(81) 28/02/05
con uno speciale tnm
teatro & nuove tecnologie

Gatti gialli e neri, mandala e terroristi, narratori e motion capture…
L'editoriale di ateatro 81
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and1
 
La specificità del segno teatrale
Una questione di gatti
di Clara Gebbia

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and26
 
All U need is… motion: beni culturali e spettacolo. Ma solo Tre(n)D!
Incontro con Andrea Brogi X-Lab
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and39
 
Opere d'arte totali
Una intervista a Paolo Consorti
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and40
 
Una storia infinita, una storia mandalica
Storie mandaliche 3.0di ZoneGemma
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and41
 
L'altra parte dello spettacolo: la posizione dello spettatore
Ancora su Storie Mandaliche
di Erica Magris

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and42
 
Trittico napoletano
Una intervista con Mario Martone su L'opera segreta
di Andrea Lanini

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and46
 
Libri & altro: il video istruzioni per un uso creativo
Alessando Amaducci, Il video digitale creativo, Nistri-Lischi, Pisa, 2005.
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and47
 
Gli Album di Marco Paolini su Raitre
Con una intervista inedita a Gabriele Vacis e un piccolo database su Paolini
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and48
 
Gli Album di Marco Paolini: un dossier
Dall'archivio di ateatro
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and49
 
Il progetto, il gruppo, i classici, la narrazione
Una intervista inedita a Gabriele Vacis (marzo 1999)
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and50
 
Libri & altro: le origini del teatro di narrazione
Gerardo Guccini e Michela Marelli, Stabat Mater. Viaggio alle fonti del 'teatro narrazione'
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and51
 
Il teatro di narrazione su ateatro e olivieropdp
Un piccolo archivio
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and52
 
Le recensioni di ateatro: terrorismo all'irlandese, sangue e risate
Il tenente di Inishmore di Martin McDonagh
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and63
 
La scena rituale
Un ciclo di incontri tra cinema, teatro e antropologia a Torino
di Fernando Mastropasqua

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and82
 
Le arti multimediali digitali in tour


 

La Spezia, Pisa, Roma
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and83
 
(a)teatro e storia
“ateatro” su “Teatro e storia”
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and84
 
Piemonte Share Festival
dal 25 febbraio al 3 marzo
di Share Festival

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and85
 
Terre mobili: cultura e sviluppo in convegno a Napoli
24-25 febbraio 2005
di Teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and86
 
Terre mobili: cultura e sviluppo in convegno a Napoli
24-25 febbraio 2005
di Nuovo Teatro Nuovo

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro.81.htm#81and86
 
Tradition and Performance
La newsletter del Workcenter di Jerzy Grotowski and Thomas Richards
di Workcenter di Jerzy Grotowski and Thomas Richards

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro81.htm#81and88
 

 

Gatti gialli e neri, mandala e terroristi, narratori e motion capture…
L'editoriale di ateatro 81
di Redazione ateatro

 

Titina Maselli (Roma, 1924-2005), Calciatore rosso, 1958.
In ateatro 81 troverete gatti gialli e neri, mandala e terroristi, narratori e motion capture… e non è tutto!
Tanto per cominciare c’è il robusto speciale tnm dedicato a Teatro e nuove tecnologie, dove si parla di computer graphics e di Ovidio, della teatralità nelle opere figurative di Paolo Cosorti, di Storie mandaliche (perché in queste settimane ha debuttato la versione 3.0, e perché sta uscendo il libro che racconta la genesi dello spettacolo), del nuovo trittico L’opera segreta di Mario Martone (incontrato in occasione delle repliche a Cascina), con particolare attenzione al rapporto teatro-cinema.
Un rapporto costruttivo con l'innovazione tecnologica può avere significative ricadute anche sul terreno economico, come ha annotato di recente Michele Trimarchi:

"L'incentivo all'innovazione tecnologica (...) appare l'unico capace di indurre i produttori di spettacolo ad accrescere la propria qualità rispettando un vincolo di bilancio credibile, in modo da fornire al consumatore un prodotto di elevato valore da porre a fondamento di estensioni progressive del mercato, e dunque della quota di autonomia finanziaria, decisionale e culturale dei produttori di spettacolo dal vivo." (Michele Trimarchi, La tecnomusa: innovazione e organizzazione nello spettacolo dal vivo, "Economia della cultura, a. XIV, 2004, n. 2, p. 196).

Un altro risvolto interessante riguarda il rapporto di teatro con gli altri media:

"L'accentuarsi della distanza tra la produzione di spettacolo dal vivo e le molteplici opportunità di adeguamento e accrescimento tecnologico oggi possibili per il settore risulta ancora più evidente se si fa riferimento alla trasformazione radicale delle relazioni tra il mercato dello spettacolo dal vivo e i suoi mercati secondari, nei quali vengono realizzati e scambiati prodotti che ne replicano il contentuto e che ne riproducono l'esperienza su diversi supporti (analogici e digitali, acustici e visivi)." (Ivi, p. 195)

Sempre sul tema teatro e nuove tecnologie, vi segnaliamo anche la tesi di Vanessa De Luca (Politecnico di Milano, relatore prof. Marisa Galbiati) Organic Platform: risorse, competenze ed esperienze nell’interazione tra arte e tecnologia per la comunicazione, disponibile online in formato pdf.
Se il futuro non vi basta, in ateatro 81 si torna alle origini del teatro di narrazione (che però, scusate la rima, va spesso in televisione, e ci fa pure un figorone), con un ampio dossier arricchito da interviste vintage a Marco Paolini e Gabriele Vacis: perché nel frattempo sul genere si scrive, vedi il libro Stabat Mater di Guccini-Marelli; e si dibatte, vedi il convegno Teatro civile tra testimonianza e riflessione il 4 marzo a Bolzano.
E si parla anche di gatti, in questo numero della webzine: quelli che Barthes ruba a Balzac e che Clara Gebbia ruba a Balzac per parlare di semiotica teatrale; e quelli che Martin McDonagh fa massacrare a pistolettate nel suo Tenente di Inishmore per parlare del terrorismo.
Ma se gironzolate nell’indice di ateatro 81 ne troverete anche altre, di notizie interessanti e curiose, a cominciare su qualche info sul nuovo numero di “Teatro e storia”, dove ci siamo anche noi (intesi come ateatro): evviva evviva!!!


 


 

La specificità del segno teatrale
Una questione di gatti
di Clara Gebbia

 

I. Testo drammatico e testo spettacolare
Semiotica e semiologia


Certamente la semiotica non serve ad un teatro istituzionale che (senza mai rimettere in questione se stesso, le proprie categorie, il proprio metodo produttivo) continua a pensare e praticare aproblematicamente (e mercantilmente) lo spettacolo soltanto come illustrazione di un testo drammatico. E neppure serve a un tipo di teatro (e ce ne sono anche nel campo delle avanguardie) che concepisca la ricerca e la sperimentazione sceniche nei termini di una creatività intuitiva e ineffabile, del tutto impermeabile a categorie scientifiche.
Marco De Marinis, Semiotica e semiologia


Il punto di partenza per un tentativo di definizione della specificità del segno teatrale, è la constatazione di come sia stato il cambiamento della natura del testo teatrale a imporre una ridefinizione della stessa nozione di ‘testo drammatico’ e di come le trasformazioni interne al teatro portino ad un mutamento dei rapporti tra le componenti semiotiche in gioco.
In questi ultimi anni infatti il ‘testo teatrale’ ha subito così tante modificazioni, sia per gli aspetti che riguardano la produzione che per quelli che riguardano la fruizione, da metterne in dubbio l’esistenza stessa come traccia di un’opera riproducibile da parte di registi che possano lavorare nello spazio tra il testo e la messa in scena, colmandone la mutua distanza attraverso la propria opera ermeneutica.
La storia dell’analisi del segno teatrale può essere connotata come la storia della tensione tra il testo drammatico e la messa in scena. L’impostazione strutturalista tradizionale riconduceva lo statuto ontologico della messa in scena a ‘realizzazione del testo drammatico’; il loro rapporto reciproco era pensato come una reificazione – alienazione del testo drammatico nella sua realizzazione scenica. Per cui l’analisi semiotica teatrale era essenzialmente ricondotta ad una analisi semiologica del testo drammatico.
Tale impostazione è presente in quei modelli strutturalisti che approcciano il teatro da un punto di vista narratologico e su tali basi costruiscono il loro modello interpretativo, come l’analisi strutturalista della fiaba di Propp (V. J. Propp, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1975), le cui categorie vengono riplasmate per la messa a punto teatrale del modello.
Altro presupposto fondamentale è l’estensione alla letteratura della semantica strutturale che teorizza la presenza di una struttura profonda nel linguaggio ritenuta responsabile della struttura superficiale degli avvenimenti linguistici.
E’ chiaro che conseguenza implicita di tale impostazione è l’assegnazione del ‘ruolo’ di struttura profonda al testo drammatico e di struttura superficiale alla messa in scena, i cui avvenimenti sono quindi come confinati nella sfera fenomenica in senso debole e come tali non possono essere oggetto di scienza, ma forse soltanto di cronaca giornalistico-mondana.
Queste considerazioni possono valere per il modello attanziale di Etienne Souriau (E. Souriau, Les deux cent mille situations dramatiques, Paris, Flammarion, 1950), che imposta la sua analisi con categorie direttamente ricavate da Propp; i ruoli attanziali vengono infatti concepiti come una classificazione dei ruoli drammatici resi attraverso una simbologia tratta dall’astrologia; posti i ruoli attanziali attraverso una combinatoria si procede quindi all’analisi del dramma. Il modello sembra valido soprattutto per gli intrecci i cui personaggi si prestano ad essere ricondotti a rapporti del tipo protagonista-antagonista, protagonista-aiutante etc, tipici della narrativa popolare o della fiaba , appunto.
Il modello di Greimas (A. J. Greimas, Semantica strutturale, Milano, Rizzoli, 1968) riconduce i ruoli attanziali al loro aspetto (secondo Greimas alla loro ‘origine’) linguistica. Il teorico francese parte infatti dalla considerazione che il linguaggio sia essenzialmente drammatico.
Il passaggio può essere chiarito da un esempio: in Souriau il primo ruolo attanziale è quello del ‘Leone’ ossia l’incarnazione nel protagonista della forza tematica che si svolge nel dramma; tale ruolo viene ricondotto da Greimas alla categoria linguistica di ‘soggetto’.
Modelli di tal genere fanno capo a un’impostazione semiologica della semiotica, la tensione di cui si parlava all’inizio è tutta sbilanciata verso la considerazione del testo drammatico.
E’ chiaro poi che altro presupposto fondamentale è la presenza di dramatis personae come unità minima della fabula. Su questo presupposto il modello, attraverso dei rapporti sintattici istituiti da una combinatoria può procedere a una analisi semiologica che sembra essere piuttosto una riduzione o tutt’al più una classificazione.
L’origine ‘letteraria’ di questi modelli è chiara e porta alla totale non considerazione della messa in scena come possibile oggetto di indagine.
Questa forma mentis è operante anche in uomini di teatro per cui la letteratura è il germe da cui il teatro nasce. Così si esprime ad esempio Luigi Pirandello:

Perché se ci pensiamo bene l’attore deve fare e fa per forza il contrario di ciò che ha fatto il poeta. Rende cioè, più reale e tuttavia meno vero il personaggio creato dal poeta, gli toglie tanto, cioè di quella verità ideale, superiore, quanto più gli dà di quella realtà materiale, comune, e lo fa men vero anche perché lo traduce nella materialità fittizia e convenzionale d’un palcoscenico. L’attore insomma necessariamente dà una consistenza artefatta in un ambiente posticcio, illusorio a persone e ad azioni che hanno già avuto un’espressione di vita ideale, qual è quella dell’arte e che vivono e respirano una realtà superiore.

Una presenza più pregnante di elementi che afferiscono alla sfera scenica è invece da rilevarsi negli studi della scuola di Praga. Nell’Estetica dell’arte del dramma, pubblicato da Otakar Zich nel 1931, si pone in un luce un aspetto fondamentale della semiosi teatrale, ossia la presenza in essa di sistemi di segni eterogenei ma interdipendenti. Zich non solo non riconosce una particolare prevalenza a uno dei sistemi, ma rifiuta esplicitamente il predominio del testo scritto come oggetto privilegiato della semiotica del teatro.
In quello stesso 1931 viene pubblicato l’altro testo fondamentale della scuola di Praga, Tentativo di analisi del fenomeno dell’attore di Jon Mukarovskj (J. Mukarovsky, Tentativo di analisi del fenomeno dell’attore in Il significato dell’estetica, Torino, Einaudi, 1973). Questo testo può essere considerato il primo tentativo di una vera e propria semiotica della performance. L’autore sottopone ad analisi la gestualità di Chaplin inaugurando un’attenzione verso gli aspetti non verbali di fondamentale importanza.
L’esito teorico della scuola di Praga è fondamentale perché riconosce il potere semiotico della messa in scena al di là del testo drammatico e in una maniera che mette in gioco tutte le componenti segniche.
In merito al dibattito odierno è necessario ricordare il contributo di Marco De Marinis (M. De Marinis, Semiotica del teatro. L’analisi testuale dello spettacolo, Bompiani, Milano 1982, pp. 24-28), che con la distinzione tra testo spettacolare e testo drammatico teorizza un modello unitario-irreversibile nel rapporto tra testo drammatico e testo spettacolare.
Il modello unitario-irreversibile di De Marinis sembra preservare la semiotica teatrale dal suo appiattirsi sull’analisi dei testi letterari proprio perché considera la messa in scena un evento parzialmente indipendente nel senso che non è contenuto in nuce nel testo drammatico e proprio per questo si pone come oggetto di studio indipendente dell’analisi testuale dello spettacolo.
Il prendere in considerazione il momento della scrittura teatrale come inseparabile (almeno in alcuni casi) dalla pratica teatrale stessa, dal momento legato al lavoro laboratoriale – attoriale ci porta ad invertire il rapporto genealogico tra testo drammatico e testo spettacolare e quindi ripensare il modello stesso.
Graficamente il rapporto di irreversibilità è così reso da De Marinis:

Testo drammatico ---> Testo spettacolare

così vorremmo proporre il nostro modello:

Testo drammatico <----> Testo spettacolare

Questa rielaborazione istituisce un diverso rapporto tra testo drammatico e testo spettacolare, non soltanto, così come nel modello di De Marinis, rifuggendo da quelle impostazioni che riducono il testo spettacolare al testo drammatico ma istituendo una relazione di circolarità tra il testo drammatico e il testo spettacolare. Allora l’analisi semiotica di un avvenimento teatrale avrà come oggetto l’avvenimento stesso scevro di qualsiasi supporto letterario, proprio perché il testo drammatico può essere preso in considerazione, almeno in alcuni casi, soltanto dopo un’indebita astrazione-estrazione dal suo essere detto, agito, messo in scena.
Un’ultima osservazione riguarda la possibilità che un documento scritto possa funzionare da documento per la messa in scena. In effetti per alcuni spettacoli contemporanei la scrittura non è tanto drammatica quanto piuttosto scenica e le notazioni di regia sopravanzano di gran lunga le ‘parola da dire’. Talvolta si parla perfino di ‘scrittura corporea’ (L’Impasto) oppure si pensi a quei casi in cui la parola viene veicolata da microfoni, display luminosi, distorta da artifici tecnologici inseparabili dal portato semantico della parola stessa che viene usata in maniera parassitaria per servire da significante per le distorsioni stesse, come nel caso di Motus. Anche qui il testo spettacolare più che essere irreversibile rispetto al testo drammatico vi si unisce in un’unità inestricabile.


II. Logica teatrale: il frame e la dramatis persona.
Un tentativo di riformulazione


Vladimiro: Proprio una bella serata.
Estragone: Indimenticabile.
Vladimiro: E non è finita.
Estragone: Sembra di no.
Vladimiro: E’ appena cominciata.
Estragone: E’ terribile.
Vladimiro: Sembra di essere a teatro.
Estragone: Al circo.
Vladimiro: Al varietà.
Estragone: Al varietà.
Estragone: Al circo.
Samuel Beckett, Aspettando Godot


La struttura concettuale e cognitiva che presiede alla fruizione teatrale è data dalla cornice, o appunto frame (il termine è mutuato dalla terminologia sociologica di Bateson. Cfr. G. Bateson, Una teoria del gioco e della fantasia, in Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1977, pp. 216-235), in cui i partecipanti e gli osservatori negoziano la comunicazione segnica.
Il frame teatrale è contraddistinto tradizionalmente da due caratteristiche essenziali: in primo luogo dalla presupposizione che il pubblico non abbia né il diritto né l’obbligo di partecipare all’azione che si svolge sul palco, in secondo luogo l’accettazione della realtà teatrale come di una realtà fictional parassitaria rispetto alla realtà.
A partire da questi presupposti la semiosi teatrale è affidata agli indicatori deittici, ossia a quelle parti del discorso che hanno la funzione di indicare i reciproci rapporti tra gli attori e tra gli attori e il pubblico:

A teatro il senso è affidato in primis alla deissi che regola le articolazioni degli atti di discorso. Anche la retorica, come la sintassi, la grammatica ecc. afferiscono, a teatro, alla deissi, che sussume e smista il senso veicolato dalle immagini, dai vari generi di linguaggio (prosa, poesia), dai diversi modi linguistici dei personaggi, dall’intonazione, dal ritmo, dai rapporti prossemici, dalla cinesica dei movimenti.

Presupposto di tale impostazione è la pre-comprensione da parte dello spettatore del carattere mimetico dell’azione scenica secondo un rapporto per cui il Mondo drammatico grazie all’essere situato nel frame possa essere compreso sulla base di parziali deviazioni rispetto al Mondo reale.
Da questo punto di vista il frame potrebbe intendersi come una serie di norme di traduzione generale che permettono il passaggio da un codice all’altro, come una sorta di spazio trasparente.
Non si parla di spazio solo metaforicamente, perché è proprio la distanza spaziale tra attore e spettatore in cui tale possibilità di trascrizione a partire da una supposta mimesi si inscrive e da cui forse sembrano generarsi tali connotazioni del frame.
Da questo punto di vista tutte le performance in cui lo spettatore è più o meno coinvolto nell’azione teatrale non rientrerebbero nella definizione di teatro che una tale concezione del frame sottende.
Una tale connotazione del frame teatrale è dunque inadeguata. Non ha alcuna funzionalità interpretativa, forse gli si può tutt’al più assegnare una valenza normativa, non solo per quegli spettacoli in cui la distanza e la differenza di ruoli tra attori e spettatori viene programmaticamente infranta ma che in realtà non dia ragione del carattere metasegnico della organizzazione spaziale che ci sembra essere un aspetto fondamentale del teatro contemporaneo.
Sulla base di una tale impostazione lo spazio inteso come relazione prossemica dei segni viene a perdere ogni valenza significante per essere ridotto ad una semplice distanza in cui far circolare la comunicazione senza influenzarla, se non in quanto contenitore.
Sembra che il lavoro sullo spazio nel teatro contemporaneo abbia una valenza di organizzazione dei segni e che sia tutt’altro che un medium diafano in cui i segni stessi non facciano altro che ‘passare’. La valenza dello spazio teatrale è piuttosto quella di dare le coordinate di un mondo sì fictional rispetto al mondo reale, ma che tale finzione non vada interpretata su basi mimetiche o allusive quanto nella sua valenza costruttiva o decostruttiva.
Il tema ci sembra correlato all’impossibilità di utilizzare la categoria di dramatis persona per molti dei ‘personaggi’ messi in scena nel teatro di ricerca contemporaneo.
E’ come se ci fosse un triplice sistema di distanze ‘vuote’ e gerarchicamente ordinate che condizionano l’approccio semiologico e che si implicano vicendevolmente:

1) la distanza tra testo drammatico e testo spettacolare come semplice possibilità di passare dal primo al secondo con l’unico inconveniente della purezza del primo rispetto alla opacità del secondo;

2) la distanza attore spettatore riempita dall’ineffabile potere mimetico dell’attore e dalla capacità interpretativa dello spettatore;

3) la distanza attore personaggio che è riempita dalla rincorsa infinita del primo verso il secondo e che è direttamente simmetrica alla prima distanza.

La dramatis persona sembra essere il corrispettivo psicologico del contenuto del testo drammatico. L’interpretazione dell’attore dovrebbe sostanziare di gesti suoni, voci, colmando la distanza tra sé stesso e il personaggio da interpretare.
Così come avviene per il testo drammatico e per il frame anche per la dramatis persona si può notare un fenomeno di decomposizione che ne inficia l’efficacia all’interno dell’analisi semiotica.
Con Carmelo Bene, per esempio, la recitazione non può più essere considerata un’attività mimetica. La dicotomia attore-personaggio si appiattisce in un ibrido che non è né l’uno né l’altro, l’assenza stessa di fabula, il suo essere sopravanzata dall’intreccio, il farsi fabula dell’intreccio, il prevalere dell’idioletto sul codice-lingua, sono tutti fenomeni che si muovono lungo la direttrice di una disintegrazione di una psicologia a cui il personaggio possa essere ricondotto, per far esplodere piuttosto energie pre-psichiche, parzialità idiosincratiche che lo spettatore è portato a percepire come eventi in sé non a ricondurli ad una storia di un personaggio.


III. Segni teatrali

Eppure come è strano un viso
sistema muro bianco-buconero.
gran viso dalle guance bianche
viso di gesso forato dagli occhi
come buco nero. Testa di clown,
clown bianco, pierrot lunare,
angelo della morte, santo sudario.
Il viso non è un involucro esterno a colui
che parla, che pensa o che sente.
La forma del significante nel linguaggio,
le sue stesse unità resterebbero
indeterminate se l’eventuale ascoltatore
non orientasse le sue scelte
in funzione del viso di chi parla.
Gilles Deleuze, Come farsi un corpo senza organi?


La scuola di Praga ha il merito di avere impostato il problema della semiosi teatrale cercando di indicare lo specifico semiotico del teatro. Il modello ‘praghese’ tuttavia sembra funzionare per il dramma mimetico ma non per eventi teatrali che si muovono in direzione opposta.
Lo Strutturalismo praghese eredita da Saussure l’intento sistematico di analizzare i meccanismi comunicativi sulla base di una teoria generale dei segni, e la teoria del segno come di un’entità a due facce in cui un veicolo significante si salda a un contenuto significato (F. Saussure, Corso di linguistica generale, Roma-Bari, Laterza, 1970). La prospettiva di lavoro che si pose fu quindi l’identificazione del segno teatrale.
L’applicazione al teatro dei principi saussuriani da parte di Mukarovsky (J. Mukarovsky, L’arte come fatto semiologico, in Il significato dell’estetica, Torino, Einaudi, 1973, pp. 141-148) consistette nell’identificare nell’opera d’arte l’unità semiotica. Il significante viene identificato nell’insieme degli elementi materiali che intervengono nella messa in scena, il significato nell’oggetto estetico fruito dal pubblico.
Il testo spettacolare è quindi quell’unità in cui le varie componenti si fondano in una sorta di macrosegno.
Il passo successivo è quello di studiare il funzionamento dei segni teatrali.
La funzione più generica della semiosi teatrale è individuata da Bogatyrev (P. Bogatyrev, Les signes du théâtre, in “Poetique”, 8, 1971, p. 515) nella semiotizzazione teatrale:

Sulla scena gli oggetti che hanno il ruolo di segni teatrali (…) acquistano delle qualità e degli attributi particolari che non hanno nella vita reale.

Gli esponenti della scuola di Praga sottolineano il fatto che la semiotizzazione teatrale permette di rinviare l’oggetto teatrale alla classe di cui fa parte, prima che all’oggetto come componente del mondo drammatico. Ciò può avvenire sia per un oggetto che abbia affinità evidenti, ad esempio una semplice sedia in scena, sia per un oggetto che abbia una relazione simbolica o di altro genere con la classe di oggetti cui fa riferimento.
La denotazione teatrale agisce quindi con significanti che rinviano attraverso la mediazione della classe di cui fanno parte al loro significato nel mondo drammatico.
Così impostata la denotazione dà ragione del funzionamento mimetico dei significanti.
La connotazione agisce invece rinviando il segno teatrale all’universo di senso cui fa riferimento all’interno del sistema culturale. Ad esempio una spada rinvia al vigore guerriero o a valori cavallereschi ecc.
Denotazione e connotazione sono quindi entrambe presenti nella semiosi teatrale e la loro dialettica è fondamentale nell’evento teatrale. Il segno teatrale deve poi essere pensato come polisemico, nel senso che un segno può rinviare a svariati aspetti semantici, una scenografia può rinviare ad esempi ad una tipologia architettonica, ma anche a un particolare ambiente socio-familiare o ad una condizione esistenziale. Altra caratteristica fondamentale individuata dagli studiosi della scuola di Praga è la ‘mobilità del segno teatrale’ ossia alla capacità di esso di rinviare potenzialmente a qualsiasi significato.
Per quanto riguarda la classificazione delle tipologie di segni teatrali quella del semiologo polacco Tadeusz Kowzan (T. Kowzan, Le signe au théâtre, in “Diogène”, 61, pp. 59-90) stabilisce una dicotomia tra segni naturali e segni artificiali. Nei primi il legame tra significante e significato dà un rapporto di causa-effetto ( ad esempio una ingessatura presuppone una gamba rotta), nei secondi il legame di pende dall’intervento umano. Kowzan sottolinea il fatto che i segni teatrali sono resi artificiali in più larga misura rispetto a quelli della vita reale in quella che egli chiama ‘artificializzazione del segno’.
Altre classificazioni dei segni teatrali sono state operate da numerosi autori mediante l’applicazione della categorie peirciane di icona, indice e simbolo (per questo tema vedi K. Elam, Semiotica del teatro, Bologna, Il Mulino 1988, pp. 28-30).
I principi classificatori illustrati non tengono conto del carattere unitario della messa in scena, aspetto comunque messo in luce dalla scuola di Praga. Sembra che la classificazione proceda nei riguardi del segno teatrale come se si trattasse di eccezioni rispetto al segno ‘normale’ più che tentarne di individuarne le caratteristiche specifiche.
Oltre a ciò le considerazioni sul segno teatrale devono essere comprese all’interno della performance, appunto nel loro essere un sistema integrato come sottolinea Elam :

Non si può, comunque andare molto lontano nell’esaminare la significazione teatrale, se non si procede al di là del concetto di segno verso una considerazione del “messaggio” o “testo” teatrale o dei sistemi di segni, o codici che producono la performance. (Ibidem p. 37)


Semantica teatrale: un’ipotesi
dall’opacità letteraria all’iridescenza teatrale


Si definisce iridescenza una caratteristica ottica di certi materiali che sotto diversa incidenza della luce, presentano riflessi cangianti. L’iridescenza interna è in genere causata da piccole fratture o piani di sfaldatura; quella superficiale è dovuta alla presenza di un sottilissimo strato di composizione diversa dal restante minerale.
Il senso di uno spettacolo teatrale sembrerebbe essere iridescente sia nel momento della produzione (iridescenza interna) che in quello della fruizione (iridescenza esterna). L’iridescenza interna è data proprio perché le singole componenti; ossia i segni, si fondono su piani di sfaldatura-saldatura che sono gli scarti tra i vari media utilizzati.
Ciò dà luogo a un composto chimico instabile (radioattivo) che produce appunto il materiale diverso che appare nella fruizione, ma che è già nel momento della produzione, almeno in alcuni casi, essenzialmente composito.
Nella prefazione all’edizione Mondadori della Vita di Rancé Roland Barthes analizza un passo dell’opera da cui trae considerazioni generali sulla parola letteraria:

L’abate Rancé aveva un gatto giallo. Forse questo gatto giallo è tutta la letteratura; perché se la notazione rinvia senza dubbio all’idea che un gatto giallo è un gatto disgraziato, randagio, dunque trovato e ricongiunto così ad altri particolari della vita dell’abate, attestanti tutti la sua bontà e povertà, quel giallo è anche semplicemente giallo, non porta solamente un senso sublime, intellettuale, rimane, testardo, al livello dei colori (…) dire un gatto giallo e non un gatto randagio, è in un certo modo l’atto che separa lo scrittore dallo scrivente, non perché il giallo “fa immagine”, ma perché compie un incantesimo sul senso intenzionale, rivolge le parole verso un al di qua del senso; il gatto giallo dice la bontà dell’abate Seguin, ma anche dice meno, ed è qui che compare lo scandalo della parola letteraria. Essa è in qualche modo dotata di una duplice lunghezza d’onda; la più lunga è quella del senso (l’abate Seguin è un sant’uomo, vive poveramente in compagnia di un gatto randagio); la più corta non trasmette alcuna informazione, se non la letteratura stessa: è la più misteriosa, infatti , per causa sua, non possiamo ridurre la letteratura a un sistema interamente decifrabile: la letteratura, la critica non sono pure ermeneutiche.

Se la parola letteraria è di per sé opaca e il suo codice semantico essenziale va ricercato in tale opacità o in tali onde corte prive di informazione, la parola teatrale è essenzialmente de-formata e resa iridescente dal suo interagire con gli altri elementi significativi all’interno di uno spettacolo. Se in letteratura la critica non è una pura ermeneutica, per quanto riguarda il teatro, l’analisi semiologica non consiste nell’analisi dei singoli elementi in gioco pensando che il risultato complessivo sia il risultato di una sommatoria. E’ come se ogni interazione corrispondesse ad un maggior grado di opacità semantica sulla lunghezza d’onda del senso e di maggiore iridescenza sulla lunghezza d’onda teatrale.
Da questo punto di vista è forse un’azione non teatrale la riduzione di un testo letterario, specie quando tale riduzione, al di là degli esiti estetici, va verso una chiarificazione del testo di partenza.
La ricerca teatrale va verso il teatro quando appunto cerca l’iridescenza data dallo scontrasi delle proprie componenti segniche. Il senso sarà forse opaco, forse non ci sarà un senso criticabile o da potere sottoporre ad una ermeneutica. Se la letteratura può essere il gatto giallo dell’abate Seguin il teatro può essere il gatto di Alice nel paese delle meraviglie, un sorriso senza gatto o un gatto senza sorriso che con la sua possibilità di slittare lungo i piani di una realtà diverse frantumate, ibride e virtuali sembra continuamente cambiare colore.
L’ottica di uno spettacolo teatrale sembra più vicina alla teoria dei colori di Goethe che a quella di Newton, i colori (il senso) si formano sulla saldatura dei piani dei diversi mezzi espressivi usati e non dalla divisione prismatica della luce bianca nelle sue componenti.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Incontro con Andrea Brogi X-Lab
di Anna Maria Monteverdi

 

Andrea Brogi, architetto, interactive environments designer, fondatore di X-lab e attualmente docente al Politecnico di Milano, è un esperto di computer graphics, di computer animation, di realtà virtuale e di sistemi di Motion Capture applicati anche all’arte performativa; negli anni Novanta in epoca di VRLM ha applicato questi strumenti al campo dell'architettura e dei Beni Culturali.

“Ho sempre lavorato su PC, per cui la mia sperimentazione è andata avanti di pari passo con l'evoluzione dei software disponibili per questa piattaforma; arrivare a lavorare sull'animazione di personaggi digitali è stato un passaggio naturale”.

Nel 1999 ha vinto insieme a Fabrizio Bondi il 1° International Championship of 3D Animation creando una animazione di 30" che aveva come protagonista il "Dancing Baby" in una gara 24 ore non stop fra dieci gruppi selezionati in tutto il mondo che si è svolta a Montecarlo durante il festival di Imagina.

“Oggi mi occupo di animazione di personaggi digitali con sistemi di motion capture ed in particolare sto sperimentando il loro utilizzo in real-time per performance interattive. Per la realtà virtuale attualmente però, il campo applicativo maggiormente aperto alla sperimentazione è quello dei beni culturali”.

Brogi ha lavorato al progetto di ricostruzione virtuale con modello 3D del Camposanto monumentale da lui ideato e realizzato insieme alla scuola Sant’Anna di Pisa - che ha anche scritto il software per la grafica 3D - in collaborazione con l’Opera del Duomo e la Soprintendenza. Un progetto di ricostruzione dell’edificio e di riposizionamento degli affreschi staccati in epoca di guerra, nato nel 1996 come strumento di supporto per il lavoro di restauro



“Si tratta di un progetto ad uso dei restauratori specificamente studiato per loro. Il sistema è di fatto un data base dove ci sono più di un migliaio di schede che riguardano le informazioni di ogni singolo oggetto, un data base delle opere che hanno trovato posto all’interno del Camposanto capace di gestire la rappresentazione tridimensionale di tutti gli oggetti in esso contenuti. Il modello 3D funziona come interfaccia per entrare all’interno del data base e navigare in tempo reale e trovare i materiali oppure puoi fare il contrario, cercare un oggetto e il sistema lo localizza spazialmente”.

E’ inoltre on line il sito con la possibilità di una visita virtuale 3D alla Piazza dei Miracoli (realizzato con Percro e Cribecu della Normale Superiore diretto da Massimo Bergamasco, che hanno anche dato vita anche al Museo Virtuale delle Pure Forme), con particolari sull’evoluzione della Piazza dalle origini a oggi e con una possibilità di visione da svariati punti di vista. Si possono visitare le trasformazioni temporali, le risistemazioni della Piazza in epoca ottocentesca e contestualizzare il luogo sulla planimetria di Pisa

“E’ un viaggio nel tempo: si sceglie il periodo storico e il sistema in automatico ti fa vedere la collocazione delle architetture e sculture. La navigazione porta attraverso i link al sito 2d con varie informazioni a livelli differenziati, per il turista, lo studioso e lo storico. Il modello 3 D è l’interfaccia per il data base 2D. La navigazione sembra condurci dentro un video vettoriale: ho infatti impostato il movimento di macchina da presa, sincronizzato il suono e la voce ma non è affatto un video fatto di singoli fotogrammi. E’ una navigazione guidata all’interno del modello con parti che si evidenziano man mano che si evincono dalla voce. E’ un enorme data-base, ma è stato studiato per essere intuitivo, cercando di dare le chiavi di lettura anche per persone meno abili. Il vantaggio tecnologico è che tutto questo sta dentro 8 Megabyte: hai quindi tutto questo in uno spazio ridotto e una navigazione veloce”.

