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La vocazione teatrale di Francesco di Bernardone
 
 

Questo testo compare nel volume Francesco a testa in giù comprendente il testo di Marco Baliani e Felice Cappa e pubblicato da Garzanti insieme alla cassetta dello spettacolo, in vendita dal 24 novembre 2000.

Il percorso che ha portato Marco Baliani a incontrare, in uno spettacolo teatrale anomalo, una figura come quella di san Francesco, che ha già ispirato prima di lui una schiera infinita di artisti, da Giotto giù giù fino a Dario Fo, non è certo casuale. Perché questo incontro ha ragioni che investono – a voler utilizzare categorie che rischiano di apparire desuete – sia la "forma" sia il "contenuto".

La forma è quella della narrazione – un’etichetta che sta rischiando di diventare moda ma che ha condotto in questi anni a risultati di notevole interesse. Su questo terreno Marco Baliani lavora da tempo (da pioniere, verrebbe da dire), con approfondimenti e sperimentazioni radicali. Val forse la pena di ripercorrere in estrema sintesi gli snodi principali di questo percorso di auto-formazione anomalo – e che proprio nella sua anomalia, fuori da scuole e accademie, è invece tipico degli autori-attori della sua generazione.

Agli inizi ci sono gli happening tra il situazionista e l’agit prop all’università di Roma, negli anni dell’impegno politico, intorno al ’77. Poi c’è l’esperienza del teatro per ragazzi, le fiabe da raccontare e da portare in scena per un pubblico di bambini. È proprio operando in questo ambito che Baliani viene invitato a lavorare con un gruppo di bambini "difficili". L’incontro segna una svolta.1

Uno dei problemi centrali era il cosiddetto "calo d’attenzione". I pedagogisti che li seguivano dicevano: "Sono bambini che non riescono a concentrarsi su una cosa, anche la più bella del mondo, per più di sette minuti".

A questi bambini, Marco inizia a raccontare la fiaba più nota, quella di Biancaneve: dopo qualche minuto s’accorge che non lo segue più nessuno.

A un certo punto vedevo che era inutile continuare. Ma tutte le volte che capitava, in qualche modo non era colpa loro, perché capivo dove avevo sbagliato: poteva essere un problema di ritmo, una pausa, magari m’ero come assentato, avevo guardato da un’altra parte... Lì ho cominciato a lavorare sul racconto... Anche se, risalendo all’indietro, già negli anni Settanta in molte iniziative di animazione, nei parchi, io raccontavo delle storie, anche se non avevo mai elaborato una pratica. L’ho cominciata lì, e questo laboratorio è durato quasi sei mesi: dunque è stato un lavoro "scientifico", nel senso che avevo la possibilità ogni giorno di fare delle verifiche. Era una situazione molto libera dal punto di vista istituzionale, perché non avevamo il compito di educare questi bambini: si trattava semplicemente di vedere che cosa accadeva tra il portatore di un’esperienza e loro. Finita questa esperienza, ho cominciato ad applicare le poche cose che avevo capito ad altri, in stages per attori, per giovani che uscivano dalle scuole di teatro, per giovani studenti, per insegnanti...

Inizia anche a lavorare a un suo spettacolo, costruito secondo regole rigidissime: un celebre racconto di Kleist, Michael Kohlhaas. Nello spazio vuoto, alla luce di un faretto, il pubblico sistemato tutt’intorno, l’attore-narratore, vestito di nero, resta su una sedia per l’intera durata dello spettacolo: più di un’ora a raccontare questa vicenda che ruota intorno alla giustizia negata. Non esiste scenografia, la libertà di movimento nello spazio è annullata, resta solo la possibilità di modulare i gesti e la voce: una forma di disciplina durissima, dentro la quale inventare spazi di libertà. "La sedia", spiega Baliani, "l’avevo scoperta come un limite, un ostacolo che mi davo".

Porterà in giro Kohlhaas per anni, per centinaia di repliche. È un esercizio estremo e formidabile, che gli permette di affinare gli aspetti tecnici della narrazione: perché anche questa forma di comunicazione ed espressione ha le sue regole e la sua retorica. Solo per fare un esempio, è lavorando con il puparo Mimmo Cuticchio, che Baliani capisce "come dare il ritmo col respiro e col battito del piede".

Ben presto accanto alla pratica scenica s’impone una riflessione sulle implicazioni teoriche di questa ricerca, per risalire alle radici della narratività. È un viaggio che porta all’indietro, molto all’indietro, in strati profondi della nostra umanità.

