. Ogni ripresa doveva continuare fino alla fine”.

Materiale che assume carattere tale da determinare incertezze anche in fase di montaggio:

“Il lavoro di montaggio richiese molta cura – e fu un’impresa ardua. Sidney Meyers cercava sempre, garbatamente, di cambiare l’impronta che avevamo dato durante le riprese, e Sam e io, in modo diverso, cercavamo, sempre garbatamente, di farlo rimanere fedele ad essa”.

Qui, dettato beckettiano, ci si porta con rigore e fermezza. Era stata precisa cura di Schneider procurarsi un “montatore privo di un ego troppo forte”. Ma si è altrove accondiscendenti con Keaton, probabilmente perché “persuasi” dal personaggio di Keaton.
Se il dato visivo si dà come fondamentale nel teatro di Beckett, testo azioni senso profondo del dramma sono legati a un’immagine, Beckett e Schneider hanno commesso un’imprudenza semantica nell’affidare ad un volto del cinema così noto il ruolo di protagonista di una storia di complessi contenuti per di più non immediatamente espliciti. Altro è vagamente alludere, con le bombette di Aspettando Godot, alla clownerie e alle maschere dello slapstick; altro e mostrarne una ben definita. Problema che si sarebbe posto in modo eguale nei presupposti, differente negli esiti, a seconda dell’attore, se altrettanto famoso, cui si fosse rivolti. E’ anzi opportuno anzi interrogarsi sulla maschera. Osserva Cremonini:

“C’è qualcosa nel cinema comico che lega i personaggi al di là delle storie che vivono in ogni singolo film e non è solo questione di faccia (non basta che alcuni film siano interpretati da uno stesso attore perché esistano necessariamente delle analogie): ogni film comico – o quasi – si iscrive infatti in una specie di super-serie del tipo Le Avventure di… e cioè nella tradizione narrativa del romance e della serialità. Ciò è in buona parte dovuto all’uso di maschere in luogo di personaggi; in analogia con la commedia dell’arte e il circo. Charlot, Harold Lloyd, Larry Semon, Harry Langdon, persino i fratelli Marx, sono maschere inconfondibili e poco o nulla importa che i loro personaggi cambino nome e professione da un film all’altro. Nemmeno Keaton sfugge alla regola, anche se interpreta sempre personaggi diversi e non ha quasi nulla dei caratteri convenzionali della maschera: il suo volto è pulito, tutt’al più pallido quel tanto che basta per far risaltare i grandi occhi attoniti. La discrezione figurativa e il rifiuto di sovraconnotazioni clownesche disegnano un’anti-maschera in cui rientra anche l’imperturbabilità.”

Si consideri la scena del volto e dello sguardo (“III. 3. Investimento vero e proprio”):

“A poco a poco quello sguardo.

Stacco su Oc, del quale questa è la prima immagine (solo il volto, sullo sfondo la parete scrostata). E’ il volto di Og (con la benda), ma con un’espressione molto diversa, impossibile a descriversi, né di severità, né di benevolenza, piuttosto di penetrante intensità”.

C’è nella trasposizione cinematografica una piccola, determinante differenza con lo script. Poiché non è in questa sequenza la “prima immagine” di Oc/Og/Keaton: lo spettatore scopre piuttosto quello sguardo, quel volto, già in “III. 2: Og apre la cartellina, ne estrae un pacco di fotografie”. La foto indicata nelle Note con 7):

“Stessa persona. 30 anni. Aspetto oltre i 40. Indossa cappello e soprabito. Benda sull’occhio sinistro. Rasato. Espressione arcigna”.

La foto ritrae un inconfondibile Buster, identità anticipatamente svelata rispetto al tempo/tema del racconto. Ma già il piatto Stetson della prima sequenza determina nel pubblico un’aspettativa altra, di cose keatoniane. E la sequenza dell’esse est percipi diviene quella della “lucidità nevrotica, quasi disperata nella sua solitudine, anzi nel suo essere fuori dal mondo” del volto di Keaton rivelato.

Stilisticamente – spesso lo troviamo nella pagina beckettiana – gli a-capo che pongono quel “a poco a poco quello sguardo” al centro del foglio, esaltato fra pause, indicano il tempo e l’importanza dello stesso. Quello sguardo, non altrimenti traducibile, proprio in effetti di Buster Keaton come, altrove che in Film, altri hanno osservato. Ancora Cremonini:

“Keaton non è inespressivo: è misurato, quasi sempre attonitamente imperturbabile, a tratti malinconico o preoccupato. Quello di Keaton è uno stupore non traumatico, ma infantile: è il senso della scoperta del mondo.”

Difficilmente Og, nell’interpretazione di Keaton, sarebbe riuscito “puro espediente strutturale e drammatico”. Immaginario e maschera suggeriscono irrevocabilmente allo spettatore contesti e contenuti altri rispetto a “poetica, temi di Beckett”, esse est percipi. Se Beckett scrive Film pensando a Charlie Chaplin, suggerisce Keaton in alternativa a Chaplin, anzi è l’immaginario del muto che determina anziché servire il senso dell’opera. Né quest’influenza è fatto nuovo nel teatro di Beckett. Avverte Bertinetti:

“In Godot sono presenti numerose gag tipiche del teatro di varietà (l’aspetto di Vladimiro ed Estragone, i vestiti e le scarpe, discendono dai clown; le bombette derivano dal cinema muto; e il numero di Vladimiro ed Estragone a metà del secondo atto, “tre cappelli per due teste”, arriva direttamente dalle comiche di Stanlio e Ollio e da Ducksoup dei Marx Brothers)”.

Annamaria Cascetta individua allo stesso modo nella drammaturgia beckettiana riferimenti a scene, gag, personaggi, recitazione, iconografia di Buster Keaton. Se in Aspettando Godot o altrove tali riferimenti devono però essere considerati (Bertinetti):

“Prestiti non molto lontani da quelli praticati da Brecht, introdotti come snaturamento della forma drammatica tradizionale attraverso soluzioni teatrali che vengono da generi spettacolari “bassi”, per definizione antitetici alla forma “alta” del teatro borghese”

Questo non è il caso di Film; ché anzi, in questa prospettiva, diverrebbe celebrazione del cinema muto, non un rifiuto dello stesso. E c’è motivo di sospettare non fosse questa l’intenzione dell’autore.
In un’intervista rilasciata a “L’Espresso” nell’aprile del 1986 Vittorio Gassman riferisce della proposta, un paio d’anni prima, da parte di Beckett e un “produttore inglese”, del ruolo di Og in un remake di Film; il cui sviluppo doveva riuscire “più lungo e articolato rispetto all’originale”. Di questa ipotesi si tornò a parlare nel Gennaio del ’91. Il remake non è mai stato realizzato, e l’interrogativo su cosa quello “sviluppo” prevedesse, sulla necessità avvertita da Beckett di tornare, rifare Film in prima persona, senza Chaplin o Keaton perciò forse lontano dal cinema muto, resta aperto. Misteri ed enigmi: denominatori comuni di tutti i suoi ultimi lavori.


 


 

La cultura scenografica tra formazione e professione
L’anomalia italiana
di Paolo Felici (direttore di "The Scenographer")

 

Il recente convegno tenutosi al SIB di Rimini sul teatro e i linguaggi digitali organizzato dalla rivista internazionale The Scenographer ha reso possibile avviare un importante screening sullo status della cultura scenografica tout court nei paesi occidentali e in particolare in Italia, nazione dove la scenografia teatrale e l’allestimento scenografico hanno sempre primeggiato.
Infatti prima di entrare nel clou del programma si è voluto lasciare spazio ai rappresentanti di categoria e ai docenti delle accademie di Belle Arti italiane sufficiente per aprire un dibattito sul tema della cultura scenografica divisa tra formazione e professione. Il dibattito proseguirà poi nei prossimi mesi con un ulteriore symposium che vedrà il coinvolgimento di tutte le Accademie italiane e di alcune importanti istituzioni europee. Il quadro che ne è scaturito non è esaltante.

Come sappiamo, lo studio della scenografia viene impartito principalmente nelle Accademie di Belle Arti, ambito decisamente rivolto alle arti liberali, in cui tecnica, messaggio, espressività, e tutte le altre componenti del processo creativo, hanno pochissime mediazioni e relazioni con la prassi, se non quelle decise o adottate o pensate liberamente dall’artista.

La scenografia ha, come ben sappiamo, natura decisamente diversa: si sommano alle precedenti componenti specificamente creative, anche processi che riguardano la storia, la cultura, la drammaturgia, la psicologia, il tempo, una particolare metodologia tecnica, il luogo ed il suo rapporto con lo spettatore ed altro ancora. E’ un apprendimento difficile, complesso, alla stessa stregua del suo insegnamento: non è affatto facile insegnare scenografia, anche se molte facoltà universitarie ne hanno improvvisato dei corsi, affidandoli a figure, spesso rappresentate da architetti affermati e competenti, che tutto ciò ignorano o conoscono molto approssimativamente.

E’ chiaro che per tutti gli aspetti elencati in precedenza la specifica competenza nel campo scenografico può essere accreditata unicamente ad uno scenografo, ad un professionista della scenografia, data la concomitante assenza quasi totale di una bibliografia di riferimento: non esistono libri che parlino di scenografia se non qualche sparuta monografia su scenografi o sulla storia dello spazio scenico. Mancano gli studiosi di scenografia. Mancano gli esperti, gli appassionati, gli storici e i critici... Un’ancora di salvezza, l’unica che abbiamo oggi per un prezioso aggiornamento, è rappresentata appunto dalla rivista The Scenographer.

Lo stesso discorso naturalmente vale per la scenotecnica, che ancora viene insegnata almeno in Italia come materia accessoria o complementare, se non addirittura assente, come in certi corsi universitari di specializzazione di recente formazione, dimenticando che ormai scenografia e scenotecnica sono praticamente coincidenti nella contemporaneità teatrale (e lo sono sempre state, a monte dell’ideazione, anche nella progettazione...).

Qui meriterebbe un’analisi a parte quel fenomeno iniziato alla fine degli anni ’60, che ha visto il proliferare di riviste iper tecniche da sempre sostenute e protette da un surplus di documentazione aziendale tale da trasformarle spesso in meri cataloghi di prodotti, destinati ad una cerchia ristretta di utenti, cioè gli specialisti, per l’appunto. Fenomeno che è andato crescendo di pari passo con l’avvento delle Fiere di settore, di cui il SIB è l’esempio italiano. Questo fenomeno è figlio di quella “…cultura universitaria dove molti di noi si sono formati mezzo secolo fa, una cultura non preoccupata più di trasmettere un’immagine unitaria del mondo, ma di fornire degli stereotipi di alcune realtà parziali, spezzettate, nell’intento di formare un numero sempre più cospicuo di specialisti che potessero contribuire con la loro opera allo sviluppo della nostra società. Si è creata così a poco a poco un tipo di civiltà sui generis: la civiltà degli specialisti…(Roberto Rossellini). Oggi lo specialista ha il compito di fornire un bagaglio incalcolabile di conoscenze, ma solo in una direzione. Ma lo scenografo è qualcosa di più se non qualcosa di diverso da un bravo tecnico. Egli è come lo definì Josef Svobota: un regista al 50% così come il regista è uno scenografo al 50%. Per essere scenografi occorre dunque avere innanzitutto una buona e vasta cultura generale, base che spesso manca agli specialisti. Ma non ci è fermati qui, non è bastato far sparire del tutto la letteratura scenografica, i testi critici, non è bastato cancellare gli archivi, sopprimere le uniche riviste di documentazione storica e iconografica, annullare dalle agende l’ampio dibattito sulla scenografia che aveva visto i grandi registi e i grandi architetti scenografi confutare e confermare tesi spesso azzardate, ma sempre e comunque futuriste e futuribili e quindi cariche di attenzione per l’avvenire delle nuove generazioni; si ricordi, per esempio, quell’avvincente controversia sull’antiscenografia rosselliniana, avviata senza complessi di inferiorità dal grande scenografo italiano De Marchi alla vigilia dell’esordio del neorealismo italiano.