Un nuovo progetto con finanziamenti europei realizzato con il Cnr con il gruppo di Roberto Scopigno ha previsto la sperimentazione sull’uso dello scanner 3D per i Beni culturali.

“Il progetto di scannerizzazione di statue legate all’Opera del Duomo era diretto dalla dottoressa Baracchini, che ha scelto le statue del sepolcro di Arrigo VII a cui fu fatto un mausoleo nel Duomo di Pisa all’interno dell’abside e nel tempo molti storici avevano fatto ipotesi sulla sistemazione originaria. La Soprintendenza ha scelto questo case-study. La tecnologia usata è proprietaria e sviluppata durante un progetto europeo denominato Vihap 3D. Uno scanner 3D è un raggio laser che viene ripreso da una telecamera. Si tratta di avere una mappatura della superficie dell’oggetto ottenuta dalle varie scansioni realizzate da differenti punti di vista (range maps) e poi montare le range map tutte insieme. Il Cnr ha sviluppato un programma per automatizzare questo procedimento”.

Andrea Brogi collabora inoltre a numerose produzioni per la televisione come animatore di personaggi virtuali usando tecniche miste di Motion Capture-Keyframe, con uno stile personale per le animazioni stile cartoon; tra i personaggi animati, il signor Bonaventura, cofinanziato con un progetto di avviamento RAI, Rolando Peperony, premiato a Castelli Animati come miglior produzione italiana del 2003 e i due personaggi dei cartelli stradali del video dei Tiromancino Per me è importante.
Attualmente Andrea Brogi sperimenta sistemi di Motion Capture (MoCa) per ambiti teatrali e performativi in collaborazione con l’Accademia di Arte drammatica di Roma. Ma quando è nata la MoCa?


“La Vicon, società che costruisce e distribuisce uno dei più usati sistemi di MoCap ottico, è stata fondata nella metà degli anni Ottanta e solo oggi è in grado di fornire sistemi real-time. Fino a ora le macchine non erano abbastanza potenti e quindi dopo aver effettuato delle riprese di MoCap ci volevano diverse ore, se non giorni, per analizzare i filmati, estrarre la posizione dei marker e riportare il movimento su di un personaggio digitale”.



Brogi è tra gli artefici di Mutatas Dicere Formas, spettacolo con uso di tecnologia interattiva realizzato con l’Accademia di Arte Drammatica di Roma e con la partecipazione di Simona Generali, Pierpaolo Magnani che è stato allestito a Roma al Museo Zoologico l’11 febbraio.

“L’idea nasce all’interno dell’Accademia d’Arte Drammatica, da Gabriele Ciaccia del Teatro dei Colori, con cui avevamo già lavorato, dagli allievi, ed è stato possibile grazie al coinvolgimento entusiastico del direttore dell’Accademia, Luigi Maria Musati. Lo spettacolo cerca di sperimentare le possibilità espressive di interazione fra l'attore e la sua immagine elettronica, animata dall'attore stesso con sistemi di MoCa direttamente in scena. Abbiamo presentato a Polverigi, al Festival Internazionale Inteatro, una prima performance di circa 20 minuti mettendo in scena un frammento tratto dalle Metamorfosi di Ovidio. L’anno dopo abbiamo fatto un laboratorio estivo all’interno dei Seminari Internazionali sull’Attore a San Minato lavorando su un testo di T. Eliot. Lo scorso anno l’Atam (il circuito del teatro dell’Abruzzo) che programma spettacoli nei siti archeologici ci ha contattato e Gabriele Ciaccia ha così pensato a un testo classico, a un autore come Ovidio; insieme con Musati aveva fatto una rielaborazione delle Metamorfosi con un’idea di realizzare alcuni frammenti con le nostre tecnologie. Poi l’unico progetto sono diventati due e con Gabriele abbiamo fatto un nuovo spettacolo indipendente prodotto dall’Accademia in tour in Abruzzo con dieci date. Su quest’idea dei siti archeologici abbiamo preso il testo. In scena tre attori, Simona Generali e due ragazzi appena usciti dall’Accademia, Alessio De Caprio e Edmarzia De Andrade. Simona ormai esperta, indossava la tuta (esoscheletro) e i due giovani attori i guanti a fibra ottica. Abbiamo creato cinque frammenti: La Cosmogonia; il Diluvio; La nascita della nuova Umanità; Dafne; Fetonte. Gli attori hanno lavorato sul testo, e sulle posizioni con Gabriele Ciaccia. L’idea era di realizzare una scenografia digitale animata dal movimento. Uno schermo a forma di elissi di 4 metri per 3 veniva usato per proiettare le immagini in questi siti archeologici, ma era nostra intenzione di usare anche una proiezione dall’alto verso terra per dare agli attori una maggior consapevolezza del risultato dei loro movimenti. Dovrebbero infatti avere una vista “periferica” per controllare i movimenti, le posizioni, la loro trasformazione in immagine e comunque la scena nel suo complesso. Durante le prove vedevano tutto grazie a un monitor, ma in scena con le luci e le immagini non c’era per loro questa possibilità di feedback. Per loro vedere successivamente il video di documentazione era strano, in sostanza vedevano per la prima volta la scena.”

Vi siete imposti una regola nella creazione delle immagini?

In generale abbiamo cercato il più possibile di non essere didascalici, di lavorare su un senso non letterale ma più astratto. Con i gesti e con le immagini. In alcuni momenti questa letteralità però esce.

 


La scenografia è solo live?

C’è anche un serie di video registrato di Pierpaolo Magnani. E vari materiali realizzati in Computer grafica.

Come avete studiato lo spazio in base al rapporto con lo spettatore?

Inizialmente si pensava di collocare il palco per terra e si cercava un legame diretto, una vicinanza tra spettatore, spettacolo e immagine catturata; cercavamo di collegarci alla visione dello spettatore, ma una volta arrivati sui siti abbiamo trovato dei palchi e questo ci ha complicato un po’ le cose! Nel teatro romano di Sepino e a Sulmona invece abbiamo montato per terra. Dipendeva dalle situazioni

Quando sono state create le immagini?

Le immagini sono arrivate dopo che gli attori hanno lavorato sul testo. Loro hanno fatto un lavoro di memoria, un lavoro sulla voce; sono venuti a Cascina a fare delle prove, poi lo spettacolo vero e proprio l’abbiamo fatto ad Avezzano; siamo stati al Teatro dei colori e con la scenografia montata e con le attrezzature abbiamo fatto le prove di animazione delle scenografie.

Quale episodio-mito preferisci o reputi che sia stato tecnicamente realizzato meglio?

La scena di Dafne, che in apparenza è la più semplice. Inizialmente quando Simona racconta di Dafne ci sono suoni e poi dei video con le immagini della foresta che si muove alle sue spalle. L’inseguimento di Giove a Dafne è stato realizzato con una telecamera a infrarossi che Dafne-Simona ha in mano e cerca di inquadrare qualcosa. In questo episodio ci sono scene in bianco e nero e varie fonti di immagini: abbiamo un mixer video con 4 entrate che gestiamo in diretta: telecamere a infrarossi, una microcamera, video preregistrati e video 3 D. Lei ha la telecamera e tu vedi solo quello che vede la telecamera che essendo all’infrarossi riprende al buio. E’ una scena che ricorda The Blair Witch Project. La telecamera le scansiona il viso e sopra di lei sullo schermo compaiono le sue trasformazioni in pianta. Abbiamo combinato insieme grafica 3 D con sfondi di quadri astratti, Kandinsky o Pollock e insieme diventavano sagome bidimensionali. I movimenti della mano di lei diventano pian piano rami.

Come pensate di proseguire il progetto?

Stiamo già implementando nella storia la possibilità di creare dei suoni direttamente con il movimento del corpo, così come cerchiamo di installare una minicamera sull'attore per creare visuali inedite in soggettiva ancora una volta comandate dall'attore stesso che allo stesso tempo però anima anche la grafica 3D computerizzata, una sincronia dello spazio reale e virtuale generata dal punto di vista dell’attore.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Opere d'arte totali
Una intervista a Paolo Consorti
di Oliviero Ponte di Pino

 

E' aperta fino al 26 febbraio, alla Galerie sphn di Berlino la mostra Inferno di Paolo Consorti. Attualmente l'artista - la cui opera può certamente interessare chi si occupa di teatro - è al lavoro su una personale a Milano (di cui ateatro darà certamente notizia).
Paolo Consorti è nato nel 1964 a San Benedetto del Tronto. Le sue opere possono ricordare sia le visionarie allucinazioni di Hyeronimus Bosch sia gli esasperati travestitismi di Matthew Barney. Ma a caratterizzrali è anche quella che nei suoi Saggi critici Roland Barthes definiva "teatrlità", ovvero "il teatro senza il testo".
 
Per vedere le immagini ingrandite, clicca qui.




Paolo Consorti, Eden, 2004.

I suoi lavori ricordano spesso una scena teatrale: nella costruzione dello spazio, con fondali che hanno spesso un grande impatto scenografico, nella disposizione delle figure in questo spazio, nell’identificazione di veri e propri personaggi, con costumi fortemente caratterizzati, che portano a volte a ipotizzare una dialettica personaggio-coro; nel suggerire una dinamica dell’azione che queste figure-attori paiono svolgere. Questa «teatralità» del suo lavoro, questo sapere registico, è consapevolmente ricercata o è – per così dire – il sottoprodotto di un percorso artistico che ha un’altra genesi?

Nel mio lavoro tutti gli elementi sono forzati, tesi fino alle loro estremità, ma posti su una piattaforma che si contiene in un equilibrio. Questo equilibrio per me è spettacolo, seduzione, coinvolgimento… e deve essere vibrante, denso.
Non credo che la pittura, la fotografia, la body art, o il teatro, esistano per sé stessi; tutte le discipline hanno i loro linguaggi, ma questi vengono contraddetti e smentiti, ignorati, o al contrario ripresi e contaminati dalle successive sperimentazioni.
Non ritengo nessun linguaggio assoluto, ed è per questo che nella mia arte mi muovo per il risultato e non per rendere assoluti i mezzi.
Allora dipingo senza voler essere pittore, e così fotografo, scolpisco, realizzo fondali, creo e muovo i personaggi, racconto una storia… ma non sono fotografo, scultore, scenografo, regista, scrittore; sono un artista che per realizzare ciò che ha immaginato ha bisogno di tutto. Dunque non cerco in modo programmatico connessioni specifiche con il teatro, ma mi interessano molto nella misura in cui lavorare sui personaggi, creare scene, muovere masse o isolare singoli, sono operazioni che mi consentono di comunicare in modo più forte.
Per quanto riguarda il mio background credo che una certa vicinanza con il teatro mi derivi da un rapporto indiretto, e per me molto forte, che è quello con la storia dell’arte, italiana in modo particolare, a conferma che le discipline si sovrappongono ed hanno punti di tangenza. Pensiamo alla pittura barocca, all’articolata costruzione della scena, al modo di collocare I personaggi e farli interagire. Cito Bernini, per la sua capacità di far fluire pittura, scultura e architettura in un’unica visione e Caravaggio, per la sua capacità di dare forza al gesto e di essenzializzare la scena. E’ questa la cultura che mi porto dietro e da cui sono partito, di cui conservo alcuni elementi mantenendo comunque un atteggiamento rispetto ad essa che non vuole essere in alcun modo citazionista.
Quello che mi interessa sono i sentimenti delle persone, le loro attitudini e i comportamenti.
E’ molto interessante la sua osservazione della dialettica personaggio-coro che emerge in alcune scene. Le masse nel mio lavoro sono un modo per sottolineare un’identità collettiva, un riconoscersi in un agire, in una scelta, o in una debolezza. Quando invece emerge un personaggio singolo questo è o un modo per sottolineare maggiormente una tensione in cui riconoscersi, o al contrario, una presenza a sé, un soggetto che osserva, quasi fosse una coscienza autonoma. La funzione di questi personaggi è quella di osservare, sono come uno sguardo interno alla scena che probabilmente rafforza il senso di spettacolo e teatralità.



Paolo Consorti, I traditori, 2004.

Qual è il suo rapporto con il teatro? Ha avuto un ruolo nella sua formazione? Lo frequenta abitualmente?

Mi affascina molto il teatro e confesso di sentire spesso il bisogno di scoprirlo meglio. Nella mia formazione è stato un incontro mediato dal linguaggio della pittura, dalla lettura di alcuni testi e da una passione per l’opera che in un certo periodo mi ha coinvolto molto. Penso a Richard Wagner, al teatro di Bayreuth, e a quella sua idea di opera d’arte totale, che mi ha molto affascinato e che ha dato tanto anche alla cultura del Novecento.



Paolo Consorti, Mediterraneo, 2003.

Come lavora alla produzione di un’opera? Utilizza modelli dal vivo? Ricostruisce nella realtà lo spazio scenico-pittorico?

Ci sono varie fasi di costruzione prima di arrivare all’immagine finale. Dopo aver messo a punto un progetto coinvolgo dei modelli, che possono essere amici e professionisti, vengono truccati e abbigliati secondo il loro ruolo, c’è una fase di preparazione in cui discuto con loro per arrivare a centrare l’azione. I personaggi sono fotografati singolarmente o in gruppo.
Un’altra operazione è quella di costruire gli spazi. Lo faccio attraverso piccole sculture e fondali dipinti che fotografo e trasporto su supporto digitale.
Poi l’elaborazione elettronica e il trasferimento su tela, dove intervengo anche manualmente.



Paolo Consorti, Purification, 2003.

Nel suo lavoro utilizza tecnologie elettroniche?

L’elaborazione elettronica e la stampa digitale sono passaggi importanti nel mio lavoro. Sono tecnologie di cui mi avvalgo da pittore; infatti non ho mai deciso di abbandonare la tela ma ho scelto di operare su di essa fondendo tecnologia e manualità in un risultato diverso dalla pittura pura e dalla fotografia.
Per me è un modo nuovo di fare pittura, lavorare solo con il pennello sarebbe anacronistico rispetto a quello che intendo realizzare e rispetto alle procedure che impiego.



Paolo Consorti, The truth, 2004.

Ha mai lavorato come scenografo?

Ho avuto una breve esperienza come scenografo per il cinema subito dopo gli anni dell’Accademia. Non erano produzioni importanti ma è stata un’esperienza che mi ha avviato verso realizzazioni concrete. L’incontro più entusiasmante è stato comunque quello con Sergej Bondarciuck, nato da una cooperazione italo-russa per un progetto, mai realizzato, sulla Divina Commedia.
Anche se quel lavoro, per la sua complessità, si è poi fermato, tutto quello che ho disegnato e progettato è rientrato in modo molto evidente nel mio percorso successivo, sia per quanto riguarda la concezione degli spazi, che per quel misto tra realismo trecentesco e immaginazione surreale che Dante ha saputo miscelare in modo straordinario.
La Divina Commedia è stata per me una grande passione e continua a esserlo ancora oggi; trovo attuale il mondo dei gironi, mi ricorda in qualche modo l’umanità libera e imprigionata di internet che per me è una fonte inesauribile di ispirazione.



Paolo Consorti, Trittico, 2005.

Le personali di Paolo Consorti

2004
Paolo Consorti, Gas Art Gallery, Turin

2003 Il Ponte Contemporanea, Rome

2002
Marella Arte Contemporanea, Milan

2001
Cartiere Vannucci, Milan
Galleria Nuova Artesegno, Udine

2000
Studio Ercolani, Bologna
Il Ponte Contemporanea, Rome

1999
Galleria Romberg, Latina
MAC Gallery, Minneapolis, USA

1998
Galleria L'Ariete, Bologna
Landrostei Pinneberg, Hamburg
Kunstverein Friedrichstadt, Berlin
Altermatt Gallery, Springfield, USA

1997
Space J.F.K., New York

1996
Southwest University, Marshall, USA

1995
Museo Laboratorio d'Arte Contemporanea, Università La Sapienza, Rome

1993
Università Cattolica, Milan
Dai Ichi Gallery, Tokyo

1992
Palazzo Ducale, Urbino

Si ringraziano Galleria Marconi e Gloria Gradassi.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Una storia infinita, una storia mandalica
Storie mandaliche 3.0di ZoneGemma
di Anna Maria Monteverdi

 

ZoneGemma in residenza alla Città del Teatro di Cascina.
ZoneGemma, gruppo tecnoteatrale fondato dal videomaker e tecnoperformer Giacomo Verde, dal drammaturgo e studioso di teatro e media Andrea Balzola e dal compositore Mauro Lupone ha da quest'anno la residenza produttiva alla Città del Teatro di Cascina (Pi). ZoneGemma è anche il nome dell'Associazione nata nel 1998 a Lucca per promuovere (gemmare...) un'idea di teatro basata sulle interferenze, sulle germinazioni tecnoartistiche e per creare un primo dibattito italiano sul tecnoteatro attraverso la fondazione di un sito madre, una mailing list dedicata e l'organizzazione di eventi e laboratori di formazione e aggiornamento. La direzione artistica di Alessandro Garzella ha lanciato al gruppo la proposta di un'ospitalità continuativa che permetta all'equipe la sperimentazione presso il Politeama, dei media digitali in scena e il confronto con altre realtà tecnoteatrali italiane e internazionali.

T&T: i laboratori di ZoneGemma
Le attività di ZoneGemma all'interno della Città del Teatro di Cascina sotto la direzione di Giacomo Verde comprendono dalla fine di febbraio alla fine di maggio 2005 una serie di incontri con alcuni protagonisti internazionali della tecno-scena e numerosi workshop pratici, in modo da raccontare e trasmettere esperienze e tecniche a chiunque sia interessato a questa forma di espressione teatrale. Il programma "Zone-Laboratorio di Tecnologi&Teatro: T&T" prevede incontri con Marce.lì Antunez Roca (tecno-performer già fondatore del celebre gruppo catalano La Fura dels Baus), Jaromil (software artist, attivista programmista direttamente da Amsterdam), Enzo Aronica (regista e direttore di N[ever]land percorsi al digitale) e Motus (presenti al Politeama con L'ospite). Inoltre ci saranno cinque work shop (nei week-end) condotti da Giacomo Verde o Mauro Lupone (con la partecipazione di Andrea Brogi-X-lab, esperto di Motion Capture) sulle diverse possibilità delle tecnologie video e audio in rapporto alla creazione performativa. Si parlerà di sistemi per V-jing, Web-cam teatro, animazione 3D, gestione e dislocazione di audio-video nello spazio con sistemi in real-time, e di come tutto questo riconfigura l'arte della scena. Questa serie di eventi è solo l'inizio di una attività di ricerca e approfondimento che ha come obiettivo quello di creare un centro stabile per la realizzazione e la documentazione di spettacoli che si avvalgono dell'uso delle tecnologie digitali sia nel campo scenografico che musicale, drammaturgico e performativo. Un centro che possa ospitare laboratori internazionali di aggiornamento sulle ultime novità tecnologiche per la scena, sulle più interessanti esperienze di regia, scrittura e messa in scena multimediale, in contatto con i principali centri di ricerca tecnologica e teatrale del mondo: un centro permanente di formazione e aggiornamento. Un centro in grado di fare da interfaccia tra la cultura digitale e la cultura teatrale. Un centro che possa progettare anche nuove "macchine" per la scena da mettere al servizio del teatro del futuro, e personale in grado di fornire consulenze specializzate.
Un centro quindi, che partendo dal teatro allarghi nel tempo la sua esperienza mettendosi al servizio delle diverse realtà produttive dell'arte e della comunicazione digitale.



Storie Mandaliche 3.0
Il primo risultato della joint venture tra ZoneGemma e Cascina è stata la recentissima produzione della nuova versione di Storie Mandaliche denominata per l'occasione 3.0 e che ha avuto la collaborazione registica di Fabrizio Cassanelli. Il rinnovamento riguarda la concezione dello spazio per l'azione teatrale (a pianta centrale con quattro schermi avvolgenti che circondano sia il pubblico sia il cybernarratore Giacomo Verde che interagisce grazie al mouse radio, con immagini in animazione) e la gestione del suono spazializzato e dunque di qualità immersiva, creato per l'occasione da Lupone con il sistema IMEASY. La novità assoluta rappresentata dall'ipertesto drammaturgico messo a punto con grande abilità (e memoria) letteraria da Balzola, la tecnica affabulatoria di Verde che recupera un'oralità antica aggiornandola ai media digitali, l'immagine in Flash Mx per permettere una navigazione futura anche in Internet, la ricercata atmosfera generale di “sinestesia” ovvero come affermava Bill Viola, “l'inclinazione naturale dei media moderni”, ma soprattutto la particolarità della “visitazione” delle sette storie che compongono la geometria-reticolo testuale percorse dal pubblico secondo un tracciato sempre diverso e che lui stesso può decidere, fanno di Storie Mandaliche 3.0 il primo e pionieristico (S.M. è nato nel 1998) esempio italiano di spettacolo interattivo, con un'interattività non di interfaccia ma di creazione complessiva e soprattutto di relazione.



Le storie che hanno un andamento "concentrico" sono: La pietra; Il corvo; Riza, principessa del Sud; Il bambino -uomo; il Cane bianco; la Mandorla; l'Ermafrodito. Nella mitologia contemporanea metropolitana di Storie Mandaliche labirinti telemativi, biotecnologie, sfide digitali a rischio della vita si uniscono a presagi funesti, peripezie dal sapore arcano e visite nell'aldilà. Poiché il mandala è costruito secondo un percorso labirintico e una logica di corrispondenze, anche le storie mandaliche si corrispondono, hanno delle inter-connessioni: si può passare da un personaggio ad un altro attraverso i link. Il narratore in base alla scelta del pubblico, può passare effettivamente da una storia a un’altra: ogni percorso è differente anche se il numero dei “possibili narrativi” pur incredibilmente grande, è finito: 5040, secondo un calcolo fatto da Antonio Caronia, uno dei primi entusiastici spettatori di Storie Mandaliche. Ma la maggiore originalità e diversità da una rappresentazione all'altra è data dalla modalità di narrazione di Verde che posto al centro di una pedana mobile circolare, si rivolge direttamente all'assise (assemblea bambina o adulta) guardandola da vicino, chiedendo conferme alle sue strane storie fatte di immagini e suoni in divenire, raccogliendo commenti, sussurrando a qualcuno e attendendosi risposte, sfidandoli talvolta in una vera e propria gara di memoria! Al pubblico non è dato di sapere lo svolgimento di tutte le storie ma solo di quelle che il narratore svela in quel momento; un bivio ipertestuale sacrifica infatti, per forza di cose qualche racconto. La frustrazione di non aver conosciuto tutte le trame si trasforma però in un desiderio di tornare a teatro, sperando che un nuovo lancio di dado all'inizio dello spettacolo per scegliere l'ingresso alle storie, ci permetta un diverso sguardo, un nuovo percorso!



Dal punto di vista grafico le immagini sono state create da Lucia Paolini insieme con gli studenti dell'Accademia di Belle Arti di Carrara. Solo nel 2002 inizia una lunga operazione di “restyling” grafico e sonoro con una sostituzione del Mandala System con un nuovo software multimediale. Viene scelto il programma di animazione Flash in modo che i fondali interattivi utilizzati dal cybernarratore, moderno rapsodo, possano essere navigabili anche in Internet sostituendo tutte le immagini e le icone per arricchire la qualità visiva delle storie e creare nuove animazioni coerenti con gli intrecci narrativi. Lucia Paolini organizza armonicamente e tecnicamente il restyling in Flash Mx esaltando e differenze stilistiche di ogni storia: liberty per il mandorlo, cabalistico pe ril corvo, etnico per la principessa nera, da videogames pe ril bambino-uomo e da grafica tridimensionale per il cane bianco. La scelta di Flash Mx per l'elaborazione del tratto e per l'animazione, conferisce uno stile inconfondibile alle storie; la rasterizzazione in particolare dà alle immagini una linea morbida e smussata, associata in alcun casi al morphing e al 3D. Ogni storia ha una sua caratterizzazione-personalizzazione grafica, ma l'effetto complessivo risultante è quello di una ricercata astrattezza del segno-icona del personaggio. I limiti tecnici del programma erano legati all'ambito sonoro, non essendo Flash un editor audio. Il compositore elettronico Mauro Lupone ha denotato allora in maniera significativa e sofisticata il tappeto sonoro di Storie Mandaliche lavorando sulle spettro morfologie: non c'è una colonna sonora ma casomai uno “stato sonoro” dei personaggi che permette di creare un giusto ritmo e una corrispondenza significativa tra parola, immagine e suono.
L'avventura di Storie Mandaliche porta il cybercontastorie Verde (memore della sua esperienza da cantastorie di strada all'epoca del Teatro Instabile e Contento) dal 1998 ad oggi in situazioni teatrali ed extrateatrali assai diverse: dal Piccolo Regio di Torino all'appartamento di una parente dello studioso orientalista Tucci; dal Festival milanese Invideo alle Case del Popolo toscane.



Durante questo work in progress per definizione che è stato Storie Mandaliche che comprendeva un lavoro ininterrotto non solo sulle immagini e sul suono ma anche sul testo nella sua versione non letteraria ma teatrale, continuamente ritoccato per le esigenze di scena, il gruppo propone il progetto-spettacolo in forma di conferenza-dimostrativa e di lezioni di tecnoteatro, suscitando una grande attenzione da parte della critica nazionale e internazionale intorno all'aspetto tecnoestetico messo in campo dallo spettacolo; ne parla Emanuele Quinz nel volume Digital Performance (Anomos), Antonio Pizzo in Teatro digitale (Marsilio), Carlo Infante in Imparare giocando (Bollati Boringhieri), Sandra Lischi in Visioni elettroniche (Biblioteca di Bianco e Nero) e lo stesso Balzola nel volume Le arti multimediali digitali (Garzanti); la residenza ad Armunia Festival degli Etruschi di Castiglioncello (Livorno) diretto da Massimo Paganelli permette al gruppo di arrivare a definire la versione 2.0 che avrà la prima nel 2003 al Fabbrichino di Prato, e il lavoro si concentra in tre direzioni: riadattare le immagini alla narrazione, inserire il suono, aggiungere i link. La versione 3.0 inaugurata nel febbraio 2005 al Teatro Rossini di Pontasserchio (Pisa) accoglie la sfida del dialogo reale con il pubblico, potendo il narratore muoversi liberamente e circolarmente intorno a esso. La pedana centrale mobile viene spostata dal narratore seguendo il punto cardinale corrispondente alla storia prescelta. Un modo per suggerire l'orientamento mandalico della storia in corso e per dare anche una dimensione di vertigine centripeta. Ogni storia ha una sua caratterizzazione narrativa ma mescola con grande forza temi mitologici, raccoglie reminiscenze letterarie e attualità: il cane bianco frutto di un esperimento di biogenetica è prigioniero della multinazionale che lo ha clonato. La fuga del cane (in molte tradizioni psicopompo, guida dell'uomo nella notte della morte) dal laboratorio e dalla fattoria di animali anormali perché creati biogeneticamente, ricalca quella di Ulisse: si mescola alle pecore perché è bianco come loro e inganna i poco astuti scienziati! Va poi alla ricerca della sacra pietra da proteggere, la pietra che custodisce il fuoco sacro, fuoco rubato agli dei da Prometeo e su cui è rimasto seduto per lunghi anni Karl, il bambino-uomo impegnato in una sfida con i videogames: “Il tempo è un bambino che gioca a scacchi” (Eraclito).
Anche il pubblico nell'ascoltare da vicino le storie perde, come Karl, la dimensione del tempo: un'ora e mezzo e ancora non si è soddisfatti: che fine avrà fatto la Principessa, che sarà successo al corvo? “Davvero lo vuoi sapere? T'avviso, è lunga!” E allora ci si sistema più comodamente sulle panche, raccogliendoci intorno al fuoco.
La casa editrice Nistri-Lischi ha pubblicato il volume che raccoglie i materiali di lavoro di Storie Mandaliche, i dialoghi, alcuni saggi appositamente scritti dal filosofo Alfonso Iacono e dallo studioso di media Antonio Caronia, l'intero ipertesto drammaturgico e le esperienze di sette anni di vita e di trasformazioni di questo importante esempio di spettacolo-laboratorio.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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L'altra parte dello spettacolo: la posizione dello spettatore
Ancora su Storie Mandaliche
di Erica Magris

 

Il processo creativo di Storie Mandaliche si è costantemente e volontariamente nutrito del contatto con gli spettatori: lo spettacolo è stato presentato in case private, in laboratori e prove aperte al pubblico. Giacomo Verde e i suoi collaboratori ha portato le loro storie davanti a tanti pubblici differenti per età, per quantità, in luoghi e contesti altrettanto differenti, tessendo una rete di incontri e di esperienze che ha profondamente influenzato lo sviluppo della creazione.
Le ragioni alla base di questa attitudine sperimentale risiedono nella concezione e nella strutturazione di fondo dello spettacolo. Storie Mandaliche è infatti una narrazione: questa forma teatrale, come mostrano anche le strade seguite dai racconti di Marco Paolini prima di approdare al teatro, esige la presenza di un ascoltatore. La narrazione si fonda su un rapporto teatrale primigenio fra chi parla e chi ascolta, in una condivisione dell’esperienza che si attua senza la mediazione della finzione drammatica (Sul valore e sulle caratteristiche della narrazione ricordo il saggio di Walter Benjamin Il narratore, in ID., Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1962 [1955], pp. 235-260 ed il testo di Bertolt Brecht La scena di strada. Modello-base per una scena di teatro epico, in ID., Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 1962 [1957], pp. 84-95) .
Inoltre, Storie Mandaliche possiede una dimensione ludica, per la quale gli spettatori diventano “giocatori” della narrazione: sono infatti chiamati ad intervenire per tracciare insieme al narratore il percorso del racconto. L’utilizzazione della tecnologia digitale, e in particolare il riferimento all’interattività e all’ipertestualità associate all’archetipo del mandala, pongono ulteriormente in evidenza il problema della relazione fra scena e sala nell’evento teatrale.
A partire da queste osservazioni, tenteremo di riflettere sulla posizione del pubblico, prendendo in considerazione sia le strategie drammaturgiche e performative dei creatori sia le reazioni di tre tipologie differenti di pubblico: adulti in contesto privato, adulti in contesto teatrale, bambini in contesto pubblico (In particolare si farà riferimento alle presentazioni svoltesi il 6 novembre in un’abitazione privata con una decina di spettatori, il 2 dicembre 2003 al castello Pasquini di Castiglioncello in occasione delle Giornate dell’etica – Teatro Scuola Tecnologia con un pubblico composto da alcune classi di III e IV elementare, il 7 febbraio 2004 al Teatro Fabbrichino di Prato) .

L’incipit di Storie Mandaliche è costituito da una serie di interrogativi che Giacomo Verde, con fare amichevole e sorridente, rivolge agli spettatori:

possiamo cominciare? [...] prima di tutto ho bisogno di sapere che ore sono ... non è uno scherzo ... veramente ... poi capirete perché ... lei ha l'orologio? Che ore sono? [...] Allora: ... Storie Mandaliche!..... Ma che cos'è un mandala? (Le citazioni, se non indicato diversamente, sono tratte dal testo di Andrea Balzola. I corsivi sono miei).

Da subito il narratore stabilisce con il pubblico un rapporto dialogico, che gli permette anche di tastarne il temperamento. Attraverso la variazione dei pronomi personali, egli fornisce inoltre in maniera implicita, le chiavi relazionali della situazione teatrale: il “noi” indica che lo spettacolo è un evento vissuto insieme dall’attore e dagli spettatori, mentre il “voi” successivo determina una netta distinzione di ruoli all’interno dei partecipanti all’evento; il “lei” suggerisce l’importanza del singolo nell’insieme del pubblico.
La domanda che conclude la serie si differenzia dalla precedenti perché lo spettatore non è chiamato a tentare di rispondere. La risposta spetta in realtà al narratore, che inizia a esporre le caratteristiche e il significato del mandala: la spiegazione assume talvolta un tono didattico ed è estremamente ricca di contenuti informativi; le affermazioni sono sostenute da riproduzioni di immagini mandaliche appartenenti ad epoche e culture diverse, che accompagnano alla visualizzazione del mandala delle storie. Agli spettatori vengono allora presentati i personaggi e vengono forniti le indicazioni necessarie a comprendere il successivo svolgimento della narrazione.
L’introduzione, così come è stata scritta da Andrea Balzola, è dunque la fondamentale soglia di accesso all’universo dello spettacolo: in essa il narratore detta al pubblico le regole per partecipare al gioco teatrale, inducendo ad un progressivo distacco dal mondo dell’esperienza quotidiana. Come afferma Eugen Fink, “il gioco “interrompe” la continuità e concatenazione del nostro processo vitale, determinata da uno scopo vitale; esso emerge propriamente dall’altro modo di vivere, esso è in distanza” (Eugen Fink, L’oasi della gioia. Idee per una ontologia del gioco, Salerno, Rumma, 1969 [1957], p.53) e nella determinazione dell’alterità del gioco è “essenziale il momento della regola del gioco” (Ivi, p. 61) . Secondo il filosofo “il giocatore è retto e costituito da un vincolo, limitato nell’arbitrario variare di azioni a piacimento, non è sconfinatamente libero” ( Ibidem ) . Lo spettatore di Storie Mandaliche deve in primo luogo accettare la specifica idea di mandala che si trova al centro dello spettacolo, al di là delle sue personali conoscenze in proposito; inoltre, deve essere disposto, per comprendere quanto gli viene proposto, a esercitare una forte attenzione e ad abbandonarsi alla logica “altra” della narrazione; infine deve accettare di essere coinvolto individualmente e attivamente nel contesto collettivo del gioco teatrale.