È antropologicamente inscritta. È incredibile: nonostante la televisione, nonostante tutto questo sistema di comunicazione, la narratività sembra in qualche misura antropologicamente innata.2

Determinante è l’incontro con l’opera di Walter Benjamin, e in particolare con un saggio di Angelus Novus, "Il Narratore. Considerazioni sull’opera di Nikola Leskov".3 Il narratore, scriveva Benjamin, "è qualcosa di già remoto, e che continua ad allontanarsi (…) È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze". Successivamente è quasi obbligato l’incontro con l’Ernst Bloch di Tracce, questo imprevedibile esperimento di micro-narrazioni filosofiche (o di filosofia narrativa per frammenti): nel 1996 Baliani ne ricaverà uno spettacolo-conferenza che è insieme esemplificazione e riflessione sull’arte di raccontare, sul rapporto tra oralità e scrittura.

Noi amiamo l’errore commesso perché questo ci permette di errare, di non procedere sulla strada maestra ma di andare verso l’ignoto. Amiamo sentirci narrare il caos del vivere, i conflitti, le situazioni che non sono in equilibrio perché sentiamo che tale è la vita caotica, forse assurda, e oscuramente preghiamo che l’ignoto, il bosco, il sentiero sconosciuto ci permetterà uno stupore e una conoscenza diversa, inaspettata. (…) Sedurre, etimologicamente "se-ducere", vuol dire sviare, portare fuori strada; la seduzione dell’atto d’amore è questo baratro che si apre e ci conduce fuori dalla norma. Anche il verbo educare, "e-ducere", vuol dire condurre via, come se nell’atto di educare ci fosse una seduzione in movimento.4

Attraverso questi spettacoli e queste riflessioni, la figura del narratore viene progressivamente definendosi. O meglio, torna a riaffiorare con il suo fascino e le sue peculiarità. Tanto per cominciare, un narratore è qualcosa di diverso da un attore, che indossa una maschera e si cala in un personaggio (anche se l’attore a volte può svolgere la funzione del narratore5). Poi, in un modo o nell’altro, il narratore dice "io": si mette in gioco in prima persona, magari attraverso commenti, sottolineature, divagazioni. Solo così, attraverso una personale assunzione di responsabilità nei confronti del pubblico, può costruire il necessario rapporto di fiducia. Un ulteriore elemento chiave, che spesso garantisce forza e interesse alla narrazione, è la determinazione di un preciso punto di vista. Che a volte può essere consapevolmente insolito e spiazzante: è il tipico meccanismo dello straniamento, così come l’hanno definito e utilizzato Tolstoj e l’inventore del moderno teatro epico, Bertolt Brecht.

Tuttavia, al di là di questo elemento in apparenza personale, la narrazione non è mai una creazione puramente individuale, anzi. Mentre narra, il narratore è via via tutti i suoi personaggi: passa di continuo dall’uno all’altro, attraverso un percorso che in generale non prevede l’immedesimazione psicologica ma l’esplorazione di una serie di funzioni. È questa polifonia a determinare la struttura del racconto, il suo ritmo, il suo procedere per divagazioni. Poi, tipicamente, la narrazione si arricchisce e cambia passando da un narratore all’altro, coglie gli stimoli e le reazioni che arrivano dal pubblico (e spesso le ingloba nel racconto). La sua dimensione è quella orale, dell’incontro tra il narratore e i suoi ascoltatori. In questa prospettiva, la narrazione tende a essere opera anonima e collettiva, che si spinge verso l’epica.

Dopo il Kohlhaas, Baliani prosegue la sua ricerca in varie direzioni. Continua a proporre spettacoli d’impianto narrativo: come protagonista di un Lear raccontato dal fool; o come regista di Lola che dilati la camicia, tratto dai diari di una donna internata per decenni nel manicomio di Siena; inanella approfondimenti del rapporto storia-memoria in spettacoli-laboratorio che tornano agli anni delle due guerre mondiali e usano spesso come base i diari dell’epoca; e firma come regista spettacoli di più ampio respiro corale: tra di essi, Peer Gynt (1995), che non ha caso ha per protagonista un grande affabulatore; Gioventù senza Dio, struggente affresco giovanile tratto da romanzo di Ödon von Horvàth (1997); Mediterraneo, ispirato all’opera di Predrag Matvejevic (1998); La crociata dei bambini (1999). Questi filoni di ricerca trovano una sintesi in Corpo di Stato. Il delitto Moro: una generazione divisa, il monologo6 dove Baliani ricostruisce "in soggettiva", tra storia e memoria personale, cronaca e percorso d’iniziazione, i giorni del sequestro Moro: una pagina chiave dell’eterna crisi italiana e dell’autobiografia di una generazione, l’episodio che finisce per bruciare tutti gli slanci utopistici di quegli anni.