Ma oggi sembra giunto il tempo in cui la scienza e l’arte dovranno tornare a convergere, come ampiamente teorizzato dagli studiosi della Gestalt (in primis Arnheim), non è più possibile, ad esempio, per uno studioso che adotta procedure informatiche, non avere nozioni basilari sull’uso e sulla qualità delle immagini e delle interfacce; allo stesso modo uno studioso d’arte non può ignorare aspetti formativi scientifico-matematici per addentrarsi negli affascinanti meandri degli strumenti interattivi. Abbiamo bisogno gli uni degli altri e soprattutto di un continuo, infinito aggiornamento attraverso il quale è impossibile ogni nuovo, imprevisto risultato o creazione. La tradizionale messa in scena vede spesso competenze e saperi diversi procedere, nello stesso spettacolo, quasi isolati, pur nella comune finalità, ognuno convinto di essere l’elemento indispensabile: così l’attore, così il regista, così lo scenografo, così il musicista, così il tecnico. Ma nelle nuove forme di spettacolo intermediale, ad esempio, questo non può succedere: è impensabile che il performer non collabori con l’ingegnere per arrivare ad un risultato ottimale e che quest’ultimo non si consulti con il regista e che questi non decida con lo scenografo la variazione e che il tecnico non capisca la natura di questa esigenza ecc. L’inter-attività sembra essere quindi un concetto guida soprattutto in campo formativo laddove corsi di specializzazione e centri di ricerca rappresentano l’anello mancante fra il mondo dello studio e quello della professione e della produzione. Specializzazione e ricerca che manifestino i loro risultati con cadenza ritmica e aperta, proprio per finalità divulgative e, perché no, promozionali.

Tornando così al tema centrale, dicevo che solo uno scenografo dovrebbe insegnare scenografia: aggiungerei anche che, fra tutti gli scenografi, solo una parte potrebbe essere adatta all’insegnamento, compito che richiede ancora altre, diversificate caratteristiche che sarebbe lungo elencare (il rischio, come per l’arte, è una sorta di plagio diffuso...). Ma il punto non è ancora questo.

Come primo dato, si constata che nella maggior parte dei corsi di scenografia, più che l’aspetto progettuale, funzionale e drammaturgico, viene invece privilegiato l’aspetto principalmente compositivo-visivo e questo proprio per la naturale propensione verso quello estetico, così caro alle accademie. Ai nostri studenti manca il contatto con gli altri colleghi discenti delle discipline dello spettacolo: registi, attori, ballerini, musicisti, drammaturghi. Da ciò deriva il fatto che i famosi “bozzetti” e “teatrini” che si vedono circolare nelle aule di scenografia (a parte la loro scarsa propensione a diventare vera e propria scena funzionante soprattutto registicamente...), presentano dei rimandi storici, che proprio a causa della loro specifica natura basata su un virtuosismo “manuale” principalmente grafico-pittorico, illusorio, possono essere accostati al massimo a periodi storico-teatrali relativi ai primi decenni del novecento, se non a quelli ottocenteschi: sembra quasi che il ‘900 e la contemporaneità non siano mai esistiti....Sembra che tutto si fermi ad Appia: i contenuti de “Il teatro e il suo spazio” di Peter Brook (1968) paiono quasi irraggiungibili.
Si hanno quindi degli strani fenomeni fra gli studenti: di giorno, nelle aule, imparano i metodi ed i contenuti di una scenografia quasi ottocentesca, d’immagine, di ricostruzione pedestre, anche se “artistica”; la sera, poi, vanno a vedere uno spettacolo contemporaneo, non capiscono più le distinzioni fra regia, scenografia, scenotecnica, illuminotecnica, attrezzistica, trucco e tutto ciò che concorre alla complessiva immagine dello spettacolo (perché è solo qui che la scenografia acquista il suo vero valore e la sua funzione...), di “quello” specifico spettacolo; addirittura la performance viene sempre meno spesso presentata in un teatro: si scelgono, come più interessanti ed adatti, luoghi che hanno altri tipi di fascino, e questo la dice lunga anche sulla capacità di rinnovamento e flessibilità operativa e funzionale del teatro inteso nella sua accezione puramente architettonica.

Ecco un altro punto: ci ostiniamo a far riferimento ad una tecnica che non esiste più. E poi, non ultimo per importanza, il contatto col luogo e con il “fare” performativo: nella formazione e nella specializzazione, sono completamente assenti le occasioni per capire da vicino come funzioni uno spettacolo o una messa in scena. Non c’è alcun rapporto fra le istituzioni di istruzione e quelle dello spettacolo: la maggior parte delle lezioni teorico-visive non hanno nessuna possibilità di trovare applicazione, a parte qualche isolato caso particolare, a nessun livello della pratica teatrale.

Tutto viene affidato quindi alla personale esperienza, dopo il ciclo di studi specifici, ed alla buona sorte di trovare un qualsiasi modo per mettere finalmente in pratica le cose imparate (fra parentesi in Italia siamo sconcertati nel constatare che l’iscrizione all’Ufficio collocamento speciale dello spettacolo come scenografo, non richiede alcun titolo di studio specifico: chiunque vi si può iscrivere...).

Ma che possibilità ha, una volta terminati gli studi, un giovane neo laureato in discipline progettuali dello spettacolo? Lasciando perdere chi intraprende altre vie ed altre professioni, quando è fortunatissimo, riesce a diventare una di quelle figure chiamate “assistenti”, divise, nella maggior parte dei casi, fra compiti di servilismo domestico-grafico e “galoppinaggio” fra ditte e luoghi diversi, alla ricerca, spesso, di “capricci”, cose che non si trovano, ammesso che esistano (e sembra essere comunque, questo, un percorso, quasi sempre a titolo gratuito, necessario per imparare...).
Quando è meno fortunato, comincia a darsi da fare per qualche piccola compagnia semiamatoriale letteralmente impazzendo, assalito da problemi che non ha mai affrontato (i principali dei quali sono naturalmente economici e tecnici), ma soprattutto in preda a registi improvvisati, che al massimo hanno fatto qualche corso di recitazione e che non sanno neppure prefigurare nella loro testa le idee grafiche che vengono loro presentate (non per colpe loro, ma perché non hanno nessuna nozione o intuizione di tipo visivo...). In nessun altro campo del sapere e della cultura, infatti, vi è da una parte ignoranza visiva, e dall’altra, un’ingerenza così massiccia come nell’arte in generale e nella scenografia in particolare: tutti si sentono in grado di dare dei “preziosi consigli” o semplicemente accurati giudizi estetici; ognuno toglierebbe o aggiungerebbe qualcosa; la competenza specifica dello scenografo non viene neppure presa in considerazione.

A ciò si aggiunge anche la normativa: incredibilmente un progetto scenografico in Italia non è neppure tutelato dal diritto di immagine e d’autore... E’ un riflesso dell’incultura e dell’ignoranza rebound in cui ormai versa il Bel Paese.

Fino a qualche anno fa, qualche possibilità di lavoro era offerta dal campo della realizzazione scenografica: molti laboratori di pittura, scultura e di scenotecnica ricorrevano a prestazioni più o meno occasionali di “manodopera specializzata” per far fronte ai numerosi impegni che in particolari periodi dell’anno (a causa di concomitanti ed imminenti stagioni teatrali) venivano assunti. Ora, molti ateliers di scenografia hanno chiuso i battenti, non solo quelli piccoli, ma anche grossi e storici laboratori, e quelli rimasti si rivolgono sempre più spesso ai mercati, più proficui e continui, degli stands fieristici ed espositivi o ai parchi a tema o anche al settore delle giostre e dell’intrattenimento e l’antichissima arte del pittore scenografo si sta estinguendo quasi completamente. Mai come in questo periodo le occasioni di esercitare questa bellissima professione a livelli medi o medio alti sono praticamente prossime allo zero. La mancanza di fondi da destinare alla scenografia, in generale, ci costringe a vedere letteralmente e simbolicamente “nero”: sempre più spesso vediamo spettacoli teatrali montati su un impianto di quinte e fondali neri; opere liriche date in forma di concerto; pièces teatrali che nella maggior parte dei casi hanno uno o due protagonisti e non hanno scena. Ma è così poco significativa la parte visiva di uno spettacolo?

Per contro (è paradossale e spesso incomprensibile...), quando grandi organizzazioni teatrali o culturali decidono di investire sull’allestimento scenico (spesso consorziandosi e coo-producendo), si affidano (per “andare sul sicuro”, per non rischiare o semplicemente per mancanza di competenza...) alla solita “gerontocrazia scenografica”, una sorta di piccola accolita di notissimi, ricchissimi, protetti (dalle agenzie) e potenti scenografi (anche se peraltro capaci) che, per il loro spettacolo e per il loro cachet, letteralmente rastrellano tutte le risorse economiche dell’evento o della stagione, lasciando terra bruciata ai pochissimi emergenti che hanno l’avventura di lavorare dopo di loro. Il doppio risultato è che agli allestimenti scenici viene sempre più spesso imputata la causa degli eccessivi costi di uno spettacolo, (che, per contro, dati alla mano, rappresentano forse una delle spese minori) e nel panorama della scenografia italiana i giovani non hanno modo di dimostrare non solo il loro valore, ma spesso anche lo spirito innovativo che portano come loro bagaglio generazionale.

Troppo “nera” questa visione? Probabilmente.
Che fare quindi per dare un significato positivo all’analisi ed essere quindi propositivi?
Premesso che ovviamente nessuno ha la verità in tasca, i cambiamenti dovrebbero riguardare piani e competenze diversificati, da quello istituzionale a quello sociale a quello più propriamente professionale. Innanzitutto l’insegnamento della scenografia dovrebbe, a nostro giudizio, essere impartito in istituzioni che affrontino i temi dello spettacolo nelle sue componenti principali (assieme a regia, drammaturgia, musica, balletto, recitazione, canto, tecnica ecc.), con un diretto aggancio al mondo della produzione artistica (teatrale, cinematografica, televisiva e performativa), almeno nel periodo di studio finale, creando figure che si occupino anche degli aspetti storico-critici specifici, naturalmente. Questo consentirebbe altresì di sviluppare una fase di ricerca (indispensabile) e di aggiornamento soprattutto per quanto riguarda i rapporti con le nuove tecnologie, convergendo verso un mondo espressivo maggiormente legato alla contemporaneità, pur non rinnegando la storia, sia nei contenuti sia nelle molteplici forme e contaminazioni.

Favorire la nascita e l’apertura pubblica di centri di documentazione, archiviazione ed aggiornamento di tutti gli spettacoli che vengono prodotti, in modo che diventino patrimonio educativo comune il più ampio ed il più diffuso possibile.

Avviare da subito iniziative convergenti che portino alla tutela delle competenze (di tutte le competenze, una sorta di quello che con un brutto termine viene chiamato “albo” professionale) e soprattutto all’allargamento anche in nuovi settori dello spettacolo nel suo insieme, del diritto d’autore e di tutela di immagine.

Attuare una politica culturale ed educativa che oltre a privilegiare ogni aspetto relativo alle scienze, consenta anche alle arti, comprese quelle dello spettacolo, di diventare patrimonio indispensabile del sapere e testimonianza di cultura sociale (attualmente lo sono solo a parole).
Potrebbero essere moltiplicate tutte le iniziative che portino in qualche modo a rendere pubblici (quasi concorsuali, o quantomeno maggiormente competitivi) gli affidamenti di allestimenti scenici o almeno di quelli più importanti (questo già avviene nel campo della musica, del canto e del balletto): ciò consentirebbe di calmierare i prezzi e di avere un notevole spettro di scelta dell’allestimento sia sotto il profilo dei costi che su quello dei contenuti. Oppure trovare delle formule che premino (economicamente) tutte quelle istituzioni che in qualche modo favoriscano la scoperta di nuovi talenti in campo progettuale scenografico tenendo ampiamente conto principalmente del rapporto prezzo/qualità.