L’insieme delle storie è visualizzato come un mandala ed è considerato come un “luogo” da percorrere attraverso la narrazione: è un labirinto in cui i diversi racconti sono linee che si incrociano e convergono nel centro, dove si trova il racconto finale che sigilla il senso del percorso. Verde spiega e mostra agli spettatori che le sei storie sono collocate ai punti cardinali di questo luogo, e che ognuna è contrassegnata da un colore e da un logo del protagonista. Una volta entrato nel mandala, il pubblico deve essere attento a non perdere l’orientamento e a seguire il progressivo costruirsi della narrazione per salti, incroci, variazioni, imparando a cogliere le connessioni fra parole e immagini che, in virtù del digitale, vengono istituite in tempo reale con il click del mouse dal narratore.
Le immagini in FlashMX ideate per Storie Mandaliche da Lucia Paolini non sono descrittive o illustrative, ma sono un insieme di indicazioni simboliche, che, con le loro caratteristiche grafiche e con il loro movimento, provocano l’immaginazione e l’intelligenza del pubblico. Inoltre, esse assumono la funzione di icona nella sua accezione informatica (immagine che indica un programma, un comando, o un file) e permettono non solo il passaggio da una storia all’altra, ma anche la progressione all’interno della medesima traccia narrativa. Lo spettacolo può essere letto in questo senso come una sorta di esercizio mentale, che rielabora in maniera ludica e reinventa alla luce della contemporaneità l’antica tradizione dell’arte della memoria, cui la forma mandalica è riconducibile. Infatti, sia nella tradizione orienrale che in quella occidentelae, il cerchio, rappresentando l'unione di microcosmo e di macrocosmo, costituisce una forma di organizzazione del pensiero e della conoscenza.
Semplificando una problematica assai complessa e affascinante, possiamo affermare con le parole di Frances Yates che l’arte della memoria “cerca di fissare i ricordi attraverso la tecnica di imprimere nella memoria luoghi e immagini” (Frances Yates, L’arte della memoria, Torino, Einaudi, 2001 [1966], p. XXVII) : dai greci Simonide e Aristotele, fino ai neoplatonici rinascimentali, il suo esercizio è quindi legato alla percezione ed in particolare alla visione come attività creativa, e, in quanto forma del pensare, è strettamente legata ai modi e alle intenzioni del fare artistico. Il digitale rilancia le problematiche antiche connesse a quest’arte, perché induce nuove abitudini e nuove possibilità percettive.
Nel caso di Storie Mandaliche, la struttura ipertestuale e il dialogo in tempo reale con il computer realizzano un rincorrersi di connessioni, situazioni, luoghi e personaggi, che si esplicano ad un triplice livello: testuale, visivo e sonoro.
Nell'intreccio ipertestuale congegnato da Balzola le vicende dei personaggi possiedono molteplici punti di incontro, che si realizzano su piani temporali multipli. Quando due storie si intersecano, gli spettatori possono scegliere di scoprire il passato del nuovo personaggio o di guardare al presente del racconto dal suo punto di vista, con balzi in tempi e luoghi differenti. La struttura spazio-temporale dei racconti è resa ancor più complessa da anticipazioni e riconoscimenti; in particolare il sogno apre uno squarcio sul futuro e fornisce elementi che saranno necessari al personaggio per capire poi la direzione da intraprendere nel suo percorso. Karl bambino vede la bellissima bambina nera in cui si imbatterà nove anni dopo, il cane Lola sogna di entrare nella Pietra e di incontrarvi un uomo dal profumo di mirra che le promette di ripresentarsi e di farsi riconoscere dall'odore e che tornerà sotto le spoglie di Riza, la principessa del Sud.
Come per i personaggi il ricordo è fondamentale nel determinare le loro azioni, così per lo spettatore l'atto del riconoscimento, oltre a costituire un momento di piacere ludico, è necessario a seguire gli sviluppi delle storie: la drammaturgia mandalica implica la coincidenza fra i comportamenti dei personaggi nelle loro vicende di trasformazione e l'attotudine degli spettatori nel partecipare all'evento teatrale. La memoria del pubblico è sollecitata anche dai numerosi riferimenti culturali che costellano l'universo mandalico: nell'unione di antichissime tradizioni mitologiche e di elementi tratti dal mondo contemporaneo, nell'accostamento imprevedibile di toni ironici e momenti drammatici, di situazioni favolistiche e di particolari crudi e realistici, lo spettatore è chiamato a viaggiare liberamente attivando la propria fantasia e il proprio patrimonio di esperienze. Le immagini di Lucia Paolini che prevedono la differenziazione dell'impianto grafico di ogni storia e le atmosfere sonore di Mauro Lupone, che associaziono ad ogni personaggio dei suoni specifici e che entrano in maniera sottile e inconsapevole nelle orecchie del pubblico, contribuiscono a tessere la rete del sistema mnemonico in cui lo spettatore è invitato ad addentrarsi.
Il narratore, nella sua posizione, che come sottolineato da Anna Maria Monteverdi e da Alfonso Iacono, è oscillante tra il “dentro” e il “fuori” dell'universo narrato, è il demiurgo che con il mouse conduce il percorso e che vivifica nell'incontro con il pubblico le strategie di implicazione dello spettatore predisposte dagli autori di questo impianto teatrale. Il narratore si trova innanzitutto a sollecitare l’attenzione dello spettatore, per far sì che non si perda nell'universo mandalico. In alcuni momenti finge di perdersi, di non trovare più il link che gli serve, di sbagliare e di condurre il pubblico in un’altra direzione: in questo modo, l’organizzazione e il funzionamento della cybernarrazione vengono smascherati e lo spettatore viene reso partecipe e complice cosciente del narratore.
In altri momenti Verde gioca sul rapporto tra quanto viene detto e quanto viene mostrato. L’immagine infatti può anticipare la parola nel fornire un’informazione narrativa: nel breve intervallo silenzioso il narratore offre allo spettatore la possibilità comprendere da solo quanto sta accadendo attraverso la rielaborazione del dato visivo. La storia del Cane, inizia con la fuga del protagonista, Lola, dal laboratorio genetico in cui era stato concepito, per arrivare

(...) in uno strano posto, tutto recintato, dov’erano rinchiusi migliaia di animali, mucche, agnelli, conigli, galline, erano recintati in pochissimo spazio e avevano l’aria parecchio triste. Lola non sapeva che era un allevamento industriale per la produzione di carne in scatola, ma d’istinto quel posto non gli piaceva, perciò salutò le pecore e nottetempo proseguì per una strada sconosciuta.

Durante lo spettacolo, Verde, prima di dire cosa Lola non sapesse, clicca sul mouse e trasforma l’immagine dell’allevamento in una serie di scatole in fila, ispirata ai quadri realizzati da Andy Warhol a partire dalle confezioni di zuppa Campbell, e con una domanda del tipo: “Ma dove era finita Lola?” lascia allo spettatore l’opportunità di prevenire la risposta: “In un allevamento per la produzione di carne in scatola”. In altri casi l’immagine completa l’informazione verbale del narratore, che pur vedendo insieme agli spettatori quanto accade sullo schermo sceglie di non raccontarlo interamente. Nella storia del Corvo, Verde introduce gli spettatori nella Praga del sedicesimo secolo, dove opera l’alchimista Althuss, chiuso in una torre per cercare la pietra filosofale. Racconta che non ricevendo più segni di vita

i discepoli forzarono la porta ed entrarono nel laboratorio. Appena aprirono furono investiti da un fitto fumo nero e quando spalancarono le finestre si sentì nell’aria uno strano rumore, come il battito d’ali di un grosso uccello che volava via,

mentre le immagini mostrano il logo del corvo uscire dalla torre fumante ed allontanarsene. In queste situazioni, il pubblico infantile si mostra molto più rapido e perspicace nel riconoscere le immagine e nel manifestarlo, mentre gli adulti raramente si espongono, dando l’impressione di restare chiusi in un’elaborazione intellettuale personale. È significativo che nella discussione che ha seguito una presentazione privata, una delle osservazioni critiche di uno spettatore riguardava la ridondanza delle immagini rispetto alla parola. L’effetto di ripetizione e di sovrapposizione fra i due codici, che talvolta si produceva, era provocato dal fatto che nessuno esternava la propria comprensione dei dati visivi, inducendo il narratore ad aggiungere una spiegazione verbale. Nel caso dei bambini, al contrario, doveva dialogare con i piccoli spettatori, per riportare nell’universo della narrazione mandalica le loro fantasiose interpretazioni delle immagini. I bambini infatti, pur dimostrando di appropriarsi spontaneamente del piacere del riconoscimento, non riescono ad afferrare la complessità della struttura narrativa ed il senso della trasformazione, ma associano i personaggi e le situazioni in cui si trovano alla quotidianità o a sogni e paure della loro intima esperienza. Il pubblico adulto resta più distante da quento viene raccontato, e faticosamente accetta la veste fiabesca e l’aspetto ludico dello spettacolo, mostrando quanto sia difficile per la mentalità attuale unire la semplicità alla profondità, l’archetipico all’attualità, il gioco alla conoscenza.

Una delle regole di Storie Mandaliche è che viene negata la possibilità di abbracciare la totalità del contenuto del mandala: ogni spettacolo è l’esplorazione di una delle numerose regioni possibili dell’universo mandalico. Il percorso è inizialmente determinato dal caso, e nel corso della narrazione dalla scelta degli spettatori, che raggiunti i link fra una storia e l’altra sono chiamati a decidere dove andare. Lo spettatore come giocatore può intervenire in prima persona e discutere con gli altri sulla direzione da prendere. Come osserva Fink “il giocare è una possibilità fondamentale dell’esistenza sociale. Giocare è gioco in comune, è giocare assieme, una forma intima della comunità umana” (Eugen Fink, L’oasi della gioia. Idee per una ontologia del gioco, cit., p. 60).
Durante lo spettacolo il pubblico è indotto gli spettatori a costituirsi in comunità di gioco, in cui tutti gli individui siano chiamati a partecipare. Il rapporto fra individuo e collettività, fra intimità e condivisione è centrale anche nel teatro e costituisce la specificità fondamentale del pubblico teatrale rispetto agli spettatori di eventi di diversa natura (la relazione fra scena e sala nell’evento teatrale è studiata dalla ricercatrice del CNRS francese Marie-Madeleine Mervant-Roux, su ispirazione dei precendti studi di Denis Bablet, Elie Konigson e Bernard Dort. L’opera in cui sono concentrati i maggiori risultati delle sue ricerche è M.M. Mervant-Roux, L’assise du théâtre. Pour une étude du spectateur, Paris, CNRS, 1998): attraverso l’ “occhio multiplo” del pubblico e “le singole uniche esperienze segnate dalle esperienze altrui” (citazioni di Mervant-Roux tratte dagli appunti del corso di D.E.A. in Teatro dell’Université de Paris III intitolato L’événement théâtral avec spectateurs, A.a. 2002-2003) , durante l’evento teatrale la collettività coglie sulla scena un senso simbolico comune che contribuisce a costruire le fondamenta della società. In Storie mandaliche, la necessaria articolazione teatrale di individuale e collettivo è trattata esplicitamente: la riuscita dello spettacolo si gioca sul filo dell’equilibrio fra questi due poli.
È molto interessante osservare la profonda differenza che esiste fra il comportamento degli adulti e dei bambini: questi ultimi sono a fatica disciplinati dal narratore, non attendono altro che il momento di intervenire e di imporre la propria volontà, tanto che Verde deve escogitare nuove regole divertenti che ne limitino l’irruenza (per esempio una delle regole inventata per la presentazione a Castiglioncello fu che, arrivati a un link, la scelta spettasse a chi indossava dei calzini rossi) . Gli adulti invece, e in maniera piuttosto sorprendente, anche in un contesto privato, intimo e amichevole, esitano a intervenire. Alcune personalità intervengono costantemente e dirigono l’intero spettacolo, le altre solamente dopo un certo tempo iniziano a divertirsi, ad entrare nel loro ruolo e a discutere. In entrambi i casi la costituzione del significato simbolico dello spettacolo è messa a rischio dalle due opposte attitudini: nel pubblico infantile tende a prevalere infatti l’individualità, in una partecipazione attiva che porta ad un’esaltazione dell’elemento ludico a scapito dell’elemento teatrale, e ad una conseguente tendenza alla frantumazione della collettività. Nel pubblico adulto, invece, l’individualità tende a ritrarsi e a non esporsi, in una mancanza di partecipazione che può gelare la costituzione della collettività. Quando si riesce a stabilire l'equilibrio fra individualità e collettività, fra gioco e ascolto, fra comprensione e immaginazione, lo spettacolo diventa una straordinaria esperienza di umanità.

Storie mandaliche è una sfida, che a ogni evento offre la possibilità di vivere collettivamente un’esperienza che metta in discussione i nostri comportamenti quotidiani. Attraverso situazioni teatrali primordiali quali la narrazione e il gioco, coadiuvate dall’utilizzazione della tecnologia multimediale con le sue sollecitazioni sensoriali e le sue opportunità interattive, lo spettacolo pone esplicitamente l’interrogativo di come si costituisce un vero pubblico di teatro nel mondo contemporaneo e, con la sua coerenza fra struttura, contenuti e strategie attoriali, rappresenta l’occasione di partecipare alla costruzione di una comunità. Il percorso nel mandala delle sette storie di trasformazione è allora un percorso di trasformazione vissuto in prima persona dallo spettatore nel suo divenire parte di un pubblico attivo.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Trittico napoletano
Una intervista con Mario Martone su L'opera segreta
di Andrea Lanini

 

Caravaggio arrivò a Napoli nell’ottobre del 1606: la città fu per lui un rifugio, un luogo pieno di stimoli dove poter ricominciare una nuova fase della propria vita e della propria creatività. Napoli lo accolse, lo protesse, e lo conquistò con la sua vitalità inquieta, contraddittoria, sempre sospesa sulla conciliazione impossibile dei risvolti opposti della quotidianità: la sua opera subì potentemente il fascino della frenesia dei vicoli e dei personaggi che li animavano. Le maschere, le figure che Caravaggio osservava tra le pieghe della città cominciarono a popolare i suoi dipinti, caratterizzando in modo determinante – allontanandola dal solco della tradizione – l’iconografia di alcuni dei suoi maggiori capolavori.
Giacomo Leopardi fu a Napoli dal 1833, e qui visse i suoi ultimi anni: le speranze, le illusioni che avevano popolato i modi idillici delle sue opere svanirono per lasciare il posto al materialismo più cupo. Lo sguardo del grande poeta sulla città in cui cercò un impossibile sollievo, si intrecciò fino alla fine con la dolorosa presa di coscienza dell’”arido vero” che lui sentiva connaturato alla vita.
Anna Maria Ortese ha fissato in pagine indimenticabili il ritratto della Napoli del dopoguerra, della Napoli che, passo dopo passo, ricominciava a vivere. La sua scrittura, talvolta allucinata, visionaria, talvolta estremamente realistica, tende a raccogliere le tante frammentarie verità che si nascondono dietro il fascino senza tempo di questa città: verità dolorose, spesso disperate, ma che talvolta aprono al sogno, alla fantasticheria.
Caravaggio, Leopardi, Ortese: tre sensibilità di non-napoletani che, in epoche diverse e in diversi modi, si compenetrarono con l’essenza di Napoli e con le sue tante facce, e che seppero cogliere, attraverso la trasfigurazione permessa dall’arte, parte di un affascinante mistero nel quale finirono per riconoscersi. L’opera segreta, lavoro ultimo di Mario Martone (i testi sono di Enzo Moscato: L’opera segreta è una sua raccolta tratta dalle opere di Anna Maria Ortese), è un trittico che raccoglie quei tre punti di vista, condensandoli nella costruzione di un’opera mirata a raccontare una città difficile da raccontare e difficile da vivere: un’opera su Napoli e sulla sua pulsante energia vitale che finisce per accogliere e abbracciare tutti, per poi far sentire tutti un po’estranei, sradicati – compreso chi, come Mario Martone, a Napoli è nato e ha passato gran parte della propria vita. Non un lavoro su tre grandi personaggi del passato, quindi, ma un lavoro che nasce dal loro sguardo: l’obiettivo della regia di Martone è l’oggetto di quegli sguardi, raccontato attraverso le opere che essi contribuirono in maniera determinante a creare.
L’opera segreta si apre con un film, Caravaggio, l’ultimo tempo, in cui Martone restituisce un ritratto di Napoli attraverso le suggestioni che si sprigionano dai dipinti del periodo napoletano di Michelangelo Merisi. Una voce fuori campo accompagna le immagini, leggendo i bellissimi testi che Enzo Moscato ha scritto rielaborando parti di opere della Ortese; la seconda parte è una messinscena de I sette snodi di Inferno e nessun Eden, testo di Moscato tratto da La città involontaria, racconto della Ortese incluso nella raccolta Il mare non bagna Napoli; chiude il trittico un monologo, ’A ginestra ‘e pontone, tratto da Partitura di Moscato – serbatoio di spunti e di prospettive drammaturgiche che Martone utilizzò già nel 1991 per Rasoi.
A Mario Martone abbiamo chiesto di parlare di questa sua ultima regia, del suo rapporto con Napoli, delle tracce che la distanza che da anni lo separa dalla sua città imprime sul suo lavoro e sulle sue scelte.


L’Opera Segreta nasce dalle sensazioni e dalle emozioni di tre grandi personaggi che, come lei scrive, “furono colpiti a morte da Napoli”…

Caravaggio, Leopardi e Anna Maria Ortese sono tre artisti - ma, naturalmente, non sono gli unici - che in Napoli hanno saputo trovare una rivelazione rispetto al senso della vita: in epoche diverse, sono stati profondamente colpiti da una città che da sempre è disincantata, che da sempre, dietro alla sua maschera di allegria e di vitalità nasconde un grande senso di morte, di consapevolezza della vanità del tutto.

Questo è uno dei grandi fascini della “napoletanità”…

Sicuramente è un carattere molto forte della mia città: come nella vita stessa, nella sua essenza c’è sempre una grande contraddizione. Credo che sia un luogo che, per essere capito fino in fondo, deve essere visto da entrambe queste prospettive. Purtroppo tende sempre a prevalere un’immagine stereotipata e superficiale di Napoli. Caravaggio, Leopardi e la Ortese seppero cogliere questo abbraccio tra vitalità e senso della fine come qualcosa di assoluto: non credo sia un caso se, per quanto riguarda Giacomo Leopardi e Caravaggio, Napoli sia anche diventata la città dove la loro vita si è conclusa. Anche il fatto che questi tre personaggi non siano napoletani non è un caso: il loro sguardo permette l’attraversamento di un “sentimento di estraneità” che fa parte del mistero di questa città. Non è un sentimento che solo i non-napoletani possono provare: anche noi napoletani lo conosciamo benissimo. E’ qualcosa che fa di Napoli una città inafferrabile, eternamente dolente (e purtroppo anche la nostra cronaca lo dimostra) ma anche assoluta, con al suo interno una verità molto forte.

Da molti anni lei abita e lavora a Roma: come vive la lontananza dalla sua terra, dai luoghi dove tante esperienze importanti hanno avuto origine?

Vivo questa lontananza come un’esperienza dolorosa. Doloroso si può definire anche il lavoro che ho fatto per L’opera segreta, perché percepisco la distanza che mi separa da Napoli con un sentimento di lacerazione: credo che questo si trasmetta nello spettacolo. Si tratta di un lavoro sicuramente dolente, è in una lingua impervia, e lo spettatore deve essere pronto a misurarsi con dei testi dei quali non sarà possibile cogliere tutto.

La lingua che Enzo Moscato usa per i suoi testi è di una vitalità lavica, incredibilmente composita, sempre al limite: proprio come i personaggi – spesso indefinibili – che popolano le sue opere e ai quali essa dà voce…

I testi di Enzo e la lingua che usano sono straordinari anche per questo: nonostante non lascino capire tutto di sé, permettono a chi ascolta di arrivare perfettamente a cogliere la loro essenza. Lo spettacolo, dopo il debutto di Napoli, è stato a Modena e a Ferrara: la reazione estremamente positiva del pubblico di fronte alle difficoltà presenti nei testi ci ha colpito molto.

Per un artista napoletano che cosa significa lavorare a Napoli? Quando feci la stessa domanda a Enzo Moscato, qualche mese fa, mi rispose che portare avanti dei progetti in una città come Napoli è sempre molto difficile, faticoso…

E’vero, Napoli è una città faticosa, un luogo in cui gli sforzi finiscono fatalmente per avvitarsi su se stessi. Sono contento di aver partecipato alla nascita del Teatro Stabile di Napoli: la sua stagione è ricca, molto nuova, e le sue produzioni aprono le porte a registi giovani e assolutamente interessanti; ma non credo che in futuro porterò avanti la mia attività di gestione e di programmazione. Sinceramente sono stufo di subire attacchi continui, che non ho mai smesso di ricevere dai tempi del Teatro di Roma. Credo che in un sistema teatrale malato e corrotto come quello italiano non ci sia posto per una visione come la mia, quindi è forse meglio lasciar perdere: preferisco fare il mio lavoro di regista, e basta. Anche in questo, Napoli non è una città che riesce a renderti le cose facili: al suo interno è avvertibile un grido che, purtroppo, rimane impossibile da superare”.

Parliamo della struttura dell’Opera segreta: una forma tripartita, frammentaria, per accostarsi ad una realtà sfuggente e multiforme come Napoli…

Tendendo sempre ad una mia inquietudine sulla forma teatrale, ad un bisogno di cercare strade diverse, ho deciso – per L’opera segreta – di accostare le visioni di questi tre grandi artisti per creare un viaggio attraverso Napoli. E’ un lavoro che si è sviluppato un po’alla volta, sulla base dei testi di Enzo. Devo dire che è stata una delle cose più faticose della mia vita.

Che tipo di legame esiste tra la narrazione teatrale e quella cinematografica?

Paradossalmente, io preferisco tenere separati i due livelli. Per esempio, anche in questo spettacolo non è che il film si contamini con il teatro: il film è il film e il teatro è il teatro.
Caravaggio, l’ultimo tempo ha la sua autonomia cinematografica. E anche all’interno del processo creativo che ha portato a Teatro di guerra, il lavoro dove ho mescolato di più i due linguaggi, ho tenuto ben separate le due cose: ho fatto prima lo spettacolo teatrale, I sette contro Tebe, che è andato in scena e di cui ho filmato le prove; poi, sulla base del lavoro teatrale, ho realizzato il film, ma i due tronconi sono nettamente separati (lo spettacolo teatrale è del 1996, mentre il film Teatro di guerra è del 1998 Ndr). Credo che si possa fare cinema e teatro, però partendo dalla consapevolezza della diversità di questi due linguaggi. E’chiaro che dei contatti ci sono: anzi, essi sono continui. Ma se è forte il rapporto tra cinema e teatro, è ugualmente forte il rapporto tra cinema e pittura, tra teatro e letteratura, tra fotografia e cinema, tra musica e cinema: il montaggio è praticamente una forma musicale… direi che la cosa più vicina all’idea di montaggio cinematografico è proprio la musica. A questi legami sono molto sensibile, ma non bisogna dimenticare che cinema e teatro sono comunque due linguaggi autonomi.

Marco Lodoli, in un articolo (Sirene fatali) pubblicato su “Diario della settimana” e che lei ha inserito in Chiaroscuri (l’ultimo libro di Mario Martone, pubblicato nel 2004 da Bompiani), dice che i personaggi dei suoi film “stanno sempre in bilico: vorrebbero andare, capire, crescere, e spesso finiscono per precipitare nella botola della loro infelicità. In breve: la vita è un dovere, ma la morte è un richiamo”: se pensiamo a film come L’amore molesto o L’odore del sangue, è evidente l’attrazione dei protagonisti nei confronti di una voragine che spesso è soprattutto interiore…

E’ vero: molte volte ho raccontato spinte di ricerche individuali – ma anche collettive – che spesso si sono rivelate veri e propri scacchi. Credo che questo derivi anche dal fatto che la mia formazione è molto legata agli anni Settanta, a un tempo in cui c’era spazio per l’utopia o per l’idea del futuro. Poi, invece, la mia vita si è sviluppata in un contesto che è quello di oggi: un contesto in cui quel futuro è stato mangiato, una specie di eterno presente in cui non si riesce ad individuare un’ipotesi possibile. Da qui deriva quel sentimento di disagio. Ma gli scacchi dei miei personaggi, allo stesso tempo, lasciano trasparire un’utopia, un desiderio di cambiare: è questo è profondamente vitale.


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Libri & altro: il video istruzioni per un uso creativo
Alessando Amaducci, Il video digitale creativo, Nistri-Lischi, Pisa, 2005.
di Anna Maria Monteverdi

 

Alessandro Amaducci non ha bisogno di presentazioni: è artista video di successo, pluripremiato in vari festival internazionali e creatore di performance di vjng in cui usa rigorosamente il mixer video. In questi giorni è in programma all’interno del Piemonte Share Festival con uno “spettacolo video” tratto dalla sua videocreazione Spoon River, per live video e quattro videoproiettori.
Dice di questo nuovo genere di “spettacolo”:

“Il live video è una forma di espressione che consiste nel mixare dal vivo basi premontate in modo da gestire le immagini per ricreare attraverso le luci e le ombre, lo spazio, e per poter far vivere le immagini negli ambienti. Sta a metà tra qualcosa che accade sul momento e qualcosa che è stato già preimpostato. Sta a metà tra la performance video, il vjing, e la videoinstallazione”.

Amaducci ama definire questo modo di elaborare le immagini live “teatro degli automi luminosi” o, appunto, “live video”.
Studioso e storico della videoarte, autore di una fitta manualistica teorica e tecnica ad uso di neofiti videomaker, ha insegnato l’arte del video creativo verrebbe da dire a una intera generazione, di fatto la sua generazione considerata la giovane età (37 anni). Ricercatore e docente al Dams di Torino, dopo vari interventi (come artista e come studioso) per volumi antologici e per cataloghi video, ha dato alle stampe per la casa editrice Nistri-Lischi (Collana Mediamorfosi diretta da Sandra Lischi) Il video digitale creativo, un volume che aggiorna sull’evoluzione digitale, una tecnica che ha ormai più di quarant’anni di storia come quella video. L’attenzione è diretta infatti proprio a quella “terra di mezzo”, come Amaducci spiega nell’introduzione, che è il video digitale, a metà tra il cinema e la sua tecnologia ottico-meccanica, la tecnologia elettronica e la tecnologia digitale (il computer), associandola però sempre a esempi emblematici e illuminanti di artisti video (Studio Azzurro, Rybczynski, Bill Viola) o di autori di videoclip (come Chris Cunningham) che hanno usato procedimenti di cui si entra nel dettaglio tecnico, che hanno proposto usi diversi della “composizione dell’immagine video” (feedback, sovrimpressioni, riquadri) o effetti particolari (filtri, distorsioni). L’universo del video digitale è esplorato nelle varie possibilità offerte dalle diverse apparecchiature, dalle libraries di immagini, dalle funzioni legate alla luminosità, esortando sempre a una “personalizzazione” del formato digitale. Non mancano preziose indicazioni sull’archiviazione delle immagini, singoli frame o il girato, e su come usare al meglio il viewfinder e gestire il preset (sfondi, texture). Il montaggio non lineare del video digitale occupa un’ampia sezione: come caricare le immagini e comprimerle, come combinare le diverse clip, come regolare la timeline, come calcolare i tempi per la renderizzazione, cosa aggiungere nella postproduzione.
Si legge tra le righe che l’analogico non ta ancora tramontando: l’ibridazione tra tecnologie è ancora un territorio tutto da esplorare. La scelta di un sistema o di un altro, come ricorda Amaducci è ancora una questione di rapporto stretto e personale con la macchina.


 


 

Gli Album di Marco Paolini su Raitre
Con una intervista inedita a Gabriele Vacis e un piccolo database su Paolini
di Redazione ateatro

 

Approdano in televisione gli Album, la straordinaria serie di monologhi che Marco Paolini ha realizzato e interpretato dalla seconda metà degli anni Novanta.
Li trasmette Raitre, da giovedì 10 febbraio.
Al lavoro di Marco Paolini questo sito ha dedicato da sempre grande attenzione. Per l’occasione riproponiamo alcuni testi d’annata di Oliviero Ponte di Pino sugliAlbum, pubblicati in parte sul "manifesto", e una intervista inedita del 1999 a Gabiele Vacis, che con Marco Paolini ha lavorato a lungo. Ma in questo numero trovate i link ad altri testi dedicati all’autore-attore trevigiano e pubblicati nel corsi di questi anni da ateatro.
E se proprio non avete niente da fare, andate a leggervi il testo su Giada, la trasmissione radiofonica con Marco Paolini, Luciana Littizzetto, Lucilla Giagnoni e la Banda Osiris...