Francesco a testa in giù parte da un "Ma" che nasce proprio dalla riflessione sulla necessità dell’utopia e sulla sua impraticabilità e dunque impossibilità.

Ma d’altra parte poteva un sogno così estremo come quello di Francesco essere davvero realizzato? Forse è il destino di tutti i sogni estremi, quello di scontrarsi con la realtà che li circonda. E allora poi per realizzarsi, almeno in parte, si devono adattare, aggiustare. Si devono come ammorbidire. (p. 10)

In questo bilancio sulla pratica e le ricadute dell’utopia, il percorso del personaggio Francesco (così come lo raccontano Marco Baliani, Felice Cappa e Roberto Anglisani) e quello del suo cantore trovano corrispondenze rivelatrici. Perché questo Francesco è un personaggio politico – se la politica è la necessità di trasformare la realtà sotto la spinta della propria visione utopica – che nella sua pratica politica usa anche il teatro.

La forma di questo Francesco a testa in giù, come si è detto, è quella della narrazione. Fin dall’inizio se ne riconoscono alcuni elementi per così dire "tecnici". Il racconto parte in prima persona. Proprio all’inizio dello spettacolo, rivolgendosi direttamente al pubblico, ancora prima di calarsi nei panni di uno dei fraticelli predicatori che raccontano l’epopea di Francesco, Marco Baliani offre un ricordo personale:

Tre anni fa ho incontrato Francesco. Ero in Grecia. (p. 7)

Tornerà a parlare in prima persona alla fine, quando si tratterà di tirare le fila del suo racconto:

In fondo la verità è sempre ciò che desideriamo, ciò che ci fa battere il cuore e ci nutre l’anima, e di certo anche noi abbiamo raccontato un nostro Francesco. (pp. 91-92)

Il punto di vista è reso esplicito fin dal titolo, e dall’immagine del Secondo narratore che si presenta camminando sulle mani e che promette di farci vedere la realtà da un’angolazione insolita, in una prospettiva in cui "il mondo è capovolto, cambia tutto" (p. 10).

Inoltre questo "Francesco a testa in giù" è un personaggio che si muove in una dimensione fortemente teatrale. Il testo lo sottolinea a più riprese, fin dall’inizio, quando si parla di un "santo-giullare" che ha rubato i trucchi "a qualche giullare di passaggio" (p. 10). Lo ribadisce quando i due cittadini di Assisi attraverso cui rivediamo la celeberrima scena del denudamento davanti al Duomo colgono a modo loro la dimensione spettacolare ed esemplare del gesto di Francesco: "E c’era bisogno di fare tutta questa scenata?" (p. 28). Quello che però i due simpatici spettatori non possono capire è la dimensione rituale di cui è intrisa questa provocatoria cerimonia iniziatica. Ovviamente i due non possono sapere che proprio questa dimensione rituale diverrà esplicita nella scena del taglio dei capelli e della vestizione di Chiara (e in quell’occasione il rito avrà anche la funzione di barriera contro la deriva delle emozioni e dei sentimenti).

Dopo la clamorosa esibizione sulla piazza di Assisi, Francesco e i suoi amici costituiscono un continuo spettacolo:

A vederli di lontano andare cantando e ridendo per i prati, sembravano un branco di idioti, bambini troppo cresciuti. (p. 32)

Ma lo sono nella misura in cui riescono a godere dello spettacolo del mondo da un'angolazione insolita:

che se uno abbassa lo sguardo e si fa piccolo piccolo come un verme, scopre che in un prato così c’è tanta di quella moltitudine di esseri. (p. 32)

La dimensione teatrale è profondamente connaturata a questo "Francesco a testa in giù"7: quando attraversa un momento di crisi e vive la tentazione della famiglia e della normalità, si immagina persino un "teatrino domestico" (p. 50).

Non è dunque un caso che le qualità d’attore di Francesco vengono sottolineate in diverse occasioni:

quando raccontava i pezzi del Vangelo cambiava voce. (p. 36)

gli occhi gli s’illuminavano come se pure lui vedesse gli Apostoli (…) Usava parole semplici che arrivavano a tutti, ricchi e poveri, niente latino, le parole che la gente usava tutti i giorni, a volte strappava risate o d’improvviso recitava versi di poesie, e qualche altra volta, al colmo della gioia, come se l’animo suo non ce la facesse più a contenere tanto, se ne usciva con un canto: cantava a voce piena, con una bella voce profonda che non si capiva da dove gli usciva in quel corpo mingherlino. (p. 43)

Se nei momenti di estasi mistica questo "santo-attore" si spinge decisamente verso la lirica e il canto, è evidente che il registro privilegiato di questo "santo-giullare" sia quello del comico – che è strettamente legato alla corporeità. E non c’è dubbio: Francesco e i suoi compagni hanno un corpo, quel Frate Asino evocato e descritto a più riprese. Uno degli eroi di questa sgangherata epopea è il semplice e irresistibile Ginepro, che "torna nudo perché dona sempre tutto agli altri" (p. 48).