Tutto ciò comporterebbe anche e soprattutto la crescita ed il moltiplicarsi della specifica competenza di figure specialistiche anche nei quadri istituzionali: i responsabili di tutti i settori relativi al mondo dell’allestimento dovrebbero essere individuati sulla base di specialistici saperi che gli istituti, sopra accennati, dovrebbero saper e poter formare.
Tutta la cultura dello spettacolo ne trarrebbe un cospicuo beneficio e probabilmente consentirebbe quella crescita del gusto che certe forme di pessimo intrattenimento, soprattutto ultimamente, hanno notevolmente abbassato, se non imbarbarito.


 


 

Scene di caccia in bassa padana
Alla comunità teatrale e a tutti gli amici della Corte Ospitale
di Franco Brambilla

 

Da pochi giorni i fondatori e la direzione del centro La Corte Ospitale sono stati azzerati, Anna Pozzi prima e poco tempo dopo il sottoscritto sono stati estromessi dal nuovo CDA, operazione costruita in mesi di lavoro sotterraneo, per dar vita a una vera e propria vendetta politica di basso profilo, che tutti denunciano, ma nessuno ha il coraggio di far emergere pubblicamente; tranne dalla base alcune raccolte di firme in favore di Anna Pozzi e altri timidi segni di protesta, ma tutto il resto è assoluto silenzio.
Il primo sentimento è di grande amarezza, di chi ha speso quasi 17 anni di vita per costruire un progetto culturale amato e rispettato da tanti artisti, uomini di cultura, da pubblico affezionato, da giovani. Poi subentra la rabbia per l’arroganza di questi politici, e per il sopruso dei potenti, che ciechi, ignoranti, privilegiano dinamiche che nulla hanno a che fare con l’arte e la cultura, incapaci di comprendere il loro privilegio a partecipare ad un progetto di ampio respiro artistico, morale e culturale. Di fatto non possono parlare d’alternanza alla direzione, bensì di un vero e proprio scippo. Questo progetto è stato rubato dalle mani di chi lo ha costruito, ad opera non della destra o del ministero che taglia i finanziamenti, bensì di un’amministrazione di sinistra che non si rende conto della gravità di certe decisioni e di che cosa queste provocano.
La Corte Ospitale è stata ideata costruita e alimentata dalle persone che l’hanno fondata, di fatto è divenuta un modello nel teatro italiano, ha compiuto passi in assoluta autonomia e in silenzio, verso una modalità moderna e innovativa, parole queste non del sottoscritto ma della comunità europea e di molti osservatori che hanno riconosciuto nel tempo l’operato, attribuendo premi e riconoscimenti.
Come è possibile che sia potuta accadere una vergogna simile? Come è possibile che nessuno possa impedire questo, che nessuno possa denunciare a gran voce quanto è accaduto?
Si è parlato di “rinnovamento” con nomi illustri e amici di nomi illustri che dovranno creare l’alternanza, ma la Corte Ospitale non è un istituzione codificata che va avanti con qualunque capo macchina, è, e questo è il suo pregio, vincolata ad una progettualità e a un rapporto con il territorio cresciuto e sviluppato con la crescita del centro. Gli stessi progetti si sono potuti realizzare grazie ad un’architettura che teneva conto di tutti gli elementi che li costituiva dando vita ad una forma a scatole cinesi le cui parti si autosostenevano. Chi verrà dopo non potrà far altro che condurre e provocare la morte definitiva, forse potrà creare un nuovo progetto ma sulle ceneri del nostro.
Tagliare la testa progettuale a questa esperienza significa far rientrare la cultura nella vecchia e logora logica di potere, significa non governare ma voler a tutti i costi esercitare il potere, e imbavagliare e immobilizzare progetti, insomma la solita storia di sempre.
Personalmente ho sempre creduto alla forza delle idee, e anche in questo caso credo che la Corte Ospitale sia stato un luogo di incontro, di creazione e di fermenti culturali. Non basta un bell’edificio a garantire un progetto di ampio respiro, occorre una progettualità vera, capace di esprimere un pensiero etico, estetico, morale, non basta mettere assieme una stagione o tre titoli di spettacoli, ma bisogna lavorare nella cultura del presente, con il territorio, far scaturire nuove energie, nuove forme di aggregazione, lavorare per un teatro necessario che sappia dialogare con il disagio, con i giovani, con gli anziani; un teatro che non sia un passatempo per esteti o benpensanti, o in cerca di un surrogato televisivo, ma un teatro che esprima una necessità, per ritrovarsi, per riflettere sul mondo e sugli eventi del nostro tempo, per offrire un’identità ai giovani, un mandato di solidarietà che dovrebbe essere un grande privilegio e motivo d’orgoglio per una qualunque amministrazione e maggior ragione per quelle che si identificano nella sinistra.
Per quanto mi riguarda non sto cercando di ottenere nulla, non è mia intenzione forzare per un rimpasto, voglio solamente denunciare, far sapere a tutti ciò che è accaduto ad un progetto culturale amato e apprezzato, ed esprimere la vergogna e il disappunto per l’arroganza.
Sono personalmente convinto che tutto ciò possa rinascere altrove, così com’è nato e cresciuto un progetto importante in un luogo sfavorevole; senza strutture culturali alle spalle, senza tradizioni, in una corte di campagna, in provincia, questo perlomeno è il mio mandato. I politici che hanno ereditato come dono il risultato di questo lavoro, dovrebbero ringraziare e riconoscere il valore dei risultati ottenuti. Non un arrivederci e grazie sbattendo la porta in faccia, e nel fronte dell’edificio per onestà intellettuale ci dovrebbe essere una lapide con scritto “Questo edificio, luogo di cultura e di studio e di meditazione, è stato ri-costruito grazie alla visione lungimirante e alle capacità di Anna Pozzi, un amministratore illuminato che tanto ha fatto per la cultura e l’arte”.
Voglio espressamente usare le parole che Leo De Berardinis ha scritto a Guazzaloca sindaco di Bologna in occasione di un analogo contenzioso:
“Non ho nulla da perdere perché il talento non si perde. Potrò perdere una piccola sala, che comunque mi è molto utile, ma chi perde qualcosa, veramente, è la città di Bologna e il teatro in Italia”.
“Un teatro che provoca la nascita di nuove idee”, che oltre a sperimentare forme e tecniche produce
esperienza collettiva, dialogo, un teatro così non è un lusso ma una necessità primaria, come la scuola, la sanità, la solidarietà, è come compito che una democrazia deve assumersi come stato sociale”.
“…una nuova sinistra e una nuova destra si accordino su alcuni principi fondamentali” (uno è “la libertà d’espressione, l’autonomia culturale e artistica, la non dipendenza da apparati di partito”), altrimenti non ci sarà alternanza democratica” ma “diverse clientele ed interessi personali”
“Com’è possibile pensare”, continua Leo, “che una vocazione artistica e culturale autentica possa dipendere dai cambiamenti amministrativi locali, regionali, nazionali?”… “allora non si parla di cultura ma di apparati deviati”. Chi li accetta, “a destra o a sinistra, non è un artista ma un affarista, che ha soltanto la rima del poeta, e non la poesia. E chi li propone non governa una politica culturale, desidera semplicemente occupare centri di potere”.

Ciò che mi preoccupa particolarmente è il senso che in questo momento assume la vicenda della Corte Ospitale. Oggi la sinistra esulta per un suo possibile ritorno al governo, ci si interroga sui valori e modelli culturali che questa sinistra saprà e vorrà imprimere alla società.
Quanto è accaduto alla Corte Ospitale è una vergogna che non dovrebbe ripetersi, ma che purtroppo si ripeterà ancora e poi ancora, e ci obbliga ad una profonda riflessione, e un brivido corre lungo la schiena e ci fa interrogare: “Sarà questa la nuova vague della sinistra che è alle porte?

Chiedo a voi amici, artisti, intellettuali e a tutti coloro che hanno abitato in questi anni con i loro progetti la Corte Ospitale, ma anche al pubblico o alle persone che hanno solo simpatia per questa utopia “un luogo per la cultura” che facciano sentire la voce, che protestino contro questa arroganza, questa vecchia logica di spartizione e che soprattutto aprano una discussione sulla cultura prima del prossimo mandato politico.

Per invio di un e-mail: francobrambilla52@libero.it


Voglio ringraziare tutte le persone che hanno partecipato ai progetti in questi anni e ricordare che senza il loro contributo non saremmo mai riusciti a far divenire La Corte Ospitale un luogo di arte e di cultura, a costoro voglio anche dire di reagire alla logica che ho cercato di denunciare con questa lettera:

Eduardo Sanguinati, Alfredo Giuliani, Nanni Balestrini, Alejandro Jodorowcky, Bruno Tognolini, Marco Paolini, Jon Giorno, Giuliano Scabia, Giulio Mozzi, Aldo Busi, Paolo Fabbri, Paolo Puppa, Lele Luzzati, Josef Svoboda, Milena Onzikcova Marcel.Lì Antunez, Jaques Lecoq, Maureen Fleming, Juri Alschitz, Leo De Berardinis, Ascanio Celestini, Laura Curino, Petr Tososwki, David Parker, Antonio Costa, Francesco Marsciani, Ruggero Pierantoni, Fernando Mastropasqua, Giordano Montecchi, Marco Manchisi, Enrico Casagrande, Daniela Nicolò, Giorgio Celli, Mario Martone, Luigi Cinque, Achille Bonito Oliva, Valeria Ottolenghi, Franco Quadri, Francesco Capitta, Carlo Infante, Claudio Meldolesi, Massimo De Marinis, Marino Massimo, Dada Morelli, Roberto Tessari, Claudio Remondi, Riccardo Caporossi, Michele Abbondanza, Emanuela Kusterman, Antonella Bertoni, Cristina Valenti, Gerardo Guccini, Enrico Rava, Rita Marcotulli, Gianni Basso, Paolo Fresu, Raymundo Sesma, Sergei Isaiev, Natascia Isaieva, Nikolaj Karpov, Iscina, Laura Cadelo, Lucilla Giagnoni, Eugenio Allegri, Marco Baliani, Davide Enia, Leonardo Captano, Michele Sambin, Enzo Vetrano, Stefano Randisi, Albert Lepages, Wim Mertens, Bebo Storti, Renato Sarti, Marco Manchisi, Mony Ovadia, Alfredo Lacosegliaz, Ruggero Cara, Roberto Mantovani, Tanino De Rosa, Marinella Manicardi, Danio Manfredini, Ismael Ivo, Avi Kaiser, Sergio Antonino, Ornella Serafini, Simona Gonnella, Stefania Rocca, Olek Minser, Filippo Plancher, Silvano Piccardi, Ottavia Piccolo, Elisabetta Pozzi, Emma Dante, Pippo Delbono, Mimmo Cuticchio, Massimo Castiglioni, Sandro Lombardi, Cristina Verità, Monica Francia, Mirko Felizian, Roberta Biaggiarelli, Paolo Poli, Roberto Anglisani, Luca Scarlini, Alessandra Mantovani, Roberto Chiesi, Francesco Maria Feltri, Lorenzo Bertucelli, Luca Ricci, Claudio araldi, Anna Maria Ori, Raymon Dassi, Caterina Benelli, Mariarosa Masoero, Marco Antonio Bazzocchi, Virgilio Ilari, Giovanni Maria Bellu, Silvia Bragagni, Giancarlo Caselli, Giulia Bondi, Fabrizio Loreto, Daniela Brighigni, Federica Sossi, Federico Di Trocchio, Piercesare Bori, Sonia Masini, Francesco Battistini, Sergio Paba, Pierangelo Isernia, Stefano Munarin, Loredana Giudici, Giordano Montecchi, Piero Pierotti, Waclaw e Leslaw Janicki, Ludmilla Ryba, Tom Jonson, Giorgio Marini, Esther Ferrer, Laura Cadelo, Roberto Tessari,