 


 

Gli Album di Marco Paolini: un dossier
Dall'archivio di ateatro
di Oliviero Ponte di Pino

 

Libera nos

Luigi Meneghello è una delle più grandi voci della letteratura italiana contemporanea: i suoi romanzi, a partire da Libera nos a Malo, costituiscono la più precisa e partecipata radiografia della "vita di paese", così come l'ha vissuta la maggioranza degli italiani, fino a tempi non troppo lontani. Era inevitabile che prima o poi alcune delle sue pagine venissero risucchiate verso il palcoscenico, per recuperare la loro dimensione originaria di parola "detta".
Nelle pagine di Meneghello si stratificano la nostalgia per un mondo scomparso e la denuncia dei dolori che l'abitavano, la consapevolezza dei motivi che l'hanno cancellato e il rimpianto per quello che avrebbe potuto diventare e non è stato, la rievocazione puntigliosa dei suoi valori, l'omaggio struggente ai suoi sapori, odori, pudori, la memoria delle sue parole e dei suoi dialetti. Composte nella trincea che separa e congiunge lingua e dialetto, tra una scrittura destinata a "restare" e una oralità destinata a scomparire (o a modificarsi radicalmente), le opere di Meneghello scintillano di ironia, finte ingenuità, di giudizi spesso impliciti ma non meno sarcastici e profondi.
Il merito della proposta è del Teatro Settimo, che in Libera nos si è ispirato ai frammenti del romanzo più noto di Meneghello. Una scelta coerente, da parte di una compagnia impegnata negli ultimi anni a ricostruire una memoria storica e poetica, per recuperare un legame con una "Italia dei padri" cancellata da una trasformazione frenetica e furibonda. È un tentativo generoso, e in parte velleitario (non conservazione di stampo etnologico-antropologico, ma reinvenzione mediata dalla scrittura): ma bisogna in ogni caso essere grati a chi cerca di prescrivere un rapporto non consolatorio con le comuni radici perdute (e, forse, con un rimosso che può riemergere con imprevedibile prepotenza, e con le radici sotterranee della sociologia e della morale italiana).
Lo spettacolo, diretto da Gabriele Vacis, è costruito con grande semplicità intorno a una struttura scenica (Lucio Diana) leggera e versatile, con due veli paralleli sorretti da un telaio sospeso, utilizzando pochissimi oggetti e affidandosi totalmente alla prosa di Meneghello nel labirintico romanzo Libera nos a Malo (dove Malo è anche il luogo in cui Meneghello nacque e l'oggetto della sua opera) è stato prosciugato della dimensione saggistica e corale per raccontare infanzia e adolescenza d'un ristretto gruppo maschile, rivissute per frammenti e apologhi.
Il racconto è godibile e divertente, a volte toccante; e gli interpreti (Marco Paolini e Mirco Artuso, bravissimi) sullo sempre comunicativi e efficaci. Anche se non si può pretendere la perfezione della ricostruzione filologica delle diverse parlate di Malo, le pagine di Meneghello non perdono la loro forza e l'imprevedibile ironia, la loro disincantata saggezza e la felicità della lingua. A tratti, emerge anche la dimensione segretamente teatrale della vita di paese, con i rituali e l'intreccio degli sguardi, delle presenze, il piacere del racconto, il rimbalzare continuo tra l'autentico, il concreto del dialetto e il recitato, la retorica dell'italiano: da un lato un'interiorità immediata (e a volte lancinante), dall'altro un'esteriorità convenzionale, pronta a far scattare, all'incontro, scintille di irresistibile e dissacrante comicità: fino a trasformare gli eventi quotidiani in vere gag.
Passando dalla memoria (quella sempre viva e sorprendente di Meneghello e di chi come lui la vita di paese l'ha vissuta) alla reinvenzione (da parte di chi di quel mondo non ha partecipato), finisce inevitabilmente per essere privilegiato un approccio favolistico, la nostalgia di un'infanzia cristallizzata nel mito. Rimane la disperata dichiarazione d'amore, ma scompare quasi del tutto il sofferto atto d'accusa. Rimuovendo le sofferenze e il rancore, svanisce anche la disperazione; ma con essa finisce per dissolversi anche la speranza: quella speranza rabbiosa e ingenua, fatta di fantasticherie e illusioni, che popolava le notti e i sogni di quell'epoca.
Ma questo, forse, è un tratto che divide gli adolescenti della Malo degli anni intorno alla guerra da chi è cresciuto negli ultimi decenni. Resta, ad accomunare spettacolo e libro, una struggente tenerezza, che non è difficile scoprire sotto la scorza del disincanto.
(1988)


Gli Album

Come recuperare il rapporto con la propria infanzia, con la propria storia personale? E come comunicare una esperienza collettiva alle altre generazioni? "Attraverso il racconto", risponde Marco Paolini, che in una serie di spettacoli (finora sono tre, diretti da Gabriele Vacis e raccolti sotto il titolo collettivo di Album) è partito in un viaggio nella memoria individuale e collettiva.
In principio (nel 1987) c'era uno spettacolo per bambini, Adriatico, che rievoca una esilarante vacanza in colonia. Siamo nel 1964 e il piccolo Nicola, che sarà anche il protagonista dei successivi Tiri in porta (1990) e Liberi tutti (1992), ha otto anni.
Il problema è che Adriatico, oltre che divertire i bambini, fa scattare il meccanismo del ricordo nei "grandi", che si riconoscono immediatamente in una avventura lontana nel tempo ma che evidentemente fa rivivere un'esperienza di vita assai diffusa. Tra autobiografia e lessico familiare, i monologhi dell'"Album" iniziano così a esplorare una geografia sentimentale dell'infanzia e dell'adolescenza, affettuosa e ironica, in cui vengono ricostruite le varie tappe di un'educazione alla vita negli anni Sessanta e Settanta.
Adriatico racconta il primo trauma, quello del distacco dalla famiglia e della scoperta del mondo e degli altri, sulla spiaggia sabbiosa e nelle camerate della colonia "Le Navi" di Cattolica, guidati dalla mai dimenticata "signorina Susanna". Tiri in porta, ambientato tra calcio e calcetto in quello stesso 1964, fa rivivere il piacere del gruppo, della banda. Gli amici sono quelli di sempre: Ciccio Pavan che dimagrirà miracolosamente tra i 13 e i 14 anni, Ennio Mosca che gioca a pallone col cappotto perché ha avuto l'asma da piccolo, l'imbranato Cesarino cocco di maestre e parroci, Gianvittorio l'amico ricco con un po' di puzza sotto il naso ma che non si tira indietro, e Pieretto detto il Nano, basso e concreto... È ancora un mondo dove le diverse classi sociali possono incontrarsi, vivere le stesse esperienze, scoprire il mondo intrecciando i diversi punti di vista. Con Liberi tutti entriamo in un periodo un po' più vago, rivisitato con qualche piccola forzatura cronologica e compreso tra il '69 e il '73: l'epoca delle prime ribellioni e trasgressioni, tra l'esempio della ribellione dei più grandi e la voglia di esserci. Quando a dodici anni si decide di non andare più a messa ("Parché?", "Parché so comunista!", e la devota Nonna si segna e esclama "Rovina!"). Quando si organizza il primo grande sciopero dei chierichetti (con inevitabile crumiro) contro il parroco che sequestra gli strumenti allora indispensabili all'autoeducazione sessuale: "Diabolik" e "Satanik", "Messalina" e "Jakula". Quando un piccolo gruppo di Wilhelm Meister di provincia e parrocchia, all'insaputa del temutissimo Don Bernardo (che crede che stiano provando La locandiera di Goldoni) allestisce "clandestinamente" un dramma didattico di Brecht. Quando in uno di quei Capodanni dove ancora non si capisce bene a cosa servano le ragazze (che non ci sono) ed esplode la disperazione dell'adolescenza, si affronta la prima grande sbronza della vita. Quando nell'amico più grande, Barbin Cursari arrivato da Rovigo, si incontra il proprio eroe e si scopre la politica. Quando ci si rifugia in un vecchio vagone merci abbandonato su un binario morto e ribattezzato "Lucio Battisti" per ascoltare lo scandaloso Je t'aime. Moi non plus...
I programmi di sala dedicano Adriatico a Le Petit Nicolas di René Goscinny; Tiri in porta a I ragazzi della via Paal; e Liberi tutti a La guerra dei bottoni. Quasi a sottolineare il legame con i fumetti, la letteratura e i film per l'infanzia, in quello che hanno di giocoso e di patetico, di divertente e di tragico. Ma Paolini è veneto: e il suo alter ego Nicola, da un casolare del bellunese, che ancora mantiene i legami con il passato contadino (la soffitta piena di mele...), si trasferirà in un condominio e adotterà uno stile di vita un po' più cittadino, a Treviso. Così sul versante letterario il precedente immediato sembra piuttosto il Meneghello di Libera nos a Malo (che Paolini aveva a suo tempo adattato per le scene) e Bau Sète. In scena, nella capacità di reinventarsi in decine di personaggi, nel giocare tra le diverse parlate, nei ritmi insieme clowneschi e cinematografici, Paolini ricorda invece le capacità mimetiche e gestuali del solitario e multiforme Dario Fo di Mistero Buffo. La mania archeologico-classificatoria, che spinge a recuperare dall'oblio i giochi, i passatempi, le leccorinie e i gadgets del passato rimanda infine alle contro-enciclopedie e alle anti-pedagogie di Giampaolo Dossena: perché nei suoi spettacoli hanno un ruolo da protagoniosta le varie armi improprie dell'infanzia (archi, frecce, piroli, cerbottane...) e soprattutto le figurine dei calciatori e le biglie dei ciclisti (che saranno sostituite pochi mesi dopo dalla galleria dei maîtres à penser: Sartre e Pasolini, Che Guevara e Bob Dylan, Marcuse e la beat generation...).
Non a caso il meccanismo che permette di passare dal livello individuale a quello collettivo è proprio quello dell'"Album", totalmente inutile e assolutamente indispensabile, con il suo catalogo di casualità e la sua smania di completezza. Nel ricostruire la propria biografia, nel recuperare un passato oggi silenzioso e forse perduto, si attraversa inevitabilmente un ricchissimo repertorio di oggetti (il "mangiadischi", le "minicarte", il "calcetto"...), marche, usi e costumi, sorprendenti culti infantili e crudeli rituali di iniziazione, canzoni sceme e caroselli ancora più scemi... A ciascuno di essi è rimasto impigliato un dolore, una felicità, una paura, una scoperta, un incontro. Per un attimo, la memoria si cristallizza intorno a quel feticcio, e crea immediatamente un'occasione di riconoscimento e di scambio tra scena e platea. Gli spettatori accettano volentieri di farsi prendere all'amo da questi frammenti dimenticati e che tuttavia conservano forti risonanze emotive: l'infanzia assume così un'aura mitica e il tono del racconto da psicologico si fa epico.
Puntata dopo puntata (ce ne saranno probabilmente altre) gli "album stanno costruendo un romanzo teatrale in forma di monologo; per aneddoti e racconti, rivisitano e ricreano i luoghi della memoria, i rapporti famigliari e sociali, le emozioni segrete - ma diffuse a livello di massa - e quelle che hanno accomunato un'intera generazione.
All'epoca forse più osservatore che protagonista, più riserva che titolare, Paolini insegue così lo specifico della propria educazione famigliare, sentimentale e teatrale: il gioco è vedere quanto ci sia condivisibile da chi è venuto prima e da chi è venuto dopo, e quanto invece è peculiare a chi è cresciuto in quegli anni, in quella Italia.


Come nascono le storie:
album, appunti, racconti
una conversazione con Marco Paolini


GLI ALBUM

Gli "Album" fanno pensare al lavoro del regista tedesco Edgar Reitz: sono una specie di
Heimat all'italiana, in forma di monologo teatrale.
La differenza principale è che gli "Album" nascono senza un progetto: io non ho ancora deciso quale sarà il destino dei personaggi. Quando ho cominciato con Adriatico, la rievocazione attraverso il personaggio di Nicola mi era utile per trovare la chiave giusta, cioè la leggerezza. L'incorporeità dei personaggi è l'equivalente del gessetto rispetto ai colori della tela. La differenza tra uno schizzo e un dipinto. In letteratura la leggerezza segna probabilmente la specificità del racconto, in cui i personaggi sono soltanto accennati, rispetto al grande romanzo. In teatro questo può significare velocità, perché si può raccontare cambiando rapidamente scenario, moltiplicando i piani della narrazione. In Adriatico questa impostazione l'avevamo soltanto sfiorata; poi abbiamo deciso di mantenere il protagonista Nicola e così il suo mondo ha cominciato a spostarsi dalla colonia, dalle "Navi" di Cattolica dove è ambientato Adriatico, a un campetto di periferia, quello dove è ambientato Tiri in porta. Poi, a partire da Liberi tutti, lo scenario si allarga a una città di provincia, che è la mia.
Dove sei cresciuto? In un paese o in città?
In un quartiere di una cittadina, che era quasi un paese. Anche se poi quella città meno la nomino e meglio è, anche perché quello di cui parlo non è un luogo della geografia ma un luogo del tempo. Perché parlo sempre di cose finite, morte. Non potrei raccontare nello stesso modo una cosa viva. Un po' maniacalmente, prendendoci a volte qualche libertà, e facendo magari qualche errore, abbiamo cercato di costruire un universo che non fosse un bluff, dove i riferimenti storici e quindi narrativi fossero fondati e riscontrabili.
C'è stato nella tua storia un altro incontro importante per capire gli "Album": quello con l'opera di Meneghello, che ti ha ricondotto alla tua origine geografica. Un tema che è alla base dell'autobiografismo degli "Album".
In quello straordinario film che è Heimat, Edgar Reitz dice che ci sono due patrie: una è quella dove sei nato, l'altra quella che ti scegli, che adotti, che decidi. Questa seconda patria è l'insieme delle relazioni che costruisci: la tua famiglia, i tuoi amici, eccetera. È sicuramente molto più forte dell'altra patria, quella del sangue, ma è più difficile da conservare, ed è anche difficile da tenere insieme all'altra. Per me Meneghello è un pezzo importante di questa seconda patria. In teatro provavo un'invidia profonda, assoluta, totale, per tutti i napoletani, perché - mi sembrava - chi nasce a Napoli, metà del lavoro l'ha già fatto. Attenzione: non sto parlando di folklore, di come i napoletani parlano nella vita quotidiana; sto parlando del bagaglio, del DNA degli attori napoletani. Quelli che hanno arricchito questo bagaglio tradizionale con una sufficiente dose di esperienza personale possiedono un repertorio di termini, una lingua, una quantità di parole che servono a dire le cose con una precisa e calzante aderenza: una qualità che la nostra comune, convenzionale lingua relazionale non ha. Agli attori napoletani basta un niente per far vivere le cose nelle parole: una esse, una ti, un dente, tre sillabe... Quando poi è lingua teatrale, è musica. Pensa a Moscato, a Eduardo, ma anche a Annibale Ruccello in teatro, a Pappi Corsicato nel cinema... Che invidia!
E io? Nella commedia all'italiana, il veneto è la lingua delle servette e dei carabinieri. Nella Commedia dell'arte, il dialetto veneto è la lingua dei servi; è la lingua bassa, anche nei contenuti: immediati, popolari, semplici. Comici, irresistibilmente, fatalmente comici. Poi leggi Meneghello e ritrovi la complessità, l'aderenza delle parole alle cose. Meneghello dice: "Quando muore una lingua, non muoiono soltanto dei modi di dire le cose ma muoiono anche le cose". Parlando di aree al confine tra il vivo e il morto, Meneghello tira fuori qualcosa che mi riguarda. Qualcosa che riguarda la tomba dei miei nonni con le montagne davanti, con quella pietra che non stava mai ferma e quando ci camminavi sopra si sentiva tu-tum tu-tum tu-tum, e allora vien fuori tutta la storia delle armi dei partigiani nascoste là dentro, e dove è andato a finire mio zio, e tutta la storia della mia infanzia, e l'odore delle serre dove andavo a nascondermi terrorizzato dall'idea che venisse il padrone e mi cacciasse via... Perché da bambino avevo come posto segreto una serra di quelle dove si tiran su i fiori. Avete un'idea di quanto è tropicale l'atmosfera dentro una serra, di quanto può esserlo per un bambino? Meneghello mi ha messo in moto gli intestini, mi ha restituito legittimo orgoglio di razza: questa parola qualche anno fa non la usavo, mentre oggi parlo di razza perché per me non è soltanto quella cosa che i razzisti usano per anteporla a chi ce l'ha diversa. Nel momento in cui è successo l'ennesimo cambiamento e non c'è più stato Pasolini a raccontarcelo - perché da un certo punto in poi nessuno ci ha più raccontato così bene che cosa stava cambiando - ci siamo ritrovati orfani anche di questo: di razza. Nel senso che oggi siamo tutti senza razza. E "razza" è qualcosa di sostanziale.
E così l'idioma: non è soltanto una lingua da usare per non farsi capire, al contrario. Le cose contenute nelle parole sono piene di tracce, di sostanza, di materia. Raccontarle è un modo di toccarle: non è che si fanno resuscitare, ma ti vengono addosso, e a un certo punto può darsi che chi ti vede e ti ascolta in teatro senta che tu non sei soltanto uno come quelli, anonimo... Per strada siamo tutti anonimi, tutti uguali, dalle scuole in poi. Ma in realtà non è così. E allora io, che cosa ho da scambiare? Se ho qualcosa da scambiare e da barattare sul palco, davanti alla gente, allora è questo quello che vale... Vale - o può valere - la differenza: non perché io sia migliore, o abbia qualcosa di più. Io non voglio stare sul palco come ci stanno le star, i fenomeni, i miti, ai quali riconosciamo il carisma, una serie di qualità che li legittimano a stare sul palcoscenico. Per me il teatro non è il luogo dello show business: in teatro si sta sul palco con qualcosa di diverso, che non è quel tipo di carisma, ma che evidentemente è anche diverso dal non essere niente. E questa identità la cerco anche nell'immanenza, nella permanenza dei segni della razza.
Hai accennato al tema della legittimità.
Noi attori dobbiamo avere qualcosa che ci autorizza a dire delle cose, dobbiamo conquistarci la legittimità di testimonianza, perché di testimoni occasionali e gratuiti, di millantato credito non ce n'è bisogno. Ma come legittimare la testimonianza? Non ho una risposta precisa. Penso che c'entri una specie di ginnastica che si fa con gli antenati, con la storia di quelli che ci eleggiamo a padri, spesso andando in cerca di qualcosa di un po' meno profano, di un cuore che non è necessariamente visibile all'esterno, che non è barattabile. Non occorre che sia completo, non è una denominazione di origine controllata, è un punto di arrivo. Nessuno di noi ha questa legittimità di testimonianza in partenza; però dentro al teatro (e non soltanto dentro al teatro) ci sono le occasioni e i tempi e le circostanze per costruirsela. Si può arrivare a costruirsi questo cuore invisibile marcando delle differenze, e quindi costruendo un'identità. Ciascuno di noi ha dei brandelli di cose che gli appartengono; non sono tutte chiare in partenza, e non so perché alcune ci appartengano più di altre: sono le ferite, le cicatrici della vita, ma anche le feste, o un modo di ballare, qualcosa che in parte abbiamo già ma in parte scegliamo. Perché se non si sceglie si resta audience, se si sceglie si fa gli attori.

1. ADRIATICO
Come sono nati gli "Album"?
Con il primo spettacolo, Adriatico, realizzato con il Teatro Settimo nel 1987. Io leggevo i racconti di Goscinny, quelli dedicati al Petit Nicholas, e li trovavo molto divertenti: è uno dei rari libri che scatenano il riso alla sola lettura. Ho pensato che sarebbe stato bello farne uno spettacolo, e ne ho parlato con Gabriele Vacis. L'importante era mantenere la leggerezza dell'originale, che contrasta con la materialità della forma drammatica, che mette in scena tutti i personaggi. Allora abbiamo tentato una scommessa: narrare. Adriatico si può raccontare in un telegramma: Nicola fa il suo primo viaggio da solo lontano dai genitori, in un luogo esotico, la colonia. Lì incontra altri bambini, vive questa avventura straordinaria: stare lontano dai genitori. Tutto diventa ovviamente bellissimo, anche se è faticoso.
Quindi si tratta di una iniziazione, di un'esperienza di libertà, anche se la colonia è un'istituzione totale.
La signorina di colonia, la signorina Susanna, un estraneo che ti diventa familiare, un deus ex machina che fa anche da garante, con quegli attributi fisici diventa anche l'incarnazione di una regola decisamente più stimolante di quella quotidiana posta dai genitori, dalla scuola e da tutto il resto.
Quali erano i vostri modelli teatrali?
Non ne avevamo. L'unico era Dario Fo, ed era un modello dal quale dovevamo allontanarci. Dovevamo trovare una chiave plausibile per raccontare l'infanzia senza bambineggiare, mantenendo però la vivezza del racconto, il suo aspetto umoristico. Lo stile si è forgiato su questo. Non abbiamo scritto il testo. Per quaranta giorni di prove, ho sceneggiato verbalmente, su una lingua orale, senza il passaggio in italiano, e dunque senza imprinting letterario. Durante questo lavoro ci siamo distaccati dall'ambientazione francese per trovare una materia italiana. Goscinny scrive negli anni Sessanta e sono riconoscibili i comportamenti psicologici dei genitori di quell'epoca. Abbiamo scelto di radicalizzare questa collocazione temporale, definendo un anno e un mese, il luglio del 1964, e abbiamo cercato una serie di riferimenti a quello che eravamo noi. La data non è stata scelta a caso: sia io sia Gabriele siamo del '56, e nel '64 avevamo l'età giusta per uscire dalla famiglia per la prima volta, andando in colonia. Mescolando i miei ricordi personali e quelli di altri è nata la materia di Adriatico.
Gli "Album" sono anche un teatro della memoria...
C'è uno spazio per una forma teatrale di questo genere: l'unica limitazione è la capacità di elaborare nuove storie. Il meccanismo di ricerca degli elementi precisi della memoria si è ulteriormente sistematizzato e approfondito. Per esempio, come si poteva entrare in possesso, negli anni Sessanta, di un pallone di cuoio? Il prezzo era proibitivo. La strada che mi ricordavo meglio era quella del catalogo dei punti Mira Lanza. Ma quanti punti servivano per avere il pallone? Non me lo ricordavo, per cui sono andato in cerca dei cataloghi. Non li ho trovati, alla Mira Lanza mi hanno detto che non li avevano più: l'azienda non ha un archivio, una memoria del suo aspetto promozionale e pubblicitario, solo gli archivi amministrativi. E questo è delirante.
In quei cataloghi c'è una pagina della storia del costume italiano...
...che è fatto di grandi amnesie e rimozioni. Allora ho ripiegato sulla Panini, che ha un ottimo archivio-museo storico. E un pallone si poteva avere anche con le figurine valide e bisvalide dei calciatori. Mi hanno anche dato fotocopie preziose di quegli "Album". Questi elementi precisi mi sono indispensabili per costruire lo spettacolo. Sono elementi che a volte emergono casualmente, nel corso di conversazioni con gli amici.
Negli "Album" è dunque confluito anche molto materiale autobiografico.
Mio e di altri. L'origine del metodo è questa: a partire dal semplice accenno di una merendina nel testo di Goscinny, per esempio, abbiamo fatto una lista ragionata di tutte le merendine dell'epoca: i bambini che avevano pane-burro-marmellata, pane-burro-sale, pane-burro-zucchero, pane-buro-prosciutto, pane-burro-mortadella, quelli che avevano il Buondì Motta, quelli che avevano il Ciocorì, il Carrarmato Perugina, il Dofocrem, il Belpaese, il Formaggino Mio, il Bebè Galbani, i Ringo, i Togo, i Pavesini, il Brioss Ferrero all'albicocca, il gelato finto...
E la Fiesta e la Nutella?
La Fiesta nasceva allora, ma per me Fiesta e Nutella sono già prodotti rampanti, sono cose moderne. Infatti la Nutella, per noi, non è una di quelle cose che butti giù come i biscottini al Plasmon: mia madre non si fidava della Nutella. La Nutella è una scelta adulta. Infatti Moretti riesce a innamorarsene...

2. TIRI IN PORTA
Adriatico non era nato come uno spettacolo per adulti ma per bambini. Forse può essere curioso raccontare la storia di questa trasformazione quasi indipendente dalla volontà dei suoi artefici...
C'eravamo talmente divertiti a farlo, era evidente che piaceva anche ai pochi grandi che lo vedevano insieme ai bambini... Era uno spettacolo destinato ai ragazzi, però pensato con rigore e con una serie di attenzioni al mondo degli adulti. Per esempio all'inizio di Adriatico si dà molta importanza al fatto di doversi alzare presto alla mattina per iniziare il viaggio, perché una volta il viaggio si iniziava solo la mattina presto: c'erano dei riti legati a queste cose. Portando in giro lo spettacolo, mi sono accorto che da parte degli adulti c'era una reazione, oltre che di divertimento, di emozione, di commozione, legata anche al riconoscersi e al rispecchiarsi. E c'era anche una tendenza ad allungare la lista dei particolari con una specie di cahier de doléances di tutto quello che si era patito nelle colonie. "Ti sei dimenticato di parlare dell'infermeria", "Ti sei dimenticato di parlare dell'alzabandiera", eccetera. Tutte memorie che ciascuno associava alla propria colonia. Non abbiamo mai voluto fare un discorso generazionale, di nostalgia tout court, però era interessante che un lavoro sui ricordi esatti facesse scattare questo meccanismo. Naturalmente ci sono dei rischi di speculazione, in questi Amarcord tradizionali: i fruitori degli spettacoli tendono a sentirsene beneficiari in modo esclusivo. È lo stesso meccanismo che usano i comici: quando una battuta per essere colta ha bisogno di un minimo sforzo mentale, gratifica lo spettatore perché lo fa sentire intelligente. La sua preoccupazione diventa: "Ma gli altri l'avranno capita?". Se non ci fosse la risata liberatoria di tutto il pubblico, resterebbe il dubbio; a casa, davanti alla televisione o alla radio, il dubbio potrebbe restare. La stessa cosa accadeva per gli "Album". Chi aveva una certa età chiedeva: "Eh, ma come faranno i ragazzi a capire certe cose?". Ma ai ragazzi non gliene può fregar di meno! La fruizione di un racconto avviene in infiniti modi diversi. Quando mio nonno mi raccontava dell'Abissinia, io non avevo nessuna esperienza diretta dell'Abissinia né del servizio militare né dei leoni. Però il mio godimento della storia era totale, non avevo nessun bisogno di capire. Invece la trappola continua a esistere, soprattutto per gli educatori: dopo aver visto Adriatico, gli insegnanti erano preoccupati perché pensavano di essersi divertiti più dei ragazzi, e dunque tendevano a negare il valore pedagogico dello spettacolo, proprio perché era troppo divertente.
Perché dopo Adriatico hai deciso di proseguire gli "Album"?
Non volevo far morire Nicola e i suoi amici. Così ho fatto Tiri in porta, che è la continuazione di Adriatico, con tutti i rischi che i sequel comportano. Oltretutto in quel periodo Gabriele Vacis era impegnato in altri progetti, e mi sono trovato a essere autore, regista e attore. Ho messo a fuoco Tiri in porta più lentamente, perché ero da solo. Alla fine è venuta fuori una cosa cattiva al punto giusto, in cui l'idea di una teatronovela con Nicola protagonista ha preso consistenza. Il destinatario erano ragazzi delle scuole medie, una fascia considerata tabù nel teatro-ragazzi.
In realtà volevo parlare del luogo in cui vivevo e giocavo, avvicinarmi alla mia infanzia. Così ho parlato di un campetto, del calcio non giocato in campi regolari ma a una porta sola, con le reti che se il pallone va di là non te lo ridanno facilmente, con le automobili che rallentavano se ti vedevano giocare, e magari qualcuno si fermava a guardare - mentre adesso vanno anche mentre i bambini continuano a giocare. Se parlo di campetti, parlo di un modo di progettazione urbanistica che edificava a macchia di leopardo, quando si costruiva quasi senza piani regolatori. Dunque i campetti sono il segno dello sviluppo edilizio che caratterizza l'Italia del secondo dopoguerra e del boom economico. Almeno da dieci anni, ormai, le nuove lottizzazioni prevedono prima le opere di urbanizzazione - strade, fognature, impianti, eccetera - e le aree a verde rispetto a quelle edificabili e poi le superfici destinate a infrastrutture e servizi. Oggi che i campetti non esistono più, sono diventati un elemento storico.
Con una punta di nostalgia...
Adriatico era un'isola felice, ma già con Tiri in porta cercavo una materia un po' più rischiosa: allora ci ho messo dentro un mongoloide e un morto, legati a episodi della mia infanzia. Uno era un mio compagno di giochi, Oscar, che è morto. L'altro era un matto - lo chiamavamo Tano Matto - che mi faceva molta paura. Anche se lo chiamavamo Tano Matto, non era matto. Era mongoloide e aveva delle reazioni che la gente non si aspettava. A quell'epoca i mongoloidi non andavano a scuola con gli altri: o non ci andavano o andavano alle differenziali. Questo Tano non era andato a scuola, e aveva sedici anni quando noi ne avevamo otto. Questi otto anni in più ne facevano una specie di toro, con cui potevi giocare, a certe condizioni. C'era un rischio: giocare con Tano Matto era uno spasso, perché potevi prenderne un sacco... Il suo agonismo alla fine poteva sfociare in comportamenti pericolosi, se veniva provocato. Da parte nostra un po' di cattiveria ovviamente c'era: lui rompeva la gabbia ed erano guai. Partiva alla carica e attraversava il campo di corsa... Questa frequentazione con la diversità era molto normale.
In Tiri in porta c'è la logica della partita e dello scontro.
Tiri in porta
è tornare a casa. Io ho sempre provato un sentimento preciso: quando tornavo da un viaggio, da una vacanza, provavo una leggera vergogna a incontrare di nuovo le persone che conoscevo. Mi sentivo privilegiato perché stavo tornando da una vacanza; e mi sentivo un po' strano, come se mentre ero stato via avessi perso qualcosa. Tiri in porta - lo dico esplicitamente - si svolge in settembre, in dieci giorni esatti, tra la fine delle vacanze e l'inizio della scuola, come nel film Stand by me, che è il riferimento più immediato di quell'"Album", anche se poi non è citato. I miei amici erano rimasti lì e se l'erano goduta, e tutto questo si traduceva in una specie di imbarazzo nel ficcare il naso fuori casa, nel salutare i vicini, nel farsi baciare da tutti quelli che ti rivedevano. Nei confronti degli amici, c'era una specie di orgoglio, perché dovevi dimostrare che dopo un mese di vacanza eri cambiato, dovevi vendergli che eri diventato qualcosa di meglio e non potevi ripartire da dove li avevi mollati. Doveva esserti successo qualcosa di talmente straordinario da giustificare il fatto che eri stato via un mese. Se no, che cazzo eri andato via a fare?

3. LIBERI TUTTI
Liberi tutti segna il momento in cui gli "Album" abbandonano l'infanzia per diventare un romanzo di formazione, e inizia l'adolescenza...
A differenza dei due "Album" precedenti, che si svolgono in un arco di tempo limitato e preciso, Liberi tutti non ha un continuum temporale. L'azione si svolge nell'arco di diversi anni, dal '69 al '74. Non segue una vicenda cronologicamente, ma offre una serie di schegge: la famiglia, il teatro, la religione, la musica, il circolo culturale e tutta una serie di cose che sono montate insieme, ma con dei salti evidenti. Liberi tutti è l'unico "Album" in cui si parla di scuola, a parte qualche accenno in Aprile. Dal punto di vista della composizione della storia, Liberi tutti è più "Album", e più romanzo di formazione, anche se ha una sintassi teatrale meno classica, più frammentaria.
In Liberi tutti non ci sono più solo gli amici del quartiere, i vicini, le conoscenze obbligate, l'universo familiare o scolastico, ma Nicola comincia a scegliere la compagnia.
In Tiri in porta gli amici sono quelli del campetto, quelli delle case che ti circondano. In Liberi tutti gli amici sono il distillato di quella compagnia. C'è la tentazione di farsi amici i compagni di scuola, ma con il rischio di mollare quelli del campetto. In realtà negli "Album" questo non accade: a parte alcune ragazze che entrano in maniera un po' esotica, di passaggio, e alcune compagne di classe, ci sono ancora i compagni originari, quelli del campetto, che con qualche evoluzione diventano la tribù-gruppo di riferimento, il Circolo Culturale Lucio Battisti. È una forzatura, perché a me non è accaduto così.
Non accade a quelli che fanno la scelta di uscire dal gruppo chiuso, che se ne vanno a esplorare il mondo, come poi è successo a chi ha vissuto un'esperienza simile a quella di Liberi tutti, anche dal punto di vista generazionale.
In Liberi tutti però ci sono anche degli adulti carismatici. C'è questo prete, don Tarcisio, che compare solo nella prima scena, ma si intuisce che è il viatico che apre distanze geografiche infinite, come quelle a cui può arrivare una bicicletta nell'arco di un pomeriggio, cioè trentacinque-quaranta chilometri da casa, praticamente il mare, la spiaggia. Lì il prete cessa di esser prete, si toglie la tonaca e fa il bagno. Il prete fa il bagno! Cose di questo tipo sono molto trasgressive e lasciano un segno. Nella prima scena di Liberi tutti Tarcisio se ne va. Va a fare il missionario, 'sto vigliacco. Ma che cavolo va a occuparsi di negri? Perché non resta qui con noi? E ci lascia nelle grinfie di quel vecchio marpione che è don Bernardo...
Qui si riflette negli "Album" la grande stagione post-conciliare all'interno della chiesa, attraverso lo scontro tra un prete tradizionalista e uno innovatore, figlio appunto del Concilio. Nicola diventa in qualche modo consapevole della storia, che negli "Album" precedenti esisteva solo a livello di sfondo antropologico, non diventava mai un problema...
Prima Linea non avrebbe sparato don Bernardo, ma a don Tarcisio, perché attraverso la puntualità del suo operare ridava credibilità a un'istituzione come la chiesa, invece di farla affondare com'era giusto che fosse.
Attraverso il confronto tra don Tarcisio e don Bernardo, Nicola esce dall'universo per così dire atemporale della famiglia...
Quando abbiamo deciso di fare Liberi tutti, insieme a Gabriele Vacis, in realtà volevamo partire da piazza Fontana. Mi ricordo che quando ero ragazzino avevamo fatto uno sciopero un po' ridicolo per piazza Fontana; Gabriele, che invece viveva in una grande città come Torino, ricorda che quel giorno era passato un lungo corteo che aveva fatto uscire gli studenti dalle scuole. Piazza Fontana poteva essere una specie di inizio per raccontare scuola, collettività di popolo eccetera, anche se poi è rimasta in sottofondo. Procedendo nel lavoro abbiamo deciso di ambientare questa specie di Sessantotto - che vista l'età di Nicola e dei suoi amici si svolge nel Settantasette - in parrocchia. È una sorta di contestazione, con lo sciopero dei chierichetti contro don Bernardo, che risponde con una sapiente serrata. In un primo tempo vince lui, solo che nel giro di qualche mese, da un posto esotico chiamato Rovigo, che è lontano dalla città di cui parlo, arriva un altro che sa il catechismo meglio di don Bernardo: Barbìn ha capito il Vangelo nella sua evidente funzione rivoluzionaria. In Tiri in porta alla fine della storia il leader moriva: Oscar annegava per fare una bravata, per andare a riprendere un pallone caduto in una cava. C'era questo tema della perdita di un compagno di giochi, che mi piaceva.
È l'unica morte negli "Album"...
Così il posto di leader, che era rimasto vacante, viene preso da Barbìn: dopo l'epica battaglia in chiesa con don Bernardo diventa a furor di popolo il nuovo leader. Sarà lui il leader del circolo culturale che poi nascerà dalle varie esperienze dell'oratorio e del teatro, e che prenderà il nome da Lucio Battisti.
Un altro tema ricorrente negli "Album", che con il vagone abbandonato battezzato appunto Circolo Culturale Lucio Battisti prende una nuova forma ancora più definita, è il rapporto con la ferrovia.
Non ho mai esplicitato l'effettiva importanza che hanno per me i treni. Ho scritto un racconto dal titolo La locomotiva bianca di papa Giovanni, in cui immagino che papa Giovanni guidi una locomotiva a vapore, ma bianca. E papa Giovanni la guida da dio. Naturalmente le locomotive a vapore sono tutte nere, anche per la fuliggine. Allora immagino che ogni volta che si sentono abbassare le sbarre nasca un dubbio: quella che sta per passare sarà forse Moby Dick, la locomotiva bianca di papa Giovanni.
C'è un motivo autobiografico dietro questa fascinazione per le ferrovie?
Sono figlio di ferrovieri e da bambino per me il luogo degli adulti era la cabina del treno. Appena possibile mi ci facevo portare, perché non sopportavo di stare dove stavano i passeggeri. Il mio desiderio era mettere il culo sul radiatore bollente di una 7 e 72, di una littorina; ma lì sopra la vibrazione del motore impedisce di rimanere seduti, e pian piano mi faceva scivolare giù, e poi dovevo rimontarci sopra a cavalcioni. Il motore di una 7 e 72 è largo più o meno come il sedile di una Harley Davidson moltiplicato per due, e io cercavo di abbracciarlo con le gambe e andare in treno in quel modo...
Liberi tutti mi sembra anche l'"Album" più connotato generazionalmente. Gli anni tra il '68 e il '77, nel bene e nel male, sono stati irripetibili. Credo che il senso più profondo degli "Album" sia proprio cercare di trasmettere l'esperienza della generazione che si è formata in quel decennio alle successive.
Forse il progetto degli "Album" potrebbe avere una conclusione nel 1984, vent'anni esatti dopo l'inizio di Adriatico...
Quando Nicola ha ventotto-trent'anni...
Sì, quando arriva alla svolta dei trent'anni. A quel punto il mondo è decisamente cambiato: in quegli anni viene incoronato Reagan, Gorbacev inizia a fare il suo lavoro, mentre nel nostro paese si è definitivamente consumata la stagione delle stragi, il signor Craxi governa e noi stiamo diventando la quinta potenza economica mondiale...
Quindi finisce un mondo, non solo quello contadino ma anche quel mondo piccolo borghese che vi si contrapponeva.
Finisce il mondo industriale. Dopo che era finito il mondo contadino, è finito anche il proletariato. Sono finiti i valori fondati sul lavoro, sulla solidarietà e sul tessuto sociale, sul bene pubblico oltre che sul breve privato. Inizia una fase in cui non c'è più nessun limite allo sviluppo di questo privato. Le case si allargano e mangiano le piante, i campi, e non solo quelli. Non è più soltanto la fase raccontata da Celentano nel Ragazzo della via Gluck, adesso sono i centri storici che vengono occupati. C'è stata una autentica fase militante in cui tutti i centri storici sono stati requisiti, e occupati abusivamente...
Dopo le occupazioni proletarie e giovanili degli anni Settanta, con i centri sociali...
Negli anni Ottanta il soggetto di queste occupazioni non sono più i giovani ma le banche, che sono il più forte soggetto rivoluzionario di quel decennio. Va tenuto conto del potere rivoluzionario con cui i compagni delle banche hanno provveduto a occupare i centri storici, che sembravano dominati dagli indiani metropolitani. Mentre succedeva tutto questo non ce ne siamo accorti, ma in realtà non esiste il centro storico italiano che non sia stato fisicamente occupato dalle banche.