Tuttavia nel corso della parabola di Francesco l’esperienza determinante resta quella del tragico. Lo si comprende – e allo stesso modo si comprende lo stesso protagonista – di fronte a quello spettacolo sanguinolento che è la presa di Damietta. Nel teatrino interiore, la battaglia contro i musulmani si sovrappone al ricordo di un altro spettacolo tragico di cui Francesco era stato protagonista, da ragazzo, quando da Assisi era andato all’assalto di Perugia. A quel punto, la visione della carneficina gli permette finalmente di cogliere appieno il proprio ruolo d’attore nel teatro della guerra. La consapevolezza di sé e del proprio rapporto con la storia può operare uno scarto decisivo.

Uno dei culmini della narrazione è l’invenzione da parte di Francesco di un grande spettacolo, una rappresentazione corale di cui la comunità è al tempo stesso attore e spettatore. Perché proprio questo è il presepe di Greccio: un grande happening collettivo. La realtà è per sua natura tragica, le sue contraddizioni non possono essere pacificate. Gerusalemme non può essere conquistata – anche perché la sua conquista passa in ogni caso attraverso orribili massacri e violenze. Allora "come far tornare il sorriso sulle labbra di Francesco?" (p. 72). Data la sua vocazione teatrale, la soluzione non può essere che uno spettacolo: una seconda Gerusalemme, che non grondi sangue ma che ruoti intorno a un neonato. Dovrà essere uno spettacolo talmente grande da occupare e assorbire, per quella sera, l’intera realtà.

La rappresentazione del presepe ha però un suo copione. Lo script – per così dire – da cui trae origine è ovviamente il racconto della Natività nei Vangeli. Ma qual è, nel percorso di Francesco, il rapporto tra la parola scritta e quella orale, tra la parola e l’azione (o lo "spettacolo")? È curioso notare che una delle svolte decisive alla parabola dell’"Asino Francesco" venga dalle sortes apostolorum (pp. 30-31). Il punto di partenza di questa pratica oracolare è un testo (ancora il Vangelo, ovviamente) ma interpretato attraverso un gesto che è insieme casuale e volontaristico: il lancio del libro e la lettura della pagina che resta casualmente aperta dopo la caduta.

Il percorso inverso, dal gesto alla pagina scritta, dall’esperienza di una vita alla stesura di un modello condivisibile e accettabile, sarà più doloroso e alla fine deludente per tutti. La scrittura della Regola, il copione che dovranno seguire in futuro i suoi frati, per questo Francesco affabulatore e giullaresco, perso nel flusso della vita, costituisce una fatica insopportabile. Il risultato sarà insoddisfacente. Solo la morte, con la sua perversa e paradossale consequenzialità, potrà trasformare il suo corpo – Frate Asino – in un testo in cui leggere prodigi e verità.
 
 

1 Ne resta la testimonianza nel volumetto di Marco Baliani Pensieri di un raccontatore di storie, Quaderni dell'animale parlante, 2, Comune di Genova, Assessorato istituzioni scolastiche, Genova, 1991.

2 Ove non altrimenti specificato, le citazioni di Marco Baliani sono tratte da Il racconto. Conversazione con Marco Baliani (1995), a cura di Oliviero Ponte di Pino, che si può leggere alla pagina http://www.trax.it/olivieropdp/Baliani95.htm.

3 In Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Einaudi, Torino, 1962.

4 Fabrizio Fiaschini e Alessandra Ghiglione, Marco Baliani. Racconti a teatro, Loggia de' Lanzi, Firenze, 1998, dal testo di Tracce.

5 La pratica del teatro epico brechtiano affonda qui le sue radici e la sua etica.

6 Trasmesso in diretta da Raidue il 9 maggio 1998; cfr. anche la mia presentazione dello spettacolo.

7 Il testo, come Corpo di Stato, viene commissionato da Raidue per una destinazione televisiva e successivamente approda in teatro.
 
 

copyright Oliviero Ponte di Pino e Garzanti Libri s.p.a., 2000
 
 
 
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