Le compagnie

Teatro Giocovita, Mediaetas, La Piccionaia, Teatrino di Leo, Css Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia, La Biennale di Venezia, Compagnia Iscina, Teatro della Tosse, Teatro delle Briciole, Teatro dell’Archivolto, Motus, I magazzini, Aterballetto, Teatre de la Mezanine, Kismet, Cantieri teatrali Koreja, La Contrada, Teatro dell’Angolo, Teatro Settimo, Scuola Paolo Grassi, Accademia Silvio d’Amico, Compagnia Lombardi-Tiezzi, Abbondanza Bertoni, Fondazione Teatro Stabile di Torino, Avi Kaiser e Sergio Antonino, Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro della Cooperativa, TPO, Accademia Perduta Romagna Teatri, Giallo Mare Minimal Teatro, Teatro dell’Archivolto, Fabbrica, Santo Rocco e Garrincha, Ruotalibera, Ambaradan, I Burattini dei Menozzi, Fontemaggiore, Teatro Città Murata, Atelier di Teatro Danza, Armamaxa, Rossotiziano, Il baule volante, Envers Teatro, Teatro San Leonardo, Teatro del Drago, I Pupi di Stac, Compagnia Eduardo/Le Nuvole, Teatrino Giullare, Teatro Metastasio Stabile della Toscana, Compagnia del teatro dell’Argine, Benvenuti srl – Armonia, Teatro Club di Udine, Compagnia Veronica Cruciani, Fattore K di Giorgio Barberio Corsetti


 


 

Le recensioni di ateatro: Playing the victim di Vladimir e Oleg Presnyakov
Regia di Oskaras Koršunovas
di Stefania Bevilacqua e Ido Baldasso

 

Un anno fa, circa in questo periodo, il regista lituano Oskaras Koršunovas lavorava a Mosca alla realizzazione della pièce di Vladimir e Oleg Presnyakov, oggi tra i più popolari autori russi.
Il 2 ottobre 2005 abbiamo assistito alla presentazione per la stampa del work in progress dello spettacolo Playing the victim, in occasione della seconda edizione del Festival del Teatro Sirenos.
In un’atmosfera gogoliana dai toni paradossali e imprevisti si svolge la storia di Valya, impiegato al dipartimento criminale della polizia di una cittadina della russia centrale. Prima di impiegarsi, Valya ha un sogno in cui il padre morto gli rivela di essere stato assassinato dalla moglie e dal fratello. Il pensiero corre all’Amleto di Shakespeare e in genere alla tradizione della cultura greca -occidentale, in cui gli eroi sono sempre sacrificati. Ed è la sindrome d’Amleto a far sì che Valya sia così credibile nelle diverse ricostruzioni dei delitti, sia quando si tratti di una moglie defenestrata dal marito o di un’amante annegata dal proprio uomo…(i fratelli Presnyakov spesso inventano, ma in alcuni casi si rifanno anche a fatti criminali veri).
E’ una sorta di coazione a ripetere tanto che il regista introduce anche ironicamente le figurine del cartone animato South Park con riferimento al tormentone finale di ogni puntata: «Mio Dio, hanno ammazzato Kenny!», per sottolineare il meccanismo paradossale dell’esistenza di ciascuno di noi nell’attuale società che mette in “scena” perpetuamente vittime e carnefici. Non resta che la scelta tra questi due ruoli: secondo Koršunovas, è nello svelamento di questo dramma, in cui sembra quasi più importante la messinscena del ruolo della vittima che la situazione reale della vittima, che può vivere l’evento teatrale, il quale proprio nella sua intensità ironica e drammatica può suggerirci una via d’uscita.


 


 

Le recensioni di ateatro: Come due gocce d’acqua di Alessandro Benvenuti e Ugo Chiti
Dalle Case del Popolo
di Sara Ficocelli

 

Alessandro Benvenuti lavora in teatro da oltre trent’anni ed è attore, regista e produttore di tutti i suoi spettacoli. Li cura come figli, impregnandoli del suo cinico umorismo pontassievese.



Come due gocce d’acqua è la sintesi di tutti i personaggi da lui portati in scena finora, tra palco e grande schermo. Da Smith e la panchina sensibile a Ivo il tardivo, passando naturalmente attraverso l’interminabile saga della famiglia Gori, stoppata proprio quest’anno con un addio definitivo. Lo spettacolo portato in scena al Verdi a metà marzo ha visto esibirsi una strana coppia, messa nero su bianco dal dialetto calabrese di Gianni Pellegrino e dal silenzio di un Benvenuti più irritabile che mai. Due tecnici di scena, impegnati tra un impianto di luci e uno sfondo in cartone da tirare su, nascondono entrambi un segreto inconfessabile. Saranno i fantasmi del tempo e le bugie di ritorno a farli parlare. Un thriller, insomma. Dove lo spettatore si gode lo spettacolo di due anime agli antipodi, pericolose e arroganti, che hanno passato la vita a scappare, alla ricerca di una speranza di riscatto.
Come due gocce d’acqua gioca sull’interpretazione ambigua del divario socioculturale tra nord e sud Italia, meravigliando tutti con una morale affatto scontata: la vera distanza sta dentro, è sottostante, invisibile, e proprio per questo esiste, c’è. Non sono corporatura, lingua, livello culturale o carattere a tenere distanti i due addetti alle luci, ma la loro incapacità di comunicare. E perdonare. Benvenuti torna ancora una volta a riflettere con furbizia sui luoghi comuni e i limiti che affossano la quotidianità e le persone. I suoi personaggi sono pieni di ferite e paure ma appaiono scanzonati, brillanti, buffi. Combattenti. Dopo lo scemo del villaggio, l’amante incompreso, l’amico del bar dalla parlata sguaiata, ecco il ruolo di un padre divorato dal dolore, che al dolore reagisce col sarcasmo. La pelle di tutti questi soggetti nasconde emarginazione, solitudine, parole.
Nel suo ultimo disco Ivano Fossati canta “di così poco si contenta la natura umana, come quella dei pesci sul fondo che stanno a guardare…”. E così sembra cantare anche il teatro del regista toscano, dove i protagonisti stanno a guardare la vita che scorre, afferrandone solo pochi frammenti. Eppure lo slancio del non arrendersi li rende dignitosi e adorabili, vivi. Benvenuti torna a riflettere sulle sfaccettature dell’animo umano tra una umiliazione e una risata, valorizzando le imperfezioni di ognuno con il rispetto di chi viene da una piccola città di provincia, ha conosciuto da vicino “la gente semplice” e non riesce a montarsi la testa.
La scena è forte dell’ambientazione stessa della storia: si entra in sala e il sipario è già tirato su, le quinte fanno da scenografia. Nessuna musica, solo qualche nota ad accompagnare gli ultimi istanti. La sterzata drammatica finale annacqua un po’ la credibilità del confronto sanguigno tra i due, appesantendo inutilmente quello che per due terzi procede come un esilarante duello tra due leoni arruffati. La collaborazione con Ugo Chiti si sente: dentro al testo c’è tutta la filosofia toscana dell’autodifesa ironica, aggressiva, che si fa perdonare dallo spettatore grazie alla brillantezza, ma al tempo stesso lo infastidisce con la sua arietta di sottile supponenza. Il teatro Verdi di Pisa ospita per l’ennesima volta uno dei suoi artisti preferiti, che quasi sempre riesce a fare il pienone. A maggio Benvenuti tornerà a Pisa con Me medesimo, ideato e scritto per il cantautore livornese Bobo Rondelli. Che poi però non si è sentito di interpretarlo e ha lasciato tutto in mano al compagno fiorentino. Ancora una storia che parla del dolore di vivere, del difficile confronto con gli altri, di alcoolismo. Il protagonista si chiama Cencio, soprannome probabilmente rubato dalla realtà di qualche Casa del Popolo ma anche simbolo di abbattimento, straccio da dare in terra. Un altro testo comico-poetico per raccontare l’insostenibile fragilità dell’essere.

Scritto e diretto da Alessandro Benvenuti e Ugo Chiti
Con Alessandro Benvenuti e Gianni Pellegrino
Teatro Verdi di Pisa, dal 17 al 19 Marzo


 


 

Le recensioni di ateatro: The Cryonic Chants. Canti e poemi oggettivi tratti da un impassibile animale
La Societas Raffaello Sanzio e Scott Gibbon
di Andrea Lanini

 