4. APRILE '74 e 5
Il quarto "Album",
Aprile '74 e 5, segna un'evoluzione rispetto ai precedenti.
Certamente pago un prezzo. Finché parlo di infanzia o di adolescenza, come narratore posso anche permettermi di adottare il punto di vista di chi osserva gli altri. E poi io sono sempre stato grande. Anche voi: quando siete stati piccoli? Mai. Il punto di vista cresce con noi, la macchina da presa è sempre lì, il film l'ho sempre visto all'altezza dei miei occhi. Gli altri intorno si muovono, crescono, cambiano... Finché racconto gli altri, posso giocare finché voglio, perché in ogni caso sto raccontando a me stesso. Ma al quarto "Album" dovevo tirar fuori Nicola. Ho provato a pensare com'era Nicola, e mi sembra che fosse uno che parlava sempre: finché non ha trovato qualcuno che lo facesse star zitto, era insopportabile. Allora mi son detto: "Be', un po' la devono pagare anche quelli che vengono a vedere lo spettacolo, l'entrata in scena di Nicola".
Rispetto agli "Album" precedenti, Aprile è uno spettacolo meno corale, maggiormente concentrato intorno alla figura del protagonista-narratore.
Arrivato agli anni Settanta, in ogni caso, non posso più limitarmi al ruolo di corifeo, di chi guarda agire gli altri. Sento la necessità di far partecipare Nicola. Dietro questa esigenza c'è un problema di morale della narrazione, se possiamo definirla così. Esiste ovviamente un modo di raccontare il passato. Ma quando finisce il nostro passato e quando comincia il presente? Il problema ha iniziato a porsi proprio nel '75: quell'anno poteva ancora appartenere al passato, e tuttavia molte delle cose di cui parlavo non erano chiuse, non erano morte. Con Aprile sono arrivato al confine tra i vivi e i morti. Io racconto un mondo che può apparire chiuso e finito, ma contemporaneamente tengo i fili del presente.
C'è un'altra ragione, più profonda, della crescente importanza di Nicola. Proprio in quegli anni, nel momento esatto in cui è ambientato Aprile, qualcun altro ha iniziato a raccontare quella stagione, qualcuno con cui bisogna fare i conti: Nanni Moretti. In Io sono un autarchico (che in realtà è leggermente successivo, del '76) Moretti racconta nel presente, e in prima persona, con un alter-ego che è Michele Apicella. Moretti racconta in quel momento, con la sua faccia di quegli anni. Non è filtrato all'indietro, non dice: "Quando ero...". E poi continua quel racconto con assoluta precisione: così, da allora, ogni tanto arrivano queste sue testimonianze. I film di Moretti costituiscono un punto di riferimento necessario per il mio lavoro. Aldilà del fatto che certe cose - soprattutto a distanza di anni - possono piacermi o non piacermi, leggo il lavoro di Moretti come un altro percorso, diverso da quello di Heimat, perché non nasce da un progetto unico, ma che puntualmente ritorna sulle cose, con coraggio. E mi stimola.
In Aprile si sovrappongono due manifestazioni della Festa della Liberazione, quella appunto del '75 e quella del '93...
In uno spettacolo sugli anni Settanta, il nodo più evidente è la politica. Affrontandolo direttamente, si rischia di appiattire il discorso. Cosa vuol dire anni Settanta? Titoli cubitali sugli "Anni di piombo" e altre cazzate del genere. Ma la memoria per titoli annienta la capacità di sentire. Oggi abbiamo una memoria bidimensionale. Mi terrorizza il fatto che la memoria sia il video e che la televisione sia diventata il luogo del revival. Come fruitore, ho il massimo rispetto della televisione e per tutto ciò che mi offre, specialmente di notte perché la vedo dopo mezzanotte, quando non riesco a dormire: la guardo e mangio tutto quello che mi passano. Però è altrettanto evidente che non riesco ad accettare il fatto che tutto ciò che è fuori dalla televisione venga automaticamente escluso da certe categorie, per cui ormai alla televisione è stata consegnata la categoria della politica, che invece al teatro e alla letteratura non appartiene più. Dopo Vajont, che è uno spettacolo dichiaratamente politico, la gente viene a dirmi: "Sono emozionato". È una cosa che mi ha colpito: forse vengono a dirmelo perché ormai è scontato che la categoria del politico non appartenga al teatro. Quando Molière, Voltaire o Rousseau scrivevano un'opera, era comunque politica. Oggi questo fatto non viene più riconosciuto. Perché? Perché abbiamo deciso tutti, di comune accordo, che gli intellettuali del nostro tempo sono i giornalisti televisivi, ai quali è dato il compito di chiarirci ciò che non capiamo del nostro tempo. Ma la loro visione del mondo è bidimensionale, la loro percezione del nostro tempo è bidimensionale. Sono senza razza. Con la loro migliore volontà, non ci arrivano. La terza dimensione, quella che gli manca, è la profondità: la dimensione dei poeti, di chi sente, di chi ha un altro modo di essere nelle cose, come Pasolini: stare nelle cose cercando un modo per nominarle.
Allora, per tornare ad Aprile, avrei potuto fare un lavoro sugli anni Settanta parlando semplicemente della politica. Ma sentivo il rischio di trattare la politica come avevo trattato il calcio in Tiri in porta o l'oratorio in Liberi tutti: come uno degli animali da mettere nella gabbia delle cose, neutralizzandolo, magari facendone un oggetto di consumo per reduci. D'altra parte non posso neppure mettermi a urlare, usare il palcoscenico per parlare dei miei problemi personali. Allora ho semplicemente cercato di costruire una storia, fin dove ne sono capace.
(1988-1995)

Aprile

Con questo nuovo Aprile '74 e '75 gli Album di Marco Paolini, il mini serial teatrale che parte dagli anni Sessanta, arriva ora alla sua quarta puntata. Ma piombando nel cuore di un decennio lacerato e violento, abbandonando i territori dell'infanzia e dell'adolescenza, la tonalità cambia. Nelle , per il protagonista Nicola la colonia di Adriatico, il campo di calcio di Tiri in porta, l'oratorio di Liberi tutti, erano luoghi magici in cui iniziarsi alla vita, occasioni per misurarsi con il mondo e con gli altri. E Liberi tutti s'era concluso con una sensazione d'apertura, di novità, di rottura degli schemi. Insomma, con un piccolo '68.
E invece, dopo questa promessa d'utopia, Aprile '74 e '75 racconta di schemi obbligati, di rigidità e di ruoli. La scena costruita nel monologo è duplice e sovrapposta: il campo di rugby e la piazza centrale della città, quella che accoglie le manifestazioni. Questi due spazi simbolici si rispecchiano l'uno nell'altro, così come la partita e il campionato riflettono lo scontro politico e sociale che attraversa l'intera società: compagni contro fascisti, compagni contro polizia. Su quei campi, su quelle piazze, in un mese inquieto che esplode di energie, si lotta, si combatte, si soffre, si vince o si perde, ma forse non si cresce più... In Tiri in porta il calcio era un'occasione per inventare personaggi e interazioni; ora invece il rugby, con la sua brutalità, le sue cupezze, l'organizzazione della squadra, le tattiche di mischia, diventa piuttosto la metafora di una stagione politico-esistenziale.
Gli anni di Aprile dovrebbero essere, dal punto di vista della cronaca e della storia, quelli della politica, dell'ideologia, dell'impegno: ma nello spettacolo di Paolini tutto questo è una cornice per raccontare una vicenda più profonda, più intima. Il cerchio sembra stringersi intorno a Nicola, protagonista e narratore, ormai vicino ai vent'anni. Il monologo slitta dall'epica verso la confessione, il contorno dei comprimari si riduce a una serie di schizzi: forse perché allora bisognava essere tutti «uguali», tutti «compagni» (quelli dalla parte «giusta» e anche gli altri), e in ogni caso tutti intrappolati in uno schema, in una partita che è anche una guerra per bande, uno scontro ritualizzato che ha come fondale - appunto - la città. Aprile accenna impressionisticamente, con umorismo, alle diverse fasi del cerimoniale: dall'attacchinaggio all'organizzazione dei cordoni, dal corteo allo scontro di piazza, fino al rievocare in sintetici flashback la strage di Brescia e la manifestazione del 25 aprile del '94, sotto l'immancabile diluvio.
In apparenza Paolini rievoca la solidarietà dei corpi, il piacere dello scontro fisico, la fusione collettiva e la «società perfetta» del bar (altro luogo deputato di Aprile, dove troneggia la bellezza appassita della proprietaria, ex prostituta ed ex partigiana). In realtà sta raccontando la storia di una solitudine, in una stagione che bruciava con foga testarda speranze e illusioni.
Così questo Aprile, che alla fine lascerà uno dei compagni di rugby e di lotta in un letto d'ospedale, in coma per sei mesi dopo le botte della Celere, diventa la premessa di una sconfitta. Paolini (autore, regista e attore) la racconta con onestà e con coraggio, attraverso passaggi di comicità alla Ecce Bombo, ma anche con un dolore avvertibile: la sofferenza di ritornare a un'esperienza irrisolta, mai capita fino in fondo, tanto da volerla faticosamente ripensare, districando i ricordi e misurandola di nuovo, quotidianamente, attraverso una lettera di due minuti scritta ogni giorno prima dello spettacolo e letta nel finale, prima della conclusione sospesa.
Nei libri di storia gli anni Settanta appariranno diversi, così come molti percorsi individuali non si riconosceranno in questa vicenda particolare (cosa che negli Album precedenti accadeva più facilmente). Forse questo Aprile non è la storia, forse non è la memoria, forse non è neppure - come suggerisce Nicola - la verità. Ma quel campo fangoso e la sconfitta finale sono forse la metafora più vera di quella stagione. Una stagione da ripensare per ritrovare le proprie patrie personali e collettive, sospese tra le proprie radici e l'utopia.
(1995)


 


 

Il progetto, il gruppo, i classici, la narrazione
Una intervista inedita a Gabriele Vacis (marzo 1999)
di Oliviero Ponte di Pino

 

Oliviero Ponte di Pino Perché a un certo punto, intorno alla fine degli anni Ottanta, hai sentito il bisogno di misurarti con i classici?

Gabriele Vacis Avevamo appena fatto Riso amaro, e avevamo comunque moltissimo l'esigenza di raccontare. In fondo avevamo voglia di raccontare già nelle Affinità elettive. E di questo eravamo molto consapevoli.

Oliviero Ponte di Pino All'epoca la parola chiave di Settimo era il progetto, ma più in una chiave architettonica, mentre invece nella narrazione emerge una dimensione più romanzesca...

Gabriele Vacis Però se ci ripenso ho come l'impressione che il progetto all'epoca fosse anche raccontare delle storie, questo faceva parte del progetto

Oliviero Ponte di Pino A rompere la forma chiusa del racconto è stata la logica del postmoderno, che voi riprendevate quando dicevate che, quando si parte con un progetto, alla fine si arriva sempre da un'altra parte: da un lato c'è la necessità di avere un progetto, e dall'altro l'impossibilità di chiuderlo...

Gabriele Vacis Siamo rimasti abbastanza rimasti fedeli a questo. A un certo momento, proprio per realizzare questo progetto, che era quello di raccontare delle storie, abbiamo avvertito la necessità di trovare gli strumenti per raccontare storie che in qualche modo sentivamo di non avere, o perlomeno quelle che avevamo, che ci venivano dalla tradizione, dai modelli correnti all'epoca, le rifiutavamo. Così abbiamo avuto l'esigenza di avere dei maestri. Ma non li trovavamo fisicamente, cioè non trovavamo delle persone che si assumessero questo ruolo, o forse li avevamo consumati... Così abbiamo pensato che i maestri potevano essere Shakespeare o Cechov o Molière. E abbiamo imparato a raccontare, siamo andati a scuola di racconto mettendo in scena Romeo e Giulietta, oppure Goldoni, fino al Tartufo, in un progressivo avvicinamento al processo di messinscena.

Oliviero Ponte di Pino Nel vostro spettacolo la vicenda di Romeo e Giulietta veniva raccontata dai superstiti, dopo che la tragedia si era consumata...

Gabriele Vacis Era un'operazione drammaturgica sostanziosa. Che abbiamo ripetuto con Goldoni, anche se in maniera meno radicale, perché il punto di partenza dello spettacolo erano due o tre pagine dei Memoires in cui Goldoni stesso raccontava la Trilogia della villeggiatura. Quindi eravamo già più vicini a Goldoni, e nello spettacolo c'erano molte più scene di Goldoni.

Oliviero Ponte di Pino Anche se poi l'intera Trilogia veniva condensata in tre ore di spettacolo...

Gabriele Vacis In origine durava quattro ore: le tre commedie in tre atti diventavano ognuna un atto dello spettacolo... Poi abbiamo tagliato un'ora, perché una cosa erano quattro ore nelle Ville sul Brenta dove era nato e cresciuto il lavoro, e dove avevamo debuttato; e altra cosa era al Teatro dell'Elfo, a Milano. Dopo due repliche avevo tagliato un'ora, non aveva senso rimanere in quel posto quattro ore. Mentre a Villa Pisani, se si stava là cinque andava meglio ancora. Poi, quando abbiamo fatto diventare la Trilogia uno spettacolo di giro, abbiamo avvertito l'esigenza di tagliarlo. Con il Tartufo in pratica abbiamo messo in scena il testo di Molière.

Oliviero Ponte di Pino Ma facendo anche in questo caso una scelta drammaturgica forte, perché il protagonista, cioè Tartufo, non era un attore ma un manichino.

Gabriele Vacis Questa assenza del protagonista è un po' una costante: in Romeo e Giulietta non c'erano Romeo e Giulietta, quando abbiamo fatto Fitzgerald il protagonista non c'era... Non so perché. Evidentemente non riuscivo a portarlo in scena ... Anche nelle Affinità elettive non c'erano i protagonisti, erano gli altri che raccontavano quello che succedeva.

Oliviero Ponte di Pino Forse perché hai bisogno di un filtro, o di un'assenza...

Gabriele Vacis All'inizio si poteva pensare che fosse un filtro, ma visto che siamo recidivi alla fine bisogna dire che è un'assenza.

Oliviero Ponte di Pino Anche se magari alcune scelte sono state determinare da circostanze casuali o esterne, è curioso che in moltissimi tuoi spettacoli ci sia questo decentramento del racconto.

Gabriele Vacis In affetti anche in Olivetti o nel Racconto del Vajont i veri protagonisti non ci sono: c'è un solo attore che racconta tutta la vicenda, e questo fa sì che non ci sia nessuno.

Oliviero Ponte di Pino Anche se poi il narratore è molto presente...

Gabriele Vacis Oltretutto c'è un'altra coincidenza. Subito dopo Riso amaro, cioè proprio nel momento in cui abbiamo cominciato a raccontare, abbiamo fatto Adriatico, cioè il primo Album di Marco Paolini, e un anno dopo abbiamo cominciato a fare Passione con Laura Curino in scena da sola.

Oliviero Ponte di Pino A quel punto si aprono nel lavoro di Settimo due filoni: quello della ricerca sui classici e quello della narrazione. A quel punto il tuo atteggiamento come regista nei confronti del lavoro con gli attori è cambiato?

Gabriele Vacis È lo stesso atteggiamento che avevo nei confronti dei personaggi degli spettacoli: tendevo a scomparire. C'è stato un passaggio, in questi anni, una specie di suicidio della figura del regista: che non è più l'autore dello spettacolo, l'unico autore.

Oliviero Ponte di Pino Il regista non è più il demiurgo che determina tutti gli elementi dello spettacolo in base alla sua concezione del testo. Ma a questo punto entrano in gioco altri elementi che il regista-demiurgo tendeva a schiacciare.

Gabriele Vacis Da una parte questa scomparsa della figura del regista-autore-demiurgo è coerente con l'idea di progetto che manifestavo all'epoca: non si tratta tanto di immaginare una cosa che avrebbe dovuto essere realizzata e poi di ridurre il tempo per realizzare quel sogno. Si tratta di innescare dei processi, di collaborare con l'incertezza finché non succede qualche cosa. Quindi non si tratta tanto annullare il tempo, ma di recuperarlo attraverso la pazienza, guardando quello che succede. Si tratta più di stare a guardare e ad ascoltare che di imporre un disegno. Io ho smesso di progettare l'esito finale, o il senso del testo, e progetto invece i meccanismi, innesto di una serie di meccanismi. Quando cominciamo a raccontare una storia in casa di amici, non lo ha minima idea di cosa succederà, come non ce l'ha l'attore. Io e l'attore, o gli attori, prendiamo parte a un processo che all'epoca definivo "utopico ed eterotopico": il processo utopico, cioè il mio sogno, deve essere realizzato attraverso l'annullamento del tempo. E in questo processo non si perde l'apporto degli attori in quanto autori.

Oliviero Ponte di Pino È fondamentale mettere in gioco la creatività dell'attore, che a quel punto non è più un manichino o una marionetta che esegue il compito che gli è stato assegnato, una partitura predeterminata, ma diventa elemento creativo all'interno dell'elaborazione dello spettacolo.

Gabriele Vacis E quindi costruisce una figura, un sé completamente autonomo. Questo è evidentissimo sia in Laura Curino sia in Marco Paolini. Oggi tutte le vicende di Ivrea, con gli spettacoli sugli Olivetti, sono strettamente legate a Laura, in qualche modo Laura è Ivrea. E Marco è il Veneto. Il loro corpo è diventato quella terra. Con loro il lavoro è riuscito bene. Abbiamo provato a rifarlo con Beppe Rosso e con Eugenio Allegri, che da questo punto di vista sono riusciti meno. Ma ci vuole molto tempo.

Oliviero Ponte di Pino Il rapporto con la terra è un elemento che si riconosce immediatamente molto forte in Marco e in Laura, e meno forte sia in Eugenio sia in Beppe. Certo che Eugenio, quando faceva Novecento, aveva difficoltà ad ancorarsi in un punto, anche perché è la storia è ambientata su un transatlantico. Beppe invece raccontava delle storie delle Langhe e lì l'ancoraggio alla terra avrebbe dovuto essere più facile. Però in quel caso, secondo me, quello che restava vago, e che invece è sempre molto preciso sia per Marco sia per Laura, è il punto di vista di chi parla, la posizione del narratore. È forse per questo, perché Laura e Marco hanno un rapporto più chiaro e più forte con la loro terra, ma anche con la loro biografia, che hanno più autorità quando raccontano.

Gabriele Vacis Va anche detto che con Laura e con Marco abbiamo cominciato questo lavoro insieme, mentre Beppe è arrivato dopo e ci abbiamo lavorato molto meno. Il lavoro con Marco e Laura è fondante. Mi ricordo esattamente quando con Laura e con Marco abbiamo detto: "Adesso bisogna che voi diventiate il kathakali del racconto". Avevamo visto uno spettacolo di kathakali, e volevo che loro diventasse quella cosa.

Oliviero Ponte di Pino Ma che cosa di preciso vi aveva colpito?

Gabriele Vacis L'essenza di quella cosa, l'esattezza. È chiaro che quegli attori sono molto più di un attore come si intende normalmente, sono degli autori. Il mio ruolo è di innescare quel processo. Dopo di che intervengo anche nel corso del lavoro, è ovvio...

Oliviero Ponte di Pino Credo che ci sia una collaborazione molto stretta anche sul piano drammaturgico.

Gabriele Vacis Sicuramente, però è una funzione di servizio...

Oliviero Ponte di Pino ...un problema tecnico.

Gabriele Vacis Quello che mi interessa è di innescare dei ruoli. Per esempio quello con Lella Costa è un lavoro di trasformazione, che richiede molto tempo: si tratta di traghettare il suo lavoro, di darle una mano a diventare quello che vuole diventare. In questo senso il kathakali è un modello: gli attori incominciano il training da bambini, si parla proprio di formazione del corpo dell'attore. Il lavoro che ho fatto con questi attori è proprio di formazione del corpo dell'attore. È lo stesso obiettivo che cerco con i ragazzi della Civica Scuola d'Arte Drammatica di Milano, dove insegno: la presenza, una presenza assolutamente spogliata di ogni artefazione. Naturalmente si tratta di costruire un'altra artefazione, è ovvio, però non è più un'artefazione per aggiunta, è un'artefazione per scaricamento. E quindi il lavoro che faccio qui a scuola va nella direzione di attori sciolti, che non hanno più neanche la preoccupazione del testo. Lì i ragazzi avevano una serie di testi a memoria, dalle Città invisibili, per esempio, e poi c'erano dei piccoli tic quotidiani. Lo spettacolo era una giornata, loro sapevano che si partiva dal mattino con un "Buon giorno" e si finiva con la buonanotte. Ovviamente si intitolava Milano perché l'abbiamo fatta qui. Non come sarebbe stato montato lo spettacolo: avevo una campana e se proprio fosse andato tutto in vacca avrei suonato la campana e loro sarebbero ripartiti da un certo punto. Ma non ho mai avuto bisogno di suonare la campana e quello lì credo sia l'esito più avanzato che ho fatto finora, la cosa più interessante che ho fatto. E penso che questo qua è il teatro, cioè noi diciamo che il teatro è diverso tutte le sere, allora questo è vero, ed è vero anche per gli spettacoli più tradizionali, perché è ovvio. Però è poco diverso. Allora andiamo, è difficile dire, perché in fondo gli attori sanno il testo a memoria, lo ripetono tutte le sere, È questo il nemico: la ripetitività, la stanchezza della coazione. Alla fine è pur sempre vero che cambia comunque, però è poco. A me piacerebbe che cambiasse di più, che il pubblico tornasse ogni sera per vedere una cosa diversa. In fondo con Laura e con Marco succede un po' questo.

Oliviero Ponte di Pino Anche perché la forma della narrazione prevede in qualche misura un continuo cambiamento, perché quel tipo di lavoro prevede il dialogo con il pubblico alla fine dello spettacolo, e questo porta nuove informazioni, nuovi aneddoti, nuove deviazioni. Il rapporto con il pubblico porta anche a cambiare l'ordine dei pezzi...

Gabriele Vacis Il 9 ottobre, quando abbiamo fatto Vajont in tv, nel pomeriggio avevamo scoperto una cosa sul passaggio della proprietà della diga all'Enel e l'abbiamo messa dentro per la sera. Lo si fa normalmente.

Oliviero Ponte di Pino Però è una cosa che non probabilmente fai con spettacoli come Romeo e Giulietta.

Gabriele Vacis Assolutamente no, anche se poi adesso questi spettacoli, fino a Villeggiatura e Tartufo, li sento abbastanza vecchi. Uccelli è stato un po' una parentesi, avevo voglia di fare una follia e l'ho fatta.

Oliviero Ponte di Pino Era uno spettacolo che aveva spunti interessanti e cose che non funzionavano.

Gabriele Vacis Mi sembra che le commedie di Aristofane siano l'origine, la radice della commedia dell'arte, perché dentro quei testi ci trovi gli stessi meccanismi comici, l'atteggiamento dei personaggi... Sono dei canovacci e ho pensato che avremmo potuto usarli in quel modo. Eugenio Allegri, se togli Dario Fo, oggi è di sicuro uno dei massimi conoscitori della commedia dell'arte. E allora ho voluto fare con lui questo esperimento. Purtroppo è stato male e quindi abbiamo dovuto sostituirlo e a quel punto ho cambiato completamente rotta. Ho provato a inserire un pazzo come Francesco Salvi, che dava allo spettacolo una particolarità assoluta: perché è un attore televisivo con tutti i vizi dell'attore televisivo, tutti i limiti, però anche una qualità, una presenza completamente diversa.

Oliviero Ponte di Pino Una grande energia.

Gabriele Vacis E questo mi interessava molto, mi piaceva. Ne è venuto fuori uno spettacolo che era al di là della demenzialità, uno spettacolo postdemenziale.

Oliviero Ponte di Pino Partiva bene, ma poi dopo i fili andavano via ognuno per i fatti suoi...

Gabriele Vacis Infatti ogni tanto era molto divertente, ma anche molto variabile. Del resto fare uno spettacolo con molti attori pone alcuni limiti. Se c'è una costante generazionale, mi sembra che noi che abbiamo più o meno quarant'anni siamo imbattibili a fare i monologhi. Invece quando facciamo delle cose con più attori i risultati non sono ugualmente memorabili... Forse è un problema di struttura, un problema produttivo, più organizzativo che artistico. Io faccio fatica ad adattarmi alle condizioni produttive della generazione precedente, ci provo ma è una fatica terribile.

Oliviero Ponte di Pino Perché dici che spettacoli come Tartufo o Romeo e Giulietta li senti vecchi? Forse per diversi motivi, al di là del tempo che è passato. Il gruppo di Settimo così com'era allora non c'è più; e poi credo che quegli spettacoli avessero anche un obiettivo di politica culturale, che era quello, secondo me giusto, di mettere in contatto un teatro di ricerca con il circuito del teatro ufficiale. E questo percorso ha funzionato solo fino a un certo punto, non è riuscito a spostare gli equilibri.

Gabriele Vacis L'ipotesi era quella di formare una compagnia che poi avrebbe potuto intaccare i meccanismi del teatro ufficiale.

Oliviero Ponte di Pino Il teatro che faceva Settimo creava un sapore, una tessitura di spettacolo completamente diverso dalla normale regia, da quello che si vedeva nei teatri d'abbonamento. Era uno scarto fortissimo.

Gabriele Vacis Quando facevamo Romeo e Giulietta al Carcano, solo il fatto che ci fosse il sipario aperto quando entrava il pubblico era un trauma. Però alla fine la reazione era molto positiva, nonostante il trauma e la distanza oggettiva da quello che vedeva di solito. Quindi quell'operazione per certi versi è riuscita.

Oliviero Ponte di Pino I singoli spettacoli potevano anche passare. Quello che poi non è passato è il cambiamento dei rapporti reciproci.

Gabriele Vacis C'è stata un'eccessiva difesa da parte dell'establishment teatrale, che non ha permesso questo cambiamento, che non ha saputo coglierlo perché è troppo incancrenito. E anche da parte mia c'è un'insofferenza, perché non riesco a produrre uno spettacolo in quei tempi, non riesco a produrre facendo il cast con quel sistema. Io ho bisogno di fare un lavoro pedagogico, ho bisogno ogni volta di inventare una struttura produttiva, e deve essere diversa per ogni spettacolo. Faccio fatica a riproporla senza cambiamenti. A volte mi rendo conto che strategicamente dovrei riconfermare le cose che funzionano, ma non ci riesco. È anche un mio problema di coerenza: se per me una cosa è fatta, non ho più voglia di rifarla, se ci provo non la faccio più con la stessa convinzione, e così ne faccio un'altra e prendo una strada diversa... Anche se poi credo che i percorsi siano riconoscibili, perché in fondo raccontiamo sempre la stessa storia, però in un modo diverso, con una struttura diversa. Penso che oggi la scommessa sia quella di riuscire a modificare i sistemi produttivi.

Oliviero Ponte di Pino Per renderli più flessibili, mi sembra di capire. E invece che cosa mi puoi dire sull'evoluzione di Settimo come gruppo?

Gabriele Vacis È stata progettata. A un certo momento ho cominciato a dire che secondo me Settimo non poteva essere un gruppo perché identificavo il gruppo come il gruppo del Terzo Teatro, e noi non lo siamo mai stati. Per un certo periodo abbiamo cercato di esserlo, e avevano una connotazione di "famiglia" che per certi versi abbiamo ancora, perché ci sono legami di sangue che poi, qualunque cosa accada, non vengono mai intaccati. Ma questo riguarda e non riguarda il lavoro, mentre nei gruppi del Terzo Teatro questo era essenziale, faceva parte del lavoro. Ecco, noi cercavamo di esserlo perché si usava così...

Oliviero Ponte di Pino Era un'ideologia estremamente affascinante e forte.

Gabriele Vacis Però, a ripensarci, non siamo mai riusciti a esserlo fino in fondo: ognuno di noi ha sempre avuto delle idee sue, ognuno di noi ha sempre fatto delle altre cose, nessuno di noi è stato fedele...

Oliviero Ponte di Pino Non era un gruppo chiuso...

Gabriele Vacis Ma nello stesso tempo è sempre stato molto difficile far parte di questo gruppo.

Oliviero Ponte di Pino Infatti le persone con cui tu lavori sono le stesse da sempre.

Gabriele Vacis Sì, e credo in linea di massima continuerò così. Ci sono anche dei ragazzi che ho incontrato le prime volte che facevo dei seminari a scuola e con cui comunque continuo a lavorare. Sono un po' come l'edera, da questo punto di vista. Però credo che nello stesso tempo questo permetta una libertà notevole. Nel momento in cui abbiamo detto che si incominciavano a fare dei lavori individuali, abbiamo detto: "Il Teatro Settimo è un ambiente, non è un gruppo. Non possiamo più pensare in quei termini, bisogna che lo facciamo diventare un ambiente, cioè una struttura molto più articolata". E oggi penso che ci sia del Teatro Settimo nel lavoro con Lella, per le modalità, i collaboratori eccetera... Allo stesso tempo non si può dire che Lella sia il Teatro Settimo. Lo stesso accade con la Banda Osiris. Il Teatro Settimo è tutto questo: un ambiente, una nebulosa, anche difficile a volte, come un torrente che ogni tanto va sottoterra, per un po' non lo vedi più, poi viene fuori e allora lo riconosci. E penso che da parte di tutti ci sia un po' questa percezione del Teatro Settimo. E ci sono percorsi come il teatro ragazzi che non abbiamo mai abbandonato: Acquarium è uno spettacolo che continua a girare e che mi piace molto, sono andato solo due volte alle prove eppure lo sento perfettamente mio. Credo che senza questo ambiente, se fossimo rimasti un gruppo, forse questo non sarebbe nato, perché ci sarebbe stato come un tirare le redini, i remi, la scelta di non allontanarsi. Il gruppo del Terzo Teatro si fondava sull'esclusività del rapporto.

Oliviero Ponte di Pino Forse non è un caso che tutti i gruppi del Terzo Teatro siano implosi. Una volta elaborato un certo linguaggio, un certo tipo di rapporti anche personali, hai delle spinte centripete gigantesche, perché il lavoro interno ti da molte gratificazioni. Ma alla fine questo meccanismo ti uccide

Gabriele Vacis Quello che temevo molto nel gruppo era il livellamento verso il basso. A un certo punto ho detto: "Voglio che sulle locandine Teatro Settimo sia scritto piccolo, bisogna scrivere in grande il nome dell'attore e metterci la sua foto, di modo che il pubblico riconosca gli attori. Devono essere riconosciuti. Il mio nome, poi, può essere scritto anche più piccolo, non me ne importa niente". Invece Strehler no, il nome è scritto in grande mentre Goldoni è scritto più piccolo... Non sto dicendo che è sbagliato, anzi, risponde a una verità: quello spettacolo lì, più che Goldoni è Strehler, quindi è giusto che il nome sia più grande. Io credo di fare una cosa diversa. E poi mi spaventava moltissimo un altro fatto: si vedeva che qualcuno era più bravo, ma dentro il gruppo le sue potenzialità non venivano sviluppate. E allora mi sono detto: "Bisogna che siano gli attori o le individualità a fare il Teatro Settimo, non il Teatro Settimo a fare le individualità".

Oliviero Ponte di Pino Un elemento importante del tuo lavoro è la vocazione pedagogica. È molto difficile insegnare il teatro e trasmettere un metodo di lavoro o un certo atteggiamento nei confronti del teatro. Per te invece è un aspetto fondante.