Il miraggio di Antonin Artaud - la realizzazione totalizzante di una relazione completa con il corpo, l’utopia di una creazione espressiva in grado di elevarsi a perfetta fisicità – si incarna nel concerto nato dalla collaborazione tra la Socìetas Raffaello Sanzio e Scott Gibbons attraverso il corpo di un capro. L’animale, creatura-simbolo della nascita del teatro ed eroe eponimo della tragedia, comunica con noi direttamente dalle sue viscere, attraverso un linguaggio oscuro ma esatto, inintelligibile ma perfettamente logico, enigmatico eppure estremamente preciso e reale. Come un oracolo, è depositario di infallibile saggezza: attraverso le sue manifestazioni potremmo di nuovo ascoltare la voce degli dei, ma al concerto-rito ci è dato di partecipare solo attraverso la nostra inettitudine a comprendere: la nostra adesione a quel mistero è filtrata attraverso la consapevolezza di aver (irrimediabilmente?) perduto la sensibilità che un tempo ci faceva cogliere ciò che è supremamente oggettivo e naturale.
L’animale-demiurgo ci fa arrivare echi di verità a cui riusciamo ad aderire solo attraverso contatti emozionali: capiamo che dietro quelle incomprensibili formule liturgiche si cela qualcosa di grandioso, ma siamo costretti a sfiorarle con lo sguardo come se le osservassimo attraverso uno specchio rotto. I poeti ci hanno abituati a pascerci di visioni artificiali e soggettive, di voli della fantasia che si insinuano in una lingua prostituita al compromesso: il capro-oracolo è tornato per riprendersi ciò che è suo, a scacciare le chimere dei letterati con l’incontestabile validità di un messaggio puro, scolpito nella biologia che regola le sue funzioni vitali, dettato attraverso lettere che si abbinano ad aminoacidi, attraverso aminoacidi che formano proteine, attraverso proteine che regolano la respirazione cellulare, la crescita delle corna, la putrefazione del corpo.
Tutto è governato da un’incrollabile logica in cui non c’è spazio per la poesia. Quattro cantrici-aruspici nerovestite (Claudia Castellucci, Monica Demuru, Chiara Guidi e Teodora Castellucci) ci permettono di ascoltare ciò che il capro ha composto attraverso il suo procedere casuale su tre tappeti di lettere (gli stessi che caratterizzarono l’Episodio di Avignone della Tragedia Endogonidia, quello da cui il concerto ha preso vita diventando poi una forma autonoma): tre microcosmi fatti di segni che attraverso le quattro voci diventano fonemi, e che tramite la volontà del capro diventano enunciati. Tre come le fasi della vita da cui tutto nasce.
The Cryonic Chants. Canti e poemi oggettivi tratti da un impassibile animale (in scena a La Città del Teatro di Cascina domenica 26 marzo) è il concerto che Chiara Guidi e Scott Gibbons hanno creato elaborando una parte dei materiali in precedenza usati per i suoni della Tragedia Endogonidia: dall’enorme quantità di elementi nati dal multiforme laboratorio della Tragedia, alcune cose si sono staccate per cristallizzarsi in immagini, suoni, vibrazioni vocali, canto. Sul palco, Scott Gibbons è come racchiuso in una dimensione parallela che affianca il fulcro del rito, la zona dove le voci e le danze delle donne celebrano la presenza di un contatto sovrannaturale, di una manifestazione divina che diventa palpabile nei momenti di maggiore parossismo acustico-visivo. Se in molti spettacoli della Socìetas l’animale appariva quale valido e insostituibile deuteragonista in grado di bilanciare la performance dell’attore, nel concerto è il capro il motore primo dell’azione: protagonista assoluto di un ingranaggio di immagini e suoni che amplifica il significato della sua presenza e celebra la superba vitalità della sua natura enigmatica. In un primo momento le immagini video ci mostrano il capro visto dall’alto (così come avveniva ad Avignone), il muso-puntatore intento ad infilare una dopo l’altra le lettere che sprigioneranno l’oracolo e il tessuto testuale su cui Gibbons incastonerà i suoi suoni: armonie materiche, percussive, urlanti quando strattonate dagli effetti di distorsione, lineari ed eleganti quando adagiate sulle perfette simmetrie di una polifonia che si confonde tra richiami medievali e contrappunti da mottetto fiammingo, dilatate e come perse nella navata di una cattedrale quando ingigantite dal riverbero. Il muso del capro-Poeta scrive le sue parole: attraverso le voci e il filtro della sperimentazione elettronica esse arrivano alla platea come parti dissotterrate di una lingua morta, dissepolta per un momento e sottratta alla polvere dei secoli. L’occhio della telecamera indaga l’animale con primi e primissimi piani, come volesse trovare nell’osservazione minuziosa di quel corpo-idolo la chiave per aprire la mente alla ricezione del suo messaggio. L’esecuzione musicale è sempre rigorosa, precisa, attenta: tutto nel concerto è ossimoro e contrasto, a melodie di gusto occidentale e di chiara ascendenza tonale si contrappongono improvvisamente parentesi sonore in cui le voci vengono usate come tamburi, come scalpelli per tracciare accenti e delimitare pause: come avveniva con lingua Generalissima che il gruppo creò nel 1984, il pubblico non afferra il “cosa” si dice ma il “come” lo si dice: la prima qualità resta inafferrabile, perduta, lontana; la seconda è potentemente concreta, vibrante, imperniata su una partecipazione totale di quattro cantrici che, come sacerdotesse, recitano le formule attraverso cui il mistero si rinnova. Intanto i suoni, anch’essi fondati su una sorgente organica, accompagnano i movimenti del corpo del capro: sono le sue zampe ora a creare i suoni. Ogni volta che i suoi zoccoli colpiscono o sfiorano il terreno, le casse dell’impianto rispondono con un’ondata di vibrazioni, picchi sonori che punteggiano le pieghe della volontà dell’animale. Poi, attraverso l’elaborazione video, i movimenti di quelle zampe sono accelerati in una spirale vorticosa che dipinge sullo schermo tracce scure, contrasti luminosi che stanno tra gli esperimenti futuristi sul dinamismo e le deformità grottesche degli informali. La divinazione procede, il rito si compie: il capro ha assolto sua funzione di intermediario, gli dei hanno parlato attraverso il suo corpo. Le loro verità parlano di noi e per noi, ma il nostro mondo è ormai troppo lontano dal loro. Non possiamo far altro che partecipare con i sensi a una comunicazione che il nostro intelletto percepisce solo come informe cumulo di macerie.


 


 

Dopo la Tragedia Endogonidia
Una conversazione con Romeo Castellucci
di Andrea Lanini

 

“La tragedia opera un inganno, per cui chi inganna è più giusto di chi non inganna e chi è ingannato è più sapiente di chi non è ingannato”, diceva il retore Gorgia. La grande invenzione del genere tragico, fondamento della cultura occidentale, è l’inganno: attraverso di esso, e per il fatto di rimanere un problema aperto, insuperabile ma anche imprescindibile, la tragedia ha chiuso le porte alla componente rituale e mitica che apparteneva alla sua stessa genesi, estromettendo la coscienza dell’Occidente dalla possibilità di parlare agli dei. Dopo quella cesura, il teatro ha cercato di ricreare la connessione tra la dimensione umana e quella divina attraverso delle partite truccate. Nonpertanto, come Sisifo o Tantalo, continuiamo a metterci alla prova e a rinnovare il nostro supplizio, e attraverso gli slanci dell’arte cerchiamo i tasselli mancanti di un mosaico che possa essere rivelatore.



Nelle dinamiche della tragedia niente è mai stato puro o mistico: purezza e misticismo sono stati sacrificati sull’altare di un’urgenza diversa e lontana i cui esiti estremi affluiscono inevitabilmente nella sconfitta di qualcosa o qualcuno. Il posto del mito è stato usurpato da una riflessione sul mito in cui la corruzione è sempre stata presente, una corruzione che ha permesso alla tragedia di guardare verso il basso e parlare all’uomo – a nome di tutti gli uomini – della irrimediabile sproporzione esistente tra la miseria dei suoi mezzi e la lontananza di quelle verità cui la sua volontà oserebbe anelare, annunciando e beffardamente motivando l’inevitabile insuccesso dell’impresa. Da qui il sorgere di un momento di crisi, il fondarsi di un ordinamento nuovo e straordinariamente fertile che a partire da Eschilo, Sofocle ed Euripide non ci permette di rinunciare a interrogare, a cercare di svelare il mistero della sua natura e del suo svolgersi: una ricerca salutifera anche se non salvifica, a patto che l’indagine venga compiuta senza la velleità di voler trovare una risposta universalmente valida, perché essa non esiste.



Il cammino che fu percorso dai drammaturghi e dai filosofi antichi continua oggi rimbalzando sulle stesse inquietudini. La Socìetas Raffaello Sanzio da sempre lascia orbitare intorno al teatro antico le fondamenta della propria creatività: il mollusco Amleto e la sua volontaria involuzione autistica che trasforma il teatro in prigione del linguaggio, Masoch e la sua esplosione anarchica fatta di aggressività viscerale e animalesca, Lucifero e la sua condanna al “poter solo ridire” diventano, attraverso l’arte della Socìetas, altrettante anarchie che in forme diverse riproducono e ripropongono il senso della tragedia e il segno della sua eterna modernità; baluardi instabili e allucinati intorno a cui si condensano le nebbie provenienti dall’indagine sul mito e dalla riflessione su ciò che rimane dopo la sua caduta.



Nel 2002 la Raffaello Sanzio ha dato vita ad un’avventura grandiosa, la Tragedia Endogonidia: 11 Episodi (rappresentati con successo in tutta Europa) che racchiudono altrettanti “luoghi della mente” in cui, come nella tragedia, il genere umano si interroga sulle proprie patologie con la speranza di trovarvi la cura. Un lavoro “che si genera dal proprio interno” per far scaturire una riflessione sul significato dell’incertezza dell’esistenza, e che rappresenta un momento fondamentale dell’evoluzione del nostro teatro.
Il ciclo della Tragedia Endogonidia è stato un imponente laboratorio teatrale che per più di 3 anni ha portato la Raffaello Sanzio di paese in paese, una fucina in perenne fermento e autoalimentata dai suoi stessi stimoli in cui le esperienze passate – come gli esperimenti nati sull’idea di sviluppare una scena capace di riproporre la violenza e gli strappi emotivi che nello scorso secolo sconvolsero le arti visive – sono state convogliate all’interno di un unico tragitto, e che ha visto sorgere dalle tappe del suo percorso una quantità enorme di materiali – immagini, figure, corpi, luci – che spesso hanno finito per pretendere una propria autonomia, un’evoluzione parallela e indipendente. Nel Ciclo, alcune cose del passato sono state abbandonate, altre sono tornate in forme nuove, altre ancora si sono avviluppate intorno alle zone di contatto tra mezzi espressivi diversi, alimentandosi del loro stesso attrito. Il ciclo filmico della Tragedia Endogonidia, le Crescite e il concerto The Cryonic Chants rappresentano tre nuclei che, come propaggini ormai troppo vitali per continuare a essere dipendenti dalla loro origine, hanno dirottato la loro orbita, fino ad adagiare su processi creativi “altri” la testimonianza di ciò che continua a legarli al Ciclo maggiore: i nodi che accomunano qualsiasi esperienza umana, il porsi delle domande senza risposta e il non poter rinunciare a interrogare la vita sui perché di una tragedia in cui ognuno è costretto a confrontarsi con il suo ruolo. La Socìetas Raffaello Sanzio ha presentato questi tre lavori durante il suo appena concluso passaggio in Toscana: il ciclo filmico, realizzato da Romeo Castellucci grazie alle memorie video di Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti, è arrivato al Santandrea Teatro di Pisa il 9 marzo, la V Crescita è stata ospitata dalla palestra del Liceo Scientifico U. Dini di Pisa il 10 e l’11 marzo, il concerto è andato in scena a La Città del Teatro di Cascina il 26 marzo. Prima dello presentazione del ciclo filmico a Pisa abbiamo chiesto a Romeo Castellucci di raccontarci la nascita di questo progetto e di quelli che il gruppo avrebbe presentato nei giorni seguenti.


Il ciclo filmico nasce non come documentario, ma come una “memoria” che utilizza il linguaggio del video e che è stata ricomposta da Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti, due artisti il cui lavoro ci è molto vicino. Tra di noi si è creata un’affinità rara che a volte capita tra gli artisti. Un’altra rarità, ma ancora più importante, è quella del rapporto che si è creato con Scott Gibbons. Sono intese difficili da spiegare. Abbiamo affidato allo sguardo di Cristiano e Stefano questa ricostruzione che poi, ben presto, ha finito per diventare autonoma. Oggi per noi il ciclo filmico ha una dignità completa, anche se il materiale di partenza rimane assolutamente legato alla Tragedia e agli spettacoli teatrali. Esso può essere visto autonomamente, senza provare nessuna nostalgia e senza sentire il bisogno di riferirsi all’archetipo originario.

Il primo Episodio della Tragedia Endogonidia, a Cesena, è stato filmato direttamente da te…

Sì, l’Episodio I di Cesena l’ho documentato io, con l’idea di riprendere i primi passi della Tragedia. Poi, in base a questa esperienza, ci siamo accorti che poteva nascere un lavoro interessante. Dall’Episodio II in poi Cristiano e Stefano hanno continuato a riprendere gli spettacoli.

Che cosa hai pensato osservando i video che mano a mano nascevano dalla Tragedia?

Mi è venuto fatto di riflettere sull’azione deformante della memoria. Per paradosso, tra il ciclo filmico e l’esperienza dello spettatore durante gli spettacoli c’è una sostanziale vicinanza. Nel senso che attraverso la deformazione dello scorrere degli eventi, attraverso le differenze che il montaggio crea tra l’ordine delle scene nello spettacolo e quello del video, grazie al filmato si arriva a ricostruire la sensazione dell’essere spettatore. Dallo stravolgimento del modello originario si arriva a un’esperienza visiva che permette di ricongiungersi alla disposizione mentale assunta dallo spettatore durante l’evento live. Anche a teatro il pubblico compie delle zoomate, dei campi lunghi, dei primi piani. Il cervello del pubblico è estremamente selettivo…

Ci sono sempre dei “colpi di attenzione” che decidono di finire da una parte anziché da un’altra…

E’inevitabile, l’occhio seleziona molto: una selezione analoga Cristiano e Stefano l’hanno fatta attraverso un mezzo meccanico. E c’è un potere, una forza magnetica in questo: sono riusciti a restituire il magnetismo del teatro che è fatto anche di pause, di dilatazioni del tempo. Sono stati veramente bravi nell’interpretare il tempo come materia.

E’sempre difficile raccontare il teatro attraverso un filmato….

Molto difficile. Perché non basta essere dei semplici ripetitori, occorre avere un’invenzione da proporre. Bisogna reinventare un rapporto. Anche per questo il ciclo filmico riesce ad avere una sua autonomia, a disporsi su una complementarità che rafforza entrambi.

Parliamo di quell’impegno immane che è stato la Tragedia Endogonidia: qualcosa del vostro percorso è tornata a farsi sentire, qualcosa si è perduto, molte caratteristiche del vostro linguaggio vivono in uno sforzo potente di reinvenzione…

E’vero, alcune cose del passato sono state raccolte, e sono servite per costruirne altre. La Tragedia si trova in un punto mediano tra riconsiderazione del linguaggio e riscoperta. Qualcosa delle passate esperienze è stato bruciato, qualcos’altro trasformato in nuova energia. E’stato un tour de force in tutti i sensi, un ciclo che ha forzato l’approccio creativo, che quasi mai ha concesso tempo per una riflessione o per un progetto, e che si è realizzato in una continua, spasmodica spinta nervosa. La Tragedia è un processo che, una volta iniziato, ha continuato ad avanzare per una spinta propria, endocrina; una volta avviato, è lui che ci ha trascinato, ed ha continuato a farlo fino alla fine. La Compagnia, una volta messo in moto il meccanismo, ha seguito la propria inerzia come un corpo lanciato nello spazio.

Che cosa ha significato per la Compagnia questo banco di prova?

Ha significato una sollecitazione forsennata di tutta la struttura. E non solo dal punto di vista organizzativo, ma anche da quello produttivo… praticamente con la Tragedia è cambiato tutto. Abbiamo avuto a che fare con grandi realtà all’estero, con grandi festival: abbiamo dialogato con loro, aprendoci al mondo. Loro si sono fidati, e hanno creduto ad un viaggio di cui si conosceva l’inizio ma non come sarebbe proseguito.

Prima parlavi di “cose bruciate e trasformate”: nell’evoluzione artistica della Socìetas sono tanti i riferimenti che denotano una riflessione sul teatro antico, riferimenti che nella Tragedia hanno trovato un approdo naturale…

E’vero, nel nostro lavoro c’è sempre stato un riferimento al teatro antico, abbiamo sempre avuto questo pensiero rivolto alla dimensione tragica in cui la corruzione è costantemente presente. Il teatro è una lingua corrotta, la tragedia un inganno. Nella Tragedia Endogonidia vive questo pensiero.

Gorgia parlava di inganni e di savi che scelgono di lasciarsi ingannare: il suo paradosso sulla tragedia è sempre valido…

Non solo è sempre valido, ma anche insuperabile. E può essere applicato non solo alla tragedia, ma al teatro occidentale tout court. La tragedia pone fine al rituale, pone fine al mito: essa, che è il perno della cultura occidentale, rappresenta un momento di crisi e contemporaneamente la nascita di qualcosa di nuovo. La creazione della tragedia è per noi un passaggio fondamentale, ed essa è e resta un argomento invincibile. E’un problema aperto, e non un fatto archeologico come spesso vogliono farci credere a teatro. Essa rappresenta da sempre lo scoramento dell’uomo, il suo essere solo su questa terra, il suo confrontarsi con un silenzio immenso che gli sta intorno. Questo è un tema universale, e per chi lavora nel teatro resta una disciplina imprescindibile. Anche là dove c’è una commedia, da qualche parte deve esserci una tragedia.


Parliamo delle Crescite, anch’esse fortemente legate alla Tragedia Endogonidia ma allo stesso tempo libere da ogni vincolo…

Le Crescite sono dei brevi momenti di carattere circolare, azioni che si caratterizzano per una forte concentrazione spazio-temporale e che finiscono per essere come chiuse in un anello di ferro. Prendono vita dalla sovrabbondanza di personaggi e segni della Tragedia, come spore che cadono ai margini di un cammino. Dalla pletora di contenuti derivanti dalla Tragedia nascono questi nuclei che si possono concepire come forme autonome. La V Crescita riguarda in particolare la materia “tempo”, il suo scorrere circolare, il fatto che nessuno può sottrarsi al suo meccanismo: essa è caratterizzata da una forte densità che deriva dalla stratificazione dei caratteri portanti della Tragedia, dal loro auto-organizzarsi e dal loro desiderio di esprimersi drammaturgicamente in modo molto conciso”.


Il “Concerto” invece raccoglie la ricchezza del lavoro fatto sulla Tragedia Endogonidia a proposito del suono…

Sì. Il lavoro che Chiara Guidi e Scott Gibbons hanno fatto sul suono era talmente grande che il Concerto ha potuto usarne solo una minima parte. Un po’ come è successo con le Crescite, anche qui, come una sorta di ameba, il concerto si è staccato da tutto il resto per creare un corpo autonomo. Tra l’altro si tratta di una creatura in continuo movimento… di volta in volta aumenta, si modifica. La musica è una forma plastica, e per questo la struttura del concerto è particolarmente mobile”.

Parliamo del futuro della Socìetas e di come la Tragedia Endogonidia lo influenzerà… dopo questa esperienza, come immagini la prosecuzione del vostro percorso?

Devo risponderti per via negativa, sottraendo ciò che probabilmente di quel percorso non potrà far parte. Credo che dopo la Tragedia sia impossibile per noi riproporre un rapporto retorico rispetto al teatro. Per molti anni abbiamo lavorato moltissimo sulla retorica (sul programma di sala del Giulio Cesare, spettacolo del 1997, la Socìetas scriveva: “Il teatro inizia dove inizia la retorica, forse. Il fatto è che non solo il teatro prosegue sul piano formale il discorso della retorica (o viceversa), ma la retorica è sostanzialmente un modo concreto e completo di considerare e di manipolare la materia teatrale. La retorica accetta e vela la corruzione del teatro: guarda il teatro in modo impietoso, scabroso: ne esalta la vera faccia, che è, appunto, quella della finzione, della corruzione” Ndr) intesa come disciplina e tecnologia applicata allo spirito e alla coscienza: una tecnica che contiene anche una certa malvagità… Tutto questo penso che non sarà più possibile nei prossimi lavori, e trovo che probabilmente la prossima produzione dovrà essere una produzione povera, anzi, “povera povera”, per citare Grotowski (anche se la citazione è solo d’effetto, visto che i nostri ambiti sono molto distanti).

In qualche modo quindi la Tragedia Endogonidia ha fatto “tabula rasa” di una serie di declinazioni del vostro precedente percorso… che tipo di povertà è quella a cui ti riferisci?

E’ una povertà fatta di cenere, di cenere compressa. Non è la povertà mistica di chi è o si ritiene puro, o la povertà di chi sente di dover cercare la verità. Nel nostro lavoro non abbiamo mai cercato la verità, ma anzi abbiamo sempre cercato l’inganno, l’unica chiave eternamente valida per il teatro. Proprio come diceva Gorgia.


 


 

Un corso di imprenditoria dello spettacolo
A Bologna da aprile a dicembre 2006
di Università degli Studi di Bologna

 

Sono aperte le iscrizioni al corso di Alta Formazione “Imprenditoria dello Spettacolo”

Realizzato dall’Università degli Studi di Bologna/Dipartimento di Musica e Spettacolo in collaborazione con la Fondazione ATER Formazione, il corso risponde all’attuale e precisa esigenza del sistema delle imprese dello spettacolo e delle istituzioni culturali: acquisire metodi e competenze imprenditoriali al fine di migliorare le capacità gestionali e l’efficienza del settore.

Il corso è destinato ad operatori del settore culturale, occupati e disoccupati, interessati a sviluppare le proprie competenze nell’ambito dell’imprenditoria dello spettacolo. Si rivolge a figure dell’area organizzativa, con riferimento ai settori produttivi, amministrativi e della comunicazione.

Diretto dal Professor Lamberto Trezzini, il corso si avvale di un corpo docente altamente qualificato. Intervengono tra gli altri: Lucio Argano, Franco Bianchini, Paola Bignami, Marco De Marinis, Pier Luigi Sacco, Lorenzo Scarpellini, Giovanni Soresi, Antonio Taormina, Michele Trimarchi, Cristina Valenti, Paolo Vergnani.

Il progetto, parzialmente finanziato dall’Unione Europea, per una durata di 750 ore, di cui si prevedono 450 di studio individuale e 300 di formazione in aula, da svolgersi a Bologna nel periodo aprile-dicembre 2006.

La scadenza per la presentazione delle domande è fissata il 30 marzo 2006.

Il bando è reperibile sui siti: www.unibo.it/Portale/AltaFormazione; www.oltrelequinte.it

Per informazioni: Fondazione ATER Formazione, tel. 059.345310.

Nel ringraziare per l’attenzione inviamo cordiali saluti

L’ufficio stampa
Valentina Bertolino
formazione@ater.emr.it


 


 

Teatro di primavera a Palermo
La rassegna quinte(S)senzadiprimavera
di Giuseppe Cutino e Clara Gebbia

 

rassegna di teatro contemporaneo
a cura di Giuseppe Cutino e Clara Gebbia


I CANDELAI CON IL CONTRIBUTO DELLA REGIONE SICILIANA ASS. BENI CULTURALI, AMBIENTALI E P.I.
IN COLLABORAZIONE CON M’ARTE MOVIMENTI D’ARTE E TEATRO IAIA - COMITATO ADDIOPIZZO
Quintessenza fiorisce!
Dopo la partenza invernale, densa di piccole gemme che ci hanno regalato più di una sorpresa, ecco che ripartiamo con Quintessenza di primavera.
Apre la “stagione” (nel vero senso della parola, nel giorno del solstizio) Fabrizio Arcuri, regista dell'ormai storica compagnia di ricerca romana Accademia degli Artefatti con “Tre pezzi facili” del drammaturgo inglese Martin Crimp, spettacolo vincitore del premio UBU 2006 per la migliore novità straniera.
Altro importante appuntamento è quello dedicato alla grande scrittrice e saggista partenopea Anna Maria Ortese, protagonista una delle più importanti attrici italiane: Iaia Forte.
Iaia, attrice per certi versi atipica, dalla simpatia travolgente ma anche capace di grande intensità, da tempo e su vari fronti lavora sulla scrittura della Ortese, proponendo a Quintessenza una prima tranche del “Progetto Ortese”, a cura di Clara Gebbia, ossia “Corpo celeste”, una profonda riflessione etica sul nostro tempo.
La primavera è anche tempo di nuove fioriture; ecco che in Quintessenza avremo quindi tre debutti assoluti: il primo è “La cena” di Vincenzo Musso e Nicola Pizzolato, regia dello stesso Musso, giovane promessa del teatro palermitano; il secondo “Fiele” scritto e diretto da Veronica Pecoraino, eclettica e multisfaccettata artista palermitana;ed infine “Angelo X Cristianoda Francesca Woodman, ideazione e coreografia di Alessandra Luberti, danzatrice e coreografa romana da alcuni anni trapiantata a Palermo, uno dei tanti esempi di migrazione al contrario, a testimonianza del fatto che Palermo sia una città dai forti stimoli anche per chi palermitano non è. Teatro, danza, ma anche musica a Quintessenza con una interprete d’eccezione: Sylvie Genovese, virtuosissima chitarrista francese di origini italiane e cantautrice dalla voce roca, si esibirà evocando atmosfere che variano dalla malinconia della canzone d’autore alla festosa giocosità delle tarantelle, passando per sonorità latine, spagnole, francesi in due serate a base di vino e luci soffuse. Le ultime due proposte in cartellone porteranno a Palermo un pezzo del premio Scenario, facendo debuttare due degli spettacoli presentati nella edizione 2003: Silvia Gallerano, con il suo “Assola - elogio della solitudine” divertente e divertito ritratto di tre differenti solitudini al femminile, in uno stile che ricorda per certi versi la grande Franca Valeri; e la Compagnia degli gnomi che finalmente, dopo averci dato un assaggio alla prima edizione dei “Saldi di fine stagione”, porta a Palermo l’incantevole “Re degli gnomi”.
Quintessenza di primavera si concluderà con l’ormai storico appuntamento dei “Saldi di fine stagione”, progetto di Giuseppe Cutino, che quest’anno vanta una collaborazione con il Palermo Teatro Festival e si articolerà in un vero e proprio percorso che andrà da I Candelai fino al Nuovo Montevergini .
Continuano le installazioni dedicate questa volta non solo agli scenografi e ai costumisti palermitani, come Fabrizio Lupo ed Enzo Venezia, ma anche a chi partendo dal teatro, è approdata alle installazioni e alla pittura, come Anna Farinella.
Quintessenza fa poi un altro incontro, molto importante: quello con il Comitato Addiopizzo; affinché cultura e legalità non siano né distantidistinte: affinché il teatro non sia solo svago e divertimento, ma pensiero in azione; affinché questa città viva una eterna nuova stagione.
Buona primavera!
COMITATO ADDIOPIZZO www.addiopizzo.org
È con grande piacere che abbiamo accettato l’invito di Giuseppe Cutino e Clara Gebbia di partecipare come ospiti alla rassegna teatrale Quintessenza proposta ai Candelai.
Oggi si parla sempre meno di mafia, usura e racket, termini che rischiano di cadere in disuso. Ma la verità noi siciliani la sappiamo bene: (ogni esercizio commerciale che fa un buon fatturato, se non è “amico degli amici”, deve pagare il pizzo. Tutti, nessuno escluso) l'80% dei commercianti di Palermo paga il pizzo; 50 mila sono in Sicilia le vittime dei ricatti mafiosi; 10 miliardi di euro l'anno circa il guadagno della mafia dal pizzo. Tutto ciò è saputo da tutti i siciliani. E quotidianamente dimenticato. Incontrare gli spettatori di Quintessenza per informarli sulla nostra iniziativa è una necessità, poiché le sensibilità alle quali l’arte e la cultura antimafia si rivolgono sono le stesse.
L’epigrafe posta sul frontone del Teatro Massimo di Palermo recita: L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire. È con tali parole che possiamo riassumere lo spirito positivo con il quale abbiamo visto lavorare gli ideatori di Quintessenza, che poi è lo stesso che cammina sulle nostre gambe. E su quelle di tanti cittadini onesti.