Gabriele Vacis Il teatro secondo me assomiglia molto più al rapporto pedagogico che non alla televisione e al cinema, anche se è sicuramente loro parente. Eisenstein diceva che il cinema era il teatro del XX secolo, ma per una volta si sbagliava. Il cinema è un'altra cosa, ha un suo linguaggio. Il rapporto pedagogico è il parente più stretto del teatro perché si fonda sull'unità spazio-temporale: io che insegno devo essere lì insieme ai ragazzi che apprendono, così come l'attore con il pubblico. Quindi credo che il teatro sia uno strumento utilizzabilissimo pedagogicamente, sia per poter insegnare il teatro, sia per insegnare altro, così come il teatro serve sia per parlare del teatro sia per parlar d'altro.

Oliviero Ponte di Pino Quando vedi un ragazzo che arriva per la prima volta a un seminario, quanto tempo ci metti a capire se ha delle qualità?

Gabriele Vacis Un quarto d'ora, anche se qualche volta mi sbaglio. Ma quando fai delle selezioni, nel giro di qualche minuto capisci con chi andrai avanti, chi ti interessa.

Oliviero Ponte di Pino Da che cosa lo capisci?

Gabriele Vacis Un po' è intuito, esperienza. Un po' sono una serie di attitudini: per esempio, qualcuno che è in grado di raccontarmi qualche cosa e di interessarmi mentre lo racconta. Questo lo si capisce subito, poi questa dote si può affinare, perché magari gli mancano le parole, un vissuto, un retroterra culturale. Molto spesso i ragazzi sanno pochissime cose, ma nel momento in cui le sapranno, sapranno anche raccontarle. Mi interessa molto la disponibilità dell'attore a esibire la propria persona, oltre al personaggio. Mi interessa il momento in cui cambia...

Oliviero Ponte di Pino ...il momento in cui la persona diventa personaggio...

Gabriele Vacis Mi piacerebbe fare uno spettacolo in cui non c'è mai la persona e non c'è mai il personaggio.

Oliviero Ponte di Pino Nei tuoi spettacoli la parte iniziale è sempre molto bella: ed è proprio quella in cui le persone diventano personaggi. E' sicuramente una corda che sai suonare molto bene.

Gabriele Vacis E mi piace, mi interessa vedere proprio quel momento. L'abbiamo scoperto durante il lavoro su Romeo e Giulietta. Marco era frate Lorenzo e doveva diventare Romeo...

Oliviero Ponte di Pino Anche se non ha il fisico...

Gabriele Vacis Non ce l'ha e non l'ha mai avuto, e quindi il problema era di farlo diventare Romeo. Cercavamo di ridurre il tempo di questo passaggio, abbiamo lavorato per settimane: ecco, un attimo prima è frate Lorenzo e un attimo dopo è Romeo. A un certo punto invece ci siamo accorti che bisognava fare il contrario: bisognava dilatare il tempo in cui lui stava per diventare Romeo, e ci siamo addirittura inventati questa faccenda del rifiuto. Laura arrivava e gli diceva: "Dai, frate Lorenzo, faccia Romeo", e lui: "Ma no, non lo faccio...". Il momento del passaggio, convincerlo a farlo eccetera, era una specie di relais che trasformava lentamente la cosa.

Oliviero Ponte di Pino Anche nel teatro di narrazione questo entrare e uscire dai personaggi è fondamentale.

Gabriele Vacis Goldoni per esempio su questo ci ha insegnato moltissimo. Nella Trilogia gli attori facevano più personaggi, era proprio un continuo girare da un personaggio all'altro.

Oliviero Ponte di Pino Perché dopo Tartufo hai abbandonato la strada dei classici?

Gabriele Vacis Perché non sono più riuscito a costruire le condizioni produttive. Perché il Teatro Settimo come struttura non era più sufficiente a produrre spettacoli di quella complessità, di quell'impegno, che richiedevano quell'arco di tempo... La Villeggiatura l'abbiamo provata per tre mesi, e prima avevamo già fatto molto lavoro. Romeo e Giulietta è nato come studio a Taormina, poi l'abbiamo fatto diventare uno spettacolo, senza dimenticare gli infiniti seminari nelle università fatti da me, da Laura, da Marco, da Eugenio. Per fare uno spettacolo eravamo tutti impegnati per un anno, di solito. Poi ho fatto Novecento, ho fatto Totem, cose meno impegnative dal punto di vista dell'impegno produttivo. Questa è la prima ragione. Ce n'è un'altra: io sono un po' incostante, è un mio vizio. Però mi piacerebbe ricominciare. Per esempio qui a scuola ho fatto alcune cose impegnative da questo punto di vista, come Il mondo salvato dai ragazzini...

Oliviero Ponte di Pino In questi anni hai anche fatto un grosso lavoro sulla tragedia greca e in particolare sul corpo. Immagino che avendo i mezzi necessari e una situazione adatta, sarebbe forse una delle prime cose che faresti. Perché questo richiamo alla tragedia, tanto per cominciare?

Gabriele Vacis Be', Vajont che cos'è? Una tragedia. Anche la trilogia della Villeggiatura finiva in tragedia Mi sembra che una grossa carenza, oggi, sono sentimenti come il cordoglio collettivo, la capacità di produrre questi sentimenti e in particolare il sentimento tragico. Noi siamo la prima generazione cresciuta a televisione e Nutella, non mi ricordo quando è arrivata la televisione in casa mia, c'è sempre stata. E quindi i neuroni si muovono in quel modo lì, e allora è come se tutto questo ci facesse diventare tutto più leggero, e forse questo è civiltà, è bene perché magari non ci accoltelliamo più, cioè cerchiamo di risolvere le cose...

Oliviero Ponte di Pino o guardiamo la guerra in televisione come accade oggi...

Gabriele Vacis Cerchiamo di risolvere le cose in modo diverso... Me è come se amassimo vivere in questo mondo virtuale, in un mondo sempre più virtuale. Per contro però credo che abbiamo nostalgia. Infatti io non credo di mettere in scena delle tragedie, credo di mettere in scena la nostalgia della tragedia. E questo magari va bene, cioè meno male che le tragedie non ci sono più...

Oliviero Ponte di Pino ...anche se che poi Vajont di fatto è una tragedia...

Gabriele Vacis Ma anche in questo caso forse siamo più nella zona della nostalgia della tragedia che della tragedia vera e propria. Io sono un po' preoccupato quando vedo certe reazioni: naturalmente mi fa piacere che gli spettacoli che faccio abbiano successo, però nello stesso tempo quando vedo un trasporto acquiescente, cioè che il fatto di aver partecipato a un rito in qualche modo lavi la coscienza, questo mi dà qualche preoccupazione.

Oliviero Ponte di Pino Ma è anche il meccanismo della catarsi...

Gabriele Vacis Infatti da questo punto di vista mi piacerebbe fare una cosa un po' più brechtiana.

Oliviero Ponte di Pino All'interno di questo lavoro sulla tragedia tu hai fatto molto lavoro sul coro. Perché questa insistenza?

Gabriele Vacis Lo dicevo prima: mi piace il momento in cui il personaggio cambia, cioè in cui non è più la persona ma non è ancora il personaggio. Un po' come la scena della trasformazione nel Dottor Jeckyll e Mister Hyde: al cinema non vedi mai la trasformazione. Prima c'è il dottor Jeckyll, vedi che va nella sua stanzetta, prende la pozione, l'inquadratura va sulla mano, spuntano i peli. Non va bene. Invece dev'essere lì in primo piano, fermo per due minuti, una sequenza lunghissima, lui diventa il dottor Jeckyll, e questo è bellissimo, è una cosa straordinaria. Il coro è un po' questa cosa qua, è un po' dentro alla tragedia. Poi i cori sono sempre diversi, anche questo mi affascina tantissimo.

Oliviero Ponte di Pino In una tragedia c'è un coro di vecchi, in un altro le donne di Trachis...

Gabriele Vacis E nella stessa tragedia, il primo coro è una preghiera, il secondo un racconto, il terzo un'invocazione. È bellissimo: sono tutte cose diverse, ma a dirle sono sempre queste figure che non sono né la persona né i personaggi. È questa zona lì in mezzo che mi affascina. Di nuovo un'assenza.

Oliviero Ponte di Pino In questo lavoro sul coro, pensi di aver fatto dei passi avanti?

Gabriele Vacis Credo che Sette a Tebe avesse già degli elementi interessanti, anche se il coro era molto cantato. Nello studio sulle Fenicie invece abbiamo cercato di recuperare la narratività dentro ai cori. C'era un momento, bellissimo secondo me, in cui abbiamo capito che la funzione del coro in quel momento era proprio quella del corifeo: suggeriva al pubblico come comportarsi, esattamente come in una messa c'è il co-officiante che fa un cenno e invita il pubblico a fare una determinata azione. Nelle Fenicie c'era proprio un momento, evidentissimo, in cui la corifea indicava al pubblico: "Adesso alzatevi, perché questa cosa bisogna ascoltarla in piedi". Una sera è successo: il pubblico si è alzato. Mi piacerebbe molto fare quello spettacolo.

Oliviero Ponte di Pino E da che tragedia partiresti?

Gabriele Vacis Le Fenicie mi interessa molto, perché è una tragedia in cui il coro è sempre stato misterioso. La si mette poco in scena perché non si capisce chi è questo coro, che cosa fa. Invece credo che piano piano lo abbiamo scoperto, anche lavorando con i ragazzi.

Oliviero Ponte di Pino Laura, Marco e Beppe lavorano sulla Storia con la S maiuscola, che è un elemento forte nella narrazione. Credo che il teatro di narrazione sia anche un tentativo di non perdere contatto con la storia. È questo che dà poi profondità al lavoro che poi fanno questi attori.

Gabriele Vacis È stato fondamentale il momento in cui abbiamo detto: "D'ora in poi faremo sempre riferimento a una storia minuta, personale, come se volessimo raccontare delle biografie". E infatti facevamo proprio questo: Passione o gli Album in sostanza sono autobiografie. Però avevo l'impressione che mancasse l'aggancio al grande immaginario collettivo. Ma qual è questo grande immaginario collettivo? Olivetti e il Vajont sono partiti di lì: si tratta di due vicende che appartengono all'immaginario collettivo. Incontriamo sempre qualcuno che ci dice: "Ah, c'era la cugina di mio fratello che una volta un suo amico aveva lavorato all'Olivetti...", "Ah, c'era una parente della parente della parente che conosceva uno che era stato al Vajont quando c'era stato il disastro, aveva lavorato alla diga"... In un modo o nell'altro tantissima gente è stata coinvolta. Inoltre "Vajont" e "Olivetti" sono due parole che tutti hanno sentito, ma pochissimi sanno che cosa sono: sono quasi due parole rimosse, che però non puoi rimuovere perché sono troppo potenti per essere rimosse. Quindi bisognava andare a scavare, ricostruire. È un gesto importante, fondamentale, quello di riportare alla luce. Perché ritrovare il rapporto con il passato significa anche recuperare l'idea del tempo. Nel secondo Novecento, cioè dopo la guerra, il teatro e le arti in generale hanno in qualche modo cercato di annullare il tempo. Gli artisti di quel periodo non riuscivano più a pensare che ci fosse un futuro. Alberto Giacometti faceva sculture perché vedeva quelli che riuscivano a tornare dai campi di concentramento. Beckett, in Aspettando Godot, nel '48, subito dopo la guerra, vedendo tornare la gente dai campi di concentramento, come faceva a pensare che ci potesse essere il futuro? Sperava che non ci fosse, giustamente. L'uomo moderno vive in una situazione che è un gerundio continuo: "aspettando". Adesso noi riusciamo a pensare che il futuro c'è, e ci siamo un po' rassegnati che ci sia. Allora facciamo delle tragedie ottimistiche, e quindi andiamo a scavare nel passato. Per quale ragione a un certo punto ci siamo messi a lavorare su Riso amaro? All'epoca non ne ero del tutto consapevole, però quel film era un mito della generazione precedente, non della nostra: fare quello spettacolo è stato un po' come tirare un ponte tra le generazioni. Il Meneghello di Libera nos era la stessa cosa: un ponte tra le generazioni. Anche quando raccontavamo della nostra infanzia, sia Passione sia gli Album, non raccontavamo di noi e della nostra infanzia, ma anche un po' dei genitori. Perché ci sarebbe piaciuto avere dei genitori, perché forse non li abbiamo avuti; o meglio, per nostra fortuna abbiamo avuto dei genitori deboli, e questo non è un fatto così negativoIn ogni caso è andata così, e noi raccontiamo questo, e cerchiamo l'aggancio con i miti delle generazioni precedenti. Mi sembra che sia un gesto importante, andare a cercare le parole. In fondo anche il lavoro sui classici è un po' questo, e anche lavorare con attori come Valeria Moriconi va nella stessa direzione. La Moriconi è come la Stele di Rosetta: su di lei leggi la storia del teatro, lei ha lavorato con Visconti, e io qualcuno che mi raccontava di aver lavorato con Visconti non l'avevo mai conosciuto, ne avevo solo letto sui libri. Forse le generazioni precedenti alle nostre hanno un po' abdicato al loro ruolo: avevano visto quelli che tornavano dai campi di concentramento e loro si erano salvati, per fortuna, ma non avevano nessuna voglia di pensare che ci fosse qualcuno dopo di loro. Era un atteggiamento comprensibilissimo. E nonostante certi tentativi pedagogici, alla fine non c'è stata una vera trasmissione di esperienze.

Oliviero Ponte di Pino In questa chiave forse si può capire il vostro rapporto con i maestri.

Gabriele Vacis Sono stato a scuola da Barba, all'ISTA. Marco l'ho conosciuto all'ISTA, e quindi per noi non è stata certo una cosa secondaria: abbiamo fatto un processo, era un momento in cui le persone si incontravano lì. Ma è stato un rapporto strano: sicuramente Barba è stato un maestro, mi ha insegnato moltissime cose che utilizzo quotidianamente, e anche Grotowski. Però non posso dire che nel mio teatro ci siano dei segnali o un'affinità. Eppure io sono molto riconoscente, non voglio ripudiare niente, sono stato molto fortunato a vivere ad avere la possibilità di andare all'ISTA e di fare quell'esperienza, che è stata bellissima, era fatta benissimo e gestita da un autentico maestro.

Oliviero Ponte di Pino Che è anche un ottimo organizzatore e un operatore culturale di grandissima levatura...

Gabriele Vacis ...che si contorna di persone capaci. L'ISTA era un capolavoro, era un bellissimo spettacolo. Però poi andavo a vedere Strehler e mi piaceva quella roba lì, mi sentivo molto più attratto dai suoi spettacoli... E allora non capivo come mai rifiutavo quella scuola, non capivo perché quando diventava scuola non mi andava più bene.

Oliviero Ponte di Pino Ti piacevano gli spettacoli ma non il metodo di lavoro.

Gabriele Vacis È una cosa stranissima. Ma mi insegnava molto anche il fatto di vedere che Tino Carraro parlava in dialetto, per cui tutte le cose che dicevano sulla dizione evidentemente non le usavano. Cioè parlavano in un modo e poi razzolavano in un altro, come se non volessero svelarti i loro segreti... Non è che io pensi di svelare dei segreti quando lavoro con i ragazzi. Ci provo ma è difficilissimo, a volte cerco di farlo ma non ci riesco, a volte non voglio. La pedagogia è una faccenda complessa e interessante. Ma in quel caso proprio non volevano trasmetterti i loro segreti, come i vecchi artigiani che si guardavano bene dall'insegnarti il loro mestiere. E quindi se ti dicevano qualcosa lo facevano perché tu sbagliassi. Era pazzesco. Grotowski e Barba non lo facevano, loro cercavano davvero di dirti quello che sapevano, e ti dicevano cose importanti. La grande intuizione di Grotowski è stata di capire che in epoca cinematografica il teatro era un'altra cosa. Fino a quel momento c'era una gran confusione. La sua è stata un'idea semplicissima, però geniale. Ha detto: "Il cinema va per i fatti suoi e quindi via dal teatro tutto quello che va in quella direzione". Ha detto solo questo, ed è un grandissimo, è stato l'ultimo che ha fatto una grossa rivoluzione. Quasi dieci anni fa ha tenuto dieci lezioni a Torino, sto cercando di riordinare i miei appunti, mi piacerebbe trascrivere quelle dieci lezioni, è una cosa che mi sembra di dovergli (Gabrele Vacis ha poi raccontateto questa esperienza in Awareness. Dieci giorni con Jerzy Gorotwski, Rizzoli, 2002, n.d.r.). Quindi con questi maestri non c'è un rapporto di tensione, assolutamente no, però è un rapporto strano. La mia idea e - lo dico con tutto l'affetto e l'ammirazione - è che Strehler abbia abdicato al suo ruolo, che ci abbia ingannati.

Oliviero Ponte di Pino Forse si è anche ingannato da solo.

Gabriele Vacis Ma credo in fondo che quella generazione non poteva pensare il futuro, non aveva possibilità di pensare il futuro. Il loro segno è quello, Aspettando Godot è quello, e credo che lo sia anche il teatro di Strehler.

marzo 1999


 


 

Libri & altro: le origini del teatro di narrazione
Gerardo Guccini e Michela Marelli, Stabat Mater. Viaggio alle fonti del 'teatro narrazione'
di Oliviero Ponte di Pino

 

La nascita e lo sviluppo del cosiddetto teatro di narrazione rappresentano un interessante problema storiografico (vedi anche in ateatro 79 Il critico e il professore e il numero speciale di “Hystrio” 1/2005 sul tema). Se n’è accorto da tempo Gerardo Guccini, sia nell’attenzione che la rivista “Prove di drammaturgia” sta dedicando al fenomeno, sia nell’ampio saggio che apre Stabat Mater. Viaggio alle fonti del “teatro narrazione”, il volume firmato a quattro mani con Michela Marelli (Le Ariette – Libri, Castello di Serravalle, 2004, 264 pp., 15 euro).
Stabat Mater, che prende le mosse dal lavoro di documentazione sulla anomala tournée dello spettacolo omonimo di e con Laura Curino, Lucilla Giagnoni, Mariella Fabbris e Luca Riggio, racconta attraverso testimonianze, testi, brani di diario, fotografie e persino un fumetto, un’esperienza che ha rivelato e sedimentato alcuni elementi chiave di un genere destinato ad avere grande fortuna. Quasi reagendo a una situazione di stallo, o forse all’impossibilità di portare a compimento la messinscena di uno spettacolo che avrebbe dovuto essere firmato da Roberto Tarasco, i quattro attori di Teatro Settimo decidono di partire con un pullmino per una tournée povera, avventurosa e totalmente autogestita, in cui presentare in case, retrobottega, biblioteche, foresterie, refettori di conventi, chiostri, case coloniche, eccetera eccetera i materiali fin lì accumulati, in una sorta di baratto: lo spettacolo in cambio di vitto e alloggio, e colletta finale tra gli spettatori. Pochi giorni dopo la partenza, le attrici - alla ricerca di una identificazione totale tra teatro e vita - decidono di tenere addosso anche fuori scena i costumi di scena, gli abiti delle tre sorelle che nella finzione spettacolare narrano i loro ricordi. Dunque un viaggio sul confine tra teatro e vita, che partendo dal metodo di lavoro di un gruppo come quello diretto da Gabriele Vacis approda a esiti imprevedibili, prima nel corso di tre avventurosi viaggi, nell’inverno 1989-90, e poi nelle repliche che seguono, fino al 1997. E' una vicenda in apparenza marginale che però catalizza riflessioni, saperi, relazioni, scambi, atteggiamenti destinati a sviluppi imprevedibili e fecondi…
Perché, al di là dell’intensità dello spettacolo, Stabat Mater ha certo contribuito a mettere a punto la figura del narratore, con illuminazioni che hanno interessato da vicino e coinvolto gli altri due “padri fondatori” del genere, Marco Paolini (che all’epoca faceva parte di Teatro Settimo) e Marco Baliani, che con Maria Maglietta ha intrecciato e seguito da vicino questa esperienza, proprio mentre metteva a fuoco la sua riflessione sulla narrazione e sul narratore, poi approdata al fondamentale volumetto Pensieri di un raccontatore di storie (1991).
Anzi, a voler essere maliziosi, questa ricostruzione di Stabat Mater, con il suo laboratorio aperto e itinerante, sembra quasi voler stabilire una sorta di paternità sul teatro di narrazione al duo Vacis-Curino, rispetto agli exploit anche televisivi di Marco Paolini (e in misura minore di Marco Baliani). A voler essere ancora più maliziosi, in questa puntigliosa ricostruzione delle origini del teatro di narrazione c’è una curiosa omissione: Guccini scrive (p. 17) che “a sollevare il fenomeno sono spettacoli/cult come Kohlhaas (1990) di Marco Baliani, Passione (1992) di Laura Curino con la regia di Roberto Tarasco e il Racconto del Vajont (1994) di Marco Paolini con la regia di Gabriele Vacis”: e così tende a sottovalutare quella palestra determinante per l’evoluzione del genere (e accolta anche all'epoca da una crescente attenzione di pubblico e critica) che sono stati gli Album di Paolini – a cominciare da Adriatico (1987) e Tiri in porta (1990), cui sarebbero succeduti Liberi tutti (1992) e Aprile ’74 e 5 (1995) - e soprattutto a cominciare da uno spettacolo chiave come Libera Nos (1988), ispirato all’opera di Luigi Meneghello. Ma questo è un dettaglio, anche se la lezione di Meneghello è stata certamente fondamentale anche per mettere a fuoco, per esempio, il rapporto tra Laura Curino e la saga degli Olivetti (e in generale tra la lingua e il dialetto).
C’è invece un altro aspetto che ha un ruolo centrale nella genesi del teatro di narrazione e che invece Gerardo Guccini sembra lasciare in secondo piano. La sua ricostruzione parte proprio dalla fortuna televisiva di un genere insieme antico e moderno (un tema su cui insiste in più punti del saggio, ma sul rapporto tra narratori e tv si veda anche in questo sito Sei spettacoli su Raidue, pubblicato originariamente nel programma di “Riccione TTV” 1998 e sul Patalogo 21, 1998), per poi concentrarsi su quella che possiamo definire la storiografia del nuovo teatro, e dunque sul terreno artistico e storico in cui è nato il “teatro di narrazione” e sulle ragioni che l'hanno fatto emergere. E che oltretutto l’hanno fatto emergere in un momento particolarmente delicato, alla fine dei “dorati anni Ottanta”, quando il Nuovo Teatro, sia sul versante della Postavanguardia sia su quello del Terzo Teatro, si trovava in una fase di grave impasse. In questo scenario, il recupero della parola ha certamente un ruolo fondamentale: ma alla metà degli anni Ottanta gruppi come Pontedera e il Carrozzone (e altri sulla loro scia) avevano già compiuto questa svolta (come nota anche lo stesso Guccin a p. 37).
Dopo di che la sua analisi si concentra sul recupero della dimensione drammatica, contrapposta a quella perdita di senso che è l’esito estremo del post-moderno e che i narratori rifiutano. Questa contrapposizione è certamente vera, e infatti su questo insistono nelle loro dichiarazioni dell’epoca tanto Baliani quanto Vacis. Si tratta certamente di una chiave importante per comprendere l’emergere del teatro di narrazione, ma trascura un aspetto ugualmente fondamentale, e forse ancora più determinante. Perché il teatro di narrazione, prima che dagli autori-drammaturghi o dai registi, nasce dagli attori, e con modalità specifiche: “È vero che quella del narratore è una funzione che appartiene da sempre all’attore, ma ormai è stata quasi del tutto oscurata dall’attore-personaggio, dall’attore-corpo, dall’attore-sciamano” (Oliviero Ponte di Pino, Sulla narrazione e sui narratori, “Diario”, 14 aprile 1999). Una delle molle che hanno spinto Baliani, Paolini e Curino a recuperare il senso profondo della narrazione è proprio il recupero della funzione attoriale, con caratteristiche certo peculiari, e anche in questo caso mischiando antiche tradizioni ed emergenze moderne. Come Paolini e Baliani, i quattro protagonisti-autori di Stabat Mater sono prima di tutto attori, anche se attori di un tipo particolare, inseriti nella tradizione del nuovo, e dunque abituati a cercare e inventare i propri materiali, a costruire e preparare i propri pezzi (anche attraverso le improvvisazioni, magari innescate e poi assorbite, plasmate e montate drammaturgicamente dal regista). E in qualche modo reagiscono a una impasse registico-drammaturgica affidandosi alla narrazione.
Non a caso l’esplosione dei narratori, all’inizio degli anni Novanta, coincide con i primi exploit interpretativi di altri attori cresciuti nell’ambito del teatro di gruppo come Sandro Lombardi e Toni Servillo, solo per citare due capofila (per una prima analisi del fenomeno, allora a uno stadio ancora embrionale, vedi Oliviero Ponte di Pino, L’attore nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in il Patalogo 18, Ubulibri, Milano, 1995, con ampie interviste, tra gli altri, proprio a Marco Baliani, La narrazione, e Marco Paolini, L’autobiografia). In questa chiave assumono maggiore significato le affinità con Fo e Rossi, per esempio, e in generale con i comici monologanti (e non è un caso che Gabriele Vacis, dopo Paolini e Curino, Rosso e Allegri, si sia successivamente applicato per esempio a Lella Costa). E non a caso uno dei nodi centrali del genere riguarda da sempre il rapporto tra il l'interprete (la persona storica, concreta, con le sue idee e punti di vista), il personaggio (il narratore, con il suo punto di vista, e le sue idee) e la storia narrata: unl problema intimamente legato a quello della drammaturgia e che può trovare soluzioni solo parziali e provvisorie, equilibri instabili che possono evitare la trappola della standardizzazione e della produzione seriale di narratori (come, da facile profeta, aveva avvertito Goffredo Fofi commentando a caldo il successo massmediatico del Vajont); e forse limitare i danni del doppio vicolo cieco di una retorica catastrofista (nobilitata dal politicamente corretto) o encomiastica (nutrita da un recupero nostalgico della memoria).
La prospettiva drammaturgica porta certamente a cogliere e mettere a fuoco alcuni snodi significativi, ma certo non è l’unica chiave di lettura del fenomeno, e forse non è neppure quella centrale. La scrittura (o meglio, il problema di una pratica di scrittura, magari appoggiandosi a drammaturghi “professionisti” come Francesco Niccolini o la stessa Michela Marelli) viene avvertita come problema centrale solo in un secondo tempo: all’inizio il narratore lavora in una dimensione soprattutto orale su materiali trovati o “recuperati”, dalla narrativa latinoamericana cara alle interpreti di Stabat Mater al racconto di Kleist magistralmente narrato da Baliani; Paolini utilizza Libera nos a Malo di Meneghello e, per il primo degli Album, Adriatico, adatta Le Petit Nicholas di Goscinny e solo in un secondo tempo – dopo aver in qualche modo messo a punto un “metodo” - inizia a scrivere i suoi testi partendo da zero. Uno degli aspetti più curiosi del fenomeno (e finora poco indagato, anche nei suoi aspetti tecnici) riguarda proprio il passaggio, nel teatro di narrazione, dall'oralità (e dalle sue diverse stratificazioni, sedimentate e modificate dal contatto con il pubblico) alla scrittura - o meglio, a una sorta di "scrittura orale" - e dunque lo statuto del testo.
Non è secondario, dal punto di vista della funzione attoriale, che spesso i suoi capofila abbiano inizialmente intrecciato la ricerca sulla narrazione alla pratica del teatro ragazzi, uno spazio meno soggetto in fase di progettazione al dirigismo registico, e più aperto all’intervento del pubblico al momento della rappresentazione.
La seconda molla fondamentale, accanto a questa “presa di potere teatrale” da parte degli attori-autori attraverso la pratica della narrazione, è la necessità di ritrovare e ricostruire il rapporto con lo spettatore: la ricerca di un rapporto più immediato e diretto, rispetto alle mediazioni intellettualistiche e alle sperimentazioni linguistiche e metalinguistiche del teatro di ricerca. Ovviamente la scelta di temi di vasto interesse storico e sociologico fa scattare nello spettatore la riconoscibilità e l’adesione. In questo senso, anche l’efficacia televisiva del genere rischia di apparire uno sbocco non troppo imprevedibile.
Ma siamo solo all'inizio della riflessione storico-critica su un genere che da un lato sembra guadagnare sempre nuovi adepti, e dall'altro rischia di inaridirsi nella ripetizione di moduli e cliché collaudati. Un'ottima occasione di riflessione sarà senz'altro il convegno che si terrà il 4 marzo a Bolzano, Teatro civile tra testimonianza e riflessione a cura di Lamberto Trezzini e dello stesso Guccini, al Teatro Studio del Nuovo Teatro Comunale, con una folta pattuglia di studiosi e di narratori. Tenendo presente oltretutto che i primi teorici della riscoperta della narratività sono stati proprio i suoi artefici.


 


 

Il teatro di narrazione su ateatro e olivieropdp
Un piccolo archivio
di Redazione ateatro

 

ateatro 56 speciale “La narrazione e la voce”.

Oliviero Ponte di Pino, L’attore nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in il Patalogo 18, Ubulibri, Milano, 1995, con ampie interviste, tra gli altri, proprio a Marco Baliani, La narrazione, e Marco Paolini, L’autobiografia.

Oliviero Ponte di Pino, Conversazione con Marco Baliani (1995) .

Oliviero Ponte di Pino, La vocazione teatrale di Francesco di Bernardone (su Francesco a testa in giù di Marco Baliani).

Oliviero Ponte di Pino, Conversazione con Gabriele Vacis (1988) (da Il nuovo teatro italiano 1975-1988).

Oliviero Ponte di Pino, Sei spettacoli su Raidue (pubblicato originariamente nel programma di “Riccione TTV” 1988 e sul Patalogo 21, 1998).

Oliviero Ponte di Pino, Sulla narrazione e sui narratori, “Diario”, 14 aprile 1999.

80.81 Sul nuovo "Hystrio" un dossier sul teatro di narrazione.

Oliviero Ponte di Pino, < a href="http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=80&ord=21">80.21 Dal "Decalogo del buon narratore", da "Hystrio" 1.2005 Dossier "Teatro di narrazione".

Oliviero Ponte di Pino, 80.20 Marco Paolini: una scheda, da "Hystrio" 1.2005 Dossier "Teatro di narrazione".

Oliviero Ponte di Pino, 81.19 Gli Album di Marco Paolini.

Oliviero Ponte di Pino, 81.20 Il progetto, il gruppo, i classici, la narrazione, una intervista inedita a Gabriele Vacis (marzo 1999).

Andrea Cosentino, 69.30 Esortazioni Appunti di viaggio come esortazioni date a me stesso.

Anna Maria Monteverdi, 69.12 La personale di Giacomo Verde, dal catalogo di Riccione TTV 2004 expanded theatre.

68.11 Reportage Chernobyl, un progetto di Roberta Biagiarelli e Simona Gonella.

Anna Maria Monteverdi, 66.25 Autoritratto dell’artista da (non)narratore, Conversazione con Andrea Cosentino.

Anna Maria Monteverdi, 56.15 Storie mandaliche 2.0 di Andrea Balzola e Giacomo Verde a Castiglioncello.

Giacomo Verde, 56.16 Raccontare non è recitare, un mail durante le prove di Storie mandaliche.

Oliviero Ponte di Pino, 57.50 Un teatro mandalico, un mail a Giacomo Verde, Andrea Balzola & Co.

Andrea Balzola, 57.51 L'ipertesto mandalico, un mail a Oliviero Ponte di Pino.

Anna Maria Monteverdi, 55.53 Le recensioni di "ateatro": Braccianti. La memoria che resta di Armamaxa.

Davide Enia, 51.9 La perdita del mito ed il mito della perdita.

Oliviero Ponte di Pino, 50.3 Il Che, la Nazionale & la classe operaia, tre racconti teatrali per tre miti contemporanei.

Isabella Scaramuzzi, 39.6 Questa non è una prima, appunti di una guardatrice di Marco Paolini su Storia di plastica.

23.3 Le recensioni di "ateatro": I-TIGI di Oliviero Ponte di Pino

Renata Molinari, 37.4 Lingua materna, le lingue e il presente della memoria.

Oliviero Ponte di Pino, 1.4 Rossotiziano da Majorana a Fermi, appunti su teatro & scienza.


 


 

Le recensioni di ateatro: terrorismo all'irlandese, sangue e risate
Il tenente di Inishmore di Martin McDonagh
di Oliviero Ponte di Pino

 

Inevitabilmente in questi decenni il terrorismo è diventato un argomento sempre più “teatrabile” (e cinematografabile). Un po’ per i fortissimi agganci con l’attualità, e dunque per i risvolti politici del tema, ma anche perché affrontare questo nodo significa esplorare alcune delle ossessioni contemporanee, nelle loro pieghe più scoperte: la sicurezza e la violenza, nel loro rapporto con la quotidianità. A quel punto è inevitabile riecheggiare i cliché dei mass media, che dall’eccitazione per il sangue traggono parte della loro forza, innescando un circolo vizioso con la propaganda terroristica; e riprendere magari le atmosfere e dei tic di un certo cinema d’azione, con la sua capacità di modellare il nostro immaginario.



Il tenente di Inishmore nella scena di Guido Fiorato: Arianna Comes e Enzo Paci.