quinte(S)senzadiprimavera
rassegna di teatro contemporaneo
a cura di Giuseppe Cutino e Clara Gebbia

I CANDELAI CON IL CONTRIBUTO DELLA REGIONE SICILIANA ASS. BENI CULTURALI, AMBIENTALI E P.I.
IN COLLABORAZIONE CON M’ARTE MOVIMENTI D’ARTE E TEATRO IAIA - COMITATO ADDIOPIZZO


21-22 marzo h 21,15
Tre pezzi facili
ballate sul collasso del mondo
meno emergenze
avviso alle donne irachene
faccia al muro
di Martin Crimp
traduzione Pieraldo Girotto
cura Fabrizio Arcuri
con Matteo Angius, Fabrizio Croci, Pieraldo Girotto
scene e costumi Rita Bucchi
colonna sonora d.j. rasnoiz
luci Diego Labonia
organizzazione Miguel Acebes
produzione accademia degli artefatti
premio UBU 2005 nuovo testo straniero

Brevi e rivolti a questioni sociali di cocente attualità, tutti e tre i testi hanno una sorta di distanza dagli accadimenti, i come se il testo con il suo linguaggio funzionasse quasi da filtro per permettere al contenuto di passare attraverso una modalità diversa da quella che è l'informazione del fatto accaduto o la sua narrazione, ma direi una riflessione su come il teatro si possa e si debba occupare di certe cose, la guerra, le sparatorie nelle scuole stile Colombine… C’è una sorta di leggerezza nelle parole, nell’atmosfera e un comico cinismo che è del personaggio ma non dell’attore.
Meno emergenze esempio straordinario di come il linguaggio teatrale possa infastidire la nostra comprensione emotiva del mondo attraverso una analisi impietosa dei clichè, delle ripetizioni, delle ellissi, dei vuoti, dei lapsus, tre personaggi raccontano con acida ironia e apparente leggerezza come le cose, nel mondo stiano migliorando.
Consigli alle donne irachene breve e terrificante pièce in cui, con un taglio ironico e impassibile, vengono offerti suggerimenti per la sicurezza dei bambini come lo farebbe un professionista alle mamme viziate di un paese dell’occidente. La casa è una potenziale zona di guerra per i bambini, ma niente paura… se succede qualcosa ai vostri bambini chiamate subito il dottore, arriverà subito perché sta aspettando la vostra chiamata, non ha fatto altro durante la vita che aspettarla.
Faccia al muro racconta di una sparatoria a sangue freddo in una scuola elementare. Tre persone sembrano avere una discussione su questo omicidio di massa. Ma questa discussione sembra essere una prova per una messinscena teatrale …



6 aprile h 21,15
PROGETTO ANNA MARIA ORTESE
con Iaia Forte
progetto e cura Clara Gebbia
Corpo Celeste
da Anna Maria Ortese adattamento, regia e interpretazione di Iaia Forte
collaborazione alla regia Marinella Anaclerio
produzione Teatro IAIA



Corpo celeste è una raccolta di interviste e saggi in cui Anna Maria Ortese riflette sulla condizione del nostro Paese, e sulla difficoltà di essere una scrittrice in questo Paese.
Ma è principalmente un appello morale, di rara intensità, al recupero delle nostre radici, della nostra identità linguistica, ed al rispetto delle diversità che esistono tra gli esseri umani e tra tutte le forme di vita del pianeta. Ho scelto di lavorare su questi materiali perché ho sentito non solo una corrispondenza, ma una assoluta necessità di comunicare, attraverso questa bellissima scrittura, la potenza del pensiero di questa scrittrice. Che è spietata, che rivendica il valore della diversità, che si fa esule volontaria in un mondo definitivamente "estraneo", ma che attraverso questi "No", grida un "Siii" alla vita ed al valore dell'esistenza di disperata e commovente vitalità. Quando ci abbiamo lavorato abbiamo capito, semplicemente, che ci faceva sentire meno soli.


11- 12 aprile h 21,15

La cena
di Vincenzo Musso e Nicola Pizzolato
con Carla Di Martino, Laura Isgrò, Marzia Messina, Angela Moscato, Manuela Russo
scena e costumi Martina Cardella
musiche originali Claudio Cascio
regia Vincenzo Musso


In uno spazio non definito, cinque donne unite nella vita dalla morte di una di esse: la loro bestialità si metterà in luce perché la sopravvivenza di tutte dipenderà solo dalla loro fame. Sarà più forte il senso della vita, la dignità dell’essere umano o il bisogno di sopravvivere abbandonandosi all’istinto? In un susseguirsi di ricordi, si paleseranno le loro vite passate, all’interno di una rappresentazione che sarà sempre al limite della follia.


18 -19 aprile h 21,15

Fiele scritto e diretto da Veronica Pecoraino
con Gea Gambaro, Luca Guarisco, Massimo Milani e Veronica Pecoraino.
musiche e luci Maurizio Ruggiano
scenografia Veronica Pecoraino

è la storia di un affiatato gruppo di stanchi autori-attori che tra freddo, povertà scenica, problemi e situazioni grottesche, racconta in frammenti onirici il percorso scenico e di vita della compagnia teatrale che sta per decollare verso una nuova storia, quella raccontata da ogni attore nel percorso onirico e quotidiano, nell´abbandono assoluto e tragicomico, ripercorrendo e colorando la scena come fossero personaggi della nartura morta ma viva, in questo caso da paesaggi di vita, la scena e quindi paesaggi dipinti senza scenografia, il diario teatrale, è tutto stravolgente accontato dalle varie scene che si susseguono accompagnate da melodie di ogni genere.


26 - 27 aprile h 21,15
Angelo X Cristiano
da Francesca Woodman
ideazione e coreografia
Alessandra Luberti
collaborazione artistica Claudio Collovà
con Alessandra Luberti, Simona Malato
disegni animati Elisabetta Penzola
musiche Four Tet, Kim Horthøy , John Surman, Led Zeppelin
produzione Compagnia Esse p.a. - Coop. Teatrale Dioniso - Officina Ouragan - Magazzino Culturale Majazè
Con il sostegno della Regione Sicilia assessorato ai beni culturali, ambientali e pubblica istruzione

Dedicato a Francesca Woodman, una fotografa americana che verso la fine degli anni ’70, ebbe un’intensissima attività creativa, prima di porre fine alla sua vita. Nelle sue immagini il corpo ci appare in quelle geometrie interiori che lo definiscono in una mappa segreta, di cui emergono frammenti, piccole tracce scollegate. Scopro, nelle fotografie della Woodman, quel rapporto fra spazio, luce e movimento che distorcendo le forme, cancellandole, le rende paradossalmente intense. Le sue immagini riproducono la visibilità del sentimento della paura, l’ansietà di stare al mondo. Cerco di ritrovare attraverso il corpo quell’enigma esistenziale che si rivela nelle sue fotografie attraverso la profondità dell’immagine. Questo enigma ha a che fare con la profondità psichica che muove ogni comportamento. Quello che mi interessa è la paura della scomparsa che lei sembra tanto esorcizzare attraverso i suoi autoscatti. Affascinata dal limite e dai confini, il lavoro della Woodman testimonia il momento precario tra l’adolescenza e l’essere adulti, fra l’esistenza e l’ultima scomparsa, la morte. Il punto di partenza del lavoro è il silenzio del corpo, la sua condizione nello spazio vuoto, prima della comparsa degli oggetti con la loro quiete minacciosa.


9 - 10 maggio h 21,15

Silvie Genovese Alterations
musica e vino per 60 spettatori
ingresso a prenotazione
a cura del
Teatro Iaia
Con il sostegno della Regione Sicilia Assessorato Beni Culturali, Ambientali e Pubblica Istruzione



Nella scala musicale le alterazioni si chiamano accidenti e sono fonte di creatività, nella nostra vita sono le turbolenze dell'anima, le divisioni-deviazioni interiori spesso coperte dal velo del silenzio, sono le ferite , le sconfitte, l'amore-veleno, le oppressioni della vita quotidiana che rendono difficile l'armonia con il mondo esterno.
La musica è alterata, noi siamo alterati, la normalità è un'illusione.
Un repertorio di canzoni legate in filigrana dalle tarantelle nelle quali confluiscono la "chanson francaise" e la chitarra di tradizione classico popolare latina per, liberarsi delle alterazioni e sottrarre istanti di vita all'erosione del tempo.
L


16 - 17 maggio h 21,15
Assola
elogio della solitudine
con Silvia Gallerano
costumi
Valentina Poggi
voce registrata di Fabrizio Pagella
organizzazione Alessandra Maculan
un ringraziamento speciale a Cinzia De Lorenzi
finalista Premio Scenario 2003


Assola parla di tre stanze; di tre luoghi segreti, di tre modi di essere nel mondo, di cercare ascolto, di alzare la voce per farsi sentire, o di chiudere la porta per restare in pace.
Personalmente sto spesso sola perché mi piace.
Non vedo necessariamente attorno a questa parola un’aura di depressione.
Non sono neanche un’asceta e non cerco alcuna illuminazione.
Sicuramente da sola sono stata: felice, in attesa, sospesa, innamorata, fidanzata, lasciata, in lutto, abbandonata, scansata, depressa, ansiosa…
Parlare della solitudine è come parlare della vita, e allora parto dalla mia solitudine, che almeno la conosco.



30-31 maggio h 21,15

Il re degli gnomi
liberamente ispirato ad una fiaba di Angela Carter
di e con Massimo Capuano, Chiara Meloni
regia Chiara Meloni
consulenza registica Fabrizio Pallara
consulenza drammaturgica Simone Giorgi
produzione Compagnia degli gnomi


Una donna ci guarda, inizia a narrare una storia… Non tocca mai a terra: l’uomo su cui siede non permette ai suoi piedi e mani e tutto il suo corpo di toccare il bosco, e i suoi rovi e arbusti e serpenti. Si muove, racconta la storia, in cui è caduta come in un sogno, senza mai sfiorare terra: però così, con leggerezza: senza capriole senza acrobazie: quasi senza che ce ne accorgiamo. Lui la protegge, e in questo sta il suo amore: nella sua violenza, e nel fatto che la protegge senza farsi notare: e lei può maledire la sua violenza e tacere la dolcezza.


1 giugno dalle ore 21,30
Saldi di fine stagione
un progetto di Giuseppe Cutino
organizzazione e allestimento Fabio Schillaci
produzione I Candelai
in collaborazione con Palermo Teatro Festival


Anche quest’anno ci mettiamo in svendita ma, come i migliori negozi che hanno successo, anche noi ci allarghiamo! Coinvolgeremo più artisti e soprattutto coinvolgeremo l’intero quartiere, gemellandoci con il Palermo Teatro Festival, vetrina attenta ai fermenti creativi della città, in un percorso che partendo dai Candelai arriverà fino al Nuovo Montevergini.
Ma lo spirito non cambia.
Artisti di vario genere e di varia natura, in offerta speciale per poche fiches, si esibiranno in una magica fiera dello spettacolo!

Non di sola scena
Fabrizio Lupo
Dal 6 al 20 aprile
Enzo Venezia
Dal 26 aprile al 14 maggio
Anna Farinella
Dal 16 maggio al 1 giugno


Si parte dalla scenografia e dall’allestimento, ma si arriva alla grafica, ai manifesti, ai depliant per concludere con la pittura vera e propria: due dei più important scenografi che hanno lavorato e per fortuna lavorano ancora a Palermo, Fabrizio Lupo e Enzo Venezia, e una regista, attrice, performer fondatrice dello storico gruppo Teatro Finzioni, porta in mostra il suo universo, con la mostra “in ginocchio”, un naufragato progetto teatrale, approdato in una mostra tutta al femminile.


 


 

Una personale per I Sacchi di Sabbia
Il gruppo toscano in scena Pontedera
di Andrea Lanini

 

Dalle reminiscenze cabarettistiche di Grosso guaio in Danimarca alla funambolica vitalità di Boum! Dedicato a Charles Trenet; dalle dissacranti e tragicomiche incursioni che in Pauperis Oratorium Christi fanno stridere sacro e profano, all’inquietudine strisciante e silenziosa di Tràgos. Per finire con l’ultima evoluzione dell’incontro con Marcel Schwob, Turma Infantium Suite, visione potente e mistica di una verità storica che racconta il suo lucido, folle procedere. Gran parte del viaggio teatrale della compagnia pisana I Sacchi di Sabbia – Giovanni Guerrieri, Giulia Gallo, Enzo Illiano, Gabriele Carli – è racchiuso in questi titoli, in queste tappe: momenti di contaminazione tra recupero della tradizione e spinta verso territori nuovi, occasioni-crogiuolo che al loro interno hanno visto fondersi e amalgamarsi suggestioni e stimoli diversi, fascinosamente contrastanti e al contempo curiosamente simili, tanto affini da intrecciarsi in nome della stessa urgenza emotiva. Il Teatro di Via Manzoni di Pontedera dedica alla storia dei Sacchi una settimana di spettacoli (dal 18 al 25 marzo): una personale pensata come testimonianza di un “itinerario tragicomico” che, prendendo vita da forme fatte di leggerezza e scanzonata ironia, ha visto progressivamente emergere un’adesione alla realtà fatta di humour caustico, di sguardi che penetrano nevrosi e fobie fino a diventare corrosivi. Se in Grosso guaio in Danimarca (sabato 18 e domenica 19), in Boum! (in scena gli stessi giorni, alle 22) e in Pauperis Oratorium Christi (24 e 25 marzo, ore 22) sono evidenti i richiami a una comicità farsesca, il gusto per le gag e il gioco sulle coloriture dialettali, con Tràgos (24 e 25 marzo, ore 21) l’atmosfera retrocede, involve e infine si accartoccia su un silenzio che non riesce a contenere l’assurità del suo stereotipato ripetersi. Prepotentemente il lato tragico chiede spazio, una nuova esplorazione comincia, ciò che prima è stato fatto viene scavato dall’interno per osservare, alla fine, che cosa può restare in piedi di ciò che in passato spingeva al riso.
Turma Infantium Suite (22 e 23 marzo, ore 21) è l’ultima fermata di questo itinerario: sulla scena, la componente visionaria del testo di Schwob si anima dentro i confini di un linguaggio che, dopo la cesura afasica di Tràgos, chiede di muoversi sui binari sicuri di un ritmare salmodico che a tratti si slancia fino a farsi canto, e che costruisce i contorni di una grottesca liturgia in cui l’avventura dei bambini-crociati può srotolarsi senza essere privata della sua natura, insieme malata e magica, pazzesca e grandiosa. Alla fine il cerchio si chiude, e gli inizi dell’itinerario tragicomico dei Sacchi si confondono nelle declinazioni ultime della loro poetica, ricordando come i meccanismi che governano il linguaggio della comicità possano sempre trovare – in quanto faccia opposta della stessa medaglia - un naturale approdo nei loro equivalenti tragici.


 


 

Una drammaturgia della vita quotidiana
A che punto sei? osservAZ ON Punti di vista in città
di Associazione Culturale Due Punti Aperte Virgolette

 

A che punto sei? osservAZ ON Punti di vista in città

Un progetto di “Drammaturgia Urbana” elaborato da Sonia Arienta e organizzato dall’Associazione Culturale Due Punti Aperte Virgolette, con il Contributo e il Patrocinio del Comune di Milano (Sport e Giovani).

- Quali sono i meccanismi della teatralità applicabili alla vita cittadina? quali riscontro hanno nella vita quotidiana? Quante possibilità ci sono nell’osservazione della realtà che ci circonda? Quanti punti di vista si possono adottare? Da quante angolazioni si può osservare una stessa scena? Che cosa comporta la molteplicità dei punti di vista e la percezione, la coscienza critica che ne esistono molti?
Questa proposta prevede che il pubblico visiti e osservi una sequenza di luoghi all’interno della città sulla base di indicazioni contenute in schede o “didascalie di scena” redatte in anteprima dall’autore e rifletta attorno ad alcuni temi costituitivi della fruizione teatrale e, fuori di metafora, della vita stessa: spazio, tempo, personaggi, trame, azione, backstage. Alla riflessione segue l’azione-scrittura: il cittadino compila una scheda per ciascun evento con domande ad hoc che l’autore gli pone a proposito dei luoghi visitati.

In scena a Milano: dal 15 al 25 maggio 2006. Nei seguenti luoghi:

- 15 maggio 2006 lunedì SPAZIO dalle ore 12.30 alle 15.00 e dalle 17.30 alle 21.00 Piazza Cordusio-Piazza Affari
- 16 maggio 2006 martedì TRAME – dalle ore 12.00 alle 15.00 e dalle 18.00 alle 21.30 Via Nirone-Giardini Calderini – Il Carrobbio
- 17 maggio 2006 mercoledì TEMPO – Giardino della Guastalla ore 12.00-21.00
- 18 maggio 2006 giovedì AZIONE – Sottopassaggio della metropolitana tra Cordusio e Duomo 12.30 alle 15.00 e dalle 17.30 alle 22.
- 19 maggio 2006 venerdì PERSONAGGI dalle ore 17 00 - alle ore 21.00 Via Vittor Piasani angolo Piazza Duca D’Aosta
- 20 maggio 2006 sabato dalle ore 14.30 alle 19.00 BACKSTAGE Via Torino, Via Nerino, Via Bagnera
- 25 maggio giovedì ore 18.30 – Incontro con il pubblico - Fabbrica del Vapore ore 18.30 Via Procaccini 4


Ingresso libero (GRADITA la) Prenotazione al CHECK POINT presso Arengario - APT piazza Duomo a partire dal 2 maggio 2006
o via mail: info@duepuntiapertevirgolette.it

Informazioni: www.duepuntiapertevirgolette.it

Ufficio Stampa: u.stampa@duepuntiapertevirgolette.it
Resp. Maria Angela Albertinoli
Tel. 02 58101876 o 339 2435522
Organizzazione: Elisa Lusana, Annamaria Pugliese, Francesco Scasciamacchia



DETTAGLI NELLA PAGINA SEGUENTE


osservAZIONI
Un progetto di “Drammaturgia Urbana” elaborato da Sonia Arienta e organizzato dall’Associazione Culturale Due Punti Aperte Virgolette, con il Contributo e il Patrocinio del Comune di Milano (Sport e Giovani).

- “osservAZIONI” si inserisce nell’ambito di un progetto di “Drammaturgia urbana” elaborato da Sonia Arienta e organizzato dall’Associazione Due Punti Aperte Virgolette con il Contributo e il Patrocinio del Comune di Milano (Sport e Giovani). Il progetto si pone come spunto di riflessione attraverso il quale si invitano i cittadini ad essere protagonisti degli ambienti urbani che vivono quotidianamente. La rappresentazione teatrale si smaterializza o meglio lascia da parte la presenza fisica di attori, per puntare i proiettori sulla città e sui suoi veri protagonisti: i cittadini. Si apre il sipario in favore dello spazio urbano. Si accendono i riflettori su chi vive Milano, studenti, lavoratori, passanti, turisti, o semplicemente individui che hanno in comune i luoghi di in-contro, in-crocio.


- L’autore offre il suo punto di vista nel guardare ciò che lo circonda, le persone, il territorio e trascrive ciò che vede e pensa in relazione all’istante dell’osservazione; propone e racconta la città offrendo inquadrature con le quali il pubblico-lettore sarà chiamato a interagire.
- Il punto di vista da cui sono proposte e descritte le varie azioni sono formulate sul corpo dell’autore o meglio dell’autrice (altezza 1.61 cm sul livello del mare in posizione eretta, senza tacchi, dalla vista di circa 10/10 decimi e dall’udito piuttosto buono).
- Attori e pubblico sono i cittadini stessi e la scena rappresentata offre spunti di riflessione riguardanti i meccanismi che regolano non solo la teatralità, la sua fruizione, ma anche la percezione dello spazio e dei luoghi quotidiani, il modo di osservare/partecipare/essere.
- Lo spettatore percepirà l’infinita possibilità di modi, l’innumerevole diversità di aspettative, le discrepanze, le varianti più o meno riconoscibili rispetto a quanto è fissato sulla pagina scritta. Il pubblico, coinvolto in prima persona, sarà sollecitato a guardarsi attorno in modo critico, a vivere la città guardandola in modo “altro”. Le “didascalie” non sempre collimano con quello che è il punto di vista, la collocazione temporale e la situazione che sta osservando lo spettatore.
- Il progetto consiste in una sequenza di scene osservate “in anteprima” dall’autore e proposte a ciascun cittadino attraverso le “didascalie”, indicazioni contenute in schede prestampate scritte dall’autore, utili a interpretare la situazione che gli si offre davanti. In queste descrizioni c’è assenza di “emotività”, una semplice registrazioni di dati, filtrati dagli occhi dell’autore: gli attori-personaggi-persone che transitano sulla scena cittadina sono descritti e fermati attraverso la scrittura. Appartengono a un momento preciso nel tempo. I lettori-spettatori probabilmente non li incontreranno mai, né forse se li incontrassero nella casualità del traffico cittadino potrebbero riconoscerli, tuttavia li percepiranno come esistenti.
- Ci possono essere interventi di personaggi immaginari o reali che ritornano e sono una presenza “costante”.


 



Appuntamento al prossimo numero.
Se vuoi scrivere, commentare, rispondere, suggerire eccetera: olivieropdp@libero.it
copyright Oliviero Ponte di Pino 2001, 2002

olivieropdp