Martin McDonagh, irlandese di Londra, tutte queste cose – il terrorismo e le sue ricadute mediatiche - le conosce bene, come conosce bene la tradizione della drammaturgia nazionale, con i suoi quadretti di una realtà rurale, dove però appena sotto la superificie sobbollono miti e violenze. Così Il tenente di Inishmore (il terzo testo di McDonagh allestito dal Teatro di Genova in questi anni) usa l’ambientazione di un nostalgico dramma isolano - siamo nell’arcipelago delle Aran, proteso nel tempestoso Atlantico - per raccontare una vicenda di violenza e terrorismo con un ritmo e un linguaggio rubati ai film di gangtser, o meglio a quelli di Quentin Tarantino (la briosa traduzione è di Fausto Paravidino). Perché il testo è una farsa grottesca e feroce, che mette alla berlina tanto la logica insensata del terrorismo, con l’inevitabile escalation della violenza e gli altrettanto inevitabili settarismi e frazionamenti e fratricidi, quanto una serie di luoghi comuni dell’autocoscienza irlandese: e se alla vecchia Irlanda fanno riferimento il vecchio solitario, scontroso e alcolizzato Donny (Ugo Maria Morisi) o l’adolescente Davey, ingenuo e imbranato (Enzo Paci), a una realtà violentemente modernizzata fniscono per rendere conto la terribile sorella di Davey, una Mairead affascinata dalla violenza e dal sesso (Arianna Comes), o lo spacciatore James (Aleksandar Cvjetovic).



Il tenente di Inishmore: Aleksandar Cvjetovic e Gianluca Gobbi.

Il tenente di Inishmore è anche una storia di gatti. La morte violenta di Wee Thomas, il micino nero del terrorista Padraic (Gianluca Gobbi), ilare idiota e sadico infantile, nonché membro di un ramo dissidente dell’IRA, scatena un crscendo di vendette che fareanno molte vittime (nel conto, quattro esseri umani e due gatti, sparati e fatti a pezzi), con colpo di scena felino finale. Perché, come dice in una intervista nel programma di sala il regista Marco Sciaccaluga, “Se i gatti vedessero il nostro spettacolo, credo che ne uscirebbero contenti”.
E gli spettatori umani? Il testo è molto divertente, Sciaccaluga punta sul versante grottesco, sottolineando la teatralità del suo allestimento: i cadaveri dei gatti sono chiaramente di pezza, il trio di terroristi venuto a regolare i conti con il ferocissimo Padraic (Roberto Alinghieri, Pietro Tammaro e Gaetano Sciortino) sono colorate caricature di bulli di paese, dopo gli ammazzamenti gli altri attori (i superstiti) spargono sui cadaveri con una pennellessa litri di sangue… Gli interpreti stanno al gioco, assecondando con le loro caratterizzazioni da sketch televisivo la scrittura scoppiettante di McDonagh e il gusto della gag di Sciaccaluga.



Il tenente di Inishmore: Roberto Alinghieri, Pietro Tammaro e Gaetano Sciortino.

Due ore di spettacolo divertenti, sgangherate ma solo in apparenza: perché dietro a uno spettacolo sempre volutamente sopra le righe, si capisce come l’indignazione possa diventare satira (ancora una volta, nella grande tradizione irlandese).
 


 

La scena rituale
Un ciclo di incontri tra cinema, teatro e antropologia a Torino
di Fernando Mastropasqua

 

"Sono maschere, non uomini", così un indio Piaroa introduce l’etnologo Giorgio Costanzo alla visione dei danzatori Warimé. L’indio si preoccupa di spiegare all’uomo bianco venuto a condividere, per osservare, la loro vita, che dovrà guardare con occhi diversi ciò che apparirà, perché la danza non ha a che fare con quanto finora ha contemplato e accuratamente annotato sul suo taccuino e i danzatori, ancorché riconoscibili sotto il costume di foglie che ne occulta il corpo, sono in quel momento spogliati di ogni umana impurità. Costanzo sta per assistere a un rito - per l’indio forse è solo un’ azione magica, una celebrazione religiosa o più semplicemente il racconto delle origini del suo popolo danzato dagli antenati (le maschere) -, qualcosa che ha evidenti somiglianze con ciò che comunemente chiamiamo teatro ma nello stesso tempo si rivela assolutamente sconosciuto. La contraddizione sta proprio qui: nel credere di riconoscere aspetti che ci appaiono familiari in un "accadimento" che è totalmente inaudito. La scena rituale, che nell’accostamento di due parole ossimoriche mette in rilievo una fondamentale antinomia, è il titolo che riunisce sei conferenze su questo tema (un teatro irriconoscibile).
Il fascino per un teatro che fosse negazione di sé non poteva non sedurre le avanguardie teatrali e aveva spinto Artaud a chiedersi, nel suo resoconto sull’esperienza vissuta presso i Tarahumara:

E tutto questo perché? Per una danza, per un rito di Indi sperduti che non sanno più neppure chi sono, da dove vengono, e che, quando li si interroga, rispondono con racconti di cui hanno smarrito il legame e il segreto".

Quella danza di Indi sperduti ha lasciato segni dovunque. Ne rimangono impronte in modelli contaminati e corrotti - eppure vivi - non dissimili da quelle forme che persistono nella roccia come tracce di una lunga lotta sofferta: "non una forma", è ancora Artaud alla ricerca di una risposta, "che fosse intatta, non un corpo che non mi paresse reduce da un recente massacro". Tali resti di corpi smembrati rivivono nei riti di popoli lontani come nelle feste perduranti, tra disprezzo ed esaltazione, nel folklore europeo.
Le conferenze intendono offrire alcuni esempi di questo teatro-non teatro, che respira all’aria aperta, oltre le convenzioni incrostate nel corso dei secoli sul corpo dell’arte scenica. "Il teatro è nella strada" proclamava con fierezza profetica Julian Beck guidando gli spettatori fuori dal teatro al termine di Paradise Now.
Gli esempi dedicati alle forme rituali, dal Tibet alle Americhe, sono stati incorniciati tra le due principali manifestazioni del folklore occidentale: la Pasqua e il Carnevale, in quanto le due manifestazioni costituiscono le tipologie estreme della riunione collettiva in uno spazio potenzialmente infinito e variabile per infinite metafore ma all’interno dei confini storici, culturali, di lavoro e di vita di una comunità. Pasqua e Carnevale incarnano una seconda contraddizione, un oxymoron nell’oxymoron: se la prima infatti è il rito celebrativo di un avvenimento religioso e si custodisce in forme che la liturgia tramanda, il secondo è il trionfo pagano del disordine assoluto, il rifiuto di ogni norma, il rovescio empio del vivere civile e religioso, dai Saturnali romani alle medievali Feste dell’Episcopello. Nell’arco ai cui estremi si situano è possibile dunque pensare ogni variante della scena rituale, anche quelle che non appartengono alla tradizione occidentale e provocano un doppio senso dell’inaudito come il Cham tibetano o i cerimoniali indiani.
Il viaggio non avviene secondo un’unica prospettiva critica, ma attraverso gli sguardi diversi che gli studi di cinema, di teatro e di antropologia hanno dato di questo tipo di eventi. La complessità del tema comporta indagini di discipline diverse e con diverse metodologie di lettura.
Un rilievo particolare è dato alla documentazione e conservazione dei riti - e alle conseguenti problematiche tra tensione alla neutralità e fatale lettura interpretativa -, che, dopo le descrizioni dei primi viaggiatori, con l’invenzione della fotografia sono state prevalentemente affidate al mezzo visivo, dalla macchina fotografica alla cinepresa alla videocamera. Completano perciò le conferenze memorie di segno diverso: film, documentari, reportage fotografici.


DAMS-ORSA-CRUT
presentano

LA SCENA RITUALE
Il Teatro oltre le forme della rappresentazione
a cura di F. Mastropasqua



"Il teatro è nella strada!"
Julian Beck


Itinerario nel rito
nelle prospettive critiche degli studi di cinema, teatro e antropologia


ASSOCIAZIONE ORSA
Via Botero 15 - Torino

1. 16 febbraio 2005 ore 17.00
F.Mastropasqua, Teatro provincia dell’uomo
Proiezione del film di Manoel de Oliveira, Acto da primavera, 1963
(Sacra rappresentazione a Curalha, Chaves, Portogallo)

2. 17 febbraio 2005 ore 17.00
Federica Villa, Memoria e documentazione video
Proiezione del film di V.De Seta, Pasqua in Sicilia, 1954
F.Portalupi - G.Pedretti presentano il documentario:
L’Abballu di li Diavuli, Prizzi (PA), 2003

3. 18 febbraio 2005 ore17.00
A. Attisani - F.Grassi, Cham, le danze rituali del Tibet
Proiezione del documentario di F.Grassi

4. 23 febbraio 2005 ore 17.00
G. Tescari, Sulle orme del cervo:
il pellegrinaggio al deserto dei Wirrarika del Messico
Proiezione di materiale documentario

5. 24 febbraio 2005 ore 17.00
E.Comba, Il pubblico e il segreto: ritualità e sacralità tra gli Indiani d'America
Proiezione di materiale documentario

6. 25 febbraio 2005 ore 17.00
F.Mastropasqua, Carnevale a Cournon, teste vestite di notte
Proiezione della documentazione fotografica Les Paillasses
di Ch. Camberoque, Carnevale di Cournonterral, Francia, 1985


 


 

Le arti multimediali digitali in tour


 

La Spezia, Pisa, Roma
di Redazione ateatro

 

Andrea Balzola e Anna Maria Monteverdi
LE ARTI MULTIMEDIALI DIGITALI
Storia, tecniche, linguaggi, etiche ed estetiche delle arti del nuovo millennio

Gli autori incontrano i lettori a

CARRARA
martedì 1 febbraio 2005, ore 11.30
Accademia di Belle Arti, Aula Magna, via Roma 1
con Mauro Lupone, Gilberto Pellizzola, Tommaso Tozzi


MILANO
giovedì 3 febbraio 2005, ore 17.30
Accademia di Brera, Sala Teatro, via Brera 28
con Antonio Caronia, Fernando De Filippi,
Maria Grazia Mattei, Emanuele Quinz


LA SPEZIA
venerdì 25 febbraio 2005, ore 20.30
Auditorium Dialma Ruggiero, via Monteverdi
in collaborazione con Associazione culturale Cut Up
con Gianni Bolongaro e Gilberto Pellizzola
partecipano Marce-lí Antunez Roca (Fura dels Baus)
e Giacomo Verde


PISA
lunedì 21 marzo 2005, ore 21.00
Biblioteca Comunale, Lungarno Galilei 42
in collaborazione con Associazione Culturale Ondavideo
con Lorenzo Cuccu e Sandra Lischi
partecipa Giacomo Verde


ROMA
sabato 9 aprile 2005, ore 11.00
Casa dei Teatri, Villino Corsini, Villa Doria Pamphilj,
Largo 3 giugno 1849, angolo via San Pancrazio
(ingresso Arco dei Quattro Venti)
con Nico Garrone e Marco Maria Gazzano,
partecipano Enrico Casagrande e Daniela Niccolò (Motus)


 


 

(a)teatro e storia
“ateatro” su “Teatro e storia”
di Redazione ateatro

 

Il nuovo numero di “Teatro e storia” (30 euro, Bulzoni Editore) è imperdibile, per noi curiosi & maniaci.
In “Teatro e storia 25/2004” ci sono infatti due dossier ampi e importanti: il primo, curato da Renzo Guardienti, è dedicato a Teatro e iconografia: può essere insieme una prima guida a un tema di straordinario fascino e interesse, spaziando dalle “questioni di metodo” impostate da Cesare Molinari al problema dalla catalogazione delle 17000 immagini dell’ Archivio Dyonisos, e al tempo stesso offre una ampia serie di spunti di riflessione e ricerca.



Jean Fouquet, Il ratto delle Sabine.

Il secondo dossier, curato da Mirella Schino, festeggia invece i quarant’anni dell’Odin Teatret, e anche qui con una serie di contributi innovativi su un gruppo che peraltro è da sempre al centro dell’interesse della rivista. In particolare, oltre al testo del nuovo spettacolo del gruppo, Il sogno di Andersen e ad ampie anticipazioni del prossimo (tra Amleto e Il Principe, andrà in scena a Elsinore nell’estate del 2006), raccoglie l’ampio e sfaccettato saggio di Ferdinando Taviani su Barba scrittore (è la prefazione alle Opere scelte del regista e teorico salentino, in corso di stampa a Cuba): chiunque abbia avuto modo di leggere o ascoltare le metafore di Barba, sa che si tratta di un grande scrittore, e si chiede come ha fatto a non scoprirlo da solo. Ma ci sono anche il duetto tra Francesca Romana Rietti e lo stesso regista sulla storia della rivista edita dall’Odin, “Teatrets Teori og Teknikk”, e ancora una lettera (ancora di Barba) “sull’indeterminatezza della memoria autobiografica”. L’Odin Teatret è insieme un miracolo e un mistero, Eugenio Barba una personalità eccezionale e un artista straordinario, torturato e carismatico, il suo ruolo nel teatro, nella storia del teatro e nella storia della storia del teatro di questi anni assolutamente centrare: i materiali qui raccolti sono un omaggio, ma anche – ancora una volta – materiali di lavoro, una chiave per cercare di capire che cosa è effettivamente il teatro.
Infine, nei Parerga finali, tra saggi dedicati a Grotowski gnostico e Cacà Carvalho (di cui abbiamo parlato anche noi), al cunto di Mimmo Cuticchio e al Dernier Caravanserrail del Théâtre du Soleil (di cui abbiamo parlato e straparlato anche noi), c’è un’ampia sezione dedicata al meglio di ateatro, di cui siamo assai felici e orgogliosi!


 


 

Piemonte Share Festival
dal 25 febbraio al 3 marzo
di Share Festival

 

1 Piemonte Share Festival
2 Cultura e arte digitale
3 Il paese ospite: il Brasile
4 Performance / Fiestas Populares
5 Performance / POL
6 Digital movie
Pioneers / Jurgen Reble
Animazione
Documedia/Il labirinto digitale
7 Digital Art / Wave.it
8 Digital Art /
GameScenes
Digital Art / Digital storytellers
9 Digital Music
0 Produzione e organizzazione


1 PIEMONTE_SHARE_FESTIVAL_2005

Sharing, la Regione Piemonte, la Provincia e il Comune di Torino, organizzano la prima edizione di PIEMONTE_SHARE_FESTIVAL dedicato alla cultura digitale e ai new media.
PIEMONTE SHARE FESTIVAL rappresenta l'edizione italiana dei più importanti festival internazionali (Transmediale a Berlino, Ars Electronica a Linz, Sonàr a Barcellona) ed è aperto a collaborazioni con le realtà italiane più disposte a condividere creatività.
La Regione Piemonte si pone come sede del festival per la sua vocazione all'innovazione e per la sua ricchezza di proposte culturali. Torino ne è il cuore in quanto vetrina privilegiata di importanti avvenimenti internazionali, all'interno dei quali sarà possibile far emergere nuove idee ed eventi.
Per inaugurare questo festival si è scelto come tema guida il flusso culturale (wave) che si genera attraverso l'utilizzo della tecnologia digitale e di Internet. Il flusso digitale è anche punto di riferimento per le comunità virtuali che agiscono sul web generando nuove forme di interattività e nuove ondate di sperimentazioni nell'arte, nella cultura e nella comunicazione.

Le manifestazioni del festival animeranno una molteplicità di spazi nella città di Torino e nella Regione Piemonte. La sede principale è palazzo Cavour nel centro storico di Torino, scelto come segno di confronto tra la tradizione e le tecnologie della comunicazione di rete. Gli altri spazi di Torino che aderiscono al progetto sono:
Atrium
, Piazza Solforino; AB+ Club, via della Basilica 13; Amantes, via Principe Amedeo 37, Bu.net, via San Quintino 15, Hiroshima Mon Amour, Via Bossoli 83, Teatro Juvarra - Cafè Procope, via Juvarra 15, The Beach, Murazzi del Po, Arcate 18-20-22, Spapò, centro polifunzionale Bruno Longo, Carmagnola; Epicentro, Grugliasco.

PIEMONTE_SHARE_FESTIVAL_2005 è realizzato con il contributo di Regione Piemonte, Provincia di Torino, Comune di Torino,
PIEMONTE_SHARE_FESTIVAL_2005 è realizzato con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per l'Architettura e l'Arte Contemporanee, Roma


2 Cultura |
arte digitale
a cura di Simona Lodi

Di cosa parliamo quando parliamo di cultura digitale e di cyberarte?
La definizione di Pierre Levy fa coincidere la cyberart con le realizzazioni creative che comprendono varie espressioni tra cui le musiche tecno, i mondi virtuali, le installazioni interattive, etc. Anche se questa caratterizzazione sembra ancora valida per essere usata come griglia interpretativa, si va sempre più affermando il termine cultura digitale.
Ma che cosa è la cultura digitale? Per spiegarlo si potrebbe citare Manuel Castells quando parla di cultura di Internet: “la cultura di internet è la cultura dei creatori di internet” e applicare il concetto a un ambito più vasto che riunisce, oltre Internet anche i nuovi media, dove cultura dei nuovi media si identifica in un insieme di valori e convinzioni che guidano il comportamento degli utenti stessi. La cultura digitale è frutto di una costruzione collettiva che trascende le preferenze individuali e influenza le pratiche delle persone.
Ma se Castells identifica il concetto chiave della cultura di Internet nell'apertura e nella libera modifica del software e del suo codice sorgente, cosa sta alla base della cultura digitale e della arte digitale? Quale è il sistema di valori che vi sottostanno? Si può riprendere Levy quando parla di interconnessione dei messaggi tra loro, e del loro perenne riferirsi a comunità virtuali in divenire?
Per Lev Manovich, è attorno al 1990 che il termine “media digitali” entra nell'uso comune (accanto a quello di computer graphic) con la convergenza tra informatica e le tecnologie mediali. Quindi caratteristica principale è la traduzione di tutti i media preesistenti in dati numerici accessibili tramite computer, la loro modularità e la conseguente automazione e variabilità.
E' questo aspetto preso in considerazione da Manovich a riguardare da vicino il nostro festival: la capacità dei nuovi media di operare una transcodifica culturale. Ciò significa che anche per le pratiche creative si assiste ad un trasmigrazione, sia a livello di linguaggio che di significato, verso nuove estetiche e nuovi valori concettuali che nascono dall'uso dei computer.
A questo punto come si esprimerà la creatività digitale? Quali sono le manifestazioni e gli eventi on sintonia con l'arte e la cultura digitale?
Nel festival le espressioni della creatività digitale sono accomunate dallo stesso codice, accessibili in modalità random, riproducibili senza perdita qualitativa, multimediali, sempre interattive e in questo senso saranno opere aperte (Umberto Eco), quindi tautologiche ma con caratteristiche dinamiche di creazione di dati al momento (run in time).
Una manifestazione come un festival si presta così ad essere la forma ideale per soddisfare alcune esigenze proprie della cultura digitale. Rifacendoci a quanto sostiene in “Post production” Nicolas Bourriaud, co-direttore del Palais de Tokyo di Parigi e critico d'arte, che l'universo della musica ha banalizzato con lo shareware o il sampler l'utilizzo della firma, soprattutto con le “white labels”, distribuite a tiratura limitata e con copertine anonime, possiamo anche noi affermare che l'autore digitale realizza un ideale del collettivo/individuale realizzando quei prodotti che mantengono le caratteristiche dell'arte e della cultura digitale.
In tal modo il festival di matrice musicale, così come il sampler diventa l'evento ideale in cui raccogliere espressioni diverse di creatività digitale e necessario per creare un clima di partecipazione diretta del pubblico/utente. Uno degli scopi di Piemonte_Share_Festival è collocare la cultura digitale in relazione alle arti di ieri e di oggi. Se l'arte degli anni sessanta, continua Bourriaud, dalla Pop all'arte concettuale va di pari passo con l'apogeo della coppia formata da produzione industriale e consumo di massa, si può dire che l'arte digitale si sviluppa con la coppia computer-internet.


3 PAESE OSPITE: BRASILE
a cura di Mario Suarez e Angelo Palombo

La rete è una realtà globale che contamina generi e linguaggi, ma che ha sempre un radicamento locale. In ogni edizione del festival sarà presente l'anima digitale di un paese e di una cultura. Per l'edizione di apertura del 2005 il paese protagonista è il Brasile con una visione sudamericana della digital culture.
La rassegna, curata da Mario Suarez con la collaborazione di Angelo Palombo, presenta una panoramica artistica (pioneers) del periodo 1974-1080, opere di autori di cine/video arte, il movimento degli artisti di strada (tupinaodas) degli anni '80, alcuni rappresentanti della Poesia Concreta, le Installazioni di Giselle Beiguelman, Lucas Bambozzi, Luis Duva. Saranno inoltre organizzate serate musicali con la presenza dei dj Ramilson Maia, Mau Mau (UNIVERSO GLOBAL), Dolores (UNIVERSO REGIONAL – POPULAR) e dei VJ Angelo Palombo e Spetto.


4 PERFORMANCE
a cura di Chiara Garibaldi

FIESTAS POPULARES

Piemonte Share Festival 2005 presenta a Torino l'anteprima internazionale di FIESTAS POPULARES di Juan Navarro, Gonzalo Cunil, Ignasi Duarte, in collaborazione con il Mercat de les Flor di Barcellona.
Fiestas Populares, è una prova di teatro all'interno del teatro, un improvvisato terreno di gioco sul quale esprimere problematiche e tematiche provenienti da altre discipline, oltrepassando i limiti scenici tradizionali. La vicenda è semplice e racconta di due uomini che investono tutti i loro soldi in un viaggio. Accompagnati da un gruppo di musicisti: applaudono ad un ingorgo stradale; festeggiano la passeggiata di uno zoppo; fanno un picnic sulle impalcature di un cantiere; fanno la ola a una vetrina di Hugo Boss.
Ma i veri protagonisti dello spettacolo sono il pubblico e la musica: il pubblico è invitato a partecipare e seguire gli attori lungo il percorso, la musica costituisce il filo conduttore che lega le diverse azioni che si succedono sul palco.
Lo spettacolo sarà rappresentato nelle ultime due serate di Piemonte Share Festival 2005.
La rappresentazione si terrà al Teatro Juvarra / Cafe' Procope.


5 POL / Performance interattiva e multimediale di Marcel.lì Antunez Roca

Marcel.lì Antunez Roca (Moià 1959)
Tra i fondatori de La Fura dels Baus, è conosciuto per le sue performances mecatroniche e per le sue istallazioni robotiche.
Negli anni '90 elabora concetti come Bodybots (robots per il controllo del corpo), Sistematurgy (narrazioni interattive) e dresskeleton (interfacce tecnologiche indossate come vestiti). Questi concetti costituiscono la struttura portante delle performance che realizza a partire da quel periodo: IoAn, l'uomo di carne (1992), Epizoo (1994), Afasia (1998) e Pol (2002), Requiem (1999), le installazioni Rinodigestio (1987) e Agar (1999).

POL è una storia interattiva generata dal dialogo tra tecnologie meccaniche, attori e spettatori. Lo spunto narrativo trae origine dalla tradizione popolare europea ed è il racconto del travagliato viaggio di un coniglio alla ricerca dell'amore.
Questo viaggio, una metaforica odissea, si costruisce attorno a due poli di interesse. Il primo è il recupero dei denti, segno della forza e del coraggio, che permetteranno al protagonista di avere ragione dei suoi nemici; il secondo è la lotta che deve sostenere per raggiungere l'amata Princepollu, figlia del perfido diavolo Cervosatan che gli scatena contro i suoi sbirri Jaba, Lopa, Sap e Serpe.
La performance si sviluppa in uno spazio interattivo dove si muovono attori con exoskeleton e robot e dove l'ambientazione è data da tre grandi schermi. Una batteria di computer regola l'interazione tra gli attori e i robot e tra il pubblico e l'ambientazione scenica si modifica in base a impulsi trasmessi dagli spettatori.
Le tematiche che emergono dallo spettacolo POL sono quelle del rapporto tra tecnologia e arte. I movimenti delle membra degli attori con l'exoskeleton e i suoni del pubblico generano variazioni imprevedibili che influenzano l'andamento del racconto: l'interattività di questo spettacolo mecatronico unisce i corpi, le interfacce, i computer e il sistema multimediale in un nuovo percorso narrativo, flessibile e divertente, che può trasformarsi in un rito catartico.

In collaborazione con Piemonte Share Festival, Malafestival/Servi di Scena opus rt organizza per il 22 febbraio 2005, un seminario condotto da Marcel.lí Antúnez Roca. Il Seminario è organizzato con il Corso di laurea in Ingegneria del Cinema e dei Mezzi Di Comunicazione del Politecnico di Torino e Multidams di Torino ed è inserito all'interno del Progetto “Nuovo Golem”.


6 Digital movie

Il panorama attuale è un panorama ibrido, dove nascono opere interamente digitali ma più sovente a metà fra l'analogico e il digitale e dove coesistono insieme opere analogiche e digitali. Nel cinema, autori sperimentali come Lars Von Triers affiancano registi come George Lucas o come Robert Rodriguez che firma i suoi film non più digital film ma digital file. Nel campo della videoarte, l'avvento del video digitale ha significato un "cambio della guardia": la generazione degli anni 70'/'80 ha smesso di fare video, a favore delle videoinstallazioni, lasciando spazio ad autori più nuovi e giovani che nel compositing digitale hanno (ri)trovato materiale su cui sperimentare.
Cambia il modo di pensare alle immagini in movimento perché muta anche il modo di fruirle: i dvd, ma soprattutto internet, rappresentano nuove maniere di essere spettatori-autori. E la pratica del vjing sta reinventando il modo di promuovere la musica e di vivere la danza nei club.
Nel programma di Piemonte share festival Volumina e Domenico De Gaetano hanno curato una rassegna di film che rappresentano una tappa significativa nella produzione e postproduzione in digitale e una rassegna di corti che rappresentano la categoria di ibridazione tra tecnologia cinematografica, elettronica e digitale.

Cinema d'animazione a SHARE
Il programma del festival proporrà, a partire da alcuni lavori di Larkin, una panoramica sulla ricerche sviluppate fra gli anni '70 e '80 da alcuni riconosciuti maestri dell'animazione, con cortometraggi di Norman McLaren, Peter Foldes, Jerzy Kucia, Lejf Marcussen. Ryan, il film digitale di Chris Landreth sull'artista animatore Ryan Larkin che sarà presentato al festival, rappresenta un punto di riferimento per meglio comprendere i complessi rapporti fra l'arte dell'animazione e la “rivoluzione digitale”.

LE PERFORMANCE CHIMICHE DI JÜRGEN REBLE
Il cinema sperimentale, specialmente quello tedesco, ha rappresentato il fondamento estetico e iconografico di molta videoarte. In questo senso, film come “Staadt in Flammen” o “Aus den Algen” di Jürgen Reble, ottenuti con procedimenti di aggressione chimica della pellicola, suonano come critica al realismo della riproduzione video ed esprimono nuove relazioni tra tecnologia e creatività, come raramente accade nel circuito della MediaArt. Le opere di Jürgen Reble, musicate da Thomas Köner con richiamo ai rumori reali che la pellicola produce sotto lo stress di agenti chimici, mettono in crisi il concetto di riproducibilità dell'opera d'arte contemporanea e costituiscono spunto di riflessione sull'opera elettronica sempre uguale e riproducibile.

Documedia: labirinto digitale
Il digitale è uno sguardo “totale” sul reale, capace di entrare dove non riescono altre tecnologie meno agili: basti pensare all'effetto devastante delle fotocamere digitali utilizzate dai militari americani con i prigionieri iracheni ad Abu Grahib.
Il digitale rappresenta anche l'integrazione tra tecnologie diverse, come documenta l'iniziativa di un gruppo di artisti/attivisti no-global che durante l'incontro degli 8 'Grandi' a Davos proiettavano sul ghiacciaio di fronte all'albergo dei Capi, a mezzo laser, gli sms con domande e opinioni provenienti da tutto il mondo.
Le nuove tecnologie di comunicazione possono quindi influenzare la storia: senza la compattezza della fotocamera, l'universalità del formato e soprattutto la velocità di diffusione delle immagini, probabilmente nessuno sarebbe mai venuto a conoscenza di quei fatti, a riprova che una tecnologia nuova e veloce può provocare smagliature nella rete solitamente compatta della comunicazione.


7 DIGITAL ART
/ WAVE.IT

L'onda, nella sua rappresentazione metaforica nel Piemonte_Share_Festival riproduce il passaggio da un'era di produzioni digitali chiuse in una nicchia di pochi esperti/sperimentatori a un onda di spostamento al digital-popolare.
In questo senso, l'onda del pop umanizza i prodotti creativi, ovvero li utilizza in modo conforme alla distribuzione: maggiore univocità interpretativa, serialità, generalizzazione formale e iconografica comune.
In questo senso vanno lette le video-proiezioni di Gregory Chatonsky.
Sul tema della gravità, è basato l'ambiente audio-visivo interattivo di “gravicell” dei giapponesi Seiko Mikami e Sota Ichikawa.
L'assimilazione ad un oggetto quotidiano come lo specchio del linguaggio ASCII è alla base dell'installazione di Tobias Grewenig (DE) dove l'applicazione di uno dei più eleganti espedienti nella computer graphic rappresenta le espressioni facciali e le interazioni fisiche con il pubblico, animando i movimenti dei visitatori in forme astratte e riproducendole in una sintesi sonora.
L'italiano Motor ha progettato una video proiezione sensibile dove lo spettatore esplora un ambiente deserto e ricoperto di rottami, che si modifica percettivamente quanto più si cerca di avvicinarsi.
Tra gli artisti invitati al festival parteciperanno gli 0100101110101101.ORG, conosciuti per l'utilizzo di metodi non convenzionali di comunicazione mediatica.

All'interno del Piemonte_Share_Festival viene introdotta una sezione che va a interrogarsi su quali sono i confini esplorati e quali quelli non ancora esplorati della sperimentazione audiovideo, attraverso le performance, le installazioni e i progetti di alcune delle realtà più interessanti del panorama digitale italiano, proposte da Marco Mancuso e da Digicult, magazine online di cultura digitale, ente promotore della cultura e delle arti digitali in Italia e all'estero e media partner del Festival:

Otolab project – Live Media performance/Atrium
Pirandèlo project (MouLips + Claudio Sinatti) – Live Media performance /Atrium
Mario Canali – installazione audio-video/Atrium


8 DIGITAL ART

GameScenes / Scenari videoludici

a cura di Domenico Quaranta

GameScenes
intende proporre al pubblico di PIEMONTE_SHARE_2005 una selezione rappresentativa delle diverse modalità di sperimentazione artistica che si muovono all'interno dell'orizzonte videoludico. Si tratta di sondare, da un lato, il modo in cui il videogame, inteso come nuovo medium con un proprio linguaggio, una propria ideologia e una propria cultura, sta trasformando le altre forme culturali, il nostro modo di vivere e di abitare la città; e di esplorare, dall'altro, il modo in cui game designer indipendenti, artisti, ricercatori e attivisti politici stanno cercando di trasformare il mezzo videoludico in uno strumento finalmente maturo, capace di farsi portatore di pensieri differenti e di messaggi complessi.
Nello spazio di tre sale, la mostra propone lavori ormai storici e sperimentazioni recenti, in cui gli artisti distruggono l'interfaccia per mostrarci cosa ci sta dietro, togliendo giocabilità al game; ne traggono materiali che vengono rimontati in nuove narrative; ne mettono in discussione l'ideologia, ribaltandola, esasperandola fino al parossismo o analizzandone i meccanismi per poi dare vita a un nuovo game design “critico”; se ne servono per veicolare nuovi contenuti di complessità e raffinatezza crescente; si impegnano a svilupparne i linguaggi, le narrative e le estetiche, con un impegno, una “craft” e dei tempi di produzione paragonabili a quelli di una produzione mainstream.
A giochi, installazioni e video si affiancano i quadri di Mauro Ceolin e le stampe di Nullsleep, che danno concretezza al paesaggio videoludico. Infine il Gameboy, trasformato in sintetizzatore musicale e utilizzato per suonare da una vivace scena sperimentale nota come “micromusic” o “musica a 8bit”, sarà protagonista della colonna sonora della mostra, diffusa dalla SolarAudioBag di Tonylight.

GameScenes.Scapes:
Mauro Ceolin (ITA), Solid_Landscapes, 2004; Jeremiah Johnson aka nullsleep (USA), New York Romscapes, 2004.
GameScenes.Games:
John Klima (USA), The Great Game, 2002; Martin Le Chevallier (FRA), Vigilance 1.0, 2001; Gonzalo Frasca – Newsgaming (URY), September 12th, 2004; Selectparks (AU), Acmipark, 2004; Antonio Riello (ITA), Italiani brava gente, 1997; Josh On (USA), Antiwargame, 2001; Carlo Zanni (ITA), Average Shoveler, 2004.
GameScenes.Mods: Brody Condon
(USA), Suicide Solution, 2004; JODI (NLD), My Boyfriend Came Back From the War, 2000; Kinematic Collective (USA), 9/11 survivor, 2003; RETROYOU (ESP), retroyou_nostalG, 2002; Eddo Stern (USA), Deathstar, 2004; Vietnam Romance, 2003; Sheik Attack, 1999/2000; Josephine Starrs & Leon Cmielewski (AUS), Bio-tek Kitchen, 1999; TWCDC (USA), STOP BUSH!, 2004.
GameScenes.Soundtrack: 8bitpeople (nullsleep's selection); Micropupazzo (ITA - DE); Role Model (Johan Kotlinski, SWE); Tonylight (ITA); Oliver Wittchow (DE); Gameboyzz Orchestra (POL).


Scrittura mutante

In collaborazione con la Biblioteca Multimediale di Settimo e l'Osservatorio della scrittura mutante sarà organizzato un incontro sulla poesia in ambiente digitale e dall'integrazione fra mezzi di comunicazione, editoria, musica, video, grafica e fumetti, con lo scopo di riflettere sulle contaminazioni della cultura contemporanea attraverso la ricerca formale sulla lingua e il crossover tra i vari generi letterari fino ai blog.


DIGITAL STORYTELLERS
A cura di Luca Barbeni

DIGITAL STORYTELLERS vuole tracciare un percorso all'interno del multiforme mondo della net-art. Un sentiero lungo un percorso che segue i raccontastorie digitali, gli stilemi utilizzati, le metafore, le immagini. Gli artisti incrociati nel percorso sono:

Philip Wood ----->http://www.sign69.com UK
Andrew Forbes ----->http://rnd.net-art.ws UK
Area 3 ----->http://www.area3.net Spain
Margareth Penny ----->http://www.dream7.com U.S.A
Arcangel Costantini ----->http://www.unosunosyunosceros.com Mexico
Snarg ----->http://www.snarg.net U.S.A.
Peter Horvath ----->http://www.6168.org Canada
Fernando Llanos ----->http://fllanos.com Mexico
Michiaki Abiko ----->http://http://tam.southspace.org.uk/3code Japan
CHAOS progetto collettivo del gruppo no-such del marzo 2000, nel quasi tutti gli artisti presentati hanno fatto parte.


____ FORUM
Un forum particolare realizzato e ospitato da ISLAND degli 80/81 per SHARE_FESTIVAL. Un luogo in rete dove discutere delle varie tematiche, mostre, eventi, conferenze del festival.


9 Share fest MUSICA
Sezione musicale a cura di Alberto Campo

La declinazione in musica della rivoluzione digitale riguarda tanto la produzione quanto i consumi.
Ed è perciò su entrambi i versanti che il Piemonte_Share_Festival indirizza la propria attenzione. Da un lato, quindi, la ridefinizione dell'atto creativo nel formato della laptop culture, nuova dimensione del fai-da-te sonoro. E dall'altro la smaterializzazione della musica stessa come oggetto mercantile nelle maglie della rete. Trasformazioni che inevitabilmente tendono a ridisegnare l'identità sia dell'artista, sia dell'ascoltatore.
Ed è appunto sul cambiamento in atto che saranno chiamati a riflettere in veste di conferenzieri personaggi come Madaski (Africa Unite), Ernesto Assante (la Repubblica) e Sergio Messina (Radio Gladio).
Ma ovviamente maggiori attrazioni della sezione musicale del festival saranno gli eventi dal vivo. Come in una geometria concentrica, si parte dalla scena locale, rappresenta -secondo le indicazioni di Piemontegroove, a cui è affidata inoltre la scelta dei DJ che animeranno il festival: su tutti lo statunitense Daniel Bell – da Strek vs Aztmo, allargando progressivamente il raggio all'Italia (ecco il laptop show di Popolous, giovane pugliese reclutato dall'etichetta discografica tedesca Morr Music), all'Europa (e alla sua naturale capitale elettronica, Berlino, di cui è testimonial Olaf Bender del team Raster Noton diretto da Karsten Nicolai) e al mondo (il corredo sonoro fornito dagli artisti ambasciatori del paese ospite nella prima edizione di Share_Festival, il Brasile).
Il colpo d'occhio offerto rispecchierà così, ancorché in modo parziale, le nuove geografie del suono delineate su scala planetaria dai processi di digitalizzazione e le loro strette relazioni con altri media e forme d'espressione.
Alberto Campo


PRODUZIONE E ORGANIZZAZIONE

Produzione e ideazione
Il festival è promosso e prodotto dall'Associazione culturale The Sharing.
Comitato artistico-scientifico
Andreas Broeckmann (direttore di Transmediale Berlino), Andrew Morrison (professore InterMedia Università, Oslo), Marco De Michelis (Preside dello IUAV – Venezia), Gerfried Stocker (Ars Electronica)
Consulenti per la selezione del programma
Domenico Quaranta (Digital Art), Alberto Campo (musica), Alessandro Amaducci (immagini in movimento), Luca Pastore (documentari), Chiara Magri (animazione), Luca Barbeni (Digital Art), Popi Giovandoli (scrittura), Mario Suarez (paese ospite Brasile), Marco Mancuso (Digital Art).
Organizzazione
Chiara Garibaldi (Coordinamento generale), Simona Lodi (Direzione artistica), Cristiano Buffa (Comunicazione).
Allestimento Elena D'Agnolo Vallan
Direttore tecnico Andrea Costa
Grafica Ludovica Candiani e Paolo Schenoni
Amministrazione Studio Commercialista Dr. Montalcini
Consulenza legale Studio Nunziante e Magrone
Web editor Luca Barbeni e Antonio Rollo
Catalogo Tatiana Mazali
Segreteria generale Margherita Dionisio

www.toshare.it – info@toshare.it


 


 

Terre mobili: cultura e sviluppo in convegno a Napoli
24-25 febbraio 2005
di Teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo

 

A dieci anni dal conflitto, accanto all’allestimento dello spettacolo IN MEMORIA, il cui percorso produttivo ha concretamente rappresentato, per un gruppo di operatori italiani, un’immersione nella cultura e nei temi dell’attuale forma d’essere del paese Bosnia, si è definita l’organizzazione di un convegno di studi che possa esporre e mettere in relazione elementi dell’ambito scientifico e umano legati, appunto, all’organizzazione economica e sociale di quella terra. Il sentimento del lutto, molto diffuso, e lo stupore di una sopravvivenza evidentemente non ancora assunta nella pienezza del rapporto con la vita, rappresentano alcune delle dominanti dell’universo Bosnia, ma pure, nel silenzioso torpore che accompagna i grandi eventi traumatici, si fa strada in qualche modo il desiderio di ricominciare, di ritrovare i termini di normalità e stabilità.

L’idea che ispira l’articolato della manifestazione vuole eludere i luoghi comuni commemorativi del conflitto, e con il porsi in una prospettiva di maggiore ampiezza rispetto al dato particolare del paese in causa, tentare una valutazione - per così dire “fenomenica” - dello stato dei luoghi a dieci anni di distanza da un evento bellico; e delle possibili risposte alle azioni poste in corso per una politica di “pace” e di sviluppo. Non a caso, tra i tanti temi possibili sono stati privilegiati quelli più vicini ai dati culturali e economici, proprio perché al rischio di una più diffusa genericità fosse privilegiato un ambito di riflessione dai contorni netti.
Per i lavori si pensa a una linea di conduzione che privilegi valutazioni intorno a fatti e iniziative di fondata concretezza, con relazione di soggetti il cui apporto sia legato a azioni o programmi di sviluppo attualmente in corso d’opera.

Il convegno è ritagliato sullo stretto nesso esistente tra cultura e sviluppo.
Si prefigge tre scopi principali:
? Informare e comunicare con l’insieme dei soggetti istituzionali, economici e sociali che, a vario titolo, si stanno occupando della Bosnia per far emergere e socializzare le reali domande di sviluppo espresse dalle comunità locali.
- Individuare le “tracce di vitalismo” che testimoniano il , e verificare le possibilità di concentrare far convergere e integrare gli interventi dei molteplici “attori”, istituzionali economici e sociali, che operano in quel contesto.
- Costruire reti di relazioni utili a progettare interventi specificamente adeguati al contesto bosniaco, nell’immediato e a valere sulle programmazioni nazionali e comunitarie previste per il 2007-2013
24 febbraio
Ore 17 Galleria Toledo,
Film

Ore 21 Cena

25 febbraio

Luogo

Ore 9 Apertura dei lavori
Ore 9,30 1ª Relazione introduttiva
“L’economia, le istituzioni e la società locale a 10 anni dal conflitto”
Comunicazioni sul tema diOre 10,30 2ª Relazione
“I programmi di intervento delle istituzioni nazionali e internazionali”

Ore 11 Interventi dei partecipanti al convegno

LUKSA SOLJAN Ambasciatore Bosnia Erzegovina
“L’economia della Bosnia Erzegovina”
DARIO TERZIC Giornalista
“La terra senza promesse”
AMATO LAMBERTI, Docente Università “Federico II” Napoli
“Legalità e sviluppo”
SIMONE SANTI Amministratore Leonardo Business Consulting
“La cooperazione industriale e commerciale tra imprese come veicolo di diffusione della cultura e della conoscenza nell’area balcanica”
MICHELE GRAVANO Responsabile Regionale CGIL
“Il valore del lavoro”
CARLO GIANNONE Economista - Università del Sannio
"Disuguaglianza e povertà in Bosnia Erzegovina"

Ore 13 Coordinamento e conclusioni della mattinata
13,30 Pranzo

15,00 -
Apertura dei lavori della seconda sessione
Conversazione sul tema con:

Saluto del Presidente Camera Commercio Napoli

LUCA RASTELLO Giornalista, Scrittore
ISADORA DAIMMO Assessore Cooperazione Internazionale
Provincia di Napoli
“La cooperazione decentrata per la democratizzazione delle relazioni internazionali e la ricostruzione dei diritti”
ADRIANA BUFFARDI Assessore Pubblica Istruzione, Formazione
Regione Campania
AUGUSTO GUARINO Prorettore Istituto Universitario Orientale
TULLIO D’APONTE Preside Dipartimento di Analisi delle Dinamiche Territoriali e Ambientali Università Federico II
GIULIANA MARTIRANI Docente Dipartimento di Analisi delle Dinamiche Territoriali e Ambientali Università Federico II
DELEGATO Assessorato alle Attività Produttive Regione Campania
SERGIO D’ANGELO Presidente Lega Coop. Campania
“Il ruolo della cooperazione per lo sviluppo della Bosnia”
GIANLUCA PACIUCCI Responsabile Cultura Ambasciata d’Italia in Sarajevo (contributo scritto)
MARIA TERESA LETTA Croce Rossa Italiana
“Progetto Bosnia” (contributo scritto)
MASA ROMAGNOLI – GIAN MARIA GALEAZZI Universita’ Modena/ Reggio Emilia
“Progetto CONNECT: Componenti, organizzazione, costi ed esiti degli interventi sanitari e di comunità per persone con stress post traumatico, conseguente alla guerra e al conflitto nei Balcani”
ROSSANA PREUS Responsabile Progetto Cooperazione Emilia Romagna
“La cooperazione decentrata a dieci anni dal conflitto”
OLIVIERO BETTINELLI Caritas Diocesana di Roma
“Orizzonti e confini. In viaggio verso i luoghi della guerra alla scoperta dei semi per la pace. Una esperienza della Caritas di Roma”
CARLO FRANCO Corriere del Mezzogiorno
DELEGATO REDAZIONE Il Denaro
DELEGATO REDAZIONE La Repubblica
RESPONSABILE MINISTERO FINANZE Bosnia Erzegovina

Coordinamento e conclusioni
TAVOLO 2Apertura dei lavori della seconda sessione
Conversazione sul tema con :

RACHELE FURFARO Assessore alla Cultura Comune di Napoli
“Istruzione primaria e accompagnamento allo sviluppo dei valori di appartenenza”
ROSANNA MORABITO Docente di Lingue e letteratura Serbo-Croata - Università Orientale Napoli
“Una, due, tre, quattro. Quante e quali lingue”
ROSSELLA BONITO OLIVA Docente di Filosofia Morale
Università Orientale Napoli
“Paesaggio e identità”
MARIA ROSARIA DE DIVITIIS Soprintendente Archivistica per la Campania
"Le tracce della storia nella costruzione del tempo presente"
TERESA ARMATO Assessore Spettacolo Regione Campania
“Teatro e valori dell’identità sociale”
LUCA DINI Direttore Teatro di Pontedera
FABIANA SCIARELLI Facoltà di Scienze del Turismo a indirizzo manageriale
“Il Teatro come veicolo di evoluzione sociale”
PAOLO ANIELLO Presidente AGIS-TEDARCO
MOHAMED NAMETAK Operatore Teatrale
“Costruire dal basso. Il ruolo dell’operatore nel processo di ricostruzione”
SERIF ALJIC Direttore Teatro Nazionale di Mostar
“Esperienza di collaborazione internazionale”
MILENKO ILIKTAREVIC Direttore Teatro Nazionale di Tusla
“Il ruolo del teatro nella vita culturale in Bosnia”
HASAN DZAFIC Drammaturgo
“La scrittura teatrale fuori dalla cronaca”
GIACOMO SCOTTI Serbo-Croatista
"Bosnia Erzegovina: solidarietà costruita dal basso - L'esempio degli italiani costruttori di pace in guerra, base per la collaborazione nel futuro. In nome dei miei amici Izet Sarajlic e Mak Dizdar"
SILVIO FERRARI Docente di Letteratura Serbo-Croata - Universita’ di Genova
“Sarajevo 1995-2005: dal rischio di estinzione culturale ai problemi dell’autonomia del nuovo Stato”
KLJILJANA BJELICA Docente Lingue Slave Universita’ “La Sapienza” Roma
“La storia e la cultura della Bosnia Erzegovina”
ROSSANA RUMMO Presidente Teatro Stabile di Napoli
NINNI CUTAIA Direttore Teatro Stabile di Napoli
“Processi di sviluppo nell'impresa teatrale".
RESPONSABILE MINISTERO CULTURA Bosnia Erzegovina
VOJISLAV VUJANOVIÆ Critico Teatrale
“La situazione del Teatro in Bosnia dopo la guerra”
IMELDA VERES Operatrice Teatrale in Serbia
KRUNA TARLO-SNAJDER Regista in Kroatia
MASSIMO GABELLONE Coordinatore Generale “Progetto Musica”
“Festival Internazionale Nei Suoni Dei Luoghi: la musica come veicolo di crescita culturale ed economica nella cooperazione con i Paesi Adriatico Orientali”
DAVIDE BERRUTI Coordinatore Nazionale Associazione per la Pace
“Progetti di cooperazione decentrata di Assopace in Bosnia Erzegovina”
MASSIMO D’ORZI Regista Cinematografico
“Le minoranze etniche”
LUIGI GRISPELLO Presidente Agis Campania

Coordinamento e conclusioni

Ore 20,00 spettacolo IN MEMORIA
cena
26 febbraio

Ore 9,30
saluti dei rappresentanti delle Istituzioni Locali

Conclusioni
“Le tracce di lavoro, gli obiettivi, gli operatori, gli impegni possibili”
a cura dei responsabili dei due tavoli di lavoro

23 febbraio-6 marzo
Bagnoli Futura Capannone Archivio ILVA, via Coroglio 49

ore 21.00 (tranne 25 febbraio ore 20.00)
drammaturgia e regia Laura Angiulli

Galleria Toledo ore 17,00
24 febbraio
di Leslie woodhead 1999
26 febbraio
di Massimo D’Orzi 2004 (incontro con l’autore)

Regione Campania
Ass. Pubblica Istruzione Adriana Buffardi
Ass. Spettacolo Teresa Armato

Comune di Napoli
Ass. alla Cultura Rachele Furfaro

CGIL per la Campania

Camera di Commercio Napoli

E.P.T.di Napoli
Bagnoli SpA di Trasformazione Urbana

Dipartimento Scienze Politiche Prof. Tullio D’Aponte
Polo Umanistico Prof. Giuseppe Cantillo
Scienze del Turismo a indirizzo manageriale Prof. Fabiana Sciarelli
Scienze Economiche e Sociali Prof. Ugo Marani
Dipartimento Sociologia Prof. Amato Lamberti

Dipartimento Studi Europa Orientale Prof. Rosanna Morabito
Dipartimento Filosofia e Politica Prof. Rossella Bonito Oliva

Provincia di Napoli

UGO MARANI Presidente IRES
OSVALDO CAMMAROTA Amministratore Delegato Città del Fare
MAURIZIO DEL BUFALO Deputy Executive Officer CIRCLE
CARLO BORGOMEO Amministratore Delegato Bagnoli Futura spa
GIANCARLO CANZANELLI Chief Executive Officer CIRCLE
LUCIANO CARRINO Segretario del Comitato Scientifico UNESCO per i Programmi di Sviluppo Umano
Antonello Centomani

Agostino Riitano

Gessica Chirico Dario Caruso Tiziana Cibelli
tel. 081/ 564 61 62 fax 081 557 38 76
ilteatro.napoli@libero.it


 


 

Terre mobili: cultura e sviluppo in convegno a Napoli
24-25 febbraio 2005
di Nuovo Teatro Nuovo

 

A dieci anni dal conflitto, accanto all’allestimento dello spettacolo IN MEMORIA, il cui percorso produttivo ha concretamente rappresentato, per un gruppo di operatori italiani, un’immersione nella cultura e nei temi dell’attuale forma d’essere del paese Bosnia, si è definita l’organizzazione di un convegno di studi che possa esporre e mettere in relazione elementi dell’ambito scientifico e umano legati, appunto, all’organizzazione economica e sociale di quella terra. Il sentimento del lutto, molto diffuso, e lo stupore di una sopravvivenza evidentemente non ancora assunta nella pienezza del rapporto con la vita, rappresentano alcune delle dominanti dell’universo Bosnia, ma pure, nel silenzioso torpore che accompagna i grandi eventi traumatici, si fa strada in qualche modo il desiderio di ricominciare, di ritrovare i termini di normalità e stabilità.

L’idea che ispira l’articolato della manifestazione vuole eludere i luoghi comuni commemorativi del conflitto, e con il porsi in una prospettiva di maggiore ampiezza rispetto al dato particolare del paese in causa, tentare una valutazione - per così dire “fenomenica” - dello stato dei luoghi a dieci anni di distanza da un evento bellico; e delle possibili risposte alle azioni poste in corso per una politica di “pace” e di sviluppo. Non a caso, tra i tanti temi possibili sono stati privilegiati quelli più vicini ai dati culturali e economici, proprio perché al rischio di una più diffusa genericità fosse privilegiato un ambito di riflessione dai contorni netti.
Per i lavori si pensa a una linea di conduzione che privilegi valutazioni intorno a fatti e iniziative di fondata concretezza, con relazione di soggetti il cui apporto sia legato a azioni o programmi di sviluppo attualmente in corso d’opera.

Il convegno è ritagliato sullo stretto nesso esistente tra cultura e sviluppo.
Si prefigge tre scopi principali:
? Informare e comunicare con l’insieme dei soggetti istituzionali, economici e sociali che, a vario titolo, si stanno occupando della Bosnia per far emergere e socializzare le reali domande di sviluppo espresse dalle comunità locali. ?
? Individuare le “tracce di vitalismo” che testimoniano il , e verificare le possibilità di concentrare far convergere e integrare gli interventi dei molteplici “attori”, istituzionali economici e sociali, che operano in quel contesto. ?
? Costruire reti di relazioni utili a progettare interventi specificamente adeguati al contesto bosniaco, nell’immediato e a valere sulle programmazioni nazionali e comunitarie previste per il 2007-2013 ?
24 febbraio
Ore 17 Galleria Toledo,
Film

Ore 21 Cena

25 febbraio

Luogo

Ore 9 Apertura dei lavori
Ore 9,30 1ª Relazione introduttiva
“L’economia, le istituzioni e la società locale a 10 anni dal conflitto”
Comunicazioni sul tema diOre 10,30 2ª Relazione
“I programmi di intervento delle istituzioni nazionali e internazionali”

Ore 11 Interventi dei partecipanti al convegno

LUKSA SOLJAN Ambasciatore Bosnia Erzegovina
“L’economia della Bosnia Erzegovina”
DARIO TERZIC Giornalista
“La terra senza promesse”
AMATO LAMBERTI, Docente Università “Federico II” Napoli
“Legalità e sviluppo”
SIMONE SANTI Amministratore Leonardo Business Consulting
“La cooperazione industriale e commerciale tra imprese come veicolo di diffusione della cultura e della conoscenza nell’area balcanica”
MICHELE GRAVANO Responsabile Regionale CGIL
“Il valore del lavoro”
CARLO GIANNONE Economista - Università del Sannio
"Disuguaglianza e povertà in Bosnia Erzegovina"

Ore 13 Coordinamento e conclusioni della mattinata
13,30 Pranzo

15,00 -
Apertura dei lavori della seconda sessione
Conversazione sul tema con:

Saluto del Presidente Camera Commercio Napoli

LUCA RASTELLO Giornalista, Scrittore
ISADORA DAIMMO Assessore Cooperazione Internazionale
Provincia di Napoli
“La cooperazione decentrata per la democratizzazione delle relazioni internazionali e la ricostruzione dei diritti”
ADRIANA BUFFARDI Assessore Pubblica Istruzione, Formazione
Regione Campania
AUGUSTO GUARINO Prorettore Istituto Universitario Orientale
TULLIO D’APONTE Preside Dipartimento di Analisi delle Dinamiche Territoriali e Ambientali Università Federico II
GIULIANA MARTIRANI Docente Dipartimento di Analisi delle Dinamiche Territoriali e Ambientali Università Federico II
DELEGATO Assessorato alle Attività Produttive Regione Campania
SERGIO D’ANGELO Presidente Lega Coop. Campania
“Il ruolo della cooperazione per lo sviluppo della Bosnia”
GIANLUCA PACIUCCI Responsabile Cultura Ambasciata d’Italia in Sarajevo (contributo scritto)
MARIA TERESA LETTA Croce Rossa Italiana
“Progetto Bosnia” (contributo scritto)
MASA ROMAGNOLI – GIAN MARIA GALEAZZI Universita’ Modena/ Reggio Emilia
“Progetto CONNECT: Componenti, organizzazione, costi ed esiti degli interventi sanitari e di comunità per persone con stress post traumatico, conseguente alla guerra e al conflitto nei Balcani”
ROSSANA PREUS Responsabile Progetto Cooperazione Emilia Romagna
“La cooperazione decentrata a dieci anni dal conflitto”
OLIVIERO BETTINELLI Caritas Diocesana di Roma
“Orizzonti e confini. In viaggio verso i luoghi della guerra alla scoperta dei semi per la pace. Una esperienza della Caritas di Roma”
CARLO FRANCO Corriere del Mezzogiorno
DELEGATO REDAZIONE Il Denaro
DELEGATO REDAZIONE La Repubblica
RESPONSABILE MINISTERO FINANZE Bosnia Erzegovina

Coordinamento e conclusioni
TAVOLO 2Apertura dei lavori della seconda sessione
Conversazione sul tema con :

RACHELE FURFARO Assessore alla Cultura Comune di Napoli
“Istruzione primaria e accompagnamento allo sviluppo dei valori di appartenenza”
ROSANNA MORABITO Docente di Lingue e letteratura Serbo-Croata - Università Orientale Napoli
“Una, due, tre, quattro. Quante e quali lingue”
ROSSELLA BONITO OLIVA Docente di Filosofia Morale
Università Orientale Napoli
“Paesaggio e identità”
MARIA ROSARIA DE DIVITIIS Soprintendente Archivistica per la Campania
"Le tracce della storia nella costruzione del tempo presente"
TERESA ARMATO Assessore Spettacolo Regione Campania
“Teatro e valori dell’identità sociale”
LUCA DINI Direttore Teatro di Pontedera
FABIANA SCIARELLI Facoltà di Scienze del Turismo a indirizzo manageriale
“Il Teatro come veicolo di evoluzione sociale”
PAOLO ANIELLO Presidente AGIS-TEDARCO
MOHAMED NAMETAK Operatore Teatrale
“Costruire dal basso. Il ruolo dell’operatore nel processo di ricostruzione”
SERIF ALJIC Direttore Teatro Nazionale di Mostar
“Esperienza di collaborazione internazionale”
MILENKO ILIKTAREVIC Direttore Teatro Nazionale di Tusla
“Il ruolo del teatro nella vita culturale in Bosnia”
HASAN DZAFIC Drammaturgo
“La scrittura teatrale fuori dalla cronaca”
GIACOMO SCOTTI Serbo-Croatista
"Bosnia Erzegovina: solidarietà costruita dal basso - L'esempio degli italiani costruttori di pace in guerra, base per la collaborazione nel futuro. In nome dei miei amici Izet Sarajlic e Mak Dizdar"
SILVIO FERRARI Docente di Letteratura Serbo-Croata - Universita’ di Genova
“Sarajevo 1995-2005: dal rischio di estinzione culturale ai problemi dell’autonomia del nuovo Stato”
KLJILJANA BJELICA Docente Lingue Slave Universita’ “La Sapienza” Roma
“La storia e la cultura della Bosnia Erzegovina”
ROSSANA RUMMO Presidente Teatro Stabile di Napoli
NINNI CUTAIA Direttore Teatro Stabile di Napoli
“Processi di sviluppo nell'impresa teatrale".
RESPONSABILE MINISTERO CULTURA Bosnia Erzegovina
VOJISLAV VUJANOVIÆ Critico Teatrale
“La situazione del Teatro in Bosnia dopo la guerra”
IMELDA VERES Operatrice Teatrale in Serbia
KRUNA TARLO-SNAJDER Regista in Kroatia
MASSIMO GABELLONE Coordinatore Generale “Progetto Musica”
“Festival Internazionale Nei Suoni Dei Luoghi: la musica come veicolo di crescita culturale ed economica nella cooperazione con i Paesi Adriatico Orientali”
DAVIDE BERRUTI Coordinatore Nazionale Associazione per la Pace
“Progetti di cooperazione decentrata di Assopace in Bosnia Erzegovina”
MASSIMO D’ORZI Regista Cinematografico
“Le minoranze etniche”
LUIGI GRISPELLO Presidente Agis Campania

Coordinamento e conclusioni

Ore 20,00 spettacolo IN MEMORIA
cena
26 febbraio

Ore 9,30
saluti dei rappresentanti delle Istituzioni Locali

Conclusioni
“Le tracce di lavoro, gli obiettivi, gli operatori, gli impegni possibili”
a cura dei responsabili dei due tavoli di lavoro

23 febbraio-6 marzo
Bagnoli Futura Capannone Archivio ILVA, via Coroglio 49

ore 21.00 (tranne 25 febbraio ore 20.00)
drammaturgia e regia Laura Angiulli

Galleria Toledo ore 17,00
24 febbraio
di Leslie woodhead 1999
26 febbraio
di Massimo D’Orzi 2004 (incontro con l’autore)

Regione Campania
Ass. Pubblica Istruzione Adriana Buffardi
Ass. Spettacolo Teresa Armato

Comune di Napoli
Ass. alla Cultura Rachele Furfaro

CGIL per la Campania

Camera di Commercio Napoli

E.P.T.di Napoli
Bagnoli SpA di Trasformazione Urbana

Dipartimento Scienze Politiche Prof. Tullio D’Aponte
Polo Umanistico Prof. Giuseppe Cantillo
Scienze del Turismo a indirizzo manageriale Prof. Fabiana Sciarelli
Scienze Economiche e Sociali Prof. Ugo Marani
Dipartimento Sociologia Prof. Amato Lamberti

Dipartimento Studi Europa Orientale Prof. Rosanna Morabito
Dipartimento Filosofia e Politica Prof. Rossella Bonito Oliva

Provincia di Napoli

UGO MARANI Presidente IRES
OSVALDO CAMMAROTA Amministratore Delegato Città del Fare
MAURIZIO DEL BUFALO Deputy Executive Officer CIRCLE
CARLO BORGOMEO Amministratore Delegato Bagnoli Futura spa
GIANCARLO CANZANELLI Chief Executive Officer CIRCLE
LUCIANO CARRINO Segretario del Comitato Scientifico UNESCO per i Programmi di Sviluppo Umano
Antonello Centomani

Agostino Riitano

Gessica Chirico Dario Caruso Tiziana Cibelli
tel. 081/ 564 61 62 fax 081 557 38 76
ilteatro.napoli@libero.it


 


 

Tradition and Performance
La newsletter del Workcenter di Jerzy Grotowski and Thomas Richards
di Workcenter di Jerzy Grotowski and Thomas Richards

 

Cari amici,

Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards è rientrato a Pontedera dal 12 gennaio al 31 marzo, 2005, con l’attività Tradition and Performance all’interno del progetto Tracing Roads Across.

Dal 7 febbraio il Workcenter sta tenendo una Sessione di Selezione per selezionare nuovi stagiaires da integrare nelle ricerche pratiche.

Tradition and Performance comprende anche scambi di lavoro con gruppi teatrali provenienti da Polonia, Gran Bretagna, Russia, Tunisia, Cipro.

Parallelamente alla Sessione di Selezione e agli scambi di lavoro il Workcenter continua le sue ricerche pratiche. Inoltre, durante Tradition and Performance, ci saranno due appuntamenti pubblici, uno a Torino (dal 10 al 17 marzo) e uno a Pontedera (dal 5 al 15 maggio).


***

Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards a Torino

Dal 10 al 17 marzo, 2005 il Workcenter sarà a Torino, con l’ultima versione della sua opera performativa nell’ambito del Progetto The Bridge: Developing Theatre Arts performance Dies Iræ : Il mio impossibile Theatrum Interioris Show. Nella stessa occasione sarà mostrato un film documentario sulle ricerche pratiche sull’“arte come veicolo”, seguito da due Incontri Aperti.

Dies Iræ : Il mio impossibile Theatrum Interioris Show – 10, 11, 12 marzo, ore 20.45 - 13 marzo, ore 17, Teatro Juvarra, Via Juvarra 15, Torino.
Dies Iræ : Il mio impossibile Theatrum Interioris Show è un'opera creata all'interno del Progetto The Bridge: Developing Theatre Arts, un ramo della ricerca del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, che esplora la relazione tra “arte come veicolo” e evento teatrale. Con: Mario Biagini, l’uomo; Gey Pin Ang, l’anima; Pei Hwee Tan, l’uccellin burlone; Johanna Porkola, il giudizio severo; Elisa Poggelli, la nostalgia impotente; Jørn Riegels Wimpel, l’entusiasmo testardo; Francesc Torrent Gironella, l’innocenza ingannata; Cécile Berthe, il desiderio perduto; Souphiène Amiar. il dubbio inquieto. Regia di Mario Biagini e Thomas Richards.

Incontro Aperto con Thomas Richards – Proiezione del film documentario “Action in Aya Irini”
16 Marzo, 2005 - ore 19 – ORSA (Organizzazione per le Ricerche in Scienze e Arti), Via Botero 15, Torino.
Il Professor Antonio Attisani (Università di Torino e Università di Venezia) introduce l’incontro con Thomas Richards. Thomas Richards presenta il film documentario “Action in Aya Irini”.
“Action”, un'opera creativa nel dominio dell' “arte come veicolo”, è stata filmata nel 2003, nella chiesa di Aya Irini ad Istanbul, da una troupe cinematografica guidata da Jaques Vetter. Il film è prodotto da Atelier Cinéma de Normandie – A.C.C.A.A.N. La proiezione è aperta al pubblico e l’ingresso è libero.
In seguito Thomas Richards terrà un dialogo con i presenti.

Incontro aperto con Mario Biagini, Thomas Richards, Antonio Attisani, Carlo Sini
17 Marzo, 2005 – ore 15 ORSA, (Organizzazione per le Ricerche in Scienze e Arti), Via Botero 15, Torino.
Incontro aperto su Dies Iræ : Il mio impossibile Theatrum Interioris Show con Mario Biagini e Thomas Richards, registi dell’opera, e con Antonio Attisani (Università di Torino e Venezia) e il filosofo Carlo Sini.

L’opera performativa Dies Iræ : Il mio impossibile Theatrum Interioris Show, presentata per la prima volta a Torino, al Teatro Juvarra, è ospitata da ORSA.

Per prenotazioni per Dies Iræ : Il mio impossibile Theatrum Interioris Show si prega di chiamare il Teatro Juvarra, Tel 011-540675 dal lunedì al sabato, dalle ore 15 alle ore 19

Per ulteriori informazioni sull’attività del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards a Torino si prega di contattare Cristiana Scano a ORSA
Tel 011-5617235 oppure 011-5174409
e-mail orsato@tin.it

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Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards a Fabbrica Europa

Dal 5 al 15 maggio, 2005 il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards sarà presente al festival Fabbrica Europa a Pontedera.

Dies Iræ : Il mio impossibile Theatrum Interioris Show – 5, 6, 7, 12, 13, 14 maggio ore 21 e 8, 15 maggio ore 17 - Fondazione Pontedera Teatro, Via Manzoni 22, 56025 Pontedera, PI.

Sarà possibile prenotare a partire dal 7 marzo 2005 chiamando la Fondazione Pontedera Teatro ai numeri 0587 55720 o 57034, o tramite email info@pontederateatro.it.oppure reservations@pontederateatro.it

Per ulteriori informazioni sul festival Fabbrica Europa Festival consultare il sito internet: www.fabbricaeuropa.net

Per ulteriori informazioni su Tracing Roads Across consultare il sito internet del progetto all’indirizzo: www.tracingroadsacross.net
o contattare Gülsen Gürses - Project Manager a:
Theater des Augenblicks
10 Edelhofgasse, 1180 Wien, Austria
Tel:+43 1 479 68 87. Fax:+43 1 479 68 86
Email: office@theaterdesaugenblicks.net

Tracing Roads Across è sostenuto dal Programma "Cultura 2000" della Unione Europea Organizzazione e co-ideazione: Theater des Augenblicks - Vienna, Austria Co-organizzatori: Fondazione Pontedera Teatro - Pontedera, Italy Centre Dramatique National de Normandie - Comédie de Caen - Caen, France "For a New Bulgarian University" Foundation - Sophia, Bulgaria Public Agency for Development (Municipality of Zaros) - Crete, Greece University of Cyprus - Nicosia, Cyprus

Partner Speciale:
The Centre for Study of Jerzy Grotowski's Work and for Cultural and Theatrical Research - Wroclaw, Poland Partner Principali: University of Vienna - Vienna, Austria A.C.C.A.A.N. - L'Atelier Cinéma de Normandie - Caen, France IMEC - Institut mémoires de l'édition contemporaine - Paris-Caen, France Kent University - Canterbury, Great Britain


 



Appuntamento al prossimo numero.
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